Saggistica Psichiatrica I
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La narrazione cinematografica e la malattia mentale – La follia descritta dal cinema
Il video nelle tecniche dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale
Violenza giovanile e crudeltà ancestrale
Giuseppe Paradiso
Ecco alcuni miei saggi, comparsi nella Rivista
Formazione Psichiatrica
Periodico Trimestrale a cura della Clinica Psichiatrica
dell’Università di Catania
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in: Formazione Psichiatrica, Anno XX, n° 1-2- Gennaio Giugno 1999
La narrazione cinematografica e la malattia mentale
LA FOLLIA DESCRITTA DAL CINEMA
L’inevitabile incontro tra cinema e follia
L’alterazione mentale, con la sua esperienza tragica, anticipa la morte e minaccia l’esistenza degli uomini, rendendoli sempre più deboli e meschini di fronte alla vita. L’ascesa dell’interesse per la follia ha fatto sì che essa sia stata rappresentata non solo nella letteratura, ma anche nella pittura, nella musica e, da ultimo, nel cinema.
Il cinema, in quanto immagine e fictio, è una tribuna privilegiata per l’esame della psicologia del personaggio, che può essere analizzato con la tecnologia suggestiva delle elaborazioni filmiche. I rapporti tra cinema e patologia furono già bene evidenziati, per esempio, nella cinematografia tedesca del periodo espressionista, in cui vennero descritti stati d’animo enfatizzati con chiari riferimenti ai contenuti dell’inconscio.
E così, sebbene il cinema sia nato più tardi del teatro e della letteratura, l’analisi che esso fa della “persona”, è altamente coinvolgente. Dall’unione di cinema e psichiatria è nato un proficuo binomio, il cui campo di applicazione è vasto ed articolato, perché spazia dai film interiors e d’arte, allo studio e alla ricerca psichiatrica vera e propria.
Utilizzando i mezzi tecnici espressivi (primi piani, riprese “in soggettivo”, montaggio, sovrapposizioni di immagini, effetto allucinazione, compressione del tempo e dello spazio, etc.), ed equilibrando sequenze espressive, tempi reali, narrazioni metaforiche, si possono esprimere tutte le impercettibili sfumature dei più intriganti stato d’animo.
Nella sequenza cinematografica, parola e mimica danno rilevanza emblematica alla psicopatologia, sottolineandone, anche a mezzo di allegorie, le sfaccettature esistenziali.
Non a caso l’Imago ha un ruolo primario nella strutturazione della psiche. L’immagine, infatti, è la prima forma di comunicazione e, più della stessa parola, è la primaria forma di stimolazione e di conoscenza. La qualcosa fa del cinema, sequenza ininterrotta di immagini, uno strumento per la comprensione dei disturbi psichici
Se, agli inizi, “la decima musa” venne considerata un semplice mezzo di divertimento, dopo i primi passi, l’industria cinematografica, per avere uno sbocco concreto e duraturo, dovette uscire dalla narrazione ludica, dal passatempo leggero, per affrontare, con vigore, problemi e tematiche più complesse. E poiché il cinema manda in onda messaggi che richiamano l’attenzione di milioni di persone, esso è la forma più immediata di propagazione della cultura di massa.
Le sceneggiature, sempre con maggiore precisione, analizzano la psicopatologia e le radici della disperazione umana. I casi clinici di S. Freud, e L’interpertazione dei sogni, sono stati molto consultati per migliorare la “credibilità psichiatrica” di molte trame. Anche Un caso di stupore isterico, in cui C. G. Jung delinea un quadro dei malati di mente caratterizzato da confusione allucinatoria, disturbi alterni della personalità, amnesie, risposte senza senso, perdita delle cognizioni, etc. è stato un libro sul quale gli addetti alla sceneggiatura hanno posto attenzione.
Registi e sceneggiatori si sono inoltre ispirati, per produrre film a sfondo psichiatrico, anche agli scritti di psichiatri e psicoanalisti molto noti, e in particolare, a Laing, Schatzman, Fromm, Binswanger, Moreno, Fornari, Lacan, Basaglia, Cooper. Due famosi psicoanalisti Karl Abrahams e Hanns Sachs hanno collaborato col regista Georg Pabst, ritenuto una delle personalità di maggior rilievo del cinema, alla stesura di alcuni film come La via senza gioia (1925), I misteri di un’anima (1926), e Il diario di una donna perduta(1927).
Il regista Luigi Bazzoni intervistato sui motivi per i quali ha prodotto film a sfondo psichiatrico, ha detto di essersi sempre interessato di psicologia, psichiatria e psicoanalisi. Liliana Cavani, per sceneggiare L’ospite, storia di una donna che è stata a lungo in un manicomio, ha condotto indagini accurate, esaminando, con vari sopralluoghi, la situazione della struttura ospedaliera ove la ammalata era stata internata ed ha incontrato gli psichiatri che avevano seguito quel caso. Nelo Risi ha affermato che più che dai propri studi di medicina, le sue scelte psichiatriche sono state dettate dallo spazio che la malattia mentale ha in letteratura. Secondo Risi, il fascino della psicologia è dato dal fatto che, grazie ad essa, si comprendono gli insospettabili risvolti patologici dell’animo umano. Il regista, per girare correttamente Diario di una schizofrenica, passò molte settimane a contatto con gli schizofrenici degenti in una struttura, perché voleva capire al meglio le sfumature della loro malattia.
Sono molti, dunque, i registi che hanno delineato la follia sotto vari aspetti, anche se non sempre le loro opere hanno trovato consensi nella psichiatria ufficiale. In qualche caso, inoltre, le sceneggiature non hanno seguito le sistemazioni filologiche e nosografiche introdotte dalle versioni del DSM, mantenendo terminologie ormai desuete per la psichiatria ufficiale. Per una questione pratica, in molti casi, i registi hanno preferito restare negli schemi linguistici della tradizione culturale e letteraria alla quale la gente è abituata, rendendo così più comprensive le specifiche psicopatologie.
Tuttavia, se pure il cinema non sempre si è adeguato alle terminologie e ai raggruppamenti diagnostici dell’ultima generazione di DSM o di ICD, esso è anche un laboratorio di cultura. Introducendo, nelle sale di tutto il mondo, una serie di battaglie ideologiche, esso ha scosso e svegliato le coscienze.
In molti casi la cinematografia ha veicolato temi che, per la difficile iniziazione culturale, sarebbero rimasti retaggio esclusivo degli addetti ai lavori. Inoltre, lo spettatore, entrando nel gioco identificativo, s’avvicina a volte più del comune lettore al nocciolo narrativo-rappresentativo. Pertanto, grazie alla divulgazione filmata, anche gli argomenti più scottanti hanno avuto vasta diffusione tra le gente comune.
La follia è, così, uno degli argomenti più affascinanti e maggiormente elaborati dal cinema. L’industria cinematografica ha prodotto su questo tema opere particolarmente ricche e complesse, piene di risonanza emotiva, con sceneggiature che tengono presente la lettura psichiatrica o psicoanalitica della vicenda e con un impianto narrativo frutto di un approfondito studio dei caratteri.
Molti film dedicati alla follia, sottolineando la crisi della razionalità, mostrano la precarietà della mente umana e introducono un senso di contingenza e di spaesamento negli spettatori. Ma questa presa di coscienza, orientando lo spettatore verso i significati inconsci del pensiero e del comportamento, ha stimolato un profondo cambiamento nella mentalità della gente. Infatti i film a carattere psichiatrico hanno contribuito a mettere in guardia la mentalità comune dalle trappole del pregiudizio e a creare un lucido distacco da tutto ciò che è ovvio e convenzionale.
Quando, alla fine dell’Ottocento, Charcot, a Parigi, iniziò a fotografare i malati della Salpêtrière, con la sua intuizione gettò le basi per la diffusione di una vasta indagine sulla malattia psichiatrica. Una indagine che si sarebbe estesa, oltre l’ambito accademico, al grande pubblico. E dunque, la fonte principiale di informazione di massa è stata proprio la narrazione cinematografica, la quale ha tradotto, per i non addetti ai lavori, problematiche mai prima uscite dall’ambito accademico e terapeutico.
In Usa, sin dai tempi del film muto, l’interesse per la psichiatria è balzato subito all’attenzione dei produttori . The Case of Becky (1921), narra la storia di un esperto neurologo, e uno psichiatra è il protagonista del film The Man Who Saw Tomorrow(1922).
Dopo quegli inizi, la cinematografia si è addentrata sempre più nella tematica psichiatrica, e molti aspetti della follia sono stati affrontati per descrivere il paziente psichiatrico.
La follia
Tuttavia, in qualche caso, la pazzia dei personaggi cinematografici è metaforicizzata, o romanzata, per necessità sceniche e di produzione. E dunque, a volte, non sono messe in luce “tecnicamente” le sfaccettature della patologia mentale, che viene interpretata, invece, con una codificazione che serve a rendere il personaggio più “vicino” alle platee, ma più lontano dallo schema psichiatrico, tanto da rischiare di farne un fantoccio.
In certi casi, dunque, la narrazione della malattia perde verità e complessità e il malato resta bloccato in un canovaccio psichico da palcoscenico. A volte alcune storie, come per esempio La Sindrome di Stendhal (1995) di Dario Argento, hanno una grande presa sul pubblico, ma certamente non contribuiscono a migliorare la cultura psichiatrica della gente.
Una delle situazioni cinematografiche più suggestive ed emblematiche è lo sdoppiamento della personalità. Il romanzo di Robert Stevenson, Lo strano caso del dr Jekyll e del signor Hyde, che l’autore scrisse nel 1886, è stato portato sul set sin dal 1920, (Dr Jekyll and Mr Hyde, di John S.Robertson).
In seguito, a questo romanzo hanno attinto vari registi. Il racconto di Stevenson mise a nudo le tensioni che serpeggiavano sotto la composta superficie della conformista società vittoriana. Una società che voleva evitare tenacemente qualsiasi trasgressione.
In una celebre versione cinematografica del Dr Jekyll, del 1932, il protagonista, l’attore Frederick March, è uno scienziato che scopre dentro di Sé un orribile alter ego. Questo occulto Mr Hyde emerge dall’inconscio del medico quando questi beve una strana pozione. Il racconto vuol mettere in luce le connessioni e le ambiguità esistenti tra civiltà e natura selvaggia. Il dr Jekyll, puritano e represso, muta, quando ingurgita l’orrenda mistura, in un individuo dai tratti selvaggi e preda degli istinti primordiali. Il film ha una sua morale ed un messaggio chiaro: è pericoloso percorrere sentieri non tradizionali, perché così facendo si può intraprendere un cammino senza ritorno; infatti, utilizzando esperimenti rischiosi, si potrebbe precipitare per sempre nel Male.
Non meno stucchevole, ma più nota, è la versione cinematografica, con Spencer Tracy ed Ingrid Bergman, firmata da Victor Fleming nel 1941. Anche questo film mette in luce l’antinomia tra rispettabilità borghese e pulsioni inconfessabili, ma l’idea che potessero coesistere, nello stesso individuo, le forze del bene e quelle del male, creò scandalo negli ambienti bene e retrivi dell’epoca. Malgrado questo, però, il caso Jekyll-Hyde ha affascinato l’immaginazione popolare. Esso rappresenta la conturbante tematica dei molteplici aspetti della personalità. Una imprevista performance, può trasformare, improvvisamente, una persona tranquilla in individuo arrogante e un timido in personaggio violento. Pirandello delineò questo aspetto dell’animo umano in Uno, nessuno e centomila,
L’avvincente tematica della diabolica doppia personalità si trova anche ne La vedova nera (1987) di Bob Rafelson, in cui si scopre che una insospettabile poliziotta è la folle, diabolica assassina che la polizia ricerca.
Portando alle estreme conseguenze lo sdoppiamento della personalità, il regista presenta due figure speculari, quella del bene e quella del male, che convivono nella protagonista, e si attraggono e si odiano irresistibilmente.
La donna che visse due volte (1958) di Alfred Hitchcock, è un viaggio psicoanalitico nei misteri dell’inconscio. Hitchcok, però, per motivi spettacolari, mescola, ad una trama thrilling, elementi psicopatologici non del tutto psichiatricamente corretti.
Donna fatale, psichicamente disturbata e tenebrosamente ossessiva, è la protagonista di Attrazione fatale (1987), che, dopo una notte d’amore, si trasforma in possessiva maga circe, folle e determinata. Alla sua apparizione nelle sale cinematografiche il film fece discutere sociologici, psicoanalisti e scatenò inoltre lo sdegno delle femministe che videro, in quell’ambiguo personaggio femminile, una ennesima riprova di maschilismo cinematografico. In Desiderio sotto gli Olmi(1958), del regista Delbert Mann, tratto da un romanzo di O’ Neill, vengono raccontati alcuni stati psicodinamici come l’ambiguità dell’aggressione-sottomissione e l’identificazione inconscia con i genitori, mediante patologie che, nel finale, trovano sbocco nell’infanticidio.
Ma, al di là degli stereotipi, il cinema, “penetrando visivamente nella coscienza”, ha i mezzi per analizzare gli interstizi reconditi della follia. L’affondo della cinepresa nell’intimità mentale del personaggio, scandaglia e fissa ogni sfumatura, anche la più impercettibile, degli stati d’animo del soggetto. In una sequenza de L’ammutinamento del Caine (1954), di Dymitrik, si vede il capitano Queeg (Humprey Bogart) che, mentre viene interrogato dal tribunale, non riesce a smettere di girare nervosamente nella mano tre palline di ferro. L’espressione del viso, la tensione emotiva che traspare con primi piani sapientemente dosati, non necessita di parole per far comprendere allo spettatore il disagio psichico di cui è affetto l’accusato. In Magic (1978) di Richard Attenborough, uno schizofrenico, magistralmente impersonato dall’attore Anthony Hopkins, svolge la professione di ventriloquo, e a poco a poco si identifica col pupazzo, che diventa il suo incubo e la sua condanna.
In Vittime nel buio (1994) di D.Anspaugh, si raccontano le vicissitudini di una poliziotta alla quale lo stress della caccia ai criminali fa emergere stati ansiosi e d’angoscia. Aiutata da una psicologa, l’agente riesce a venire a capo dei problemi che l’affiggono. Il film, pur non avendo una vernice eccelsa, è interessante perché affronta il problema dell’equilibrio psicologico in un campo, quello delle forze dell’ordine, in cui, di solito, si da’ per scontato che siano tutti ben compensati e non abbiano problemi nevrotici.
La ragazza di Trieste (1982) di Pasquale Festa Campanile denunzia l’inquietante situazione di un malato di mente, in balia di se stesso e per di più perseguitato dai pregiudizi della gente, che si suicida per liberarsi del fardello insopportabile della solitudine. Purtroppo, infatti, a volte, i malati che sono stati liberati dalle nuove normative, non hanno nessuno che possa dare loro un aiuto efficace.
Quando il cinema contesta lo psichiatra
Un certo cinema, facendo proprie le inquietudini degli spettatori che vedono nello psichiatra “l’oggetto cattivo”, l’esperto nella manipolazione, in senso autoritario, della mente, ha creato l’archetipo dello psichiatra quale detentore di un potere incontrollabile.
La critica nei confronti della psichiatria, svolta a vari livelli, in qualche caso ha raggiunto espressioni allarmanti. Qualche pellicola ha disegnato la figura dello psichiatra come uomo truce e malvagio, e persino criminale!
Storicamente “interiorizzata”, questa contestazione è trasposta in immagini cinematografiche che hanno assicurato il successo di molti film, che fanno leva sull’inconscio bisogno di horror di una parte degli spettatori.
In questa categoria troviamo i film di Friz Lang, Il dottor Mabuse (1922), che narra di un individuo affetto da una drammatica e pericolosa psicopatologia. che si spaccia per uno psichiatra e Il testamento del dottor Mabuse (1923) in cui il dottor Baum, direttore del manicomio, conduce una doppia vita: di giorno fa lo psichiatra e di notte dirige una banda di criminali.
Troviamo la demonizzazione dello psichiatra in tanti altri film conturbanti, che insinuano il sospetto che, dietro l’apparenza di uno stimato psichiatra, si possa nascondersi un folle. Uno di questi racconti è Stati di allucinazione (1990) di Ken Russell, in cui uno scienziato si trasforma in un mostro psicopatico. Il lenzuolo viola (1980) di Nicholas Roeg, narra di uno psicoanalista che è un perverso necrofilo. Vestito per uccidere (1980), di Brian De Palma, racconta, con una serie di sequenze di alta suspence, la vicenda di uno psichiatra pazzo.
Un altro aspetto della contestazione contro psichiatri e psicologi, è quello di presentarli in preda alle angosce che li rendono vulnerabili. Mostrandoli come individui disturbati, la loro immagine professionale perde efficacia e gli spettatori si sentono più rassicurati. In Elettroschock (1964) di Denis Sanders, per esempio, è narrata la vicenda di una psichiatra, impersonata dall’attrice Lauren Bacall, che impazzisce.
Il film Per le antiche scale ( 1975) firmato da Mauro Bolognini, è imperniato sul tema dello psichiatra non sano di mente. Nel racconto, il primario di un ospedale neuropsichiatrico cerca di isolare il virus della follia; non per amore scientifico, ma perché è ossessionato dall’idea di essere egli stesso pazzo. Il medico ritiene di aver contratto il virus della follia, sia per contagio, essendo stato a lungo tra i malati mentali, sia perché nella sua famiglia vi sono delle tare mentali. Suo padre infatti è morto suicida, e sua sorella è degente nello stesso ospedale. L’ossessione del medico lo sconvolge sempre più fino a portarlo alla follia.
Ridere del terapeuta
Una vasta produzione cinematografica, invece, preferisce esorcizzare la follia. In certi casi, dunque, il matto non è più visto nella sua condizione inquietante, ma è tramutato in macchietta, che scatena il riso e l’ilarità impietosa degli spettatori, come nel caso di Scemo & +Scemo(1996) di Peter Farrelly.
Il film di Fallery è un vero compendio di demenzialità bonaria e clownesca, prodotto forse proprio per rasserenare gli spettatori. Infatti sembra che in questi casi gli sceneggiatori vogliano dire: “Se lo spettatore, dopo aver visto un film come questo, pensa che c’è qualcuno più svitato di lui, allora abbiamo portato a termine un’opera rassicurante”. In fondo, tra i temi più graditi al pubblico, c’è proprio la derisione, esorcistica e catartica, per le difficoltà in cui è caduto il personaggio, rappresentato, a bella posta, maldestro e un po’ svitato; come se lo spettatore, tutto sommato si consolasse di non essere nella condizione del malcapitato.
E non solo il folle, ma anche il medico qualche volta è beffeggiato e demitizzato. Con questa operazione, il professionista della mente, ritenuto dai più un individuo conturbante che intimorisce e preoccupa, è presentato in tutta la sua fragilità e vulnerabilità, e ciò fa scaricare la tensione degli spettatori e fa prendere le distanze da un genere di medico che, nella realtà, impaurisce e sconvolge la fantasia popolare.
La contestazione alla psichiatria si articola, inoltre, anche mostrando il terapeuta della mente come personaggio imbranato e risibile, facilmente soggetto di scherno. E così, alcuni film narrano, in chiave farsesca, le avventure di psichiatri e di matti trasfigurati in ridicole maschere. Questo gruppo di pellicole è prodotto dall’industria dello spettacolo per rilassare la platea e cancellare nella gente la paura della follia. Equivoci, qui pro quo e situazioni farraginose e burlesche, mettendo in berlina sia il matto che chi lo cura, ne esorcizzano la pericolosità.
Psichiatri farseschi, più matti dei loro pazienti, si trovano in Il medico dei pazzi (1954), di Mario Mattioli, che, con gag grottesche ed equivoci grossolani, rende innocuo lo strizzacervelli.
Giocando sulle carenze affettive e sulle insicurezze di uno strampalato psicoanalista, il film di Francesco Nuti, Caruso Pascovski (di padre polacco) (1988) narra le vicende di uno psicoterapeuta abbandonato dalla moglie. Il medico viene a sapere che la moglie ha un amante, il quale altro non è che un cliente che egli ha in analisi per omosessualità. Lo stesso paziente, ignaro che la donna è la moglie del medico, racconta al terapeuta, con gran dovizia di particolari, le intimità sessuali con la signora. Lo psicanalista, che invece ha scoperto la tresca tra il paziente e la propria moglie, dopo quelle confidenze, crolla in una devastante crisi di gelosia e, con il cervello ormai in tilt, finisce con lo sparare come un forsennato in un supermercato. Il regista Nuti strapazza la figura dell’analista, mostrando, inoltre, con irriverente derisione, l’orripilante campionario di persone che frequentano lo studio di uno psicoanalista. Il racconto, denigratorio, è fin troppo irritante.
Una presa in giro più soft, si ha in Psicanalista per signora ( 1959) di Jean Boyer. Il film narra di un veterinario, il comico Fernandel, che diventa famoso per aver guarito, col buon senso, i disturbi psicologici di una donna che gli specialisti non avevano saputo curare. Il sorprendente successo spinge il veterinario a fare lo psicoterapista a tempo pieno. Per denigrare e rendere ridicola la conturbante figura del medico della mente, gli sceneggiatori hanno trasformato un veterinario, a quel tempo considerato il grado basso della classe medica, in psicoanalista, caricando così, nell’immaginario della gente, questa figura di grottesca ambiguità. Il messaggio è chiaro: persino un veterinario potrebbe far meglio di uno specialista della follia.
Sulla stessa sintonia è Un divano a New York (1998), di Chantal Akerman, che narra la vicenda di uno psicoanalista il quale, volendo trascorrere qualche tempo a Parigi, fa scambio del suo appartamento newyorkese con la dimora parigina di una signora francese che vuole per un po’ abitare a New York. Per una serie di equivoci, la signora francese viene scambiata per psicanalista e, la donna divertita dall’equivoco, prende in cura i malati assistendoli in modo più efficace dello stesso psichiatra.
In Lo strizzacervelli (1997), di Michael Ritchie, c’è comicità e satira che non vanno certo per il sottile nel prendere in giro quella categoria. Nel racconto, un malato di mente si sostituisce al suo psicoanalista, diventando una star televisiva. E anche se il meccanismo degli equivoci è un po’ scontato, il film è piaciuto al grosso pubblico, forse proprio per la sua irriverenza.
La fine della fine (1978) è un film di modesta levatura, con la regia dell’attore Burt Reynold, che narra le avventure tragicomiche in un manicomio gestito in modo grottesco. Sempre Burt Reynold, ma questa volta solo come attore, in I miei problemi con le donne ( 1983) di Blake Edwards, è un paziente che s’innamora della sua psicoanalista. Il film, scialbo e scontato, manca di credibilità, sebbene, paradossalmente, sia stato un vero psicoanalista, il dottor Milton Wexler (che a quel tempo aveva in cura il regista) ad aiutare Edwards nella stesura della sceneggiatura.
Terapia e pallottole (1998) di Harold Ramis, strappa alcune risate narrando la vicenda di un terribile gangster che, in preda alla depressione piange come un bambino e vuole essere curato da un imbranato e terrorizzato psichiatra, il quale invece cerca di rifiutare quell’incarico, ritenendo imprudente avere in terapia un pericoloso criminale.
Uno stravagante Jack Nicholson è l’esilarante protagonista di Qualcosa è cambiato (1997) di James Brooks. Il film, basato tutto su un brillante dialogo, narra le vicissitudini di un misantropo, con variegate sindromi affettive e ipocondriache, ma in pratica, rende risibile quel tipo di malato mentale.
Lo psichiatra minaccioso
Nell’immaginario collettivo, lo psichiatra è visto come colui che ha licenza di manipolare le menti, prerogativa che gli da’ un’allarmante valenza negativa. Ciò ha indotto alcuni registi a descrivere il medico della mente anche nei panni di un truce alleato del potere, una specie di longa manus dell’autorità politica, la quale, in qualche caso, come nelle dittature, per esempio, si serve di lui per sottomettere la popolazione più riluttante.
Questa preoccupante commistione tra potere e follia si trova in un film fantascientifico di Lang, Metropolis (1926), in cui l’autore racconta che un immaginario dittatore, Frederson, ha reso schiavo il suo popolo. La gente sopporta l’oppressione di Frederson perché spera che Maria, una mansueta ragazza, che ha un ascendente su Freder, il figlio del dittatore, la possa liberare dalla schiavitù. Ma Frederson, sospettoso del patto d’amicizia tra la ragazza, Freder e gli operai, commissiona a Rothwang, scienziato pazzo, un mostro-robot, che ha le sembianze di Maria. Il sosia viene programmato per creare zizzania negli ignari cittadini, che, non immaginando che si tratti di un tranello, credono nei nefandi consigli della falsa Maria, e rompono l’unità della popolazione. Il film tocca i temi della follia, del doppio (il robot pazzo e la donna reale) e della manipolazione massificata delle menti, sottolineando altresì quanto poco ci vuole per far esplodere la stupidità collettiva.
Una storia che narra la conturbante mancanza di deontologia è Analisi finale (1991) di Phil Joanou. Nel film, uno psicoanalista, l’attore Richard Gere, è coinvolto sessualmente da due seducenti gemelle; una è sua paziente, l’altra, con tendenze criminali, s’inserisce nel training senza che il medico se ne renda conto. Il messaggio dell’opera è fonte di inquietudine, anche perché viene fatto intravedere un deplorevole scenario all’ombra delle sedute terapeutiche, e ciò serve maggiormente a disinformare la fantasia popolare.
Lo stesso tema è trattato da Bugia allo specchio (1991) di Tim Hunter, che narra di una top model, innamorata del suo terapeuta, il quale ha un gemello, diabolico e cattivo, che, sostituendosi a lui nel set terapeutico, senza che né l’ignara paziente né il vero medico se ne accorgano, la seduce e ne fa la sua schiava. Anche in questo caso, sull’ambientazione del set psicoterapeutico vengono veicolate allarmanti paure, e si diffondono inesattezze e diffamatorie pericolosità a proposito del gabinetto dello psichiatra.
Il cinema portavoce della nuova psichiatria
Fortunatamente, però, se una certa cinematografia di bassa lega, ha rinforzato i pregiudizi, sulla cura e sulla deontologia degli specialisti, mostrandoli ora senza cuore e senza afflato umano, ora imbranati e in balia dei propri clienti, altre pellicole invece, cambiando prospettiva, descrivono e approfondiscono, senza preconcetti, i problemi più scottanti della psichiatria. Il vocabolario cinematografico è ricco di risorse e di mezzi d’espressione variegati, che consentono di analizzare gli aspetti più emblematici della follia. Un cinema più consapevole, riesce a realizzare così, con sufficiente realismo, personaggi psicopatologici credibili. Per rafforzare l’impianto culturale, gli sceneggiatori fanno ricorso a sociologi, psicologi, psichiatri, per essere guidati correttamente nella stesura dei testi con risvolti psichiatrici.
Inoltre, molti attori, prima di interpretare la parte di un malato di mente, seguono con attenzione i comportamenti di questo tipo di pazienti. L’attrice Lucia Bosè, dovendo impersonare nel film della Cavani, L’ospite, una donna rinchiusa in un lager manicomiale, frequentò a lungo il posto nel quale la storia vera era accaduta e visse tra quelle povere infelici, tanto che alla fine, per stessa ammissione della regista, “non ci fu bisogno di dire molto sulla protagonista del film. Lucia aveva avuto sotto gli occhi tutto ciò che doveva sapere per interpretare la parte”
La cinematografia segue spesso anche le tendenze psichiatriche e psicoanalitiche, nell’evoluzione delle teorie e delle pratiche terapeutiche. Qualche film, addirittura, ha affrontato temi scottanti, con singolare interpretazione della follia, contestando terapie e strutture. Ci sono film che pongono in discussione i metodi di ospedalizzazione, i tipi d’intervento sul cervello, la chirurgia devastante e l’eccesso di intervento farmacologico, entrando in una polemica così radicale, da negare persino la malattia psichiatrica come entità a sé stante, e ritenendola, invece, un prodotto della società alienante.
Il film La fossa dei serpenti(1947) di Anatole Litvak, anticipa i problemi della “nuova” psichiatria, e mostra soluzioni umanitarie per l’efficacia il trattamento. Il film ha come tema la inadeguatezza delle strutture psichiatriche, infatti Litvak narra i disagi dei malati causati dal sopraffollamento e dal tipo di trattamento, spesso inumano e freddo. Il film, prodotto negli anni Quaranta, contesta le terapie basate prevalentemente su elettrochoc e forme rudi di trattamento. Nell’opera, il dottor Kik, contro l’andazzo del tempo, prescrive a una malata la psicoterapia. Il regista mostra come, grazie all’analisi, la signora Virginia, (Olivia de Havilland) mettendo in luce i dilemmi irrisolti del proprio passato, capisce le cause, scatenanti, della propria follia. Quando venne prodotto questo film, la vecchia psichiatria era già “sotto accusa”. L’inglese Roland Laing, l’italiano Franco Basaglia, l’americano Sullivan stavano gettando le basi dell’antipsichiatria.
Matti da slegare(1975), è un documentario realizzato all’interno del manicomio di Colorno, che illustrata il reinserimento sociale del malato, proprio come proposto dalle nuove tendenze. Lo sforzo cui tende il documentario è quello di far capire che il malato di mente non è un alieno e spinge a prendere persino in considerazione la possibilità che un pizzico di follia possa albergare, anche in parte, magari bene occultata, nei cosiddetti savi.
Su questa falsariga è Idioti (1998) di Lars von Trier. Nella vita il regista fa parte della comunità “Dogma 95“, collettivo di autori danesi che praticano un’esistenza francescana, purezza dei sentimenti e si dicono in rotta con l’odierna, conturbante forma di greve quotidianità. Essi combattono inoltre certe tendenze alla superficialità che riscontrano nel cinema contemporaneo. Nel film di von Trier, un gruppo di persone, del tutto normali, si fingono idioti, e possono così rendersi conto del disprezzo e del razzismo della gente nei confronti degli handicappati. Il film è una forte contestazione contro la ipocrisia sociale che spesso porta alla alienazione.
Quattro pazzi in libertà ( 1989), di Howard Zieff, è la storia di alcuni malati di mente che si smarriscono a New York e che finiscono con lo scoprire, nel caos della Grande Mela, che i cosiddetti savi sono più matti di loro.
Alcuni registi, facendo proprie le istanze della nuova psichiatria, hanno disegnato la figura del vecchio psichiatra come strumento del sistema, che riordina le menti inquadrandole e modellandole, come vuole il potere, e divenendo garante dell’ordine costituito. E così, non poche opere delimitano la figura dello psichiatra e degli infermieri, in ambigui e pericolosi personaggi.
Un esempio è dato da Qualcuno volò sul nido del cuculo(1975), col quale il regista, Milos Forman, vuol dimostrare che i trattamenti violenti e anticonvulsivi servono solo a dominare il paziente, ma non a curarlo. La pellicola sottolinea pure che non è vero che i malati mentali siano persone senza cuore e senza cervello, come la massa tende a credere. Nel racconto, un gruppetto di matti riesce a dimostrare una certa sanità mentale e una umanità pari se non superiore ai “sani di mente”.
A volte, la denuncia di un tipo di società senza cuore viene proprio da casi psichiatrici veri. Anche la televisione s’è assunto questo gravoso ma lodevole compito. Infatti è possibile trovare in alcune programmazioni Tv, documentari interessanti ed accurati che sottolineano l’aumento esponenziale dell’interesse del pubblico per i problemi della mente, questioni che qualche tempo addietro erano guardate con diffidenza se non con raccapriccio. Rai 3, in un dossier dal titolo Rosanna, le sue verità, per la regia di M. Gandin, andato in onda qualche anno addietro, narra l’incredibile vicenda di una donna, sana di mente, rimasta per molti anni in manicomio. Da ragazzina Rosanna viveva in una famiglia in cui il genitore era dedito all’alcool e la madre peregrinava in preda a crisi mistiche da un santuario all’altro. In assenza dei genitori, la giovinetta doveva accudire i fratelli; e poiché la famiglia versava in ristrettezze, fu anche mandata a servizio in città.
Ma non essendole stato mai insegnato come lavorare bene a casa, la giovanetta non soddisfece le esigenze delle famiglie dove prestava servizio e venne licenziata. I genitori, a quel punto, la ritennero una nullità. E poiché, dopo che ritornò in paese, Rosanna rivelava atteggiamenti indipendenti e giocava in piena libertà nei campi, i compaesani, temendo che potesse rappresentare una pericolosa e strampalata compagnia per gli altri bambini, la fecero rinchiudere in manicomio.
“Così ho potuto ricevere un buon pasto quotidiano”, ha commentato Rosanna a Rai3. Ella rimase “dimenticata” nella fossa dei serpenti per quaranta anni, e solo grazie alla legge 180 poté uscire.
A sentirla parlare, con quell’aria riflessiva e pacatamente umana, è difficile immaginare come avessero potuta etichettarla “matta”, ma, ciò che più sorprende è che non lo sia diventata dopo tanti anni di degenza.
A volte vi sono film che spiegano la dinamica di qualche tipo di disturbo mentale e descrivono psicosi, schizofrenia, stati nevrotici, aprendo un varco importante nella sensibilità di milioni di spettatori, perché fanno conoscere un campo ritenuto un garbuglio incomprensibile ed accessibile solo agli specialisti.
In Forrest Gump (1994), di Robert Zemeckis, la ragione umana è vista con una allegoria, come una piuma che ondeggia al vento, e non si sa a chi tocca la fortuna della saggezza o la sfortuna di perdere il senno. Il giovane Forrest, dotato di forte volontà e di un quoziente d’intelligenza che gli serve per attività che lo rendono un robot, riesce in molte attività anche meglio di altri. Il film è una critica radicale nei confronti delle istituzioni e della società accusate di esaltare qualità come la competitività e di essere, invece, indifferenti alla passività della mente. Così è la vita (1986), di Blake Edwards, commedia arguta, ma senza pretese, traccia con umorismo la figura di un ipocondriaco (l’attore Jack Lemmon) e quella di una madre ossessiva e castrante.
Morgan, matto da legare (1966), di Karel Reitz, vuol essere provocatorio, ed esalta la follia creativa. Al contrario, Oblomov (1979) del russo Nikita Michalkov, descrive il parassitismo psicologico. Nel film, il protagonista è un ricco possidente che vive tra l’infingardaggine e la passività morale. Questa carenza di entusiasmo, dovuta al taedîum vitae, lo rende apatico e del tutto simile al malato psichico.
Il cinema e ricerca psichiatrica
La follia, con i suoi significati simbolici, è entrata nell’orizzonte culturale del cinema sia come pretesto artistico, che come ricerca e definizione della malattia. Tuttavia, il viaggio intrapreso dalla industria dello spettacolo è certamente temerario; infatti in qualche caso gli sceneggiatori sono stati criticati quando non hanno adottato un autocontrollo rigoroso, creando così un prodotto mistificato. Si è temuto che, se l’industria del cinema affronta il tema della follia solo per fini spettacolari, essa possa allontanarsi dal rigore scientifico, creando confusione negli spettatori tra la categoria della finzione scenica e quella del documento scientifico.
Malgrado ciò, questa operazione creativa (e conoscitiva) ha affrontato, nei casi più impegnati, temi psichiatrici di ampio respiro, che non avrebbero potuto essere conosciuti dalle masse, che spesso sono disattente alla lettura. In ogni caso, i film sull’argomento hanno, quanto meno, il pregio di spingere lo spettatore ad addentrarsi in una problematica affascinante, ponendo una serie di interrogativi, che, altrimenti sarebbero sfuggiti all’attenzione dei più.
Affrontando il tema della schizofrenia, Repulsione (1965), di Roman Polanski, mostra l’insorgere della malattia e il suo culmine, nelle drammatiche sequenze in cui la protagonista malata, in preda ad allucinazioni, diventa una pluriomicida. Ma Polanski indulge un po’ troppo nelle esigenze sceniche e si lascia trasportare dal facile istrionismo che non sempre giova alla scientificità.
A volte qualche pellicola narra fantasiose e improbabili terapie per la cura delle malattie mentali.
Ne Lo strano caso dal dottor Kildare (1940) di Harold S. Bucquet, uno psichiatra, il dr Kildare, curando un malato con problemi mentali, risolve il caso mediante una overdose di insulina. Nel film, il paziente, dopo questa applicazione terapeutica, torna guarito alla sua vita normale.
Ottimista anche il film Patch Adams (1996) di Tom Shadyac, che racconta la vicenda di un medico, impersonato dall’attore Robin Williams, il quale è convinto della bontà terapeutica dell’allegria, e, malgrado lo scetticismo di altri medici, applica, con buoni risultati, la psicoterapia dell’ottimismo e della risata. Il film è biografico, perché prende spunto dalle vicende di un medico di Arlington, Hunter “Patch” Adams, che si è autointernato per capire meglio, vivendo assieme ai pazienti, i disturbi mentali e gli istinti suicidi dei malati. In Risvegli (1990), di Irwin Winkler, con R. De Niro, un medico sperimenta una cura per i malati affetti da encefalite letargica, i quali vegetano da anni, e, sorprendentemente, riesce a farne svegliare uno dal torpore. Ma il finale ha una nota un poco dolente, perché il malato, che sembrava tornato sano, rientra mestamente nel suo sonno mentale, com’era prima della “nuova” terapia. Il film è liberamente tratto da una raccolta di casi clinici di Oliver Sacks, il quale ha anche collaborato alla stesura della trama ed è andato più volte sul set quando venivano girate le scene più importanti.
Un’analisi dell’handicap è fatta in Rain Man-L’uomo della pioggia (1988), da Barry Levinson. Il film, condotto con meticolosità, risulta quasi un documentario. Il regista, infatti, ha curato di delineare le varie sfumature, e le sfaccettature dell’autismo, mostrando buona parte della gamma dei comportamenti di quel tipo di paziente. Ovviamente, l’autismo “vero”, non la fictio cinematografica, come del resto qualsiasi disturbo mentale reale, rispetto a quello “narrato” dal cinema, è qualcosa di diverso, di tragicamente diverso. E tuttavia, che se ne parli con un linguaggio non del tutto tecnico e in termini accessibili ai più, che si possa accedere ad una certa cognizione della dinamica psicopatologica, che siano percepibili, magari nelle grandi linee, certi disturbi della mente, è un dato estremamente positivo ed un motivo in più per non additare a disprezzo la malattia mentale.
Interessante l’iter di Diario di una schizofrenica (1969) di Nelo Risi, film che, sulle prime, ebbe pochi consensi da parte degli ambienti specialistici. Risi racconta la storia vera di un soggetto schizofrenico, salvato dalla psicoanalista M. A. Sechehaye. Il regista era venuto a conoscenza di quel caso leggendo il libro della Sechehaye e ne era rimasto colpito al punto da chiedere a Cesare Musatti un aiuto per stilare la sceneggiatura. Musatti, però, espresse il suo scetticismo sulla possibilità di realizzare cinematograficamente una storia psichiatrica, ritenendola una operazione molto rischiosa dal punto di vista della “correttezza nosografica”. Ma Risi non si diede per vinto, e ricorse alla consulenza di un altro psichiatra, Franco Fornari, col quale varò la stesura del film. In seguito, Musatti, avendo visionato il film ultimato, riconobbe che il regista aveva fatto un buon lavoro di sceneggiatura “psichiatrica”. Il Diario di una schizofrenica venne anche presentato, nel 1970, al Congresso internazionale di psicoanalisi di Trieste.
La “dolce” follia
Ma, se da un lato la follia è stata intesa dagli sceneggiatori come accecamento senza scampo, dall’altro, in qualche caso, è stata considerata distributrice di verità ed anche di libertà dalle regole sociali che imbavagliano e legano gli individui in sterili schemi di comportamento. In sostanza, in qualche caso il cinema ha descritto la follia come espressione di sanità mentale, come opposizione a un mondo violento che non rispetta la sensibilità umana.
Che a volte siano scambiati per devianze mentali alcuni comportamenti un poco eccentrici, ma amabili e disinteressati, e che, in qualche caso, siano ritenute folli le sfaccettature dell’affabilità, è la tesi di Henry Koster, che, in Harvey(1950), racconta di un certo signor Elwood P.Dowd (ottimamente impersonato da James Steward), il quale “ha deciso”, che in un mondo crudele, bisogna avere almeno un amico sincero. E poiché nella realtà non ne ha trovato, se ne “inventa” uno, un grande coniglio bianco, che chiama Harvey. Con questo immaginario animale Elwood Dowd dialoga, va a passeggio e frequenta i bar. Il protagonista del film è un uomo così amabile, indifeso e psicologicamente trasparente che riesce a insinuare, persino nella mente del direttore della clinica psichiatrica ove è stato ricoverato su invito della sorella, una sciocca e banale creatura senza umanità, che la compagnia di Harvey, può salvare dal grigiore di una vita insulsa.
Paradosso dei paradossi, il medico, che poi risulta un uomo senza veri amici, chiede a Dowd di “prestargli” il coniglio per avere, a sua volta, anch’egli un poco di compagnia.
In alcuni film come Accadde una notte(1934), o Mr Smith va a Washington(1939) di Frank Capra, i piccoli deliri fanciulleschi, le piccole manie degli strampalati protagonisti sono considerati comportamenti più sinceri ed “umani” degli ampollosi e falsi comportamenti di coloro che, considerati sani, in realtà, a ben guardare, non lo sono affatto. Capra assegna alla follia la funzione di un viaggio in qualche caso umano e illuminante.
Il cinema freudiano
Sulla teoria psicoanalitica il cinema si è particolarmente soffermato e sono molte le pellicole che hanno trattato il problema.
Già nel 1922, troviamo l’attore Will Rogers che recita, nel film One Gloriosus Day, la parte di un affabile professore di psicologia al quale la gente si rivolge per avere consigli sulla comprensione del proprio sé. Sull’onda della freudmania, a quel tempo circolava ad Hollywood una famosa canzone che scherzosamente diceva pressappoco così: “Non dirmi cosa hai sognato stanotte, perché ultimamente ho studiato Freud”.
Le teorie dello psichiatra viennese e di altri psicoanalisti divennero di moda, ad Hollywood, grazie al salotto di Adeline Jaffe Schulberg, moglie del produttore cinematografico B. P. Schulgerg. Il suo “cenacolo” fu il punto d’incontro di cineasti, psichiatri, psicologi e psicoanalisti.
Marie Bonaparte, allieva di Freud, narra, nella sua biografia, che agli inizi del secolo Hollywood s’infiammò ben presto delle teorie freudiane, e che Samuel Goldwyn, proprietario della Metro G. Mayer, nel 1924 andò a trovare lo psichiatra viennese per chiedergli di collaborare alla stesura di alcune trame cinematografiche incentrate sulla teoria psicoanalitica. Freud, troppo occupato dai suoi studi e dal lavoro di terapeuta, declinò l’invito.
Lo psichiatra viennese non poteva prevedere che le sue idee sarebbero state propagandate, in modo tanto sistematico e capillare, proprio dalla cinematografia. E, sebbene il cinema non abbia portato sullo schermo, sempre in modo impeccabile, i principi freudiani, ha comunque contribuito, forse più dei saggi dello psichiatra viennese, letti solo dagli studiosi, a diffondere nelle masse la mentalità psicoanalitica.
Il cinema, utilizzando la teoria freudiana, anche con brevi allusioni, ha reso più comprensibile al vasto pubblico la dinamica dei disturbi psichici. Sull’onda del successo di questa operazione di diffusione del “freudismo”, nel 1963, il regista John Huston portò sullo schermo la biografia del padre della psicoanalisi. Freud passioni segrete narrando il cammino del medico viennese per arrivare ad essere apprezzato dalla scienza ufficiale, avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni del regista, un affresco su Sigmund Freud e sulla psicoanalisi. Ma l’opera di Huston non è risultata pari alle aspettative, anche perché, spesso, indulge sia al mélo che al thriller, soprattutto quando affronta i casi trattati dal giovane Freud.
La commistione tra letteratura e freudismo ha portato molti sceneggiatori a stilare soggetti che hanno messo a fuoco l’analogia tra l’immagine cinematografica e quella onirica. La follia è accomunata al sogno, in quanto nel sogno è facile che emerga la dinamica psicopatologica. E poiché i sogni, sin dall’antichità erano ritenuti essenziali per intendere ciò che accade nello stato di veglia, anche la follia lancia, con la sua stravaganza ed originalità, simboli inquietanti per la comprensione del reale.
Nel rapporto tra cinema e sogno si sono cimentati molti registi. Danny Boyle con il suo Trainspotting (1996), Korosawa con Sogni (1990), Kathryn Bigelow con Strange days (1995), etc. Emblematico, al riguardo, è Il posto delle fragole (1957) di Ingmar Bergman, che sta a metà strada tra la recherche proustiana e l’analisi onirica psicoanalitica. Il film narra di un medico, un anziano luminare della medicina, apparentemente sereno, ma in realtà in crisi come marito, come padre e come professionista, che va alla ricerca del suo passato emotivo e, tra incubi e angosce, alla fine, “ritrova un equilibrio risanato”.
In Images (1972), di Altman, il tema è quello degli inutili tentativi di una donna di liberarsi dei fantasmi della sua mente. Il film si snoda come discorso onirico, e mostra, con emblematiche immagini di fantasmi e di incubi, ciò che affolla la mente della protagonista affetta da una disturbo mentale che la porta a scambiare la identità delle persone e, in particolare, a confondere, nella fantasia, gli uomini che ella ha amato, fino a portarla alla tragedia.
Gente comune (1980), film che segna l’esordio alla regia di Robert Redford, esalta, forse anche troppo, la figura di uno psicoanalista. Il film toccando una corda molto sensibile del pubblico statunitense, ha ricevuto vari Oscar.
In Io ti salverò(1945), Alfred Hitchcok affronta il tema freudiano. Il film narra la vicenda del direttore di una clinica per malattie nervose, afflitto da gravi turbe mentali. Sarà la sua assistente, che, praticandogli una sorta di analisi selvaggia, lo tirerà fuori dall’abisso in cui era caduto. Io ti salverò esalta l’efficacia della terapia psicoanalitica, e mostra come, analizzando il passato, possano riemergere traumi a lungo rimossi, e far venire a capo dell’origine della malattia. Nel film, Gregory Peck, scombussolato protagonista, viene salvato da Ingrid Bergman, che lo spinge a ricordare il trauma rimosso. Hitchcok, in questo e in altri suoi film, tratta la psicoanalisi con un tocco simile al “giallo”, ritenendo forse che l’indagine analitica, nello scandagliare l’inconscio, maneggia una materia inquietante al pari di un thrilling.
Uno straordinario quartetto si trova in un altro film di Ingmar Bergman, Come in uno specchio (1961). I quattro personaggi sono: Karim, da poco uscita dallo ospedale psichiatrico, suo marito, un medico alquanto freddo e scettico, il padre della donna, uno scrittore, che riduce tutto in termini di letteratura, e il fratello di Karim, al quale la donna è ambiguamente legata. Ognuno di essi vede negli altri l’incomprensione anche se spesso è ipocritamente celata tra le righe, e legge, come in uno specchio, anche la realtà del proprio malessere. Il film, ritmato con i sogni della protagonista, mostra allo spettatore “lo scopo” della malattia psichiatrica, e mette a fuoco il ruolo della famiglia nella formazione dei disturbi psichici. Bergman, come in tutti i suoi film, affronta anche questa volta problemi filosofici e morali, chiedendosi perché, nel disegno divino, ci sia anche la possibilità della follia negli esseri umani.
Sul filone freudiano è anche La strana voglia di Jean (1969), di Ronald Neame, tratto da un racconto di Muriel Spark, opera che era stata già adattata per il teatro. Il film sottolinea le tensioni e i desideri inespressi, le repressioni sottili e i traumi inconfessati che rendono la quotidianità difficile e poco vivibile, creando i risvolti nevrotici che Freud analizzò nelle angosce dei suoi pazienti.
A volte il cinema riesce a portare sullo schermo realtà “scomode” e insensate, che altrimenti sarebbe sgradevole comprendere nella loro nuda crudeltà senza il filtro dell’opera d’arte. Alla fine degli anni Cinquanta, nel piccolo centro di Plainfield (Wisconsin) viveva, come un eremita, un certo Ed Gein, che la gente considerava un maniaco. Quando, su segnalazione di alcuni cittadini, lo sceriffo andò a casa di Gein, trovò che quel cinquantenne “barbone” era in preda a confusione mentale, e che c’erano disseminati ovunque per casa resti umani. La polizia accertò che Gein aveva ucciso diverse persone. La sua prima vittima era stata, nel 1955, una donna, una signora divorziata e proprietaria di una taverna della zona. Lo scrittore Roberto Bloch, dopo aver letto sui giornali le efferatezze di Ed Gein, incuriosito dalla psicologia perversa dell’assassino, andò a trovarlo in carcere e ne trasse fuori il personaggio di romanzo, che intitolò appunto Psycho, opera che ebbe un sensazionale successo.
Alfred Hitchcock, intuendo che quella storia sarebbe stata, agli occhi del pubblico, il simbolo dell’aberrazione psicologica, dalla quale sarebbe emersa la figura del mostro, acquistò i diritti dell’opera letteraria per tramutarla in un film, Psycho(1960). In esso Hitchcock tratta la follia, questa volta di un giovane timido e voyeurista, ancora in chiave psicoanalitica, individuando le cause della malattia di Norman Bates (Antony Perkins), nell’autoritaria madre del protagonista, la cui invadenza avrebbe scatenato nel figlio gravi problemi sessuali. Il caso clinico ha il classico sdoppiamento della personalità, con complicazioni edipiche e fobie di vario genere. Sebbene il film ha la pretesa di essere la presentazione di una psicopatologia da manuale, il regista, però, piuttosto che fare appropriate riflessioni sulla follia, ha abbandonato le iniziali intenzioni specificatamente psichiatriche, e si è lasciato trasportare dal fascino della suspense cinematografica; e così il racconto di Pshyco si snoda seguendo le regole dello spettacolo d’effetto.
Il male oscuro (1989) di Mario Monicelli, tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Berto, racconta la serie di malanni che il protagonista ha somatizzato a causa del suo irrisolto contrasto col padre. Sarà lo psicoanalista che lo aiuterà a sciogliere i nodi dell’ipocondria. Il film, schematico e didascalico, non ha lo spessore culturale del libro di Berto, né aggiunge molto a Viaggio con Anita (1978) dello stesso Monicelli, anch’esso incentrato sul tema del contrasto con i genitori.
Di maggiore consistenza intimista e con richiami psicoanalitici sono: 8 e ½ (1963) di Federico Fellini, regista grande indagatore dell’animo umano, dell’alienazione e della confusione del vivere, e Deserto rosso ( 1964) di Michelangelo Antonioni, che racconta, con il cromatismo delle immagini, la depressione psicologica e l’incapacità di venire fuori dalle sabbie mobili dell’animo. Nel film è sottolineato anche il disagio di vivere quegli spazi la cui architettura è disumanizzante.
E non è possibile ignorare chi, forse più di ogni altro ha amato e deriso amabilmente la psicoanalisi: il regista Woody Allen.
Allen, come uomo e come attore è impacciato, timido e frustrato, com’egli stesso ammette, anche, dice, a causa di una infanzia infelice. Woody Allen rappresenta, nella fiction e nella vita il personaggio emblematico delle crisi esistenziali del nostro tempo. “Ho alle spalle dieci anni d’analisi – ha detto una volta Allen – e il mio analista mi ha consigliato, se da qui a dicembre non guarisco, di andare a Lourdes”.
Allen è un esempio di rigetto, di resistenza e di contemporanea, singolare, sottomissione alla psicoanalisi. In quasi tutti i suoi film questo autore, nel momento stesso in cui sembra che denigri il pensiero freudiano, si aggrappa ad esso per capire meglio il senso della vita. E se Allen mette in berlina la psicoanalisi e “strapazza”, in quasi tutti i suoi film, l’immagine dello psicoanalista, tuttavia egli non riesce ad intendere i rapporti umani se non in chiave analitica. Ed in Allen è anche paradigmatico il rapporto tra creatività e patologia. Infatti, le sue dichiarate “difficoltà come uomo”, sulle quali egli sempre scherza, e che si manifestano sia nella sua vita quotidiana che nei suoi film, sono anche i motivi del suo successo come artista.
La psichiatrica delle nuove frontiere
A mano a mano che nell’immaginario collettivo si è persa l’ancestrale convinzione che lo psichiatra è un personaggio oscuro e pericoloso, è subentrata l’idea che il compito del terapeuta è quello di prendersi amorevolmente cura del paziente ed aiutarlo anche con la forza della parola. Il cinema ha così individuato la nuova sensibilità nel campo della terapia delle malattie mentali, sottolineando che la liberazione dalla pazzia può avvenire, se il malato viene anche aiutato con una profonda empatia.
Ma in qualche caso, nei film è apparso lo stereotipo del medico che affronta la malattia psichiatrica non più con invasive terapie farmacologiche o con l’elettroshock, ma, essendo in linea col nuovo corso psichiatrico, si è trasformato da terapeuta freddo e senza cuore (come si riteneva che fosse una volta), in “grande mamma” che custodisce e difende il paziente.
Il grande cocomero(1992), di Francesca Archibugi, ha un efficace e moderno taglio narrativo. La trama si snoda nel rapporto intenso tra un giovane psichiatra e una ragazzina affetta da crisi epilettiche ricorrenti. Il legame affettivo instaurato tra i due durante la terapia, è un sentimento delicato, con momenti di intensa commozione, che farà bene sia allo psichiatra che alla paziente. Film gradevole e rispettoso sia della figura dell’ammalata che dello psichiatra.
Su questa falsariga, Senza pelle (1993), di Alessandro D’Alatri, narra la storia di un giovane schizofrenico, aiutato, “terapeuticamente”, da una impiegata delle poste, della quale il malato s’innamora, avendo trovato in lei finalmente un essere umano che lo comprende. Lo schizofrenico vorrebbe ad ogni costo essere ricambiato, e la donna molto sensibile, sebbene sia sposata, comprendendo il dramma del giovanotto, si barcamena con grande tatto, aiutata persino dal marito, nel feeling con il malato; e così arriva a far capire al giovane che il rapporto con una donna già impegnata non è possibile, ma lo spinge amorevolmente ad entrare in una comunità. Qui il giovane s’innamorerà di una ragazza che frequenta quel luogo e che vede in lui, ormai fortificato dall’incontro con l’impiegata, la persona che potrà darle una mano d’aiuto.
In Sybil (1976) di Daniel Petrie, è raccontato il bellissimo rapporto tra una schizofrenica e la sua psicoanalista, che, alla fine, recupererà la malata dall’angosciante dissociazione.
L’handicap psichico visto in chiave affabile e bonaria è il tema di Ivo il tardivo(1995) di Alessandro Benvenuti. Il film mostra come si più essere più vicini alla follia dello stesso “tardivo”, essendo conformisti e soggiacendo a triti luoghi comuni. Il regista lascia intendere che il conformarsi ai compromessi può essere anche questo un handicap psicologico. La variegata umanità di Ivo si scontra con le “normalità” di coloro che lo giudicano e che, in pratica risultano più duri, più egoisti, meno duttili e creativi di lui che è considerato matto. Il film sottolinea che chi non segue le idee convenzionali non è necessariamente fuori di testa. Può magari essere apprezzato proprio per le sue qualità creative e per le sue idee bislacche.
La follia sociale
Anche il binomio follia e guerra è ricorrente nella cinematografia. Cielo di fuoco (1968), di M. Forlatt, illustra la sintomatologia psicopatologica che si scatena in chi partecipa alla guerra aerea. I piloti che hanno come patologia la confusione mentale, vengono curati con la terapia del sonno e rimandati subito in guerra. Gregory Peck, generale duro e intransigente, chiede uno sforzo immane ai suoi piloti, e alla fine, quando il suo vice è abbattuto in una missione, verrà colto da un panico rimorso e il film si chiude con la ospedalizzazione di un uomo, il duro generale, che si riteneva immune da qualsiasi contagio psichiatrico.
Anche il Vietnam è stata un’occasione non solo per narrare la follia di cui sono colti i soldati nelle retrovie, ma anche per mostrare l’angoscia che, a conflitto concluso, resta indelebile nei reduci, e distrugge la serenità dei militari che non riescono più a vivere la quotidianità, come prima di essere stati arruolati.
Con Taxi drive (1976) di M. Scorsese, Il Cacciatore (1978) di M. Cimino, e Apocalypse Now(1979) di F. F. Coppola, si ha una variegata casistica di comportamenti paranoici e alienati, dovuti alla guerra.
Il film Tutti pazzi meno io(1966) di P. Sullek racconta quanto il mondo sia egoista e folle, Un soldato, Plumtick, è costretto a disinnescare una bomba depositata dai tedeschi per distruggere un piccolo borgo. Nella cittadina però sono rimasti solo “i matti”, che, usciti dall’ospedale psichiatrico, circolano ignari della guerra, per le strade, mentre i cittadini sono scappati via.
Plumpick, non si accorge che gli unici abitanti del borgo sono gli alienati, e apprezza le loro doti di umanità e di affabilità. Addirittura egli s’innamora di una amabile e quieta ragazza appena uscita dal manicomio. Il soldato la trova adorabile e spontanea come nessun’altra donna che aveva incontrata prima. Il film, sottolinea che la differenza tra i matti e i savi è che questi ultimi si invidiano e si odiano, affrontandosi persino nei campi di battaglia, mentre i matti vivono in un mondo personale meno gravido di aggressività e di cattiveria. E così, cessata la guerra, i savi ritornano in paese, e i matti rientrano in manicomio, lieti di ritirarsi nella loro pace, e lontani da un mondo spietato.
Tema simile è trattato nel film Manicomio(1946) di Mark Robson, nel quale emerge evidente l’antitesi tra l’egoismo dei sani rispetto all’altruismo di coloro che vengono definiti matti. La narrazione mostra come spesso chi viene identificato come folle sia più umano, solidale e caritatevole di chi è considerato sano di mente. Il caso Raoul (1975) di Maurizio Ponzi, affronta il tema della schizofrenia come degrado mentale dovuto ad alterate condizioni sociali. Ma l’opera ha avuto diverse critiche, ed è stata considerata un pretenzioso saggio intellettualoide.
La fiammiferaia (1989) di Aki Kaurismaki disegna la condizione crudele della pazzia del mondo contemporaneo, e mostra come, anche senza accorgercene, siamo costretti a subire molte alienazioni. Il film Marat-Sade (1967) di Peter Brook, percorre il filone del rapporto tra follia e potere. In un manicomio, sotto la guida del Marchese di Sade, che vi è rinchiuso a causa della sua malattia mentale, i degenti allestiscono uno spettacolo per rappresentare l’uccisione di Marat da parte di Charlotte Corday. Ma, dopo un dibattito che mette a confronto le idee libertarie del rivoluzionario francese con quelle pessimiste ed individualiste di Sade, scoppia una furiosa diatriba. I matti, allora, con una scena di intensa violenza e concitazione, che a suo tempo fece molto scalpore, ribellandosi all’egoismo di Sade, regista dello spettacolo, si scagliano contro i guardiani per difendere la loro libertà d’espressione. Il film è il prodotto dei temi che erano in voga a quel tempo, ed in particolare, appunto, dello stridente rapporto tra l’autorità e la follia.
Follia, crimine ed horror
Nella cinematografia di massa non sempre l’immagine della pazzia appare libera da stereotipi. In qualche caso, un certo tipo di film ha contribuito a mantenere, e persino a creare, molti luoghi comuni sulla malattia. Vi sono infatti sceneggiatori che hanno rappresentato, in maniera goffa e scontata, le manifestazioni di squilibrio mentale, e, per fini spettacolari, hanno raffigurato la persona psichicamente anormale come individuo mostruoso, straripante di horror criminale, sperando, che, con tali caratteristiche, i film si sarebbero venduti meglio.
Per rendere scenicamente appariscente la follia e avere presa sullo spettatore, alcuni registi ricorrono anche alla fantascienza. Il folle, in qualche caso, è diventato un simulacro senza più individualità, e reso identico, tranne trascurabili variazioni, a personaggi consimili di altri film. Ovviamente, ciò va sempre a scapito di una seria analisi scientifica.
Una lunga serie di film, a cavallo tra follia criminale e horror, hanno dato vita ad un filone di sceneggiature, alcune buone, altre superficiali, altre del tutto inconsistenti, che scandagliano l’abisso più orribile dell’animo umano.
Tra gli esempi meglio riusciti, Frenzy di A Hitchcock, Alle radici della follia di M. Pattison, Follia omicida di C. R. Baxley, Schegge di follia di M. Lehmann, La pazzia di re Giorgio di N. Hytnero, La fossa dei peccati, di I. Rapper; L’inquilino del terzo piano di Roman Polansky, Girolimoni il mostro di Roma, di Damiano Damiani.
Molto noto, negli anni Quaranta, La scala a chiocciola (1946), di Robert Siodmak, in cui, un serial killer sulla falsariga dei mostri dell’espressionismo tedesco, funesta la città con una catena di omicidi di giovani donne. La regia, usando obbiettivi e lenti particolari, ha reso benissimo, con contrasti, chiaroscuri e deformazioni prospettiche, stati di incubo e di allucinazione, lasciando sorpresi gli spettatori nell’ammirare le grandi capacità narrative dell’immagine videocinematografica.
In Le due sorelle (1973), Brian De Palma narra la storia di due gemelle siamesi, separate chirurgicamente, di cui quella rimasta in vita assume spesso la psicopatologia che era della morta+ e alla fine diventa anche assassina. La storia è un rappresentativo esempio di identificazione con la personalità di un altro. Con Carrie, lo sguardo di Satana (1976), il regista De Palma, è nuovamente alle prese con la insanità mentale. Nel film è tracciato il profilo di una ragazzina che, con lucida follia, si vendica dei soprusi psicologici subiti dalla madre e dai fratelli.
In Lo specchio oscuro (1946), di Robert Siodmak, uno psichiatra, studiando il caso di due gemelle, una buona, Ruth, e l’altra in preda ad istinti assassini, s’innamora della prima, ma la seconda farà di tutto per prendere il posto di Ruth nel cuore del medico e fare impazzire la sorella.
Col film Suspence,(1961) di Jack Clayton, viene tratteggiata la sessuofobia delirante nel suo lento mutarsi in follia. Nel racconto, la protagonista, una istitutrice, osservando gli strani comportamenti dei due bambini ai quali deve accudire, si convince che essi sono succubi di due fantasmi (un guardacaccia e la sua amante, morti secoli prima). Il film mostra chiaramente che i due fantasmi non sono altro che la proiezione della personalità isterica e sessualmente repressa della governante. Nello sfondo tipicamente americano degli anni Settanta si staglia In cerca di Mr Goodbar ( 1977) di Richard Brooks, in cui una insegnate di una scuola per sordomuti vive uno stato schizoide, sdoppiata: di giorno maestra e madre modello, di notte insaziabile ninfomane in cerca di avventure. La storia, raccontata senza moralismi, indulge forse troppo nell’idea che la follia abbia risvolti sessualmente conturbanti; tuttavia è pur sempre una indagine sui risvolti che ha un certo tipo di educazione basata soprattutto sui sensi di colpa. La protagonista, afflitta da troppo “perbenismo” cerca di rompere con una società soffocante.
Riflessi in un occhio d’oro (1967), di John Huston, fa parte del filone follia e sessualità. Racconta di un maggiore dell’esercito, impersonato dall’attore M. Brando, paranoico, impotente e afflitto da pulsioni omosessuali, che è gelosissimo della moglie. Afflitto da idee deliranti di innocenza e purezza, uccide un soldato, che egli ritiene innamorato della donna, la quale però, senza che il maggiore-Brando lo sappia, in realtà è l’amante di un colonnello. Il film segue due filoni: l’angoscia psichiatrica dell’omosessuale che non riesce a dichiararsi a se stesso qual è, e la paranoica gelosia che può derivare dall’impotenza e dalla incomunicabilità con l’altro sesso.
I disturbi psichici di origine sociale
Nel cinema, in qualche caso, la follia è considerata non solo come malattia, ma anche come risposta all’ingiustizia sociale, all’oppressione e alla prevaricazione. Molti registi hanno sottolineato l’insorgere delle psicopatologie in stretta connessione con eventi dirompenti per la personalità.
La pazzia generata nell’ambito familiare è descritta da Fernando Arrabal sia in Viva la muerte (1971) che descrive la difficile infanzia di un ragazzino spagnolo succube della madre e di una zia ninfomane, sia in Andrò come un cavallo pazzo (1973), ritratto forte di madre castrante che scatena nei figli un’emotività molto vicina alla pazzia.
Fanny ed Alexander (1982), di Ingmar Bergman, narra la vita di due bambini, vittime del patrigno, un vescovo protestante che ha sposato la loro madre rimasta vedova. Il prelato li educa in modo repressivo e paranoico, perché spinto dalle proprie problematiche psicologiche che egli manifesta con persecutorie manie religiose e con un intransigente ascetismo imposto, anche nei confronti dei due piccoli figli della moglie. Interessante il film di Ken Loach, Family Life,(1971) che vuol dimostrare come il concetto di folle a volte possa essere solo un’etichetta, ingiusta ed insopportabile. Il racconto parte da un’amara realtà psichiatrica e narra le vicende di una madre borghese, autoritaria e ipocrita, che impone alla figlia, nubile, l’aborto per evitare uno scandalo.
La ragazza non vuole abortire e chiede aiuto al padre, ma questi è succube della moglie e pertanto la ragazza non riesce ad evitare che le venga tolta la creatura che porta in grembo. La protagonista, disperata, sentendosi psichicamente violentata, si rifugia nella solitudine. La madre per “liberarla dall’influenza del giovane che le ha procurato quel guaio” la fa ospedalizzare Avvilita sempre più dal sopruso materno, la figlia si ribella, ma un “truce psichiatra” rileva in quella rivolta i segni di un comportamento schizofrenico e la ricovera in ospedale, sottoponendo la ragazza a molti elettroshock. La ragazza con un ultimo guizzo di ribellione, fugge col fidanzato, ma viene riprese e internata per sempre.
Il film, ispirato alle teorie dello psichiatra inglese Roland Laing, è molto polemico e pertanto fin troppo di parte, e mette sotto accusa l’influenza deleteria di una madre perversamente moralista, che alla fine causa alienazione.
Precursore di Family Life, è il francese La fossa dei disperati (1958) di Jeorges Franju, disperato grido di libertà di straordinaria sensibilità e incisività umana. La trama racconta di un celebre avvocato, padre padrone, che fa richiudere in manicomio il figlio ribelle, facendolo passare per personalità instabile e psicopatica. Nella struttura ospedaliera il giovane si lega d’amicizia con un coetaneo epilettico ed entrambi tentano una fuga che però fallisce tragicamente. Anche Splendore nell’erba (1961), di Elia Kazan, mette il dito sulle deleterie intrusioni della famiglia e della società nell’individuo, invadenze che possono portare alla follia. Il film anticipa Familiy Life narrando dell’amore di due giovani rovinato dalle interferenze dei genitori. La madre della ragazza ossessiona la figlia perché questa resti vergine, e il padre del ragazzo, convinto maschilista, spinge il figlio, per non “farsi intrappolare”, a non pensare all’amore, ma solo ad avvicinare donne facili.
L’ambiente familiare nevroticamente malsano che fa da cassa di risonanza alle patologie dei componenti del nucleo, è descritto da Filippo Ottoni in La grande scrofa nera (1972).
Il film Pazza,(1989) di Martin Ritt, che si avvale di una splendida Barbara Streisand, fa emergere il tema della nevrosi da incomprensioni familiari. Una prostituta ( la Streisand) uccide un cliente per legittima difesa e si rifiuta di seguire il consiglio dei suoi genitori di passare per matta ed evitare la pena. Ella chiede un regolare dibattito in aula giudiziaria, che si tramuta in un processo all’ipocrisia del perbenismo borghese.
Contro il perbenismo è anche il film È stata via (1989) di Peter Hall, che fa vedere come una moglie insoddisfatta e una vecchietta anticonformista, quest’ultima reduce da 50 anni di manicomio, che si sono legate da un comune spirito d’indipendenza, vengono scambiate per malate di mente proprio perché rifiutano i luoghi comuni ai quali è legata la società.
Come la psichiatria utilizza l’immagine cinematografica
Il cinema “serio”, al pari del romanzo e del teatro, si è dimostrato uno strumento d’esplorazione dell’animo umano. Molti film hanno messo in crisi il reticolo di certezze sociali e psicologiche, squarciando, con consapevolezza lancinante, barriere e resistenze create dai luoghi comuni, e facendo vedere quanto sia incerto il limite tra normalità e follia. Questo impegno culturale ha dissolto la mitologica, assoluta credenza della incontestabile sanità mentale di chi “ufficialmente” non è riconosciuto matto.
E se la cinematografia ha utilizzato il tema della follia e la professione dello psichiatra come base narrativa di ariosa suggestione, anche la psichiatria, incrociando e invadendo il campo dell’arte cinematografica, si serve sempre più dell’immagine filmica per registrare la dinamica psichica, per focalizzare gli aspetti psichiatrici dei pazienti e per documentare, attraverso variegate sequenze del vissuto patologico, l’esperienza terapeutica psichiatrica.
Il cinema abbraccia la percezione immediata dell’animo, e si sviluppa nel campo dell’immaginario con uno scandaglio psicologico che permette di raggiungere una condizione privilegiata, perché emette ed assimila messaggi, grazie alla registrazione audiovisiva, di una efficacia singolare. La presa emozionale che produce l’immagine cinematografica, legata a vari fattori, permette di operare in situazione quasi subliminale. Il messaggio cinematografico è assimilato, evocato, spostato, in variegate situazioni spazio-temporali come il materiale onirico, e come il sogno penetra in profondità
Il cinema è diventato sempre più uno strumento di esplorazione psicologico e psichiatrico d’interesse primario. Una riprova in tal senso viene dai convegni che hanno avuto nel cinema e nella videoregistrazione i loro temi principali. Uno di questi è stato Psichiatria Cinema e Videocomunicazione, Immagini della mente, organizzato a Roma, nel 1992, dal prof. Paolo Pancheri. Il meeting ha fatto il punto sull’utilizzazione nella ricerca psichiatria, mediante l’acquisizione e la registrazione della dinamica emotiva nelle patologie mentali con l’immagine videocinematografica.
Al convegno romano sono stati presentati molti filmati sui vari aspetti della psichiatria, dai problemi pertinenti la comunicazione di gruppo, alla documentazione nel campo delle neuroscienze, allo studio e presentazione di malattie specifiche, come l’epilessia, l’anoressia, la schizofrenia. Contributi tutti interessanti e tra gli altri, da citare, quello di E. Gabrici sulla narcoanalisi che presenta tre casi clinici, drammatici e di particolare interesse perché sono registrati i più tragici momenti degli antichi traumi rivissuti dai pazienti durante le sedute.
Un altro filmato, di F. Russo, R. Vari, R. Palma, M. A Russo, mostra colloqui con pazienti schizofrenici. Nel filmato dell’americano J. Stossow è introdotto e illustrato il disturbo ossessivo-compulsivo differenziandolo dai disturbi psicotici. L’attacco di panico è ben sintetizzato da W. Procaccio e M. Contini in un filmato di 13 minuti che mostra anche un paziente con una manifestazione agorafobica.
Sono state, inoltre, analizzate nella registrazione video, per meglio essere studiate in seguito, applicazioni terapeutiche come l’elettroshock, l’insulinoterapia, etc. Anche gli interventi riabilitativi sono stati registrati nei video con dovizia di particolari.
In Malattia mentale e inserimento nel mondo del lavoro di M. Provenza e altri A. A., è presentata l’attività riabilitativa del paziente schizofrenico. G. A. Patella ha filmato una sequenza interessante che mostra la psicodiagnostica di Rorscharch, effettuata secondo una rigorosa metodologica dinamica.
Immagini di un setting di psicoterapia della famiglia di C. Loriedo analizza questo tipo di terapia con ottime riprese che illustrano i significati delle sedute terapeutiche. Anche l’ippoterapia è documentata da un video di C. Consolaro e F.Garonna. Al meeting l’équipe catanese del Prof. Vincenzo Rapisarda, ha presentato un lavoro dal titolo Video e Psicopatoplogia, (di Vincenzo Rapisarda e Sergio Paradiso) che mostra come mediante i filmati sia possibile presentare disturbi psichiatrici da utilizzare come strumento didattico.
In un altro interessante incontro tra cinema e psichiatria, a Venezia, nel 1996, nell’ambito di un convegno su “Psicoanalisi e Cinema”, organizzato dal Comune e dalla Scuola Europea di Psicoanalisi, il discorso tra cinema e follia è stato anche molto vivace.
Apprezzato e discusso è stato il film Stalker ( 1979) di Andrei Tarkovskij, denso di significati simbolici, il cui tessuto narrativo si compone di una esile trama la quale non è che un pretesto per il vero racconto. Il film affronta, con una straordinaria parabola visiva, l’ignoto, il rischio e l’imprevedibilità dalla psiche umana; una lotta questa, che la tiene in bilico tra fantasia e il crollo psicotico.
Il meeting ha preso spunto dall’analisi dell’individuo creativo per giungere ad un’ulteriore riflessione sul significato della pazzia.
La creatività, vista come espressione di una fase ottimale dello sviluppo psicologico, è stata da sempre oggetto dell’attenzione di molti registi, e in molti casi essa è stata anche un interessante spunto per un avvincente parallelo tra arte e follia. Nell’episodio intitolato “Corvi”, del film Sogni (1990) di Akira Kurosawa, sono ricostruiti gli scenari delle opere di Van Gogh, nei quali il pittore (impersonato da Scorsese) si perde in preda alla sua follia creativa. E anche Kean (genio e sregolatezza) (1956) di Vittorio Gasmann, sia pur con tutti i suoi limiti, è un esempio di questa commistione tra arte e pazzia.
Ma torniamo agli incontro tra cinema e follia, per sottolineare quello intitolato Cinema e Psicoanalisi, organizzato dal Centro Veneto della Società Psicoanalitica Italiana, che si è tenuto a Marzo 1999 a Padova. Il meeting ha affrontato, come tema principale, il rapporto generazionale, così espresso: Il padre, un affetto e un ruolo da riscoprire.
Durante il convegno sono stati proiettati alcuni film per approfondire il problema della figura genitoriale.
Tra essi, Kolya (1996) del cecoslovacco Jean Sverak, che ha proposto la figura del padre “materno”. Shine di Scott Hicks, in cui un padre finisce per ricostruire in famiglia l’atmosfera opprimente e folle come gli era capitato di viverla nel campo di concentramento in cui era stato internato.
Doddy nostalgie (1990) di Bertrand Tavernier, che analizza i complessi rapporti tra padre e figlia.
Insomma, come dimostrano tanti congressi, ormai la psichiatria si avvale sempre più dell’ausilio del mezzo cinematografico, sia attraverso opere dell’industria dello spettacolo che descrivono le dinamiche della personalità e gli interstizi della mente, sia mediante una produzione cine-video che le stesse strutture psichiatriche vanno assemblando per meglio analizzare, studiare e memorizzare le occasioni psicopatologiche più interessanti.
Conclusione
In una società pigra e, in fondo, piuttosto cinica, gli itinerari psichiatrici del cinema hanno messo in crisi la nozione di normale e di patologico, che era servita, in passato, a proteggere certi desueti valori tradizionali, certi tabù e certe tendenze giansenistiche, aprendo un varco sempre più arioso e liberatorio, e mettendo in crisi tutte le etichette.
L’innovativa attenzione per i casi della patologia mentale è paragonabile, se si vuol far un riferimento culturale al passato, alle grandi correnti di riflessione come i dibattiti che avvenivano sulla peste nel Medioevo, le argomentazioni sul libero arbitrio che c’erano nel ‘400 e nel ‘500, e il problema della schiavitù della gleba che si pose alla fine del ’700.
Il cinema, dunque, si è assunto l’incarico di trasmettere nozioni di base sui percorsi del cervello. E così lo spettatore ha preso coscienza delle perturbazioni dell’uomo comune, e del progressivo aumento di nevroticità in una società che vive, senza catarsi liberatorie, sempre più in tensione e sempre meno rilassata.
A volte il cinema ha alterato, per finalità sceniche e commerciali, l’immagine di malattie come la psicosi o la schizofrenia, esasperando o in parte falsificando il concetto di disturbo mentale. Tuttavia non v’è dubbio che però ha denunciato la miopia e l’atrofizzazione narrativa di molte stucchevoli concezioni a proposito di sanità mentale e di pazzia che, in passato, erano state utilizzate per “tranquillizzare” e per chiudere gli occhi nei confronti di una drammatica realtà che si voleva tenere ad ogni costo nascosta.
Da quando le desuete nozioni di follia e di sanità mentale sono state messe in crisi dagli stessi psichiatri e dagli intellettuali, il mescolare le carte, l’avvicinare il normale al patologico e viceversa, è stata una operazione rischiosa, ma purificatrice e salutare.
E se è vero che, in qualche caso, v’è stata una certa tendenza a banalizzare la follia con facili esemplificazioni e che, con un esercizio a freddo e magari a volte dilettantistico, si è presentato al pubblico, a volte, un modello patologico progettato più per far effetto che per essere somigliante alla realtà, è pure vero, però, che sono stati prodotti dall’industria cinematografica anche opere raffinate, che hanno descritto le psicopatologie con una mentalità psichiatrica ricca e consapevole. Tali opere hanno fatto uscire il cinema dalle vecchie, collaudate e rassicuranti trame, denunziando l’ineluttabile esistenza, nella mente umana, di ambiguità latenti o manifeste, sulle quali, prima di questa ventata, di s’era cercato di stendere un pietoso silenzio.
Per concludere si può dire che la cultura cinematografica in fatto di psichiatria, anche se in qualche modo banalizzata, è una forma apprezzabile di divulgazione, che pervade e stimola l’interesse della masse per queste tematiche.
Parole e concetti come trauma, nevrotico, complesso di Edipo, inconscio, alienazione, narcisismo, rimozione, paranoia, sublimazione, lobotomia, etc., sono entrati nel gergo comune soprattutto, proprio, attraverso il cinema e la televisione, che hanno di fatto operato un significativo aggiornamento culturale. Non dimentichiamo, infatti, la grande refrattarietà della gente a prendere in mano un libro, e la facilità con cui, invece, va a cinema o accende il televisore.
La mente umana, che un tempo le inadeguate infrastrutture e i luoghi comuni, tendevano a mistificare, oggi è sempre meglio denudata e analizzata da sceneggiature, a volte spietate, ma che tuttavia riescono a stimolare la riflessione degli spettatori, anche dei più indolenti.
Infatti le vaste possibilità esplicative insite nel mezzo cinematografico sono un potenziale d’indagine che coinvolge e attrae e che, se condotte con corretti ed adeguati indirizzi di ricerca, possono diventare un utile strumento di cultura.
Era forse questa l’unica possibilità, in un campo che richiede grande specializzazione, per poter ottenere una consistente divulgazione orientativa.
Riassunto
L’industria cinematografica, sin dai primi anni, si è interessata alla psicopatologia, le cui complesse tematiche ben si adattano ad essere narrate nello schermo, ed ha utilizzato, per esprimere la malattia mentale, tutti i mezzi tecnici espressivi tipici della ripresa filmata. Infatti, la sequenza filmica può dare un’efficace rilevanza emblematica all’Imago della psiche, sottolineando a mezzo di metafore tutte le sfaccettature esistenziali.
Sebbene, in qualche caso, la pazzia dei personaggi cinematografici sia stata “romanzata” per esigenze sceniche e di produzione, e il malato mentale sia stato “bloccato” in una specie di cannovaccio, tuttavia sono molte le pellicole che, non essendo incappate nello stucchevole cliché convenzionale, esprimono, anzi, in chiave psichiatrica, i variegati e conturbanti aspetti della follia.
La vasta produzione filmica che ha affrontato la tematica psichiatrica ha impresso un forte impulso culturale nelle masse, mettendo finalmente in crisi i luoghi comuni sulla follia.
Ma se la cinematografia ha utilizzato ampiamente il tema della follia, la psichiatria, a sua volta, da anni si serve sempre più dell’immagine registrata per focalizzare gli aspetti psichiatrici dei pazienti e documentare, attraverso l’osservazione del vissuto patologico, la ricerca e l’esperienza terapeutica.
Summary
From its first years, the movie industry has been interested in psychopathology since the complex themes of psychopathology were found to be well suited for the big screen. In order to portray mental illness, the movie industry has utilized all expressive means available to film making. A movie excerpt can easily use metaphors to underline the existential facets of the psyche.
In some movies, mental illness has been rendered in a “novel-like” fashion in order to accommodate technical and production needs, and therefore the person suffering from mental illness has been locked in a stereotypical role. However, there are many film stories that describe faithfully the various and perturbing aspects of mental illness without using tedious and conventional “cliches”. This large film production has helped the audience to understand psychiatric topics and has reassessed the ordinary view about mental illness. While the movie industry was utilizing psychiatric topics, psychiatrists have started to take advantage of the technological advances in video recording to document objectively psychopathology research and therapeutic settings.
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Saggio comparso in:
Formazione Psichiatrica, Anno XX, n° 3-4- Luglio-Dicembre 1999.
Giuseppe Paradiso
ARTE, CREATIVITÀ E FOLLIA
1) Premessa, 2) L’angoscia dei creativi, 3) I personaggi “matti” e la letteratura della follia, 4) La follia e le arti figurative, 5) La follia e la musica, 6) Gli inventori e la stravaganza, 7) Il suicidio dell’artista, 8) Conclusioni, 9) Sommario,10) Bibliografia
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1 Premessa
Nelle culture storiche primitive, coloro che dichiaravano di essere in comunicazione con l’aldilà, che “vedevano” gli spiriti e che dicevano di essere in contatto con forze sconosciute o che esternavano fabulazioni incomprensibili, erano considerati privilegiati e predestinati dagli dei. In ogni caso, i pensieri disturbanti che affollavano la loro mente, non erano affatto ritenuti sintomi di malattia. In passato, l’atteggiamento della collettività nei confronti di coloro che erano affetti da tali difficoltà psicopatologiche, alquanto frequenti, era dunque diverso da quello odierno. Innanzi tutto il fenomeno delle manifestazioni mentali relative alla follia, non venne ritenuto una infermità: gli stati di possessione, le psicosi e le autoipnosi venivano considerati inquietanti rituali magici che assolvevano alle più disparate funzioni, religiose o secolari e pertanto non erano classificati come malattie della mente; erano, semmai, ritenuti interventi “divini” e si supponeva che ciò che nasceva dal delirio fosse la pista privilegiata per arrivare alla verità.
I Giudei, al tempo del Nuovo Testamento, pensavano che i demoni entrassero dentro gli uomini e che questa fosse la causa dei disturbi epilettici, del sonnambulismo, delle esternazioni psicopatologiche e anche di malattie quali la cecità, il mutismo, etc.
L’atto di Gesù che guarì gli ossessi fu considerato un evento divino, e nessuno ipotizzò che si trattasse, visto il grande carisma del Nazareno, anche di un intervento psicoterapeutico. Un antico esempio di descrizione di stati psicopatologici si trova nel libro Primo di Samuele, che riferisce del re Saul in preda a stati psichici che la medicina odierna definirebbe nevrotici. Il primo re di Israele, colpito da quelli che la psichiatria contraddistingue come disturbi ossessivi, passa da atti di ossequio verso David a improvvise persecuzioni nei confronti del suo pupillo, essendo geloso di quel giovane che era tra i più amati del regno. Saul, alla fine, dopo essere stato sconfitto dai Filistei, in un impeto di rabbia, si suicida.
Si narra che Ippocrate curasse i malati di mente lasciandoli per una notte al centro del labirinto di Epidauro, l’antica città greca dedicata ad Asclepio medico dalle prodigiose arti di guaritore. Qui, dopo un’esperienza di crisi, dovuta anche al contatto con la divinità, molti di essi si liberavano, per una forma di catarsi abreativa, dei loro fantasmi mentali.
Uno dei libri più antichi di psicoterapia, è, senza averne l’aria, l’opera Le Tusculane di Cicerone. Il grande oratore romano, contro le sofferenze psicologiche, propone la “cura filosofica”: “Il metodo per guarire sia l’afflizione che le altre malattie dall’animo è far vedere che esse sono dovute tutte ad un’idea sbagliata. È appunto questo l’errore che la filosofia s’impegna ad estirpare” “Le malattie dell’anima sono prodotte tutte quante dalla mancata obbedienza alla ragione”.
Anche quando la follia fu ritenuta una malattia, si reputò che fosse dovuta a colpe morali, o a violazioni di divieti religiosi o sociali, oppure che si trattasse di una espiazione per azioni commesse dai malati o dai loro ascendenti. In passato, le malattie più temute erano la tubercolosi, la sifilide e, soprattutto, la lebbra; e solo quando, nel secolo XV, essa regredì, nei lebbrosari, ormai svuotati, vennero rinchiusi i poveri, i vagabondi, i delinquenti e le “teste pazze”, ritenuti tutti socialmente pericolosi. Infatti, secondo il Dörner, la personalità del folle era incompatibile con le nuove esigenze produttive, perché il modo di agire di chi era “fuori di testa”, del tutto libero da legami e da leggi, contrastava con la mentalità mercantile e borghese. Era quella una incompatibilità che, invece, non era stata mai riscontrata nella economia agraria e nella cultura medievale. Per tale motivo, dunque, la follia, a partire dal Quattrocento, prese la via dell’esclusione e dell’internamento; e quelli che, nel periodo medievale, avevano liberamente circolato per strada, in preda ai loro fantasmi, chiedendo l’elemosina, gridando, camminando nudi per strada, dal XV secolo in poi, a causa del profondo rigetto sociale adottato nei loro confronti, furono rinchiusi in affollate e fatiscenti strutture. Lo squilibrato venne emarginato ed esiliato, e, nelle ossessioni della gente, l’orrore della demenza prese il posto della paura della lebbra; sicché i matti furono trattati come i lebbrosi, e ciò soprattutto per nascondere il loro degrado psicologico e fisico. I lebbrosari divennero pertanto i serbatoi della demenza, e si popolarono anche di vagabondi, di mendicanti, di indigenti, di deformi; vi furono rinchiusi persino coloro che si occupavano di stregoneria, quelli che avevano tentato il suicidio, gli atei (dei quali si temeva il potere destabilizzante), i sifilitici e, ovviamente, anche gli alienati veri e propri. In quei “ricoveri”, non si praticavano terapie, e solo in qualche raro caso v’era una specie di “intervento etico”, perché la malattia mentale era accomunata al peccato. I manicomi allora divennero luogo di redenzione dei peccati e la degenza in quei posti rappresentò l’anticipazione della pena eterna.
A causa di tanta confusione nosografica, nei lebbrosari-manicomi venivano internati assieme agli individui che sragionavano, i malati di lue, gli omosessuali e gli “immorali”, perché restassero chiusi entro argini “sicuri”, allo stesso modo degli “eccentrici” che venivano messi in gattabuia e controllati con misure di polizia. Trattamento che in molti casi perdurò anche nell’età contemporanea.
La alienazione, nel tentativo di esorcizzarla e rimuoverla, venne anche derisa e beffeggiata; ma in ogni caso si trattò dell’approccio a un fenomeno complesso, anche perché non si poteva ignorare che l’insanità della mente non era, come la lebbra, solamente una malattia fisica: essa mostrava connotati esistenziali non riscontrati in altri malanni. E pur nondimeno, come per la lebbra, si cercò di scacciarla con rituali di purificazione, tant’è che spesso si andava al di là del consentito, e gli insensati venivano frustrati e malmenati, in molti casi, anche per divertimento pubblico. Inoltre venne in uso l’abitudine di affidare i matti ai marinai, che li caricavano nelle stive e li abbandonavano in isole deserte.
E così, quando nel Rinascimento non si poté più ignorare il fenomeno della malattia mentale, il folle divenne una figura ambigua, mostruosa, animalesca e delirante, insomma l’espressione della malvagità. E non solo le manifestazioni schizofreniche e quelle paranoiche, ma anche quelle che oggi chiameremmo nevrotiche, assunsero valenze conturbanti. I malati non furono più considerati, come prima, gli unti dal divino ed allora, persi i connotati che un tempo erano stati loro attribuiti, e che li avevano resi simili agli sciamani e ai veggenti, essi apparvero come creature degli inferi, come la quintessenza della vittoria del Male sul Bene.
Ma la dissennatezza, sebbene temuta, ha anche affascinato, ed attorno ad essa, si è sviluppata una nutrita letteratura: Tristano, spinto dalla passione per Isotta, diventa folle. Ofelia e Lorelai rappresentano altre sfaccettature della irragionevolezza e Orlando diviene furioso quando viene a conoscenza del tradimento della donna che egli ama.
Però, a volte, si prestava ascolto anche a chi delirava e così, gli “indiavolati”, e coloro che, per il loro stato mentale alterato e non più frenato dalle convenienze e dai nessi comuni, vivevano in libertà e senza ipocrisie, divennero protagonisti di emblematiche leggende popolari. La follia, se pur intesa come accecamento senza scampo, fu in qualche caso considerata anche distributrice di verità non più imbavagliate dalle convenzioni. Infatti, il comportamento balzano era ammirato perché andava contro corrente: il matto denunziava la fallacia di alcune credenze e mostrava quanto la vita fosse fatua e insensata. Lo stato mentale alterato, con la sua esperienza tragica, cosmica, cominciò dunque a minacciare alcune evidenze; le osservazioni bislacche del matto misero a nudo incongruenze e insensatezze, che la collettività aveva prima ritenuto modelli ragionevoli e fecero notare come gli uomini fossero deboli e meschini di fronte alla vita.
Il bisturi della demenzialità, mettendo dunque in evidenza le insensatezze della collettività, divenne indispensabile ausilio per comprendere meglio le sfaccettature dell’animo umano. Jean-Étienne Esquirol agli inizi dell’Ottocento affermava che la follia è la malattia della civilizzazione, gettando così, assieme alle basi della psichiatria, anche quelle per un collegamento tra questa patologia e alcune espressioni della cultura.
Con la nuova psichiatria (e soprattutto con Sigmund Freud) i sogni vennero considerati importanti strumenti di conoscenza e la mente delirante, con i suoi simboli inquietanti, venne accomunata alle manifestazioni oniriche. Lo studio dell’alterazione mentale ricevette un forte impulso e si intuì che pazzia e ragione possono avere punti di contatto, anche se con contorni molto sfumati, tanto che l’insensatezza può includere un’intrinseca ragione e la ragione può fondarsi su un pizzico di eccentricità. Si dovette ammettere che la normalità non ha una direzione unica, né un cammino sicuro: essa è incerta, problematica e si scoprì che spesso l’insensatezza regna sovrana, laddove, invece, dovrebbe essere il regno della cosiddetta “normalità.
Nell’Età contemporanea, grazie all’aggiornamento degli studi, deposti il disprezzo e la condanna del malato di mente, si è compreso che il matto riflette, amplificate e deformate, le immagini delle nostre passioni e che l’esperienza della confusione mentale si può trovare nei parametri della vita quotidiana. Angoscia e malinconia diventano allora polarità del vissuto, e sono sperimentazioni umane fondamentali. A quel punto la malattia psichica assume una posizione decisamente inquietante: e la posta in gioco è discernere l’origine, tra determinismo corporeo e dimensione filosofica, tra localizzazione cerebrale e matrice esistenziale; un intrigo che continua, purtroppo, a non essere ben chiaro e definito.
E a tal proposito, bisogna chiarire che, indicando un certo tipo di follia a volte presente nell’individuo creativo, non ci si riferisce, ovviamente, a quella condizione della malattia mentale che è del tutto arida e in cui la mente è spenta, piatta, improduttiva, a quello stato psichico che è senza sbocco di pensieri, che appiattisce e spegne l’individuo, ma a quella forma vivace d’esaltazione, dinamica, traboccante di giudizi e di pensieri (anche se fuori dalla realtà), di ideazioni inconsuete, ma dense di correlazioni, di osservazioni sofferte. Insomma, quel genere di follia che potrebbe, anche se impropriamente, essere definita “creativa” perché produce materiale mentale che non è irrilevante, che non è scarso d’interesse né è amorfo; anzi è stimolante perché induce a dare risalto ai segreti che si nascondono dietro gli interstizi della mente alterata, le cui logiche “illogiche” emergono da “voli mentali senza rete”.
E ci riferiamo alla follia di personalità reali come Strindberg, Van Gog, Schumann, Jean Genet, François Villon, ed altri geni, oltre che di personaggi immaginari come Don Chisciotte, Amleto, etc.
Henri F. Ellemberg chiama addirittura sindrome nevrotica creativa, quella che Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, definì melanconia leggera, “che partorisce le cose dolci”, e che sarebbe una spinta utile per arrivare alla buona produzione artistica. Xavier Francotte, sull’onda del romantico sturm und drang, intravide, per primo, correlazioni e legami tra genialità e sregolatezza. E Silvano Arieti ritiene che: “A volte l’artista riesce a produrre fantasie tali da uguagliare, quasi, il sognatore oppure è capace di “quelle orge di identificazione” tipiche degli schizofrenici”, e più oltre Arieti afferma ancora: “Nella psicopatologia, nella normalità come nella creatività, vi è la possibilità di ravvisare somiglianze e analogie”. Il trovare e l’esprimere concordanze strane e suggestive tra le cose, può essere semplicemente il frutto di scoperte creative o il sintomo di una ideazione paranoide.
Arieti prendendo ad esempio alcune poesie di Victor Hugo, sottolinea che il poeta, così come anche il malato mentale combina “sintesi imprevedibili” che non verrebbero in mente a nessuna persona “non creativa”. E a tal proposito mostra come Hugo rapporti, con paragoni suggestivi ma inconsueti, le stelle a fiori di una eterna estate, a gigli d’inverno, a gocce del sangue di Adamo, etc. etc.
Kay Redfiel Jamison sostiene che scrittori, artisti e musicisti sono più soggetti a disturbi dell’umore di altre persone. Inoltre Jamison afferma che negli artisti soggetti a disturbi maniaco depressivi si riscontrano cicli di alta creatività. In altri termini, in particolari soggetti dalle alte capacità cognitive, i disturbi dell’umore farebbero aumentare la produzione artistica. Infatti, sostiene Jamison, quando c’è depressione essa mette in dubbio, fa esitare, ma quando esplode la mania, essa fa reagire, con vigore e sicurezza, e crea atteggiamenti impetuosi spingendo l’artista alla creatività.
Ernst Kris, a sua volta, è del parere che l’arte non sia solo il prodotto dell’inconscio, e che l’artista utilizzi, per creare, processi che avrebbero luogo soprattutto nel preconscio, come la condensazione e la sostituzione.
Guido Morpurgo Tagliabue ha scritto un saggio dal titolo emblematico: La nevrosi austriaca (Kafka, Roth, Musil) che propone un inquietante dilemma sulla possibilità dell’esistenza di un’atmosfera nazionale nevrotizzante, che emerge soprattutto nei rappresentati più insigni di quella nazione. Il tema, del resto, fu intuito dallo stesso Freud. A complicare ancor più i nessi e la struttura della alienazione, la letteratura, il teatro, il cinema, la pittura e la musica l’hanno spesso “adottata”, trovandola di capitale importanza perché offre tematiche e spunti di grande rilievo. Secondo alcuni, addirittura, il rapporto tra psicopatologia e creatività potenzierebbe l’ispirazione, facendola uscire dalle maglie dell’accademismo e spingendola a librare verso nuovi percorsi.
Nelle arti figurative, la follia è rappresentata in modo consistente. Agli inizi del Novecento fece discutere il caso della “pittrice” Aloysia, donna di discreta cultura (la cui condizione mentale andò deteriorando fino a far diagnosticare per lei una demenza precoce), che visse quaranta anni in manicomio, ove realizzò opere che sono state esposte nei più importanti musei del mondo.
La follia, ammessa dunque nel regno della pittura, della poesia e delle meditazioni, della musica, ha trovato grandi spazi nelle tematiche della cultura moderna e contemporanea.
Miguel de Cervantes mostra come la vanità della vita possa essere messa a nudo proprio da personaggio come Don Chisciotte, grazie alla sua balordaggine, e alla sua esperienza vissuta in una dimensione chimerica. E il drammaturgo siciliano Luigi Pirandello sottolinea come la stravaganza dei suoi personaggi metta a nudo le ipocrisie e le insensatezze della società.
Chi può negare che il mondo non sia il luogo dell’irragionevolezza e dell’assurdo, piuttosto che del buon senso e della logica? Con questa presa di coscienza, i modelli convenzionali, le idolatrie, le violenze psicologiche e i rituali paranoici, vengono riconosciuti come espressioni di un mondo instabile e vacillante, in bilico tra il compromesso e l’intransigenza, tra l’altruismo e l’egoismo, la passionalità e la moderazione.
In molti casi, l’arte è diventata un deterrente contro l’espandersi dell’angoscia e della insensatezza della vita. L’efficacia terapeutica della pittura come quella della musica e della scrittura, è stata riconosciuta da tempo. Allora il connubio tra creatività e alienazione si è fatto sempre più intrigante. François Villon elemento psicopatologico, asociale, ma genio fenomenale, compose quasi tutte le sue opere rinchiuso in una galera-manicomio. Il drammaturgo francese Jean Genet, grazie alla passione letteraria, subì un positivo cambiamento: da criminale si trasformò in apprezzato poeta. Per Jean Jacques Rousseau, per Friedric Nietzsche, per Ezra Pound, e per tanti altri, il processo creativo divenne una barriera, una difesa dalla depressione, e, in alcuni casi, l’occasione per ristabilire coesione al proprio Sé. Il regista Alais Resnais guarì dalla propria malinconia con una serie di sedute analitiche ma, soprattutto, girando il film L’anno scorso a Mariembad. Ingmar Bergman confessò: “Ero depresso, mi trovavo in una situazione difficile, lontano dal mio paese, e girando Un mondo di marionette ho trovato un modo, una forma molto precisa per trasformare la mia sofferenza in qualcos’altro”. E anche Federico Fellini raccontò che, allorquando sentiva venire meno l’entusiasmo creativo, e gli si presentava l’uggia della vita, si sottoponeva a sedute analitiche. Quel genere di “medicina dell’anima” gli giovava a chiarire le proprie angosce, ma più d’ogni cosa, affermava il regista, gli ridava l’ardore creativo che lo stimolava a produrre nuovi film.
Woody Allen ha ammesso di essere di tanto in tanto depresso, ma ha pure affermato che, anche quando si sente giù, non smette di dedicarsi al proprio lavoro creativo: “È questo il modo migliore per rendere proficua l’ansia”.
Dalle opere di Edvard Munch e di Paul Klee, si possono rilevare la tensione psichica, i motivi ossessivi e l’angoscia che sono presenti nella loro vita. Henri Laborit, illustre scienziato e scrittore, è del parere che la “fuga nell’immaginazione” sia il modo migliore per allontanare l’angoscia. Secondo Laborit l’evasione più efficiente è la creatività. Coloro che meglio degli altri riescono a fronteggiare l’angoscia sono gli artisti e i grandi geni i quali, tuffandosi in un mondo tutto loro, posso essere indipendenti dalle convenzioni e liberarsi dalle afflizioni.
Ma anche i fruitori della creazione artistica, detto per inciso, ricevono dei vantaggi terapeutici immergendosi nella contemplazione dell’opera d’arte. Lo psicoanalista Charles Rycroft, rifacendosi anche ad una affermazione di Geraldine Pedersen-Krag, afferma che il grande interesse per le trame poliziesche potrebbe essere dovuto alla capacità che ha questo genere di racconto di ridestare, e nel contempo quietare, vecchie angosce e sensi di colpa, dovuti alla osservazione della scena primaria. Rycroft afferma che il lettore, tramite il detective, che rappresenterebbe simbolicamente la curiosità infantile, cerca di dominare l’antica esperienza traumatica, rivivendola attivamente e vincendola. In altri termini, chi scrive o chi legge romanzi polizieschi, troverebbe, dunque, un effetto catartico nei confronti della inconfessata ostilità verso i genitori.
Anche la musica può avere effetto liberatorio: Ludwig van Beethoven si è salvato dall’abisso della disperazione e dalla solitudine che gli procurava la sordità, creando opere immortali. Wolfgang Mozart nel 1790 cadde in una grave depressione ed ebbe un lungo periodo di disgusto, tanto che non riuscì più a scrivere quasi nulla. Per reagire all’apatia che lo stava uccidendo cominciò a lavorare al Quartetto per archi in re maggiore, K539. La creatività gli ridiede entusiasmo e lo salvò dalla disperazione. Un altro tipico esempio di purificazione creativa ci è dato dalla esperienza di Hector Berlioz, il cui carattere tumultuoso, passionale e tormentato, trasse consolazione nella musica. In una lettera al padre, Berlioz scrisse: “Ho trovato solo un modo per soddisfare completamente questa immensa brama d’emozione, e questo modo è la musica; senza di essa, sono certo, non potrei continuare a vivere”. Lo scrittore Graham Greene, soggetto a lunghi periodi di depressione, si chiedeva come potessero sfuggire alla alienazione, alla melanconia, e al timore panico coloro che non scrivono, che non dipingono, che non compongono. E il poeta Robert Lowell così s’espresse in una lirica: “Guarire è forse un’arte / o l’arte un modo per guarire”.
Purtroppo, però, non sempre il lavoro creativo ha potuto avere un ruolo nella guarigione: geni e artisti come Paul Gauguin, Pior Ciaikovskij, Vladimir Majakovskij, Cesare Pavese, Ernst Hemingway, e altri, dopo avere fronteggiato per anni col diversivo della creazione ansie e inquietudini esistenziali, alla fine, non potendo più addomesticare i loro impulsi e i loro pensieri perniciosi, sono precipitati nel baratro.
Molti esseri eccezionali sono incappati, come del resto accade a uomini e donne comuni, in drammatiche difficoltà psichiche. Il poeta Raymond Roussel è morto per una overdose di barbiturici. La penosa malattia mentale di Antonin Artaud, poeta, regista e attore francese, lo spinse alla morte.
Ma, a parte i casi estremi, l’arte stimola un processo di ri-creazione del proprio Sé, e trasforma il materiale inconscio da negativo in positivo. Secondo Melania Klein, l’arte, sublimazione simbolica e riparatoria, sarebbe il mezzo più articolato e soddisfacente per alleviare le sofferenze psicologiche. L’ispirazione dell’artista, si rifornisce nella cassaforte del rimosso, in quel mondo privo di legami reali, persino bislacco e del non senso, dal quale viene fuori la linfa genuina della creatività. L’arte, dice C.G. Jung, risultato di un processo di “pescaggio” interiore, rende disponibile, in forma letteraria, musicale, pittorica, l’inconscio collettivo più profondo. Il costrutto creativo emerge da un processo simile alle libere associazioni, e con esse, a volte, riappaiono i percorsi psicopatologici dell’inconscio.
Sebbene non esistano dati sicuri e incontrovertibili sulla connessione tra psicopatologia e creatività, si può ipotizzare che la creazione artistica sia un mezzo per fronteggiare l’afflizione della vita.
In fine, a volte, come nel caso del romanzo Il pazzo dell’armeno Raffi (Ediz. Agop Agopian 1835-88), la stravaganza è vista come salvaguardia sociale. Nel racconto, un volontario, Varda, spacciandosi per matto, riesce a sfuggire da Bayasit assediata dai Turchi, per raggiungere il generale zarista Dez-Gukassof e chiedere aiuto affinché la città venga liberata dall’assedio. E quanti, pur non essendo assediati da nemici reali, ma da conturbanti fatti della vita, non si “spacciano” per nevrotici, o addirittura per esaltati, per creare una barriera difensiva e protettiva contro le avversità della vita?
2 L’angoscia dei creativi
La maggior parte della gente crede che l’artista sia una persona avulsa dalla realtà quotidiana, svagata, e persino “fuori di testa”. Ma in realtà la creatività non necessita inevitabilmente della spinta psicopatologica; se ciò non fosse vero, bisognerebbe dimostrare come mai, molti geni, la cui vita interiore non è stata toccata dalla psicopatologia, abbiano raggiunto eccelse vette creative. Tuttavia, poiché un elemento importante della creatività è l’immaginare, il fantasticare, il sognare ad occhi aperti, o quanto meno lo sceverare problemi complessi, tutto questo può polarizzare molto l’attenzione degli individui creativi, facendoli sprofondare in pensieri, che, a causa della loro difficoltà, diventano totalizzanti.
E poiché il genio, osservando ciò di cui gli altri non si accorgono, non sempre è in sintonia con le stesse cose di cui s’interessa la gente comune, è visto come privo delle reali qualità pratiche, e dotato soltanto di un’attitudine a vagare con la fantasia e l’immaginazione. Eugenio Montale, in una intervista rilasciata a Ferdinando Camon, affermò che tutti i creativi, proprio perché tali, sono molto spesso in crisi esistenziale, ma ciò non inficerebbe minimamente la creatività: “Gli altri dicono che i poeti sono pazzi: io dico che pazzi sono i non poeti”. Ma, a parte il pensiero di Montale, non c’è dubbio che è sempre esistito il sospetto, e magari il mito, che l’individuo creativo sia, se non un po’ matto, quanto meno distolto dagli interessi quotidiani.
Si racconta infatti che l’assorto Einstein, poiché non badava al proprio aspetto, senza rendersene conto, si mostrò alcune volte in pubblico con scarpe di fogge e colori diversi l’una dall’altra. E il filosofo Arthur Schopenauer era così distratto che spesso, dopo essersi seduto a tavola, dimenticava di mangiare il pasto che gli era stato servito, e, in preda ai pensieri creativi, s’alzava, senza aver toccato cibo. Anche Isaac Newton pare fosse alquanto sventato, soprattutto quando era troppo assorto nei suoi pensieri, così come lo era Beethoven, il quale, vivendo spesso da solo a casa, combinava un sacco di guai nel proprio appartamento. Di Salvator Dalì si racconta che, senza avvedersene, un giorno uscì da casa in pigiama per recarsi all’inaugurazione di una sua mostra.
Tuttavia, se l’artista, s’interessa per lo più di ciò che maggiormente lo solletica intellettualmente, questo non significa che egli sia “fuori dal mondo”: è solamente impegnato in problemi diversi da quelli dell’uomo della strada. Tuttavia non si può escludere che l’ispirazione geniale sia a volte rinforzata dalla psicopatologia, come si può evincere da alcune biografie nelle quali appare chiaro che alcuni artisti sono infiammati da un furore creativo, totalizzante e a volte anche ossessivo.
Ma credere che vi sia un legame indispensabile tra esaltazione e creatività è un punto di vista forse troppo romantico: infatti, nell’Ottocento, si riteneva che la fonte più attiva dell’ispirazione fosse la sregolatezza; tuttavia è fuor di dubbio che i creativi “vedono” e “sentono” più in profondità, anche se lo sgomento del vivere è presente anche nelle altre persone.
Michelangelo, scrive il suo biografo Romain Rolland, fu preda del genio come nessuno mai. La sua “era una frenetica esaltazione, una vita formidabile racchiusa in un corpo e in un’anima troppo deboli per contenerla. Viveva in un continuo furore. La sofferenza di questo eccesso di forza lo gonfiava, lo costringeva ad agire, ad agire senza posa, senza un’ora di pace. Egli stesso scrisse che si sfiniva nel lavoro”. Questo morboso bisogno di creare costringeva Michelangelo ad accettare più ordinazioni di quante non ne potesse condurre a termine. Egli lavorava di giorno e di notte, quasi con disperazione e questa eccitazione degenerava in una vera e propria mania.
Sigmund Freud in un’analisi postuma della personalità di Leonardo da Vinci, e basandosi su un ricordo d’infanzia del grande artista, sul suo “mancinismo”, su alcune opere pittoriche, e su alcuni scritti dell’artista, ravvisò un rapporto edipico intenso tra Leonardo e la madre che avrebbe “disturbato” la serenità leonardesca. Il saggio freudiano non ebbe molta fortuna sia perché lo psichiatra viennese si basò su una traduzione errata del racconto del sogno di Leonardo, fatta da Marie Herfeld, sia perché le sue considerazioni finali apparvero romanzate e forzate piuttosto che scientifiche. Tuttavia, l’impegno posto da Freud nella ricerca della psicologia dell’artista pose le basi per indagini di questo tipo, cosa allora ancora poco consueta!
L’instabilità emotiva è una delle afflizioni che colpiscono la persona creativa. Il giurista ed economista milanese Cesare Beccaria, ritroso ed ipersensibile, era ipocondriaco e vedeva pericoli ovunque. Quando venne invitato a Parigi, per una serie di conferenze da tenere a proposito dei delitti e delle pene, a causa dell’improvviso isolamento in cui si venne a trovare nella capitale della Francia (egli era abituato a vivere in famiglia ed ebbe diverse crisi di panico dovute al vivere da solo) e forse anche a causa dello stress per il successo inaspettato, si creò in lui una vera e propria situazione di panico, che fece crollare il suo instabile equilibrio emotivo e lo indusse a fuggire via dalla capitale francese, abbandonando gli impegni per tornare nella quiete della casa. La sua decisione sollevò le ironie e i sarcasmi dei francesi che lo avevano invitato, la condanna del Verri per quella paurosa e meschina fuga e la disistima della stessa moglie, che riversò su di lui aspri rimbrotti.
Alessandro Manzoni fu sempre inquieto e malinconico, e lo dimostrò anche con una serie di malesseri ipocondriaci. Le sue fobie nevrotiche tra cui la paura di viaggiare, gli impedirono di raggiungere la figlia Matilde, che, morente lo supplicò di recarsi da lei per incontrarlo per l’ultima volta. Lo scrittore le assicurò che avrebbe pregato per lei ma non andò a trovarla, bloccato com’era da tutte le sue pastoie emotive. Manzoni era figlio di Giulia Beccaria e di Giovanni Verri, ma quest’ultimo non volle riconoscerlo e Alessandro ebbe un’infanzia solitaria e senza grandi affetti, cosa che certamente influì sul suo carattere alquanto depresso. Nello scrupoloso e circostanziato studio condotto da Vincenzo Rapisarda sulla psicologia del Manzoni, lo studioso individua nello scrittore “una organizzazione prenevrotica della personalità, con alcune fobie, peraltro quasi sempre controllate da meccanismi difensivi e da manovre controfobiche”, ma esclude che tale psicopatologia possa avere limitato, all’infuori di alcuni episodi, la normale vita di relazione e il comportamento sociale dell’autore dei Promessi Sposi.
Benvenuto Cellini fu invece paranoico, e tuttavia, chissà, forse quel disturbo lo rese ancor più creativo. Orafo, scultore e scrittore, egli fu singolare testimonianza di artista folle e orgogliosissimo. Megalomane ed egoista, Cellini, confuse spesso l’individualità con l’egotismo delirante, e si ritenne il “legislatore di se stesso”! “Conversando con Dio”, egli si convinse che il Padreterno lo avesse incoraggiato a “fare ciò che sentiva di fare”. Cioè, anche ad eliminare quelli che, a suo giudizio, riteneva fossero ostacoli alla piena realizzazione della sua arte. Cellini si spinse al punto di uccidere le persone che pensava fossero d’intralcio alla manifestazione del suo genio!
Il neuropsichiatra tedesco Ernst Kretschmer nel suo volume dedicato agli Uomini geniali afferma che, quando si sottrae all’uomo di genio il tratto psicopatologico, spesso non resta che un uomo qualunque. Questa considerazione, in passato, ha fatto scattare, in qualche artista che avrebbe avuto bisogno di una psicoterapia, il timore che, una volta guarito dai disturbi emotivi, avrebbe perso l’estro artistico.
Ma questa affermazione appare un pregiudizio superato: Umberto Saba, per esempio, confessò che “la guarigione” gli ridiede il calore interno che animò il meglio della sua poesia. Infatti la fine della nevrosi portò a Saba una maggiore sicurezza di sé, un nuovo amore per la vita e il risorgere dell’ispirazione. Scrive Michel David che in Saba si può osservare uno dei più notevoli esempi dell’utilità della psicoterapia su un artista. “Il poeta non ne fu ucciso, ma rinnovato in senso positivo”. David è anche del parere che “l’incontro con un buon psicoterapeuta avrebbe aiutato Pavese a vivere”.
Camille Claudel, sorella maggiore del poeta e drammaturgo francese Paul Claudel, pittrice e scultrice, allieva e amante di Auguste Rodin, visse gli ultimi trenta anni della sua vita in manicomio. Camille, nemica delle convenzioni, era uno spirito libero, anticonformista e mal si adattava alle ipocrisie della società del tempo. Questa formidabile personalità indipendente ha affascinato la fantasia di vari scrittori che ne hanno fatto un’eroina in varie opere, tra cui, l’ultima, quella di Dacia Maraini dal titolo Camille, che è un monologo inframmezzato da voci esterne, che rappresentano il punto critico tra normalità e delirio.
Camille Claudel visse gli anni del ricovero in solitudine, senza ricevere mai la visita della madre, con la quale era in rotta sin da quando era ragazza, né quella dell’indaffarato fratello, come ella racconta nel suo epistolario, nel quale è anche possibile seguire, passo passo, in un clima di rigetto claustrofobico delle convenzioni sociali, il trapasso mentale dalla normalità alla disperazione.
Lo scrittore Italo Svevo, anch’esso grande indagatore della psicologia umana, risolse le sue angosce, perché riuscì a sedare l’ipocondria, la claustrofobia, gli ossessivi complessi di colpa, di cui era afflitto, dopo una serie di colloqui “terapeutici” con l’amico Edoardo Weiss, padre della psicoanalisi italiana. La coscienza di Zeno, romanzo autobiografico, apre il capitolo dei romanzi psicoanalitici, e consente a Svevo di dare una interpretazione dell’uomo in crisi, nell’ambito di una fenomenologia patologica dell’Io-coscienza.
Flaubert nel suo Memorie di un pazzo, opera dal tono autobiografico, pone l’accento sull’afflizione provata dal protagonista per un mondo irragionevole e torbido. Il libro, ispirato a fatti realmente accaduti, è narrato come se Flaubert, mentre lo scriveva, seguisse le proprie crisi ciclotimiche, cioè attraverso esaltazioni e sconforti. L’autore, con auto ironia, definì questi stadi emotivi di cui soffriva “il grottesco triste della mia personalità”. Una tristezza che creava domande angosciose sull’infinito, sull’eternità, sull’essenza del male.
Anche Spleen, poesia di Charles Beaudelaire tratta dalla raccolta I fiori del male, descrive gli stati depressivi del suo autore. La parola spleen, in inglese, indica tristezza, disperazione e incapacità a mantenere un rapporto attivo col mondo. A questi stati d’animo, Beaudelaire dedicò varie liriche, tra cui Albatros, in cui il poeta espresse la sua estraneità esistenziale ad un mondo inospitale, con un distacco pari all’esilio dell’alienato che soffre il dramma dell’incomprensione. Però l’angoscia del vivere stimolò Baudelaire, che spesso si comportava da megalomane e narcisista, a vivere intensi e “allucinanti” episodi creativi.
Ludwig van Beethoven affermava di provare una sorta di pazzia che lo spingeva a creare e, se non riusciva a produrre, egli cadeva in depressione, balbettava, piangeva, e smaniava. Quello di Schumann è, poi, un vero caso patologico: egli “sentiva le voci interiori” che gli dettavano le note e i ritmi necessari per creare le composizioni musicali. Sua moglie Clara scrisse che il compositore a volte si svegliava durante la notte e sentiva le imprecazioni dei demoni che lo accusavano d’essere un peccatore e gli predicevano l’Inferno. Schumann sobbalzava e gridava impaurito affermando che “animali feroci” gli saltavano addosso e lo laceravano con i loro artigli. Anche Gaetano Donizzetti, a causa di una serie di sventure familiari, perse l’estro creativo, e, sebbene, in seguito, la vena gli sia tornata con La Figlia del reggimento, con Poliuto e con La favorita, i dispiaceri e lo stress per i parziali insuccessi di Don Sebastiano, di Caterina Cornato e de Il duca d’Alba, oltreché la non riuscita cura di una malattia che aveva contratta da tempo, la sifilide, affrettarono prima la sua paralisi e poi la sua demenza. Mali che gli fecero trascorrere, per un assurdo decreto prefettizio, un anno di segregazione presso una casa di salute di Ivry, fino a quando, per intervento di varie autorità politiche, gli fu concesso di tornare al paese natale, dove poco dopo morì. Era affetto da vari sintomi ossessivi compulsivi il critico d’arte e lessicografo inglese Samuel Johnson, il quale per molti anni della sua vita fu costretto, dalla sua malattia, ad eseguire dei lunghi rituali prima di poter essere libero di fare qualcosa di concreto nella sua giornata. A volte, il comportamento rituale si ripeteva quasi di continuo, in altri casi, invece, lo scrittore riusciva ad avere lunghi intervalli di quiete.
Precarie furono anche le condizioni mentali dello scrittore irlandese Jonathan Swift, uno degli spiriti più rappresentativi del XVIII secolo. Il moralista che beffeggiò le incongruenze umane finì i suoi giorni in preda a crisi ossessive: all’inizio era sembrata una defaillance della memoria, ma in seguito si rivelò una crisi maniacale con perdita dell’intelletto.
Nel poeta Jean Nicolas Arthur Rimbaud la severità educativa scatenò ribellioni spietate e istinti autodistruttivi. Arthur, sottoposto all’educazione ipocrita e sferzante della madre, donna severa, arcigna e incapace di vera tenerezza, considerò la famiglia l’annientamento di qualsiasi libertà. Sebbene assalito da paure ed ossessioni, Arthur a sedici anni, detestando la rigida educazione cattolica, sentendosi oppresso dall’ambiente borghese, che riteneva stupido e meschino, esplose in una furiosa rabbia che gli fece rifiutare ogni regola. Contro la religione, che considerava la peggiore manifestazione della ipocrisia, Rimbaud scrisse parole durissime. Alla fine, colto da profondo disorientamento, fuggì a Parigi e andò ad abitare a casa di Paul Verlaine. Ma nemmeno lontano da casa Rimbaud riuscì a cancellare il suo devastante passato. E sebbene non abbia accettato mai più le regole che gli erano state imposte, e malgrado fosse vissuto fuori dagli schemi della odiata borghesia, Arthur non riuscì ad affrancarsi del tutto dalla società che egli detestava. E così, dopo essere vissuto in Somalia, ad Aden, in Abissinia e nel Sudan, ancora vittima della schiavitù della madre e malato di cancro, ritornò drammaticamente a casa. Al pari dell’amico Rimbaud, l’altro poeta “maledetto”, Paul Verlaine visse in modo disordinato, nevrotico, da alcolizzato e da barbone.
Lo scrittore Hermann Melville soffriva di violenti sbalzi d’umore e passava da momenti di grande socializzazione a episodi di morbosa chiusura in se stesso, durante i quali non riusciva a lavorare, ossessionato dalla paura della morte e in preda al più cupo pessimismo. Konrand Lorenz raccontò che, quando era costretto a deviare le sue abitudini, manifestava un senso d’insicurezza e un palese nervosismo. Infatti confessò che, per esempio, se dopo avere percorso per un certo numero di giorni e in modo regolare le stesse strade per fare un certo tragitto, era costretto a prendere un altro itinerario, per arrivare allo stesso posto, provava un senso di ansietà.
Il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge, genio precocissimo (si dice che a quattro anni avesse già letto, e con profitto, Le Mille e una notte ) considerato un prodigio di scienza e di filosofia, era affetto da malinconia ciclica e da stati visionari, che invano cercò di curare con l’oppio. Su figlio Hartley, anch’egli poeta, animo trasognato e decadente, si diede pure lui al bere, e visse gli ultimi anni della sua esistenza passando dalla depressione all’ubriachezza. Percy Bysshe Shelly, le cui idee di libertà ne fecero un esempio luminoso contro le banali convenzioni e un modello di avversione nei confronti di ogni dispotismo, era conosciuto come il poeta combattente perché partecipò, tra il 1820 e il 1821 a vari moti rivoluzionari. Ma Shelley fu tormentato tutta la vita da visioni, da attacchi isterici, e, molto probabilmente, anche da transitori deliri.
Pur non ipotizzando che coloro che sono dotati di qualità artistiche eccezionali hanno una maggiore incidenza di problemi psichici della massa, bisogna constatare che nel furore creativo degli artisti a volte si intravede la psicopatologia. Kafka soffrì disagi psicologici e difficoltà relazionali. Proust sopportò gravi angosce e preoccupazioni ipocondriache. La depressione assalì a più riprese sia Masaccio che Gauguin.
All’eccentricità molto vicina alla patologia non sono sfuggiti illustri spiriti come i poeti John Keats, George Gordon Byron e Heinrich Heine; come le scrittrici Florence Nightingale, Elizabeth Browning, Victoria Sackville-West, Annemarie Schwarzenbach; storici quali Michel Foucault ed Henri Pirenne, scrittori come Walter Scott , Robert Burns, Walt Witmann, musicisti come Gustave Malher, Cole Porter, tanto per citare alcuni esempi nel mare magnum della stravaganza delle personalità geniali.
Il poeta boemo Rainer Maria Rilke, che diede una svolta profonda nel gusto letterario del suo tempo, visse sul limite del baratro schizofrenico. E particolare fu anche l’esperienza del poeta francese Henri Michaux, che, abbandonati gli studi di medicina, s’imbarcò in un cargo e s’adattò a fare anche umili mestieri, con l’unico scopo di vivere una vita diversa dalla solita monotonia “borghese” e tirare fuori il proprio estro poetico. Ma la poesia non lo appagò, e Michaux cercò di esplorare fino in fondo il rapporto che c’era tra ciò che gli pulsava dentro e la l’alterazione mentale. Così egli, con l’assunzione controllata di allucinogeni, si procurò “turbamenti sorvegliati”, “per scoprire i sintomi profondi della psicosi” che, era convinto, fosse in lui, come in ogni altra persona creativa.
Michaux credette di riconoscere dentro di sé i sintomi del disturbo mentale dopo avere ingerito fortuitamente una dose di mescalina, e si convinse che ogni individuo possiede dentro di sé i pericolosi percorsi del delirio, basta solo sollecitarli. In seguito Michaux sperimentò, assumendo sperimentalmente quella sostanza allucinogena, tutta la gamma delle sensazioni che fanno parte del mondo della squilibrio mentale e, da personalità altamente creativa qual era, lavorò al suo progetto fino ad ottantaquattro anni compiuti, redigendo di volta in volta le sue varie scoperte nel campo del pensiero psicotico.
Nelle sue Memorie di un neuropatico, il presidente di Corte d’Appello di Dresda in pensione, Daniel Paul Schreber, sebbene malato di mente, poté narrare i deliri paranoici che lo affliggevano, raccontando, con dovizia di particolari, l’insorgere e il progredire del suo male. L’opera che Schreber pubblicò a proprie spese nel 1903 fu segnalata da Jung a Freud nel 1910 e indusse lo psichiatra viennese a studiare il caso analiticamente, riportando le osservazioni a proposito della malattia di Schreber in un famoso lavoro sulla paranoia. Freud ritenne che Schreber, malgrado fosse tanto malato, avesse una personalità di alto livello spirituale, e che fosse un intelletto insolitamente acuto e capace di finissime osservazioni psicopatologiche; insomma, secondo il padre della psicoanalisi, nella personalità di Schreber, convivevano senza intralciarsi lo scrittore e il paranoico.
Nella raccolta di racconti dal titolo Kleisleriana, di Ernst T. A. Hoffmann, lo scrittore, musicista e poeta tedesco che visse suggestionato da fenomeni telepatici, convinto di essere in grado di operare lo sdoppiamento del proprio Io, e di potere autoipnotizzarsi, rievoca immaginazioni raccapriccianti e cupe fantasie. Dando vita a paurosi e grotteschi fantasmi, il narratore trasforma l’esistenza in uno smarrimento e in una afflizione continua, in un perenne terrore di perdere la ragione. Nei racconti citati, l’angoscia diventa rapimento estatico, esaltazione profonda dell’animo umano e da questa esplosione evocativa, emergono i motivi centrali da cui era ossessionato Hoffmann: la telepatia, lo sdoppiamento psichico e gli stati patologici della psiche, temi che egli descrisse con l’intento di terrificare i lettori. L’effetto è originale, ma lo psichiatra che avesse potuto analizzare Hoffmann, avrebbe certamente diagnosticato in quelle fantasmagorie spettrali, i segnali inquietanti di un animo turbato. E Hoffmann insisté sul tema dello smarrimento della ragione anche in un’altra opera, Il mago Sabbiolino, in cui descrive le turbe mentali del protagonista innamorato di una bambola meccanica.
Lo scrittore austriaco Joseph Roth, fortunato autore di molti successi come La leggenda del santo bevitore, La marcia di Radetzky, Hotel Savoy e Fuga senza fine, finì i suoi giorni di clochard, suicida a Parigi. Il suo fu quasi un destino di famiglia: il padre di Roth, era morto alcolizzato in un ospedale psichiatrico.
Joseph Roth era nato in Galizia e sin da ragazzo si rivelò subito come uno spirito depressivo, misticheggiante e mitomaniaco, tant’è che nei suoi libri e nella sua vita egli esibì la progressiva sconfitta dell’uomo davanti all’esistenza. Herman Kesten, nella biografia dello scrittore, lo ricorda, ormai ridotto un barbone, vagare per Parigi in preda all’alcol.
Figura inquietante e singolare fu anche quella del poeta portoghese Fernando Pessoa, la cui personalità anzi, le cui personalità, sia letterarie che psicologiche, furono molteplici, quasi a indicare una scissione dell’Io (il poeta fu anche ricoverato in una clinica per qualche tempo per una crisi depressiva).
Ad ogni libro che scrisse, Pessoa si attribuì un diverso pseudonimo, come a voler significare che era stata una sezione della sua personalità ad aver creato quell’opera. E, cosa ancor più singolare, che mostra non solo la molteplicità della personalità artistica del poeta, ma anche, in qualche modo, il frantumarsi dell’uomo reale in tante personalità diverse, Pessoa redasse, per la presentazione di ognuna dei suoi lavori, una biografia distinta ed indipendente del fittizio autore, a volte del tutto diversa e in contrasto con le altre. Poiché la produzione del poeta portoghese vide la luce quasi tutta postuma, la sua decisione di scindere i diversi aspetti della propria personalità d’autore sotto nomi fittizi, fece credere che le varie opere alle quali Pessoa attribuì nomi di autori presi dalla fantasia (Alvaro de Campos, Alberto Caerio, Bernardo Soares, Riccardo Reis, Antonio Pacheco), fossero davvero da attribuire ad altrettante persone reali, e solo in seguito si seppe che erano “proiezioni” psicologiche di uno stesso scrittore.
Karl Jaspers in uno studio condotto sulla personalità e le opere del drammaturgo Johan A. Strindberg, le cui opere (come nel caso de Il gioco del sogno e Tempesta) privilegiano l’immaginario e gli aspetti più sconnessi della vita, al posto del reale e della logica, descrive lo scrittore svedese, come ipersensibile, timoroso di sbagliare, particolarmente vulnerabile alle pressioni esterne, e affetto da un “Io” malfermo, e predisposto alla teatralità.
Johan August Strindberg soffriva di somatizzazioni allo stomaco, aveva insonnia accentuata e, ciò che più conta, era affetto da deliri di persecuzione, per cui si delineò, nei suoi confronti, una diagnosi di schizofrenia. Il rapporto del drammaturgo svedese con le donne fu problematico e ambiguo, come testimonia uno degli scritti che compongono la sua autobiografia in cui descrive la deleteria e contrastata relazione con la prima moglie, la baronessa Siri von Essen ; eppure, malgrado le sue esperienze deliranti, le sue allucinazioni, quando Strindberg creava non perse mai il senso critico e rimase sempre autore di altissima qualità drammatica. E così, sebbene questi sintomi inquietanti facessero parte indissolubile del suo universo mentale, Strindberg fu un apprezzato drammaturgo e un letterato di primo piano. E ciò fu dovuto al fatto che, malgrado tutto, lo scrittore svedese non perse mai la facoltà di riflettere, e a dispetto dei suoi sintomi spettacolari, la sua personalità non rimase né isolata, né avulsa dal mondo, né separata dal reale.
Umberto Galimberti, riferendosi proprio allo scrittore svedese, afferma che bisognerebbe rivedere l’opinione secondo cui la malattia mentale rappresenta solo il disfacimento emotivo e psicologico. Del resto, un pizzico di follia, afferma Galimberti, probabilmente, si trova anche nell’uomo comune. Di ciò è convinta anche la scrittrice Mary McCarthy, che fa dire a un personaggio del suo romanzo Il Gruppo: “Tutti i neurotici sono piccoli borghesi. E viceversa. La pazzia è troppo rivoluzionaria per loro. Non sono capaci di arrivare fino in fondo. Noi pazzi siamo gli aristocratici delle malattie mentali”.
Karl Jaspers s’interrogò sulla possibilità, che arte e sregolatezza, in alcuni casi, avessero un percorso parallelo. Quando egli analizzò le opere e la personalità del filosofo Emanuele Swedenborg trovò che, sebbene quell’autore avesse reagito al clima in cui era vissuto, era rimasto in bilico tra empirismo e misticismo. Questa sua complessa e tormentata esistenza fu la molla che mise in moto la creatività ma anche la malattia mentale del filosofo svedese.
Swedenborg, quando era stato oramai riconosciuto come scienziato di rango, cominciò ad avere visioni. Agli inizi, egli ritenne che questi disturbi fossero “una estrosa esperienza”, e ne parlò anche in pubblico; ma, accortosi ben presto che il suo stato mentale destava sospetti, divenne cauto, “per evitare di essere considerato matto”. Il filosofo affidò ai suoi diari le descrizioni suggestive delle “visioni” e della allucinazioni che “lo portavano verso l’Infinito”. Alla fine, in cerca di pace, Swedenborg, si chiuse in se stesso e consacrò la sua vita alla teosofia e alla religione.
Il musicista Michail Ivanovic Glinka, che con tanto entusiasmo diede vita alla corrente orientale della musica russa e cercò di riformare il canto ecclesiastico russo, quando si sentì profondamente amareggiato dall’incomprensione dei suoi compatrioti, cadde in depressione. A causa della sfiducia che s’era impadronita di lui, per anni non compose più nulla, e solo verso la fine della sua vita tornò in qualche modo ad essere creativo.
In preda a incubi e visioni fu spesso anche Edgard Allan Poe. Lo scrittore americano visse un’esistenza disordinata, dedito all’ubriachezza e ad insensate avventure economiche che lo mandarono sul lastrico. Poe alternava periodi di delirante perdita della ragione a stati di lucidità. E se tale genere di vita non può essere definita esemplare, fu forse proprio questo disordine, questo vagabondaggio psicologico, questa mancanza del senso delle radici che fecero maturare in Poe un modo di narrare nuovo che aprì inedite prospettive nella letteratura americana. Scrisse Poe ad un amico: ” Mi hanno definito pazzo, ma non è ancora risolto il problema se la follia sia o meno la forma più elevata di intelligenza, se molto di ciò che è illustre, se tutto ciò che è profondo, non sgorghi da una malattia del pensiero, da atteggiamenti della mente esaltati a spese dell’intelletto generale”. Poe, considerato il padre di quel genere narrativo del terrore che verrà chiamato “giallo”, per ironia della sorte, come accadeva ai protagonisti nei suoi romanzi, fu trovato moribondo in una strada di Baltimora.
Altra vicenda amara fu quella che travolse l’autore de Il giardino dei Finzi-Contini. Dalla moglie e dai figli di Giorgio Bassani fu chiesta l’interdizione dello scrittore perché gli fu diagnosticata una demenza progressiva. Ma se, sul principio, questa vicenda ebbe il sapore di una querelle familiare dovuta a contrasti patrimoniali, in seguito, Bassani, uno dei migliori scrittori italiani del dopoguerra, fu sempre più “fuori di testa”, tanto che, pare, non riuscisse a riconoscere e a ricordare nulla del suo passato.
Una vicenda a cavallo tra il giallo e la manifestazione di squilibrio è quella che vide protagonista il filosofo e scrittore Louis Althusser, pensatore conosciuto in tutto il mondo e quasi un mito nella Francia del Novecento. Althusser ebbe una gioventù travagliata; fu oppresso dalla madre, subì una serie di ricoveri psichiatrici causati anche dagli eventi bellici e da traumi esistenziali. A trent’anni conobbe e sposò la vivace Hélène, che, affetta da gravi turbe emotive, era però di intelligenza spumeggiante. La donna avviò lo scrittore al sesso, all’ateismo, alla politica e alla libertà di pensiero. Althusser in una delle “consuete sedute in cui praticava alla donna la fisioterapia”, mentre massaggiava il collo della moglie, che giaceva mollemente a letto, non s’accorse che ella aveva ormai gli occhi fissi e la lingua uscita tra le labbra. Quando s’accorse di ciò che era accaduto, Louis inorridito balbettò in preda alla disperazione: “Ho strangolato Hélène?!”.
Dopo essere stato arrestato, il filosofo, che era in stato confusionale, venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Ma quell’uxoricidio rimase un gesto di stampo pirandelliano: in realtà, difatti, non si poté mai appurare se si fosse trattato di una disgrazia o di omicidio intenzionale o preterintenzionale.
Per parte sua, Althusser dichiarò che non poteva escludere nessuna ipotesi perché, disse, in quel frangente, la sua mente aveva avuto un vuoto, uno smarrimento o, forse, una distrazione. In seguito, la creatività, che era in lui, rimase sempre fervida, lo aiutò a venire fuori dalla depressione causata da quella tragedia.
Un altro famoso scrittore, l’americano William Burroughs, si trovò coinvolto in una vicenda altrettanto inquietante, anche se forse, più paradossale. Il romanziere, che era spesso affetto da crisi depressive, cercava di attenuare la propria angoscia accompagnandosi a giovani efebi. A volte, per fronteggiare la disperazione, s’imbottiva di droga. Nel 1951 un evento tragico segnò la sua vita: egli uccise con un colpo di pistola la moglie Joan Vollmer alla presenza del figlioletto. Burroughs sostenne però che s’era trattato d’un incidente. Egli affermò, infatti, che stava “giocando”, come aveva fatto altre volte, al Guglielmo Tell, e che, mentre puntava l’arma contro la donna, era partito un colpo accidentalmente. Come nei libri di Burroughs s’incontrano personaggi allucinati, anche quell’incidente sembrò una delle strambe storie narrate dallo scrittore. William Burroughs venne processato ed espulso dal Messico; ma lo psicologo H. F. Heyson, nominato dal Tribunale, aveva invece proposto che lo scrittore fosse ricoverato in manicomio. In seguito, Burroughs, dopo essersi stabilito a Tangeri, scrisse i suoi libri migliori: La scimmia sulla schiena e Il pasto nudo. Lo scrittore confessò che aveva lavorato freneticamente ai suoi romanzi per “dimenticare” ciò che era accaduto a Città del Messico.
La serie degli autori che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con crisi psichiche è molto nutrita. Tutto il pane del mondo è la cronaca di una vita passata tra l’anoressia e la bulimia. L’autrice, del romanzo, Fabiola De Clerq, ha vissuto sia l’una che l’altra patologia, ed ha scritto con minuzia di particolari la cronaca della sua malattia. Il libro è diventato uno dei più sconcertanti documenti sul caso ed un prezioso aiuto per quanti vivono o hanno vissuto tale esperienza o convivono con persone affette da questa patologia.
Anche La Matta è un romanzo frutto di esperienza personale: l’autrice, la statunitense Joyce MacIver, descrive l’esistenza di una giovane incapace di controllare i propri impulsi e di proteggere il proprio corpo. Il libro è l’amara autobiografia, in forma di diario intimo, di una donna condannata a diventare vittima di uomini brutali. L’autrice confessa che nel romanzo La Matta sono descritti i sette anni più difficili della sua vita. Ed inoltre, nella protagonista del romanzo, la MacIver ha compendiato tutte le donne che finiscono per diventare matte a causa degli stress procurati da un mondo crudele e senza amore.
Sulla medesima lunghezza d’onda, è Viaggio attraverso la follia che Mary Barnes ha scritto con l’aiuto di un giovane psichiatra, Joseph Berke. Nel libro è raccontato il doloroso cammino di una quarantenne che cerca di recuperare la propria “ratio” e di uscire dall’inferno dell’alienazione.
Karl Jaspers ipotizzò che da alcuni disturbi mentali, possono nascere opere incomparabili “così come una perla nasce dal difetto di una conchiglia”. Secondo quel filosofo- psichiatra la esaltazione psichica non solo non intacca la creatività ma non appanna nemmeno il giudizio critico indispensabile per portare avanti un’opera d’arte. A sostegno di questa tesi Jaspers afferma che il decorso della malattia mentale di Van Gogh corrisponde ai vari cambiamenti dell’intensità e dello stile creativo del pittore. Van Gogh, sempre a parere del filosofo tedesco, rimase critico ed obbiettivo anche durante i periodi più gravi della sua patologia, il che farebbe supporre, che, malgrado la malattia, gli sia rimasto un permanente equilibrio nell’apprezzamento della propria creatività.
Uno dei massimi geni della danza del primo Novecento, Vaslav Nijinsky, grande ballerino e coreografo, ha scritto pagine sconvolgenti nel proprio diario. All’opera Nijnsky affidò il suo ultimo urlo creativo, prima di precipitare nel delirio. Nijnsky, grande interprete e ideatore di balletti, realizzati in modo leggendario, come Sacre du Printemps e L’après midi d’un faune, nelle pagine del suo Diario, confessò di sentire delle voci, di dialogare con esse, di provare strane sensazioni extracorporee, e di percepire come se il proprio Io “andasse in pezzi”.
Il “caso” Nijinsky, la sua lucidità artistica e la sua esaltazione appassionarono i più grandi psichiatri del tempo, da Binswanger ad Adler, da Bleuer (il quale gli diagnostico la schizofrenia), a Sigmund Freud che studiò attentamente il caso. Questo genio della danza, che interpretò magistralmente Spectre de la rose, il Fauno, il burattino di Petrushka, per anni si nascose dietro quei personaggi sperando che con quella trasfigurazione emotiva potesse raggiungere la catarsi; ma egli purtroppo tentò invano di sfuggire e di evadere dalla banalità del quotidiano e dai guai personali. Dopo la disperazione per la rottura col suo grande amore, il giovane Sergej Djaghilev, il ballerino cercò un poco di pace sposando Romola de Pulszky, donna intelligente e comprensiva che seppe prendersi cura di lui per tutta la vita. Ma, come scrisse in proposito C. G. Jung, che conosceva la vicenda del ballerino, l’esaltante esperienza umana e artistica di Nijinsky era troppo grande per essere fronteggiata dalla carente preparazione culturale, e dalla fragile conformazione psichica dell’artista, sicché, alla fine, Nijinsky “andò in mille pezzi come un vaso”. La vita di Nijinky ripropose dunque il dibattito sul rapporto tra la malattia mentale e la creatività. E a proposito della vita del ballerino russo, Jung si chiese: “Si può chiamare questa una malattia? È una domanda alla quale mi guarderei bene di rispondere”. Jung era inoltre del parere che la follia non sia una necessità indispensabile per la produzione artistica; egli riteneva che, tutto al più, un pizzico di esaltazione possa diventare, in qualche caso, elemento propulsore o deflagrante, ma non per questo essa è la condizione essenziale dell’opera d’arte.
Del resto, ogni persona creativa, ogni artista, proprio perché più sensibile, più attento e più concentrato in una intensa attività intellettuale, possiede come un sismografo emotivo molto reattivo e, forse anche più fragile della media, per cui ha un grado di sopportazione limitata e proprio per tale motivo è soggetto a dubbi, stati d’animo, ossessioni, angosce ed egoismi smodati, che rientrano anche nel quadro della psicopatologia.
Emblematica è pure la “confessione” di Roland D. Laing, il grande psichiatra scozzese, colui che diede una svolta alla psichiatria contemporanea, il quale racconta che sin da ragazzo era affetto da un’asma psicosomatica, disturbo che gli rimase anche quando divenne una celebrità. “Le conferenze mi terrorizzavano: me la facevo addosso, cominciavo a tremare, mi andava via la voce, perdevo il filo di quello che stavo cercando di dire, mi prendeva un attacco d’asma sul palco”.
Una grave crisi psichico-esistenziale coinvolse la scrittrice Agata Christie che, dopo un forte stress, causatole da una vicenda personale, scomparve per diversi giorni, senza dare notizie di sé. La polizia la trovò che vagava in stato confusionale in un viale dei giardini pubblici e la riaccompagnò a casa, ma la scrittrice non seppe dire mai dov’era stata in quei giorni e cosa avesse fatto in tutto quel tempo.
Altro esempio di crisi esistenziale e depressiva è quella della scrittrice Margaret Drabble, autrice di vari romanzi, la quale ha dichiarato di avere ereditato in pieno “la grave malinconia materna”. Infatti, sua madre, laureata a Cambridge e ottima studiosa, quando subì il divieto di salire in cattedra, che allora vigeva per le donne sposate, addolorata per l’assurdo spreco del proprio talento, finì i suoi giorni in una tetra depressione. Inoltre, Margaret Drabble è stata protagonista assieme alla sorella, anch’essa scrittrice e conosciuta con lo pseudonimo artistico di Antonia Byatt, di una lunga querelle di gelosie, di rivalità e di invidie causate dal fatto che entrambe fanno lo stesso mestiere, e tutto questo, a suo dire, l’avrebbe reso ancor più pessimista e sfiduciata.
In quanto al romanziere Rudolf Ditzen, conosciuto con lo pseudonimo di Hans Fallada, egli ebbe una gioventù rattristata dal senso di colpa causatogli dall’avere ferito gravemente a duello un compagno di studi. Quel dolore spinse Hans a tentare il suicidio e, in seguito, peggiorate ancor più le sue condizioni, venne ricoverato in una clinica per malattie nervose. Da quella situazione esistenziale così compromessa, lo scrittore venne fuori, oltre che con cure appropriate, anche grazie all’aiuto di una donna, Anna Lorten che, come egli affermò, “aveva ridato la speranza ad un uomo che era senza più speranza”.
Alcune coppie di artisti famosi, come quelle formate da Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, da Pitigrilli e Amalia Guglieminetti, dalla poetessa Sylvia Plath e dal marito Ted Hughes, della scrittrice Iris Murdoch e dal critico John Bayley, e quella omosessuale costituita da Vita Sackville e Virgina Woolf, sono state una mistura esplosiva perché, essendo rappresentate da personalità molto creative, nessuno dei partner che componeva il ménage accettò mai alcuna intrusione nel proprio lavoro, nemmeno da parte del compagno o della compagna. Molte di queste coppie vissero la loro unione disturbata dall’invidia, dal rancore e dalla stizza per la reciproca concorrenza artistica, ed hanno posto fine, in un modo o nell’altro, burrascosamente alla loro relazione.
La vicenda Scarfoglio-Serao si trasferì, tra diatribe e rancori, in tribunale, e così pure la burrascosa unione Pitigrilli-Guglielminetti, ma in questo caso, la poetessa finì, per qualche tempo, in manicomio. La coppia Sackville-Woolf, ebbe un tragico epilogo col suicidio di Virgina. E stessa fine si diede la Plath. In quanto ad Iris Murdoch, splendida artista ma impietosamente contrastata dal marito, la sua mente si perse definitivamente nelle nebbie dell’Arzheimer.
Ma la coppia più folle fu quella formata dai coniugi Francis Scott Fitzgerald e dalla moglie Zelda Sayre, entrambi dotati di quel genere di carattere che Freud definì fallico-narcisista, cioè egocentrico, plateale, sempre in cerca di notorietà e continuamente proteso ad attrarre l’attenzione della gente con qualsiasi mezzo. Con un simile programma di vita, era inevitabile che i due corrodessero in breve le loro esistenze, tanto più che entrambi erano dediti all’alcol. Francis e Zelda vissero la loro breve stagione artistica e umana in un radicale anticonformismo, in un’atmosfera anticonvenzionale ma nel contempo apertamente autodistruttiva. E così, malgrado i grandi successi letterari, dopo anni di sperperi economici, vissuti nel lusso e tra una sbornia e l’altra, le personalità dei coniugi Fitzgerald arrivarono ad uno stato di quasi totale disintegrazione. Francis era in continua lotta col l’alcolismo e Zelda, la più debole dei due, finì definitivamente in una clinica per malattie mentali. Lo scrittore che era stato il simbolo dell’età del jazz, e che, all’uscita del suo primo romanzo, aveva venduto 40.000 copie in un paio di settimane, morì in povertà a soli 44 anni.
Nevrotico e tormentato fu anche Thomas Mann. Egli approfittò sfacciatamente della signora Mayer, moglie di un industriale americano e sua grande ammiratrice, la quale, affascinata dalle sue opere, lo adorava. Mann si mostrò interessato alla Mayer quel tanto che bastava per ottenere l’aiuto finanziario che ella non gli negò mai. Ma il romanziere tedesco non confessò mai all’amica la propria omosessualità, motivo per cui non volle mai incontrarla. Infatti, Mann era terrorizzato che si venisse a conoscere la sua particolarità sessuale, e paventando questo, aveva non poche angosce. All’amica, Mann, propinò la romantica idea di un’amicizia escusivamente epistolare, senza un incontro fisico tra loro, “perché ciò rendeva più puro il rapporto”.
La Mayer, lusingata di tanta “finezza d’animo”, accettò la condizione imposta dall’amico, e, ignara dei veri motivi che avessero spinto il suo idolo a fare quella scelta, non chiese mai di incontrarlo.
Cecil Todes, un medico sudafricano, psicanalista allievo di Anna Freud, che esercitava in Inghilterra, colpito a 39 anni dal morbo di Parkinson, ha raccolto in un volume le sue esperienze psichiche. L’avere annotato con cura il decorso della malattia, scrivendo quotidianamente tutte le sue sensazioni di malato, è stata la forza propulsiva e creativa che gli ha consentito di fronteggiare quel grave problema.
Bisogna allora interrogarsi se la malattia mentale in qualche caso non divenga motore inconsapevole della creatività e spinga la mente ad espandersi oltre i confini nei quali, la persona “normale” non s’addentra. Wilhelm Reich si spinse oltre i confini della scienza con le sue sperimentazioni. Egli annunziò, partendo dalla sua forse un po’ troppo bislacca teoria dei bioni di avere scoperto un metodo per assorbire le “radiazioni cosmiche”, che impiegava sui suoi pazienti. Questa affermazione fece scattare un’indagine da parte del tribunale. Reich rifiutò con disprezzo qualsiasi ingerenza della Corte nel suo operato, e venne condannato a due anni. Finì i suoi giorni in carcere.
Girl interrupted è un libro autobiografico, interessantissimo, scritto da Susanna Kaysen, che fu un best-seller, e che rievoca il periodo trascorso dall’autrice, appena diciassettenne, in una clinica psichiatrica dopo un tentativo di suicidio. Il libro narra fatti che accaddero intorno agli anni della contestazione giovanile (1967-69 circa), epoca di inquietudini, di incertezze esistenziali, di confusioni di ruoli e di ricerca dei diritti e delle libertà della persona, in cui una giovane, l’autrice, travolta dalle incertezze sulla propria identità e in dubbio su ciò che è la vita, finisce col ritenersi davvero matta e si fa internare, per poter ritrovare se stessa. Susanna è un test interessante perché descrive mirabilmente l’esperienza delirante, con introspezioni e riflessioni geniali, a volte anche autoironiche.
Ed allora, analizzando tante opere esemplari, ci si chiede se sia possibile ipotizzabile che genio e follia facciano parte di una struttura mentale similare, in cui la prima è la facciata favorevole, e l’altra quella negativa. La pulsione “geniale” talvolta è simile alla ossessione e spinge l’artista alla creatività, alla smisurata ambizione, al tormento intellettivo; tutte situazioni equivalenti della esaltazione mentale. E così, sulla base di queste considerazioni, dopo aver parlato di creativi folli, passiamo ad esaminare alcuni casi di folli che sono diventati creativi.
Uno di questi è Mattio Lovat, che, troppo povero per mantenersi al seminario, non divenne prete, come avrebbe desiderato, ma calzolaio. Ricoverato nel manicomio di San Servolo, perché, a causa della sua malinconia religiosa, si era castrato e crocefisso, Lovat divenne famoso per la memoria indirizzata al tribunale di giustizia e per le notazioni che scrisse sulla sua degenza e sul suo stato mentale. La sua “lucidità” giuridica e morale fu a tal punto sensata che scrisse al tribunale annunziando che per volontà divina sarebbe dovuto morire in croce. In questo modo scagionava e preveniva qualsiasi sospetto affinché la responsabilità della sua morte non ricadesse su persone innocenti. Il suo caso venne presentato alla comunità scientifica da Cesare Ruggieri. Altra vicenda emblematica è quella di Martino Mosca, ospite anch’egli, a più riprese, di vari manicomi, che analizzò, in alcune pagine, con competenza, la propria malattia. Egli, nella corrispondenza col Priore di San Servolo descrive e analizza con lucidità la propria malattia.
Il conte Carlo Abriani, che a causa delle sue crisi mentali venne internato in una struttura manicomiale, scrisse alla direzione di polizia criticando le condizioni in cui vivevano i degenti, stigmatizzando l’assistenza medica e contestando la legittimità di alcune procedure d’internamento con espressioni memorabili. Pagine molto toccanti redasse anche il nobile inglese John Thomas Perceval, figlio del Primo Ministro di Sua Maestà, che, contro la sua volontà, a 29 anni, venne rinchiuso in manicomio. Nei suoi diari, opera in 2 volumi, dal titolo A Narrative, Perceval racconta i meccanismi dei suoi incubi, le sue allucinazioni, i tormenti e i suoi deliri, descrivendo mirabilmente la sensazione di “scollamento” e quello “stare in due posti contemporaneamente” che era il risultato della desincronizzazione della sua mente dal suo corpo. In seguito, a mano a mano che la sua psicosi si quietava, Perceval intravide una possibilità di guarigione e scrisse lettere di fuoco ai giornali e al governo, criticando la situazione in cui vertevano i malati mentali e chiedendo una assistenza più umana. Perceval fu infatti uno dei primissimi oppositori al ricovero manicomiale. Altro caso emblematico quello di John Custance, che soffrì di ripetuti cicli di mania e di depressione, e che scrisse, su consiglio del proprio psichiatra, quello che divenne un importante studio sulla sua malattia, Wisdom, Madness and Folly, opera molto apprezzata da vari psichiatri del tempo e in particolare da Jung che lo invitò a Zurigo perché voleva conoscere l’autore di quell’interessante volume. Dopo l’incontro con lo psichiatra svizzero, Custance affermò d’avere avuto una occasione meravigliosa, che gli aveva dato una grande carica. A proposito di lui Henri Michaux ebbe a dire: “Sono davvero rari i pazzi all’altezza della loro follia”.
Silvano Arieti riferisce di una poetessa che sperimentava occasionalmente stati schizofrenici, le cui poesie a volte rassomigliavano a “insalate di parole” mentre altre volte avevano una genuina bellezza. Tuttavia, dice Arieti, queste poesie erano sempre di difficile comprensione, “come gran parte della poesia moderna”, ed erano a volte delle metafore poetiche a volte delle osservazioni deliranti.
Darold H.Treffert, nel suo saggio Isole della mente esamina alcuni casi di idiots savants, di persone cioè che, malgrado i loro handicap psichici, hanno mostrato di essere straordinarie, dotate di geniali facoltà. Si tratta ora di un ragazzo incapace di comunicare anche le idee più elementari, ma dotatissimo nell’estrarre la radice quadrata di cifre ad otto zeri, ora di una cerebrolesa con non comuni attitudini musicali, ora di un giovane dal quoziente intellettivo inferiore a cinquanta e pur nondimeno capace di creare perfette opere d’arte con la creta. E tutto questo, in sintonia con l’osservazione fatta dallo psichiatra Hans Asperger, il quale notò e descrisse una sindrome, che poi prese da lui il nome, non tanto insolita, per cui individui con disturbi psichici gravi si dimostrano per altri versi dotati, fino ad apparire dei talenti, e ciò malgrado le loro imperfette capacità mentali generali.
Un caso sul quale la scienza ancora non s’è pronunziata ma che si presenta interessante, quanto meno come fatto di cronaca, è quello posto all’attenzione dal giornale Le Monde, e riportato da La Stampa. Si tratta dell’edizione di un libro dal titolo La bambina porcospino, che, edito in Germania nel settembre del 1999, e tradotto in francese dalle Editions Imago nel dicembre dello stesso anno, è divenuto un best-seller. Questo libro è una specie di autobiografia, che, pare, sia stata dettata, o è meglio dire suggerita?, da Katia Rhode, una ragazza autistica di 28 anni, assistita da anni con un particolare metodo che favorisce la comunicazione, alla madre, una professoressa di lingue che lo ha “tradotto” in testo in modo leggibile. La ragazza, che abita ad Erkelenz, vicino Colonia, ricorda alla lontana il personaggio del film di Barry Levinson, Rain Man, ma è più chiusa nell’handicap, più ripiegata nel suo involucro di sofferenza, dal quale non è mai uscita, non potendo vivere un’esistenza che abbia una parvenza di normalità. Appena nata Katia è vissuta in una incubatrice, e, dopo un anno e mezzo, i medici diagnosticarono che la piccina era autistica e che aveva anche un ritardo mentale. In seguito, quando Katia divenne più grande, la ortofonista Anne-Marie Vexiau riuscì a creare un ponte “simbiotico” con la ragazza, e questa “apertura” psicologica ha funzionato a tal punto che anche la madre di Katia è potuta entrare “nel mondo” della figlia, il che le ha consentito di poter annotare “i sentimenti” della ragazza e di tradurli in un libro.
A questo punto c’è da chiedersi se si tratta di approccio prodigioso o di una mera illusione, nella quale è caduta una madre che spera di capire la figlia handicappata. L’articolista di Le Monde afferma che Alain-Julien Bellaïche, direttore di un centro che si occupa di giovani autistici, intervistato sul caso Katia Rhode, pur manifestando qualche scetticismo e una certa perplessità sull’inquietante questione, ha tuttavia affermato che: “a volte i soggetti autistici riescono a fare cose inimmaginabili”.
3 I personaggi “matti” e la letteratura della follia
La pazzia è dunque oggetto dell’attenzione non solo degli studiosi del cervello, ma anche di scrittori, filosofi, musicisti e pittori. Nel mondo antico e in quello classico, invece, essa suscitava scarsa interesse perché l’arte era considerata espressione di sentimenti corali, religiosi, drammatici o sociali, e solo di tanto in tanto, qualche autore e poche opere s’addentrarono nei meandri della mente, con lo scopo principale di analizzare la follia dei protagonisti.
In passato, dunque, per un motivo o per l’altro, si ritenne che gli uomini agissero spinti da imperscrutabili stimoli esterni, e che fossero condizionati dal fato, considerato come un burattinaio. La pazzia non faceva notizia, e il mondo dell’assurdo, che si trovava un po’ ovunque nella quotidianità, non impressionava più di tanto. Per secoli, infatti, la follia è stata ritenuta una manifestazione bizzarra, singolare, causata dagli avversi eventi della vita, dal destino, e finanche dal disegno divino, come punizione per i vizi e i difetti dell’uomo. Ma, in ogni caso, sfuggì l’occasione di fare una denunzia “teatrale” della alienazione, come si fa ai giorni nostri, nei quali essa è accreditata come status esistenziale, come situazione aberrante e ambigua del pensiero oscuro e disordinato.
Nell’antica Grecia, per esempio, assieme all’assemblea del popolo e ai tribunali della giustizia v’era il teatro, che era considerato fonte di comunicazione pubblica; ma fare teatro, in origine era, in un certo senso, svolgere un’attività politica e storica (vedi per esempio I Persiani di Eschilo), e i temi delle rappresentazioni erano soprattutto i tragici conflitti tra l’eroe, il popolo e il tiranno; in periodi successivi, vennero affrontati altri grandi temi, come quelli del dramma dei rapporti umani. In ogni caso, però, erano trascurate le modalità psicopatologiche, tranne casi eccezionali come quello dell’atroce vendetta di Medea, descritta magistralmente da Euripide, non indicata come manifestazione di follia, ma come tragico sviluppo di una situazione drammatica.
Il committente dell’opera teatrale era spesso la stessa polis, che imponeva all’autore alcune linee guida nella narrazione. L’intromissione dello stato impediva agli autori la possibilità di spaziare con gli argomenti. Il tragediografo ateniese Frinico venne multato di mille dracme perché aveva “depresso il popolo” portando sulle scene un’opera poco edificante, la Presa di Mileto, nella quale venivano ricordate le sventure della città che era stata il simbolo della rivolta ionica.
Fatto curioso è che nessun autore greco dell’antichità, anche quando narrava le gesta folli di personaggi insensati, attribuiva al pensiero di quei protagonisti una psicopatologica rilevante. Ciò che più importava nel teatro era celebrare il culto funebre degli eroi, l’epica e le narrazioni di carattere sacro e civile. L’azione teatrale aveva toni ispirati e grandiosi, perché vi potesse essere, nella scena, un sorta di introduzione del soprannaturale. Ma le stranezze e le incongruenze delle vicende narrate dai tragici greci non sfuggirono a Platone, il quale fu del parere che le tragedie non dovevano essere rappresentate di frequente, perché, secondo il filosofo greco, esse potevano nuocere alla mentalità e alla educazione della popolazione. Un allievo di Platone, Polemone, spinse il concetto del maestro alle estreme conseguenze e invitò a sua volta i propri allievi ad esercitarsi ad assistere alle rappresentazioni tragiche praticando una sorta di autocontrollo, in modo da rimanere del tutto distaccati dal pathos che esse esercitavano, e non esserne coinvolti, evitando così di essere “resi peggiori” dallo spettacolo al quale assistevano. Scrivono V. Rapisarda e S. Di Dio che la passione per il teatro, dei Greci e degli Ateniesi in specie, fu una mania, una specie di furore. E infatti Atene spendeva per il teatro somme enormi. Nelle Dionisiache agrarie e urbane, nelle feste dette Lenaia, in quelle panelleniche di Olimpia, di Delfi e, insomma, in ogni ricorrenza di rilievo, in Grecia, si davano degli spettacoli teatrali.
Le rappresentazioni classiche hanno esercitato sempre un grande fascino, dovuto al carattere universale del loro pathos e al fatto che era possibile individuare in esse motivi psicopatologici. Gli spettatori s’interessano alla sorte dei protagonisti, perché riconoscono in essi sofferenze riscontrabili nella quotidianità. Freud, infatti, prese spunto proprio dalle tragedie greche per mettere a punto alcuni aspetti della sua teoria sulle nevrosi e sulle psicosi. Edipo, Elettra, Oreste, Antigone, Clitennestra e tutti gli altri protagonisti del dramma antico sono figure emblematiche che simboleggiano l’angoscia dell’individuo costretto a sottostare a vicende imposte dall’intervento soprannaturale. Oreste, “moralmente” obbligato dall’ineluttabile necessità di compiere la vendetta, è, in seguito, travolto da atroci deliri e torturato da insanabile rimorso. Edipo, schiacciato da avvenimenti che gli ha imposto il fato, disperato sconta un castigo dovuto a responsabilità che non gli competono, e si acceca per cancellare la tragica verità. Elettra, vittima dell’attaccamento morboso alla figura paterna, si lascia distruggere dall’odio e dalla gelosia verso la madre. Antigone, tormentata dal contrasto insanabile tra sottostare alla legge o trasgredire per compiere un atto pietoso, ancor giovane trova la morte. Clitennestra, convinta che suo marito abbia fatto uccidere la figlia Ifigenia, porta a termine la sua vendetta, ma resta schiacciata dalla sua stessa reazione. Scrive V. Rapisarda che “la figura di Oreste, chiuso in un circolo, che non ha uscita, inchiodato nel suo destino, nel miasma, che è insieme colpa e pena, male fisico e male morale…”.
Traghikos significa spaventoso, orribile, e il termine mette a fuoco l’inestricabile inferno in cui l’uomo precipita, spinto dall’autoritarismo di leggi spietate, dall’obbligo di rispettare consuetudine assurde, dall’inesorabilità del fato, dal carattere vincolante della vendetta e persino da un’ottusa religiosità, tutte circostanze responsabili di angosce, di turbamenti mentali, di forti sensi di colpa, che, alla lunga rendono inevitabile la follia.
Le tragedie esprimevano dunque impulsi e sentimenti presenti nell’animo degli spettatori. Si trattava di stati d’animo che la gente aveva difficoltà a verbalizzare nella quotidianità e che solo in teatro potevano essere espressi, contribuendo così, come in un set psicoterapeutico, a dare sfogo ad emozioni altrimenti represse per opportunità sociale. I greci avvertivano in modo drammatico la ineluttabile finitezza del destino individuale e tuttavia essi erano fortemente individualisti, avevano un’alta opinione di se stessi, anche se, nel contempo, percepivano il drammatico senso d’insicurezza e la fragilità del destino umano, sempre in balìa del fato. Un fato, che, anche se non consciamente, era avvertito ed equiparato ad una ineluttabilità molto simile alla insensatezza. Questo spiega perché le tragedie incarnavano il paradigma della situazione dolorosa, del provvisorio e dell’insicurezza, ma anche della follia.
Le ossessioni, le situazioni paranoiche e le convinzioni irrazionali evidenziate nel palcoscenico, coinvolgevano gli spettatori i quali, nella vita quotidiana, vivevano, consciamente o meno, le medesime drammatiche sensazioni che ritrovavano nella azione scenica. Ma questo stimolava una sorta di psicoterapia catartica collettiva che trasformava in finzione scenica le angosce e i sensi di colpa che gli spettatori avevano “dentro” di loro. I greci erano un popolo di soldati avvezzi a frenare la propria aggressività, ma, in certi casi, sentivano il bisogno di lasciarsi andare a forme di estrema crudeltà. Così, nelle rappresentazioni delle tragedie si compiva un benefico travaso psicologico, l’aggressività interna agli spettatori “passava” al palcoscenico, e liberava la gente di tutto quello che di “mostruoso” aveva dentro.
La civiltà romana non seguì la scia drammatica dei tragici greci, e, tranne qualche autore, come Livio Andronico, che produsse qualche opera tragica alla maniera greca, come Ennio, che scrisse alcune tragedie sulla falsariga di quelle euripidee, e come Seneca, con il suo Medea, la letteratura latina non approfondì molto il tema della follia. La rivoluzione culturale di Virgilio è incentrata nella narrazione di un eroe, Enea, che diversamente da quelli greci, impersona la coscienza etica senza mai cadere nel baratro della follia, come accadde, per esempio, a Oreste o ad Elettra. Il fatto è che i romani avevano minori attitudini alla speculazione filosofica, ma nel contempo erano più consapevoli che l’equilibrio psicologico è l’unica via percorribile per diventare grandi eroi. Didone, la regina folle, è tratteggiata, dal latino Virgilio, in tutta la sua miserevole figura di perdente, piuttosto che nella sua grandezza tragica, come l’avrebbero potuta descrivere gli autori greci.
Anche l’Età medievale, anche se per motivi diversi, non identificò l’insensatezza come unità nosografica. Nella concezione medievale, il folle era un invasato dal demonio, e la sua era ritenuta una situazione di estraneità che esorbitava la natura umana, per cui non restava che esorcizzarla. Dante Alighieri considerava la pazzia una condizione di diversità, distaccata dalla natura umana e che ripugnava anche al senso estetico. Nel Medio Evo, dunque, la pazzia non rappresentava la testimonianza di un dramma umano, ma una situazione che snaturava l’essere che ne era colpito, perché posseduto da forze sconosciute.
Nella letteratura e nel teatro del Rinascimento venne meno il significato drammatico, tipico della rappresentazione greca, e l’azione scenica passò alla narrazione di storieT eroiche e morali, o a sfondo sacro, tema che s’andò accentuando nell’era della Controriforma per l’influenza esercitata nella cultura dai gesuiti. Ma ci furono voci isolate, come le novelle del domenicano Matteo Bandello, le quali, a differenza delle opere dell’Alighieri e del Boccaccio, che raccontavano personaggi sicuri di sé, goderecci, e inseriti nella comune realtà, furono invece popolate da personaggi dalla psiche malata, introversi, irresponsabili, maniaci, ipocondriaci, dementi. I protagonisti del Bandello hanno vita abnorme, inconsulta, guidata dall’inconscio e sono segnati da un destino stravagante, irretiti da una ragnatela inestricabile, che li spinge a soluzioni tragiche, spesso immotivate. Bandello scopre che la frattura fra l’uomo e la vita porta alla alienazione. Le pagine del narratore cinquecentista sono piene di eccessi, di stravaganze, di anomalie, di passioni sovrabbondanti, di sensi incontenibili, e persino di omicidi e di suicidi, atti estremi delle psiconevrosi che pervadono i personaggi.
I tipi psicopatologici inseriti nella narrazione del Bandello sono guidati dalla nevrosi e si comportano, di conseguenza, secondo uno schema patologico. Le novelle di questo autore sono ricche di tipi “umorali”, che hanno comportamenti strani, che considerano la vita un agone interminabile, “che solo a pensarlo vengono le vertigini”. La quotidianità, per Bandello, riserva passioni che emergono dall’inesauribile serbatoio della psicopatologia della mente umana e che condizionano e guidano gli eventi. In altri termini, a poco a poco, nella letteratura entra la quotidianità, e i protagonisti non sono più i grandi eroi del passato, ma gente comune, dai valori provvisori, limitati, investita spesso, come del resto può accadere nella realtà, anche dalla fenomenologia psichiatrica, e tutto ciò sembra che esalti una specie di eroicità alla rovescia. Individui alienati dalla società ed esclusi dalla storia, destinati spesso a fallire miseramente, ma per ciò stesso più veri degli eroi del passato e più umani, diventano i protagonisti della letteratura e del teatro.
Adriano Banchieri, verso la fine del ‘500, firmò una commedia in forma di madrigale, dal titolo La pazzia senile, e la cui prima edizione si ebbe a Venezia nel 1598. L’opera, ora scherzosa, ora sentimentale, ora triviale, narra le vicende bislacche e lunatiche di un vecchio mercante, tal Pantalone, il quale, innamorato di una cortigiana che lo respinge, finisce col comportarsi da matto.
E così, se la civiltà greca esaltò l’uomo come centro del dramma, con i suoi vizi e le sue virtù, mostrando solo i risvolti titanici del protagonista, se il teatro medievale si incentrò su i rapporti tra la religione e le masse, l’epoca shakespeariana e il teatro moderno e contemporaneo, invece, hanno approfondito le vicissitudini mentali, riconoscendo la psicopatologia e indagando all’interno dell’animo turbato. La follia, nel teatro moderno, a differenza di quello greco, non fu più dovuta al Fato o al volere degli dei, ma causata dall’assurdità della vita e dalle meditazioni stesse dell’uomo. Insomma, mentre nella tragedia greca l’uomo veniva spinto alla pazzia dall’esterno, nel dramma post-ellenico la follia sgorga dall’interno dall’uomo. L’amara e tragica demenza di Re Lear, la stravaganza aggressiva e delirante di Enrico IV, l’evanescente vaneggiamento di Ofelia, l’insanità, lucida e “ragionata”, di Amleto, la frenesia ossessiva di Otello e la dissennatezza agghiacciante e colma di deliri, di Macbeth, sono esempi di drammaticità che viene fuori dalla stessa condizione umana.
Ma la follia non è solo un’esperienza tragica: essa può essere una via d’uscita per superare la vanità della vita. L’olandese Erasmo da Rotterdam ne tessè l’elogio, sostenendo che l’alienato, per quanto insensato sia, possiede più senso comune e sragiona meno delle cosiddette persone ragionevoli.
In Francia, a partire dal secolo XVII, soprattutto con Corneille e Racine, la rappresentazione teatrale si svincolò dalle antiche tematiche e passò alla narrazione di sottili giochi psicologici, che mettono a fuoco la grandezza e la miseria della condizione umana. Ma i due autori non arrivarono a descrivere la psicopatologia, ma solo la psicologia dei personaggi, e lo fecero al fine di conferire un significato morale. Molière, invece, con Il Malato immaginario, IlMisantropo e altre commedie similari, affrontò, anche se bonariamente, i temi di una psicopatologia diffusa nel costume sociale e forse poco avvertita dai più. Del resto, ancora oggi, a ben guardare, l’insensatezza che si trova all’interno della vita quotidiana, e che si nasconde dietro molteplici aspetti, consueti e poco appariscenti è difficile da snidare.
Alla fine del XVIII secolo, quando si scoprì che la frontiera dell’immaginario può confinare col delirio e si cominciò a capire che certi comportamenti e certi impulsi non sono più attribuibili al destino o spiegabili con le intromissioni divine, ma causati dalla psicopatologia, si poté finalmente capire che il momento extralogico, istintivo e passionale è un fattore ineluttabile dell’esperienza, altrettanto incisivo della stessa saggezza.
E così, a poco a poco nella letteratura e nel teatro, cominciò ad affacciarsi il tema della alienazione, e l’equilibrio oggettivo dell’esistenza, così com’era nell’ideale antico e in quello umanistico, si è definitivamente frantumato. Il folle, sfidando e ridicolizzando i sani di mente, mette in crisi certezze e stabilità metafisiche. L’alienazione rende il destino dell’uomo non più fisso, prevedibile, istituzionalizzato, come un tempo; ma lo rende volubile, in mano alle circostanze, agli umori e agli stati d’animo, che sono mutevoli, imprevedibili, ed enigmatici.
Gli scrittori rappresentano, con le figure della pazzia, tutta la gamma più terribile e più grande della condizione umana, e allora la stravaganza non suscita solo spavento, ma anche rispetto. Lo spettacolo teatrale, manifestazione e rappresentazione della realtà, a poco a poco si è adattato ad analizzare la mente dell’uomo. Il palcoscenico, espressione della vita e celebrazione degli stati d’animo quotidiani, è diventato meditazione e “lettura” di caratteri, di costumi, di comportamenti per una più approfondita comprensione dell’uomo. Il teatro, come il manicomio, può essere la platea più accreditata per presentare la maschera della eccentricità, e così, nell’azione scenica, il matto, con i suoi comportamenti e le sue osservazioni, stimola la riflessione sull’ampio capitolo della mente umana.
Scrive Vittorino Andreoli che: “Il teatro della follia trova il suo “pubblico” nella curiosità-paura verso tutto ciò che è diverso, ma non totalmente estraneo da non appartenerci. Verso la follia c’è un bisogno di difesa, ma anche un desiderio di conoscenza, di partecipazione teatrale”. Secondo Jacques Lacan, i complessi sono personaggi di una commedia dell’arte, perché ogni individuo recita secondo un canovaccio e secondo ruoli predefiniti sia la propria maschera civile, che i propri malesseri mentali. La rappresentazione teatrale della alienazione e il teatro della vita sono dunque, per Lacan, congiunti indissolubilmente. Una connessione che è sottolineata anche dallo psichiatra Jean Esquirol, il quale organizzava spettacoli teatrali con attori presi tra gli alienati, e dallo psicologo Jacob. L. Moreno che inventò lo psicodramma come situazione catartica.
Allora fu chiaro che le passioni, sottratte al controllo della ragione, e fomentate dalla stravaganza, sono componenti della vita. E la pazzia è l’ineluttabile rovescio della medaglia: quasi come un’alternativa alle consuetudini e ai luoghi comuni. Questa nuova prospettiva ha portato alla ribalta, nella letteratura moderna, il segreto e l’intimità dell’anima, i sentimenti più nascosti – e non per questo meno essenziali – che garantiscono la comprensione del personaggio. Questa angolazione narrativa, ha messo a nudo, scavando nella coscienza, quanto di cupo e di dissennato coesiste nell’animo umano e vive, nascosto e frammisto alla dimensione “del normale”.
Nella commedia di Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore così si esprime il personaggio del padre: “Lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non hanno neppure bisogno di parere verosimili; perché sono vere”.
Trafiggere l’insipienza della vita, utilizzando riflessioni temerarie può essere un’operazione rischiosa, ma in qualche caso, è proprio la stravaganza che crea una “protezione” contro le inestricabili contingenze della quotidianità, sicché la sregolatezza, nella dimensione artistica, ha il potere di metabolizzare ciò che c’è di più nefasto nella vita ed allora la follia perde quel senso di pericolosità e di precarietà che le si attribuisce, e testimonia, anzi, la drammaticità della vita.
La cultura, la filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema, le arti figurative, presero a descrivere la vita tenendo presente anche l’alienazione. Le opere di Erasmo da Rotterdam, Gaetano Donizzetti, Arrigo Boito, Luigi Eugène Jonesco, Woody Allen, Jngmar Bergman, Alfred Hitchcock, Edvard Munch, etc., sono esempi della attenzione rivolta agli squilibri dell’animo umano.
E che altro sono le opere del siciliano Luigi Pirandello, se non vicende che chiarificano, per mezzo del filtro della follia, il significato della vita? Su tale falsariga, vi sono anche i Racconti di varia follia, di un altro siciliano, Salvatore M. Musmeci, il quale traccia un diagramma dei vari tipi di insensatezze che si nascondono ora negli atteggiamenti della società perbene, ora tra l’ipocrisia di certi comportamenti, ora attraverso i luoghi comuni. In ogni caso, afferma l’autore, si tratta sempre di aberrazioni misconosciute, perché una persona può essere vittima di patologie fisiche, ma c’è un netto rifiuto, da parte del malato o degli stessi parenti, a riconoscere la malattia psicologica, che suscita reticenza ed omertà in tutti, perché è considerata una infamia da nascondere.
Nell’opera del poeta tedesco Sebastian Brant, che ha come titolo La nave dei pazzi, i passeggeri rappresentano tutte le classi sociali, tutti i mestieri e tutti i tipi umani, ed in ognuno di essi aleggia una forma di squilibrio, e con ciò l’autore ha voluto sottolineare che la irragionevolezza alberga non solo negli interstizi mentali del singolo ma anche nelle strutture sociali. La pazza di Chaillot, opera teatrale frutto della intelligenza acuta e colta del francese Jean Giraudoux, è un ritorno alla medievale allegoria della lotta tra il Bene e il Male, in bilico tra ragione e stoltezza. Anche in altre opere Giraudoux dà la sensazione di saper penetrare nell’universo schizofrenico, elaborandolo in forma d’arte.
Complesso e pieno di sfaccettature è il dramma in prosa Il pazzo di Dio dello scrittore spagnolo José Echegaray, che venne rappresentato nel 1900, con un discreto successo. L’opera racconta la vicenda di una ricca vedova, Fuensanta e dell’avvocato Gabriel, un altruista e umanitario personaggio, un poco matto, che ella ama e vorrebbe sposare. Ma il loro progetto è ostacolato dai parenti della vedova che perderebbero col matrimonio della zia i diritti sul patrimonio della loro ricca parente. Essi allora mettono in guardia Fuensanta facendole sapere che il promesso sposo ritiene di essere Dio, creatore e signore di tutto. Malgrado ciò i due si sposano, ma sono perseguitati dalla malvagità dei parenti; e a quel punto comincia il vaneggiamento nella mente di Gabriel.
Insinuato il dubbio che la vita non si possa spiegare se non facendo ricorso anche all’insensatezza, in maggiore o minor misura, presente in ogni essere umano, si è dovuto riconoscere che un pizzico di demenzialità è insita nella natura umana, tant’è che la perdita della ragione può essere considerato un incidente di percorso, una delle possibilità della vita, un momento irrazionale dell’esperienza, altrettanto incisivo quanto la “saggezza”.
A mano a mano che si analizza la follia, e si cerca di definirne i contorni, i confini tra essa e la normalità diventano sempre meno distinti, tant’è che, ad intermittenza, l’una può sostituirsi all’altra. La alienazione diventa allora la manifestazione ultima del fallimento umano ma anche la dimostrazione che solo entrando “nella logica” della follia è possibile adattarsi all’insensatezza dell’esistenza.
Partendo da questo punto di vista, molte opere d’arte testimoniano, con personaggi eccentrici, la psicopatologia della vita quotidiana e, in qualche caso, da esse si può desumere la stravaganza e le esperienze psicopatologiche dei loro autori, il che conferma quanto la vita e l’arte convivano con l’esaltazione e la dissennatezza.
Smarrite le vecchie, ipocrite certezze e varcata la soglia proibita della trasgressione, i maniaci diventano allora i nuovi eroi della letteratura. “Talvolta l’artista ha una capacità di creare immagini quasi paragonabili a quella del sognatore, o quella capacità di darsi a “orge di identificazione” che ha lo schizofrenico”, scrive Silvano Arieti.
L’agonia della normalità è più evidente a mano a mano che si affina la sensibilità psicologica la quale vanifica le vecchie sicurezze e ne denunzia i limiti e i pregiudizi. Bizzarria e demenzialità anticonformista e stravagante, a volte, sono l’unico mezzo per affrontare quei drammi dell’esistenza che l’ipocrisia sociale cerca di eludere o addirittura di ignorare, e si pongono come cartina di tornasole per mettere in luce la pericolosità di alcune devastanti credenze che, invece, il pregiudizio esalta. Ma quando si rinnega il deformante rispetto dei pregiudizi e si riconosce al destino dell’uomo un’alternativa, una imprevedibilità che rimette in discussione tutto ciò in cui si è creduto, allora chi sovverte i vecchi criteri di giudizio è considerato squilibrato. Tuttavia è il “matto” che può scrollarsi da dosso la presenza ingombrante, granitica, inalterabile delle imposture, e può navigare in un piano separato, che lo mette in qualche modo al riparo dal doloroso mondo quotidiano. A quel punto, la follia, può essere una mediazione tra l’infelicità e il bisogno di fantasia, e può diventare parte integrante dei sogni, delle ambizioni e delle chimere. Corrodendo i valori tradizionali, essa sconvolge la ritualità quotidiana, crea dissonanze stravaganti, rimescola l’inesauribile serbatoio della vita, e suscita nuovi punti di vista.
È forse un errore di prospettiva intendere la follia, come qualcuno fa, una sorta di disumanizzazione: essa è, invece, il punto di maggiore umanizzazione della tragedia umana. Essa vanifica la rigida maschera della prosopopea e combatte i fantasmi della consuetudine. Poetica farneticazione è quella di Don Chisciotte, con la quale Cervantes fa vedere come l’umanità sia prigioniera dei luoghi comuni e della vanità. Don Chisciotte crede fermamente nei simulacri e nei miti della socialità e, ritenendosi cavaliere degno di rispetto, impegna la sua vita e si pone come protagonista allucinato del suo sogno; ma quando rinsavisce, il cavaliere perde l’estro e la esaltazione chimerica. Dissolto il suo delirio, gli viene meno anche la vita stessa, essendo per lui soffocante e deprimente la piatta realtà quotidiana.
Altra figura emblematica quella del protagonista della commedia della scrittrice statunitense Mary Chase, Harvey. Il signor Elwood P. Dowd, (così si chiama il personaggio principale di Harvey) crede di andare a spasso con un coniglio bianco, che chiama Harvey, ed egli, sebbene sia considerato un po’ tocco, riesce ad estasiare la gente con la sua affabilità e il suo altruismo. Don Chisciotte ed Elwood sono entrambi lontani dalle convenzioni, rifiutano il pragmatismo piatto e banale della vita quotidiana, si lasciano trascinare dalla fantasia, dalla libertà e penetrano così nel cuore della gente.
Nel volume di racconti Le Horla, di Maupassant, v’è, all’inizio, un episodio in forma di diario, in cui un individuo annota la terrificanti fantasie che gli vengono in mente, ossessionato dalla presenza di un essere soprannaturale al quale ha dato il nome di “Horla”. Costui è, secondo l’autore del diario, un essere superiore che si è impossessato dei pensieri dello scrittore fino a renderlo suo schiavo. Il manoscritto di Maupassant, ad un certo punto, s’interrompe bruscamente, come se il protagonista della storia fosse colto dalla confusione mentale e non potesse continuare a scrivere. Il racconto si svolge in un incubo, e mostra il vagabondaggio della ragione, la sterilità maniacale e il disperato e frenetico bisogno di certezze, che qualcuno ha visto collegati alla salute psichica di Maupassant, come una impressionante confessione e una testimonianza dello squilibrio mentale dello scrittore. E in Suicides, una delle novelle del volume Le sorelle Rondoli, lo stesso autore pone con accenni disperati l’angoscia del vivere, che ottenebrò precocemente il suo animo.
Nel romanzo Storia di una capinera, Giovanni Verga, anticipa nella prefazione, che l’idea di mettere quel titolo all’opera gli venne dopo aver osservato una capinera che era morta in gabbia non perché non avesse da mangiare, ma perché aveva sofferto la mancanza di libertà. E così, la protagonista del racconto, destinata dalla matrigna ad essere reclusa in un convento, dopo avere gustato, in una breve pausa della sua reclusione, le gioie della libertà, di nuovo costretta a ritornare in convento, soffre lo strazio della definitiva e lugubre monacazione, che la porterà al delirio e alla morte.
In preda all’alienazione è anche il personaggio di Marina in Malombra di Fogazzaro. La protagonista del racconto, che possiede una morbosa spiritualità, dopo aver trovato in un cassetto alcuni ricordi di una sua antenata, una certa Cecilia, che fu segregata dal marito geloso, s’immagina d’incarnare l’anima della defunta, e di rivivere le fasi principali della esistenza della sua antenata. Il passaggio significativo verso il delirio avviene quando Marina crede di riconoscere nello zio con cui vive, e dal quale si ritiene perseguitata, la reincarnazione del marito della parente defunta. Marina “vede” inoltre, in Corrado Silla, il segretario dello zio, l’anima dell’amante di Cecilia. E così, impersonando fino in fondo l’avventura dell’antenata, ella si concede a Corrado, per esercitare, in nome di Cecilia, una vendetta contro il marito di costei.
Corrado, dimentico della fidanzata Edith, cade nella trappola tesagli dalla voluttuosa e sensuale Marina. Ma ella, travolta dalle proprie elucubrazioni, impazzisce ed uccide l’amante, suicidandosi poi in segno di espiazione.
Il capitano John Silver, chiamato gamba di legno nella banda Flint, protagonista del romanzo L’Isola del Tesoro di R. L. Stevenson, mostra evidenti segni di squilibrio. Esso è il personaggio più complesso del racconto: a prima vista sembra un uomo buono e affabile, ma presto rivela la ferocia natura della personalità, capace di macchiarsi di efferati delitti. Sulla nave da lui comandata vi sono due partiti, quello di Silver e quello di Livesey e Trelawuney. Quando Silver si accorge che è tutto perduto e capisce che non può arrivare al tesoro, si accorda con i nemici, tradendo gli amici.
Robert L. Stevenson continua a parlare di follia nel romanzo Lo strano caso del dr Jekyll e del signor Hyde, che egli scrisse nel 1886, e che è il racconto di un caso di sdoppiamento della personalità. Il dottor Jekyll, persona dabbene, si trasforma in mister Hyde, quando viene sopraffatto dall’inconscio. L’opera che alla sua prima comparsa in pubblico fu definita demoniaca, è una narrazione di sapore psicoanalitico, e mette in evidenza l’influenza dell’inconscio sulla personalità.
Personaggio psicopatico è anche quello creato dallo scrittore Robert Bloch, come protagonista del romanzo Psycho, che vide la luce verso la fine degli anni Cinquanta e che ebbe tanto successo da essere adattato dallo sceneggiatore Joseph Stefano per un film di Alfred Hitchcock. La trama delinea un interessante caso clinico di sdoppiamento della personalità, per cui, un giovane voyeurista, vittima di una madre autoritaria, assume le due facce del Bene e del Male.
Altro personaggio che incarna tutta l’irrazionalità della mente umana, è Lafcadio Wluiki, il protagonista de I sotterranei del Vaticano di André Gide, un tipo molto perfezionista che addirittura si colpisce con un punteruolo per punirsi ogni qualvolta compie qualcosa di deludente rispetto alle proprie attese, e così, per realizzare qualcosa di assolutamente singolare, arriva a commettere il delitto perfetto, gettando uno sconosciuto dal treno senza alcun motivo.
Joseph Conrad mescola nel romanzo La follia di Almayer un’incredibile serie di elementi fantastici, di leggende, di spunti esoterici e, sebbene appesantita da questo guazzabuglio, l’opera mantiene una sua validità. Nonostante Conrad non abbia la forza epica di Melville, tuttavia, nello squilibrio mentale di Almayer aleggia drammaticamente l’inconoscibile e l’inafferrabile che sovrasta ogni impresa umana. Conrad amava narrare ambienti e terre lontane, esotiche, e il personaggio principale, l’olandese Almayer, è il simbolo della sconfitta e della disperazione che si conclude con la follia.
Nel romanzo di Charlotte Brontë, Jane Eyre, la moglie del signor Rochester, è pazza e il marito la tiene segregata in una stanza della casa, lontana dalla vista di tutti. L’altro personaggio femminile è Jane Eyre, un’orfanella vissuta nella disciplina del collegio, che ha imparato quanto possano essere duri e spietati i parenti. Rochester, innamoratosi della giovanetta, che aveva fatto venire a casa perché gli facesse da governante, quando ella diventa la sua promessa sposa, per non turbarla le serba gelosamente nascosto il triste segreto d’essere unito ad una donna fuor di senno. Ma quando Jane viene a conoscenza del segreto del signor Ronchester, sconvolta fugge via da quella casa in cui una matta è tenuta segregata. Jane Eyre è un racconto morboso e drammatico, ma ha il merito di avere introdotto nella narrazione letteraria il problema della follia infiltrata nell’ambiente familiare.
Lo squilibrio mentale, che si nutre di una esistenza romantica, è cantato dal poeta Ivan Ivanovic Kozlov nel poema La folle, in cui lo scrittore russo narra il desino di una giovinetta che, nel suo delirio intermittente, crede di ravvisare in ogni passante l’innamorato che l’ha abbandonata. La disperazione della fanciulla è alla fine attutita dall’incontro con un poeta, al quale ella narra la propria sventura.
Caligola, l’ambiguo protagonista del romanzo di Albert Camus, incarna la filosofia dell’assurdo: l’imperatore romano, ormai consapevole che il mondo in cui vive è illogico, malgrado la terribile coerenza e intelligenza che egli manifesta, si comporta inevitabilmente da persona delirante. Egli, che aveva sperato di divenire un principe generoso, distrutto dalla prematura morte dell’amata Drusilla, si rende conto che nulla nel mondo ha senso e decide di liberarsi d’ogni regola. Comprendendo che la felicità e l’immortalità non possono essere di questo mondo, Caligola, deluso, inizia a vaneggiare, trascinato dalla demenza, e immagina di diventare simile agli dei. E così, ritenendo irragionevoli, moralmente insensibili ed immorali gli abitanti dell’Olimpo, Caligola ne introietta le medesime peculiarità e si comporta, al pari degli dei, in modo crudele e ingiusto. L’imperatore spera così facendo di dimostrare la propria potenza e la propria “libertà” d’azione e, paradossalmente, ritiene che possa persino compire un’azione “pedagogica”, rivelando anche alle vittime quanto sia assurdo il mondo. E così, per restare coerente alla propria “stravaganza”, il giovane imperatore manda a morte il padre del suo amico Scipione, ma questi, pur toccato profondamente dalla sorte del proprio genitore, è dilaniato da un angoscioso dubbio: non sa se odiare l’assassino del padre o manifestare nei confronti dell’amico tiranno, che riconosce essere oramai squilibrato, una comprensione psicoanalitica. Infatti Scipione intravede, nella dissennatezza dell’amico, il dramma causato da una imperscrutabile ferita psicologica, e quando Caligola cade sotto i colpi dei congiurati, egli si dissocia, e rinunzia alla vendetta, comprendendo quanto il mondo sia fatalmente e insensatamente crudele.
Nella novella Gli orologi del senese Federico Tozzi, scrittore di fine Ottocento, anarchico, socialista e in seguito divenuto nazionalista, la figura del venditore di limoni è descritta con tutte le sfaccettature di una dolce follia intrisa di improvvisi scatti polemici e umori non duraturi. Lo scrittore Hermann Merville, animo tormentato a causa di un’adolescenza molto travagliata, sin da piccolo dovette guadagnarsi da vivere e la sua vita fu tutto un lungo vagabondare. L’amicizia con Hawtorne segnò una tappa importante nella vita dello scrittore, che, dopo quell’incontro, pubblicò Moby Dick, il suo capolavoro. Moby Dick è un racconto dalla complessa e polivalente simbologia, nel quale spicca la personalità del capitano Achab, personalità devastata dal drammatico bisogno di lottare contro forze di cui si sente vittima. “Quella vedova matta di sua madre gli diede un nome biblico in accordo con la sanguinosa strage che la profezia gli riserba: l’uccisione della balena” (Achab, come tutti sanno, fu il mitico re d’Israele, famoso per i suoi meriti guerrieri). Nel romanzo di Merville il capitano Achab insegue simbolicamente attraverso i mari inesplorati della sua mente la causa della propria sofferenza. Si tratta di una sfida orgogliosa, titanica, ma è anche una manifestazione di delirio autodistruttivo.
Folle è pure il protagonista del romanzo Frankestein, o il Prometeo moderno, di Mary Shelly Wollstonecraft. Frankestein è un personaggio mostruoso, prodotto dalla scienza, il quale, una volta composto in tutta la sua interezza e raggiunta la vitalità, uccide il luminare che lo ha “ricostruito” pezzo per pezzo.
Anche lo scrittore gallese Richard Llewellyn ha affrontato più volte il tema della follia, e lo ha fatto in Com’era verde la mia valle, ed anche nel dramma Penna avvelenata.
Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald, è un romanzo ambientato nella Costa Azzurra, in cui viene evocata la vita dissipata ed elegante dei primi decenni del secolo XX. Lo scrittore americano, tipico rappresentante della narrativa di quel tempo, mescolava nei suoi romanzi fantasie e avvenimenti realmente accaduti. E difatti, la moglie del protagonista del romanzo, è matta come lo era anche Zelda, moglie dell’autore, la quale, dopo i primi collassi nervosi e i primi ricoveri, e dopo essersi rovinata con l’alcol, finì in un sanatorio. Il romanzo, di Fitzgerald, fin troppo autobiografico, riesce a dare una interpretazione particolare della alienazione, vista come lotta tragica ed epica.
Italo Calvino, narrò in La giornata di uno scrutatore la vita che si svolge in un manicomio. Lo scrittore, che in precedenza aveva affrontato i temi della vita sociale italiana negli anni del miracolo economico, mise a nudo l’orrore della ambiguità morale e il dissidio insanabile tra l’ideologia e la vita, attraverso la deformazione fisica e morale prodotta dallo sconvolgimento mentale.
Nel romanzo Gli anni perduti, Vitaliano Brancati descrive, con appropriata e minuziosa analisi psicologica, lo sprofondare nel baratro del delirio, passando dall’angoscia esistenziale alla demenza, di Enzo De Mei, fratello di Rodolfo, uno dei protagonisti del romanzo. Enzo, spiega il Brancati, aveva dimostrato sempre una grande curiosità per i matti, e li aveva osservati e aveva studiato le loro mosse, i loro pensieri. E un giorno, ad un tratto, “il riso sbottò fuori con un rumore infernale. Enzo, con una mano si copriva la faccia, con l’altra si sosteneva il ventre in modo che resistesse al martellio che veniva giù dal petto” (…) “Enzo sembrava che volesse buttar fuori dal petto, fuori dal proprio essere un impaccio, per espellere il quale tuonava e avrebbe tuonato quel riso, come la tosse quando vuole espellere un chicco d’uva andato di traverso” (…) “l’impaccio di cui Enzo si era liberato con quei colpi di riso, era né più né meno che il senno”, e così, alla fine, il De Mei era diventato una creatura “che non faceva più parte degli uomini”.
L’interesse per gli sviluppi esistenziali della alienazione, Brancati lo manifestò anche in un altro romanzo, Paolo il Caldo, nel quale il narratore siciliano descrisse, con amara e seria ironia, le stramberie dello zio Eduardo.
Il romanzo dello psichiatra C. Terron, Lavinia tra i dannati, del 1959, segnala il rinnovato interesse per le nevrosi. Ad esso si affiancano anche altri romanzi come Una lunga pazzia di A. Barolini, e Il memoriale di P. Volponi, una delle opere del genere più riuscite, che ripropone il tema dell’alienazione mentale con aspetti umanitari e sociali toccanti. Ottiero Ottieri, nel racconto Sua maestà l’encefalo, indaga sulla psicologia del malato, e con Memorie dell’incoscienza approfondisce le tematiche psicoanalitiche cercando di farle quadrare con il sistema del pensiero marxista. Antonio Zanzotto, scrittore poco conosciuto fuori dal Nord Est d’Italia, ma attento lettore di Jung, di Freud e di Binswanger, oltre che vicino agli psichiatri d’avanguardia, cerca di rendere chiare le cause che condizionano la nevrosi con due bei lavori: Esistere psichicamente e Prima persona. Interessante è anche Il mondo psicotico di Lara, un romanzo-documento scritto da Cesario Romano, che racconta il cammino di una sua paziente in cerca di una redenzione creativa.
Il Male oscuro di Giuseppe Berto testimonia come la “malattia dell’anima” possa colpire inesorabilmente l’esistenza d’un individuo soprattutto se suscitata dalle tensioni della vita familiare. Protagonista del romanzo è lo stesso autore, che racconta la storia del lungo contrasto col proprio genitore. Il romanzo è un viaggio psicoanalitico nel tentativo di sanare l’angoscia prodotta dalle incomprensioni e dai dissidi dello scontro generazionale tra padre e figlio. L’incontro con la psicoterapia fu per Berto una necessità, e, grazie a tale esperienza, egli poté narrare con un taglio letterario le varie facce delle nevrosi. Il successo del Male oscuro è dovuto al fatto che l’autore ha posto l’accenno sulla spiritualizzazione di un male che era impropriamente denominato “esaurimento nervoso” e che fino d’allora era inteso dal grosso pubblico solo come una afflizione fisica. Marnie è un romanzo di Winston Graham che ha tutto gli ingredienti psicoanalitici per entrare nell’area della neurosi: la cleptomania come compensazione per la carenza affettiva, la sessuofobia derivata dall’avere assistito nell’infanzia a scene di violenza, la rimozione di un fatto traumatico accaduto prima dell’adolescenza. Tutto questo viene risolto, anche se forse troppo semplicemente, tramite le associazioni d’idee, gli acting-out e una specie di analisi selvaggia che un marito, conscio di avere sposato una donna sull’orlo dell’abisso mentale, adotta, per salvare la moglie che ama. Il racconto tuttavia è valido perché, oltre a indicare i motivi della nevrosi, segnala addirittura i mezzi terapeutici per risolverla. Innamoratosi di questa trama, Hitchcock la fece sceneggiare a un esperto del campo, Jay Presso Allen, e diede vita al film Marnie che, se non ha certo gli attori più credibili ed idonei per impersonare le parti dei protagonisti, tuttavia ha contribuito, assieme all’altro film del regista inglese, Io ti salverò, non poco alla diffusione tra le masse del metodo psicoanalitico.
Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni è una visione del disordine, della frammentazione, della delirante loquacità di coloro che vedono continuamente sbriciolarsi la realtà in seducenti ed implacabili suggestioni oniriche. Cavazzoni analizza la ricorrente perdita di senso, il malessere e lo sconforto della solitudine, che scolpiscono la mente dei ricoverati in strutture psichiatriche. Le immagini dei personaggi, un po’ tocchi, del romanzo, sono una messinscena allusiva e straordinariamente suggestiva di un mondo che non è solo quello che è rinchiuso nei manicomi. Cavazzoni lascia intendere che l’invasiva intossicazione di convinzioni sociali strampalate, di pregiudizi devianti, non si trova esclusivamente all’interno delle mura protette del manicomio, ma circola, con una certa disinvoltura, anche tra la gente comune. Nelle città formicolanti di individui lunatici, di tipi che inseguono deliri sociali, di persone che credono di comunicare, e invece si scambiano dialoghi insensati, si svela la fragilità della mente umana, proprio come “dentro le mura”.
Mario Tobino, medico con propensione letteraria, ha scritto vari romanzi dal taglio psichiatrico. Il primo fu Le libere donne di Magliano, che vide la luce nel 1953; il secondo, Per le antiche scale, anch’esso sull’alienazione, Tobino lo scrisse nel 1972 e, negli anni Ottanta, lo psichiatra-scrittore portò a termine Il manicomio di Pechino. Un po’ in tutte le opere di Tobino, la mano dello psichiatra e quella del narratore s’intersecano e si completano. Nella prefazione a Le libere donne di Magliano, suo primo libro dedicato all’universo psichiatrico, l’autore afferma d’avere scritto quell’opera per dimostrare che i matti sono creature degne d’amore e nella speranza che siano trattati meglio. Tobino suggerisce di parlare con i malati per liberarli dalla preoccupazione del loro stato, e costruire così un ponte affinché sani e meno sani possano dialogare.
L’altro libro, Per le antiche scale, narra la solitudine e l’angoscia quali temi centrali della sofferenza psichica, un dolore che trova riscatto in parte solo trasfigurandosi in poesia. Il manicomio di Pechino è il diario dell’esperienza dell’autore quand’era direttore del manicomio di Maggiano. Anche questo romanzo denunzia l’incomprensione e il profondo divario che separa il malato dal mondo e indaga con pietà e acuta psicologia, l’amara condizione di chi è affetto da disturbi psichici.
La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è un altro impareggiabile ritratto di personaggio nevrotico, come lo è pure il romanzo Le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, che è un affresco umano e drammatico di rapporti nevrotici, sadomasochisti, di rancori ossessivi, di mitomanie. Il libro di Palazzeschi narra la vita di due sorelle ricamatrici, che sono travolte dal trambusto emozionale causato loro dal nipote Remo. Colpite dalla presenza vitale di quel giovane, quando egli le abbandona per recarsi in America, le sorelle comprendono d’essere state “ferite” dalla dipartita di Remo, e, chiudendosi in una sofferta nostalgia, la loro vita si colora di tutta la gamma di capogiri, vertigini, fugaci abbandoni, espressioni nevrotiche, che sottolineano i misteriosi turbamenti dei loro animi doloranti per la perdita dell’oggetto d’amore.
Singolare è pure il romanzo Follia di Patrick McGrath in cui uno psichiatra narra la conturbante vicenda che accade all’interno di un tetro manicomio criminale, e cioè la passione tra Stella Raphael, moglie di un altro psichiatra ed Edgard Stark, un artista che è detenuto nella struttura carceraria perché colpevole di un efferato uxoricidio. Ma a mano a mano che procede l’analisi del caso clinico del pittore, si fa anche luce sulla storia cupa e tormentosa che lega l’artista a Stella, e si delinea una realtà inquietante e beffarda, certamente molto diversa da quella che le apparenze lasciavano intravedere. E così, ancora una volta, si può constatare come la follia sia un paravento che a volte può nascondere verità scomode e crudeli.
Commedia dell’assurdo, e a tratti artificiosa e cerebrale, è Da mezzogiorno a mezzanotte, scritta dal drammaturgo tedesco Georg Kaiser. L’opera è composta da una rapsodia di scene eccentriche e suggestive, che hanno gli accenti irrazionali tipici dell’espressionismo. Come è noto, la visione del mondo degli espressionisti ben si presta alla descrizione della follia, poiché fonda la propria indagine soprattutto “sul mondo profondo ed interiore” dell’individuo.
Il favore incontrato da Lo straniero di Camus è forse dovuto alla singolarissima figura assurda e ambigua del personaggio principale che, all’indomani della morte della madre va a fare i bagni di mare, inizia una relazione irregolare e si reca a cinema per ridere con un film comico. Il personaggio è un esempio della “bella indifferenza” che caratterizza la psiche disturbata.
Conturbante è anche il testo teatrale Toyer, (Il giocattolo) scritto negli anni Settanta dall’americano J. Mc Kay, e rappresentato a Broadway con grande successo. In esso si narra di un serial killer, che ha paura della femminilità e che per questo motivo lobotomizza le donne che desidera, riducendole a bambole, a giocattoli. Una psichiatra s’imbatte in quel mostro, senza però sapere di essere a contatto con l’uomo che tutta la città cerca, e tra loro due s’instaura un rapporto molto ambiguo, dove i ruoli si confondono, per cui, ad un certo punto, sarà difficile individuare chi è il più forte e chi il più debole dei due, chi è il sano e chi è il folle.
In altro testo teatrale dal titolo House of Games, si trova implicata, anche questa volta, una psichiatra, che viene travolta dal contatto col mondo demenziale degli incalliti giocatori d’azzardo. Si tratta di un’opera del commediografo americano David Mamet, portata anche in cinema dallo stesso autore nel 1987. La protagonista della storia, una valente strizzacervelli, scopre, nel gioco, quei piaceri che si era sempre negata; ma si tratta di una esperienza che la donna non riesce a dominare e che le sfugge di mano, tant’è che la trascina in una pericolosa parabola. L’opera di Mamet, come già quella di Mac Kay, vuole dimostrare che si può cadere nell’abisso dell’insensatezza pur partendo da posizioni mentali che dovrebbero garantire, come nel caso di una professionista psichiatra, un buon margine di resistenza psichica. Denso di situazioni tragicomiche e magari assurde, il volume della triestina Marina Mander, Manuale di ipocondria fantastica, traccia interessanti figure di malati psicosomatici e di sindromi pschiatriche poco comuni, e talvolta, addirittura paradossali.
Lo scrittore austriaco Arthur Schnitzer, amico e fervente seguace delle teorie di Sigmund Freud, maestro nell’esplorazione interiore dei personaggi che portava nei suoi romanzi e molto preparato dunque nell’arte di fissarne i caratteri, in La scena dell’addio, mostra come la paura della realtà può indurre al lento sottrarsi al mondo esterno e a concentrarsi esclusivamente su quello interiore.
Ma uno dei temi più sentiti è il rapporto e lo scontro generazionale, che a volte assume toni drammatici e si evolve in azioni folli e sconsiderate, come nel caso de Il figlio del drammaturgo tedesco Walter Hasenclever e di Parricidio di Arnold Bronnen, che spingono fino alle estreme conseguenze, fino a pervenire ad atti insensati, l’odio covato dai figli nei confronti dei genitori. Interessante è pure la tematica della protagonista della commedia di Hermann Bahr, L’altra, una donna che ha una doppia personalità, essendo incapace, nonostante ogni sforzo, di sfuggire all’attrazione di un uomo del quale ella è succube. Nel teatro di Ionesco la follia si muta spesso in autoironia; in Pirandello è un escamotage intellettuale alla ricerca della verità; nel mondo shakespiriano è una deflagrazione universale. Tutta questa letteratura tratteggia la pazzia, nell’inevitabile viaggio della quotidianità, come dolorosa solitudine e “soluzione finale” dei problemi dell’esistenza. In ogni caso, il personaggio matto, con la sua stoltezza, vive l’esperienza di controsensi e di verità rivoluzionarie sicché la follia appare come il rovescio della medaglia della discrezione, della prudenza e del silenzio. Il personaggio toccato da questa disgrazia, deride, aggredisce e frappone una distanza invalicabile tra sé e gli altri. Il suo distacco è alienazione, ma è anche una presa di coscienza di dolorose e stridenti verità, che “la persona comune” preferisce ignorare.
Di ben altra “pasta” è, invece, l’amaro romanzo di Pascale Froment, Ti ammazzo, che prende spunto dalla storia di Roberto Succo, matricida e parricida, il quale si suicidò poi nel carcere di Vicenza. Questa truculenta vicenda ha ispirato anche il drammaturgo Bernard-Marie Koltès. Sullo stesso genere, e forse più intenso e disperato, perché scritto direttamente dal padre dell’assassino, è il libro Mio figlio assassino di Lionel Dahmer, il medico di Milwaukee che scoprì come suo figlio Jeff si fosse macchiato di alcuni dei crimini più orrendi commessi negli Usa, tra gli anni Ottanta e Novanta. Scrivendo quel diario-romanzo, il dottor Dahmer ha confessato di augurarsi di avere contribuito, in qualche modo ad aiutare a fare capire le motivazioni che possono essere alla base di un cervello malato. Infatti, raccontando la vicenda che si svolse nella sua famiglia, Dahmer spiega che, in un primo tempo, le bizzarrie e gli atteggiamenti anomali del figlio non li aveva giudicati come qualcosa di particolarmente anormale, in quanto, nel corso degli anni si era abituato a convivere con le stranezze del suo ragazzo e non riusciva più ad obbiettivarle realisticamente e a capirne la pericolosità. Sebbene il male del giovane figlio di Dahmer fosse pericoloso, l’abitudine quotidiana ad esso, in un certo senso, lo aveva reso invisibile ai familiari.
E ancora più conturbante è il diario di Jack lo squartatore, rinvenuto a Liverpool, nei confronti del quale il criminologo Robert Smith e altri studiosi portano prove abbastanza convincenti che possa essere davvero “lo sfogo” di un perverso criminale, intelligente, acuto, buon conoscitore dell’animo umano, che, tra il 1888 e il 1889, si macchiò dei cinque delitti di Whitechapel e che inizia la propria confessione con queste parole: “Forse nella mia mente tormentata desidero che qualcuno legga questo e comprenda…”.
4 La follia nelle arti figurative
La follia è stata tratteggiata anche nelle tele di insigni pittori, i quali, stregati dalle manifestazioni oscure e instabili della mente, hanno ritratto l’alienazione con intriganti, vertiginosi tuffi nell’inconoscibile, nell’ambiguo e nella diversità.
Creatività pittorica si riscontra anche nelle opere di artisti alienati, come nel caso di Adolf Wölfi vissuto trenta anni in un ospedale psichiatrico, costellando la sua vita di tele affascinanti, o di quel “Carlo”, studiato da vari psichiatri, le cui opere sono esposte al Museo Guggenheim di Venezia o della pittrice Aloyse, già citata, la cui produzione pittorica si trova in gallerie e musei rinomati. Tutte queste opere dimostrano che anche nei malati di mente può esistere una produttività artistica e una creatività, esternate con mezzi espressivi non inferiori a quelli degli artisti sani. Ciò fa supporre che l’arte scaturisce da tensioni emozionali molto vicine alla sofferenza della follia.
A parte gli artisti schizofrenici, molti rappresentativi maestri della pittura hanno raffigurato l’aspetto conturbante della demenza. In questo filone troviamo il fiammingo Hieronymus Bosch, con i quadri La cura della pazzia, La nave dei folli, e Tentazione; Lucas Cranac il Vecchio col suo dipinto La malinconia, l’olandese Pieter Brueghel con l’efficace Grieta la folle, e Gli storpi, in cui i visi disumani non sono solo un handicap fisico. Il tema del suicidio “esistenziale” narrato da I dolori del giovane Werther ha ispirato un’incisione di J. Amand, che ha ritratto Lotte che consegna la pistola a un messo di Werther.
La matta bestialità è stata, invece, tratteggia da un altro pittore fiammingo, Dirck Bouts, che, al Louvre, nel pannello dell’Inferno, ritrae figure mostruose di animali folli e deliranti, come quei barbagianni con i corpi di rospo che si mescolano alla nudità dei dannati. Anche lo spagnolo Velasquez dipingeva idioti e folli. E del tedesco Martin Schongauer è celebre la serie delle Dieci vergini sagge e stolte.
Il tema della maliconia è ripreso da Cesare Ripa, che la vede e la ritrae nelle sembianze di una donna vecchia e mesta.
La follia venne disegnata anche da un altro tedesco, Stephan Lochner, in un grottesco Giudizio Universale, in cui la insanità mentale si manifesta come se la natura, improvvisamente impazzita, producesse mostruosi animali tra cui farfalle con la testa di gatto, uccelli con le ali prensili come mani.
E la demenza, riprodotta sotto forma di animale impazzito e deforme, l’ha effigiata pure il pittore tedesco Mathis Grünewald, il quale, nella Crocifissione ha disegnato volti e figure tragiche con espressioni maniacali e deliranti. Nella Tentazione, l’immagine della sregolatezza è esaltata dall’infuriare di demoni balzani e mostruosi. In tutte queste opere l’autore mostra il suo particolare interesse per i disturbi mentali.
Albrecht Dürher tratteggiò, in una incisione su metallo, la “melancolia”, e questo tipo di sofferenza fu anche il tema di un altro grande incisore tedesco Hans Baldung, detto Grien, il quale riportò in alcune delle sue opere anch’egli il tema düreriano.
Il pittore Francisco Goya y Lucientes ha rappresentato la malattia mentale, in molte opere, tra cui, una, davvero emblematica, il Cortile dei folli, in cui lo squilibrio mentale è effigiato da corpi nudi, rinchiusi in una fossa dei serpenti. Il pittore spagnolo ha anche simboleggiato i disturbi dell’umore nel quadro Cronos divora i suoi figli. Il Goya, colpito da un ictus quando aveva quarantasei anni, ed esasperato anche da una improvvisa sordità (dovuta forse ad una lesione sifilitica), divenne sempre più di carattere irascibile anche perché s’era sentito “abbandonato” dalla Corte spagnola, che gli aveva preferito Vicente Lopez, e, disilluso da quel voltafaccia, era caduto in depressione. Per allontanare lo spettro della malinconia, il Goya dipingeva con tremenda furia creativa, quasi che fosse un invasato, e raffigurava tragedie epocali, incendi e ospedali dei pazzi, temendo di finirci un giorno o l’altro anche lui. Allucinanti sono i dipinti della “Quinta del sonno” in cui vivono lugubri visioni, così come pure terrorizzanti sono le “Stramberie” (o “Sogni”), serie di acqueforti dal contenuto fosco e allucinante. E anche i disegni a sanguigna e le incisioni dei “Disparates” (Le assurdità, le Follie, le Ossessioni etc.) sono immagini che esprimono paranoie.
I pittori hanno raffigurato dunque la alienazione quale rivelazione di una natura tenebrosa, infernale, ma anche come affascinante spazio segreto, sradicato dalla banalità della iconografia comune: ciò che viene fuori dal delirio era già nella natura. Gli incubi del norvegese Edvard Munch, che possono essere “letti” psicoanaliticamente quale denuncia di un animo travagliato, in cui l’angoscia metafisica trova l’espressione nelle torbide immagini, nell’esperienza tragica di un delirio espresso da visi disumani. L’urlo è giustamente considerato come l’esempio tipico di esplosione di una psiche esasperata. Con il quadro intitolato Angoscia, in cui è manifesto il dramma di una donna in preda a quella sensazione dolorosa, il pittore norvegese reitera l’importanza esistenziale dell’ansia, alla quale dà un taglio metafisico, che viene rappresentato in una forma espressionista e nel contempo realistica.
Pittori e scultori di ogni tempo hanno fatto della pittura e della scultura lo specchio della loro anima, esattamente come gli scrittori, i poeti e i musicisti. Conturbanti, per esempio, dal punto di vista psicoanalitico sono le varie rappresentazioni del Martirio di San Sebastiano, effigiate da artisti come Antonello da Messina, Piero della Francesca e Mantegna, con raffigurazioni di quel giovinetto legato e trafitto da frecce che gli penetrano nella pelle e gli producono ferite sanguinanti, e che sono cariche di valenze ambigue, allusive persino di fantasie proibite e intrise di profondi significati di sofferenze e di desideri sessuali rinnegati. La cura della follia è una bellissima e rappresentativa incisione che fa parte dell’opera Récueil des plus illustres proverbes, esposta alla Bibliothèque Nationale di Parigi e fa vedere alcuni degli “interventi” che nel passato si effettuavano per favorire le espulsioni dal corpo delle contaminazioni che comportano la malattia mentale.
E come non tacere allora anche la “confusione” che s’incontra oggi nelle opere moderne, con quella dissoluzione delle forme, che non è altro che l’espressione di quel caos interiore che tende a concretizzarsi in immagini e colori discordanti, come se si trattasse di ambiguo e sempre più contraddittorio status mentale, come una nevrosi esistenziale che si concreta in deformazioni prospettiche e in forme arzigogolate ed irreali. Un tempo si credeva che la pittura fosse imitazione della natura, vedi il periodo delle forme perfette che quasi si ispiravano al mondo delle idee platoniche o lo stadio del chiaroscuro rinascimentale o quello dell’arabesco Roccocò. Ma da quando l’analisi della mente si è allargata includendo anche la psicopatologia della creazione, si è cominciato a celebrare l’arte figurativa come espressione dell’interiorità dell’artista, come qualcosa di misterioso e di magico. Picasso, tanto per fare un esempio, spogliò la realtà dalla materiale apparenza, sacrificando la verosimiglianza in favore di realtà spirituale e i colori dei suoi quadri non furono più quelli della natura, ma quelli dell’anima, i quali trasmettono l’accento personale, comunicato concretamente attraverso immagini che riproducono l’inconscio, e su questa linea anche Bosch, Chagall, Braque e altri hanno fatto, della pittura, l’espressione delle contraddizioni e delle angosce dell’essere umano.
Contraddizioni ed angosce che si possono “leggere” come l’immagine di un particolare mondo spirituale, proprio nei disegni dei malati mentali. Questo genere di estrinsecazione espressiva è favorita dai terapeuti, perché rappresenta uno dei momenti d’incontro più importanti con l’inconscio del malato.
Nel descrivere l’arte degli schizofrenici Karl Jaspers afferma che in essa, espressione particolarmente emblematica della vita psichica, c’è soprattutto la tendenza a dare “la rappresentazione di un insieme del mondo e dell’essenza delle cose”. E infatti, conversando con i malati autori dei disegni, Karl Jaspers rilevò che è possibile “venire a sapere che spesso le cose più semplici sono piene di significato simbolico e di fantastici arricchimenti”. E, sottolinea sempre Jasper, analizzando, pur nella loro primitività, le immagini di questo tipo di autori, a volte, grazie ad una straordinaria chiarezza d’espressione e ad una sconcertante intensità di significati, ci si può imbattere in realizzazioni, fatte da pazienti, che hanno una pregevole efficacia.
5 La follia e la musica
L’uomo comune, nell’Antichità, nel Medio Evo e nel Rinascimento si pasceva soprattutto di conoscenze che gli provenivano dalle immagini visive e dall’orecchio, più che dalla letteratura. E se a questo si aggiunge che un tempo l’esperienza quotidiana con l’alienazione era consueta, in quanto la si riscontrava in individui che girovagavano nelle strade e nelle piazze, sembra molto strano che la musica non abbia mai “commentato” la follia (così come ha fatto per altre circostanze umane), e che non abbia fatto apertamente una “irruzione” in quel campo.
Premesso questo, viene allora spontaneo chiedersi, dal momento che la musica ha interpretato non solo esperienze naturali come le stagioni, i giochi d’acqua, i canti degli uccelli e così via, ma anche stati psicologici come la tristezza e la passione, se è possibile che essa possa esprimere anche psicopatologie e sentimenti “inconsci”, trasmettendoli ed individuandoli in particolari composizioni.
In particolare, è da chiedersi se la musica possa comunicare il linguaggio della alienazione e dello squilibrio con delle note, degli accordi e dei ritmi, che siano in grado di far conoscere ciò che passa nella mente di una persona psichicamente malata, così come fa la letteratura, per esempio, e come qualcuno ha però ritenuto di rilevare nelle dissonanze di Schönberg, le quali sembrano assumere la forma dell’angoscia, con un linguaggio musicale vicino alla tensione catastrofica della frenesia.
Scrive Albert Wellek che il tema della psicologia della musica non è stato mai molto approfondito e che, in ogni caso, è stato affrontato in modo sistematico sono a partire dal 1931, con il volume Musikpsychologie, di E. Kurth che può essere considerato un pioniere in questo tipo di studi, seguito dai musicologi Géza Révész nel 1946 e R. Francès nel 1958. Kurth allude ad uno spazio “emotivo” musicale, che si fonda sulla espressione emozionale determinata dalla musica. Studiando il fenomeno “musica”, dal punto di vista psicologico, Wellek rileva che alcune persone sono più portate ad apprezzare il contrappunto mentre altre, invece, provano maggior trasporto per la musica armonico-timbrica. Questa analisi ha portato al tentativo di fare una “tipologia” degli ascoltatori-fruitori ed anche dei creatori-musicisti. I risultati, però, non sono stati molto incoraggianti, in quanto molto generici, sia per ciò che riguarda la psicologia dell’ascolto che anche per quello che concerne la psicologia della creazione musicale. Ma nella creazione musicale è forse difficile poter caratterizzare psicologicamente quali sono le motivazioni della funzione ispirativa-emotiva e quali quelle della funzione tecnico-creativa. Tuttavia, qualcuno, come il musicologo J. Bahle, ha sottolineato che si possono rilevare delle creazioni concepite quasi in stati di sogno, come accadde, secondo quello studioso, per certa musica di Schubert.
C’è anche chi è del parere che, essendo la musica soprattutto armonie, cadenze e assonanze, le quali caratterizzano la composizione ritmica, essa possa contenere modulazioni e risonanze, che rappresentano tutte le sfaccettatura dell’animo umano, compreso il delirio. Walter Mauro ritiene che l’improvvisazione del jazz, con la sua libertà polifonica, rappresenta un magico rituale, in cui confluiscono “in diretta” percezioni dell’inconscio. Il jazz, sempre secondo Mauro, trasmetterebbe l’emozione del musicista provocando una eccitabilità collettiva, alla quale non è possibile sfuggire. Passando ad altro genere musicale, Theodor W. Adorno si diceva convinto che il terrore che le note di Webern diffondono deriva dal fatto che la sua musica dà forma ad una sorta di angoscia, che porta sgomento e sensazioni catastrofiche. Forse anche le musiche medievali che venivano chiamate “danze dei folli”, avevano qualcosa di conturbante che in concreto si avvicina ad un genere musicale capace di esprime l’alterazione mentale.
Si potrebbe allora sostenere che dissonanze, assonanze, improvvise mutazioni del ritmo, possono anche essere emblematici simboli della irrequietezza psicopatologica?
Lo psicologo-antropologo Imre Hermann ha rilevato che per mezzo della musica si può “entrare in sintonia” con il delirio: egli ha osservato che, dopo una notte di ritmicità ossessiva, alcune popolazioni tribali, travolte da musiche ossessive, finiscono con l’essere in trance. Si tratta di ritmi spontanei e di pantomime musicale, con i quali i primitivi ritenendosi invasati dal demone, manifestano la loro esaltazione ossessiva. Ma andando oltre, Imre Hermann addirittura sostiene che vi possa essere una certa concomitanza tra talento musicale e disturbi psichici, quali feticismo, esibizionismo, travestitismo, anche se poi egli si affretta ad affermare che “il frequente collegamento tra musicalità e perversione non significa che tutti i musicisti e tutte le persone dotate musicalmente siano malate”. Malgrado Hermann presenti vari esempi storici, per avvalorare la sua tesi, non si trovano al riguardo serie conferme cliniche della sua attendibilità.
Sebbene, come si vede, vi potrebbe essere una vasta materia di studio da approfondire a proposito della possibilità di trovare il legame profondo che unisce l’inconscio alla musica, gli psichiatri, gli psicologi e gli psicoanalisti non si sono addentrati a sviscerare il problema, e ciò forse proprio perché lo stesso Sigmund Freud dimostrò una chiara mancanza di interesse in questo campo. Per di più, sembra che, al disinteresse degli strizzacervelli per la musica, corrisponda, anche da parte degli stessi compositori, una certa indifferenza (o dovremmo chiamarla forse impossibilità?) ad esprimersi con accordi musicali che evochino la pazzia. Infatti ciò che lascia più perplessi è che anche quei musicisti che concepiscono la musica come linguaggio “dei sentimenti, delle passioni o degli stati d’animo”, e sono molti, da Schumann a Debussy, da Respighi a Smetana, da Sibelius a Berlioz, a Liszt, e tanti altri, nessuno di essi si è mai cimentato a scrivere musica che esprima stati di follia. Eppure, secondo Pichon-Rivière, un musicologo che s’interessa di psicologia, la musica è, in termini psicoanalitici, la forma più regressiva di sublimazione.
Una limitazione, questa, che probabilmente potrebbe derivare dal fatto che il connubio tra la musica, arte astratta e svincolata da un oggetto, e narrazione del reale, è una operazione complessa, e dai risultati alquanto ambigui. Infatti, il tema di una melodia (cioè il significato reale di un brano) è insito nella melodia stessa. La forza della musica sta proprio nell’essere un insieme di riflessioni possibili, nel far meditare senza parole, nel poter essere interpretabile in vari modi, e per ciò stesso, non si può riconoscere, per essa, una unica ispirazione contenutistica che la esaurisca, come invece accade nella scrittura o nella pittura, nelle quali è possibile rendere adeguatamente manifesto l’argomento.
“La musica di un quartetto di Beethoven mi commuove e mi fa pensare, ma non saprei esprimere con le parole che cosa vuol dire. È piena di senso per me, ma forse non “significa” nulla”, così si esprime Denis Gaita, psicoanalista e musicologo. La musica, precisa ancora Gaita, è intelligibile, ma intraducibile, tant’è che è impossibile una visione semantica dell’ascolto musicale. Intatti i tentativi di assimilare la musica a sistemi semantici per produrre un “vocabolario” semiologico musicale, sono in parte falliti, e questo anche perché la “traduzione del contenuto” della musica in parole sarebbe in ogni caso riduttiva. Anche se ciò non esclude, teoricamente, che la musica possa descrivere la follia con mezzi propri, tanto per fare un esempio, con gli stridenti accordi di un violino o con il cupo timbro emesso da una corda sola di violoncello, o, ancora, con le note ansimanti di una tromba, che emergono da un freddo silenzio, suoni tutti che possono evocare la solitudine della alienazione.
E non si può tacere che il puntare sulla simbologia musicale è una operazione “rischiosa”, perché, ogni qualvolta si è preteso fare della musica a soggetto o della musica che abbia un tema, o quando un musicista si è imposto d’imitare eventi naturali come il mormorio delle acque o il canto degli uccelli, o altro, il risultato è stato quello di una banale parodia, o quanto meno una forzatura. Difatti la struttura della musica a programma o, se si vuole, descrittiva, non si identifica inequivocabilmente con gli avvenimenti evocati. Afferma Giovanni Pasqualino “se la Patetica di Ciajkovskij si fosse chiamata “la Dolorosa” o “la Triste”, se la scintilla sia venuta dalla voglia di morte o dalla cupa réverie del compositore, che cosa realmente sposta nella struttura musicale della sinfonia?”. E in realtà, ogni spettatore può “sentire” ciò che vuole in un “pezzo”, anche se quel pezzo musicale è identico per tutti dal punto di vista delle note. “Sono le note e l’effetto sonoro che esse producono – afferma Pasqualino – l’unica componente reale ed analizzabile della musica” e ciò perché, se da un canto la musica è abbastanza intelligibile, dall’altro essa è generalmente intraducibile.
Così, continuando a dire, chi mai potrebbe, infatti, indovinare, senza conoscere preventivamente il titolo, ascoltando per la prima volta le armonie dei Quadri di un’esposizione di Mussorgski, che, secondo quanto esplicitato dalla intestazione, esse rievocherebbero scene dipinte su tela? Solo a posteriori, e per suggestione, è possibile immaginare di riconoscere, in quelle note, rievocazioni di celebri squarci pittorici. Un esempio molto indicativo a tal riguardo, è citato da Albert Wellek, che riferisce di un esperimento fatto da Ernst Krenek a proposito della Synphonie fantastique di Berliotz, che nelle intenzioni del compositore dovrebbe rappresentare l’ansia di un uomo perseguitato da una idea terrificante che lo spinge alla follia. Ebbene, quasi nessuno degli ascoltatori riuscì a individuare le intenzioni del musicista. Ciò fa pensare che la musica abbia un’ampia gamma di opzioni in fatto di interpretazione dei suoi significati, e, così, se una marcia o una ninna nanna possono essere facilmente individuabili, perché “di uso comune”, in quanto alla interpretazione di stati mentali espressi dalla musica, il discorso diventa difficile e problematico (almeno fino ad oggi) .
Ed inoltre, quando si vuole appioppare a brani musicali autonomi un commento parlato, quest’ultimo risulta spesso del tutto inappropriato, e parimente si fallisce quando si vuole interpretare una musica con immagini visive, come fece Walt Disney, che ebbe l’idea di “commentare” alcune musiche d’autore per mezzo di cartoni animati, i quali, pur essendo molto belli in sé, “commentando” celebri brani musicali finirono col banalizzarli e svalorizzarli dal punto di vista della estetica dell’ascolto musicale.
La musica, dunque, difficilmente si può identificare in argomenti concreti, e ciò perché il linguaggio musicale è svincolato dalla verosimiglianza. Essa di rado riesce davvero a modellarsi e ad identificarsi con un argomento o ad evocare situazioni extramusicali, come potrebbe essere la follia, con i propri mezzi armonici, anche se la forte suggestione drammatica contenuta nell’intenso uso del semitono può creare un formidabile pathos, così come accade anche con l’accordo di settima diminuita.
E ritorniamo a dire che, essendo la musica un linguaggio astratto, essa non può rappresentare mai nulla di concreto, e forse nemmeno stati d’animo particolari. Infatti alcuni preludi di Chopin trasmettono, indifferentemente, secondo come vengono percepiti dalla sensibilità del singolo ascoltatore, sofferenza, angoscia, o magari dolcezza e pace. Chi non è a conoscenza che alle note iniziali della Quinta sinfonia di Beethoven sia stato attribuito il significato dei colpi del “destino che bussa alla porta” a causa di quell’insistente ritmo cadenzato, non trova affatto tale significato. E nemmeno testimonia alcun significato psichiatrico la sonata detta “La Follia” di Arcangelo Corelli, o magari il Capriccio bisbetico di A. Falconieri, sebbene abbiano un richiamo esplicito nel titolo, come, invece, fanno in realtà i quadri di Munch, di Bosch, di Brueghel, di Bouts, etc., nei quali, è possibile “leggere” l’angoscia.
La Follia di Corelli infatti è semplicemente una variazione sul tema di una danza spagnola e, pur avendo un nome che spicca per un certo calore appassionato, non ha nulla a che vedere, con la pazzia così come non ha rilevanza alcuna, da quel punto di vista, il Capriccio bisbetico di A. Falconieri, che è semplicemente una forma di danza a struttura binaria.
C’è chi, invece, individua nel fandango il genere di musica spagnola “creata” per rappresentare la pazzia, e lo ritiene dunque uno dei pochi esempi da citare come esternazione ritmico-musicale di stati d’animo patologici.
Dopo quanto s’è detto, è comprensibile la riluttanza dei compositori, i quali, anche a causa della inadeguatezza del mezzo tecnico, non cercano di rievocare nel pentagramma la follia, contrariamente di come accade nel campo letterario e delle arti figurative.
Si può ipotizzare che l’assenza di musiche che evochino la follia dipende anche dal fatto che al compositore, di solito, non serve prefiggersi un determinato contenuto: la buona musica non ha necessariamente un soggetto. Anzi, nella musica non ci sono significati, non c’è altro da capire che la stessa musica. “La musica si fa e basta”, afferma Denis Gaita. Difatti, spesso, il titolo attribuito al brano è posticcio e appiccicato non dall’autore, tant’è che non sempre si è certi che quella interpretazione contenutistica, che si evince dal titolo, era nelle intenzioni del compositore, come, per esempio nel caso della sonata detta Gli addii o nel caso de Il chiaro di Luna di Beethoven.
Bisogna però sottolineare che quando vi è una trama, un’azione scenica, cui la musica fa da supporto, piuttosto che essere essa stessa una forma di narrazione, si limita ad accompagnare il racconto. Tanto per fare un esempio, nel caso dell’aria “Mira Norma ai tuoi ginocchi” la musica rafforza il significato delle parole e l’azione. Ma in altri casi, accade che la melodia non rimanga solo come semplice rinforzo dell’azione scenica, ma acquisti un proprio e indipendente valore espressivo, tant’è che è solo in apparenza che la recitazione e lo svolgimento musicale procedono parallelamente, e ciò perché si ritiene, forse impropriamente, che l’una sia indispensabile all’altra. Ma in realtà la composizione musicale non ha bisogno del palcoscenico, tant’è che molte arie vengono cantate senza perdere nulla anche se sono prive della scena.
Tuttavia è più facile seguire la melodia descrittiva, come quella lirica, piuttosto che immergersi nella musica astratta, come nel caso del genere sinfonico e cameristico, che, forse proprio per questo, hanno meno seguaci. Ed allora si può capire che la concettualizzazione della follia, con armonie e disarmonie musicali, può essere inquietante, essendo preferibile ascoltare melodie che evocano stati d’animo che rientrano pur sempre nelle suggestioni psicologiche consuete. E questo perché non tutti sono disposti a “subire” emozioni prodotte da motivi sonori che emergono dall’universo del “cervello rotto”.
Inoltre, poiché si può progredire nella comprensione di un brano musicale solo dopo attente audizioni e ripetuti approfondimenti ed analisi, in ogni caso, le difficoltà di penetrare all’interno della struttura dei significati di un’armonia, di un ritmo e di una melodia comporta che chi ascolta musica dovrebbe conoscerne il linguaggio e avere una preparazione specifica per intenderla in tutti i suoi aspetti. E ciò, malgrado la musica sia, assieme all’arte delle immagini, la sensazione più comprensibile con la più vasta risonanza emotiva sia presso i selvaggi che nelle popolazioni civilizzate.
Anzi, in certi casi, ascoltare dei suoni aiuta a controllare l’ansietà, perché con il canto, sia il primitivo che l’occidentale riescono a padroneggiare le proprie angosce, essendo spesso la melodia e il ritmo esperienze catartiche. Cantare serve a liberare energie, ed ascoltare musica, soprattutto se si tratta di suoni melodiosi, sono ambedue espedienti terapeutici che sciolgono i grumi affettivi bloccati nel profondo. Insomma, la musica può fronteggiare ma anche esprimere piccole e grandi patologie, sicché comporre musica può essere rilassante, ma può diventare un modo per esternare dolorosamente angosce e turbamenti psichici.
Beethoven, la cui vulnerabilità emotiva era ben nota, compose musica perché voleva partecipare dell’assoluto e, grazie alle sue opere possenti, egli affermava di sentirsi vicino alle entità onnipotenti. Beethoven scrisse, come spiega Giordano Fossi, le opere più belle proprio quando divenne sordo, forse proprio spinto da un impeto narcisistico compensativo. E lo stesso accadde a Bedrich Smetana e a Gabriel Fauré, per citare altri esempi, per i quali, la minorazione dell’udito divenne uno stimolo e una sfida a continuare a creare nel campo musicale.
E sempre secondo Giordano Fossi, il silenzio musicale di Giacomo Rossini, che perdurò per quasi quaranta anni, sottolinea il lutto edipico, nel quale cadde il musicista, dopo la morte della madre adorata.
Musicisti come Cole Porter, Irving Berlin e Charlie Parker hanno sofferto disturbi psichici più o meno intensi che li hanno costretti al ricovero per qualche periodo della loro vita, e tuttavia per molti di loro la musica ha avuto anche una funzione terapeutica. A tal proposito, un’esperienza singolare ebbe Franz Liszt il quale venne invitato alla Salpêtrière per osservare quali effetti avrebbe sortito il suo virtuosismo sonoro su una degente che mostrava predisposizione alla musica. La sperimentazione fu ripetuta, invitando, di volta in volta, alcuni concertisti famosi di quel tempo, ma, secondo François Leuret, lo psichiatra che promosse l’iniziativa, “non è sufficiente ascoltare musica, occorre farla”. In altri termini, non basterebbe la semplice posizione passiva dell’ascolto, bisogna spingersi nell’operosità creativa, per avere un maggiore giovamento dalla musica.
Ma se la follia non è entrata a far parte della struttura della composizione musicale, essa è stata invece molto utilizzata dai grandi compositori di opere liriche, ai quali non sfuggì l’interesse e il fascino che la follia aveva sulla gente. Così molti di essi la rappresentarono e la narrarono nelle loro storie. In questi casi, però, la follia è stata trattata dai musicisti come complemento dell’intreccio, e il racconto delle patologie avviene tramite la funzione scenica, non per mezzo del pentagramma, il quale, semmai, accompagna l’evento psicopatologico. La follia, in moltissime opere, non è protagonista della struttura musicale, ma solo dell’intreccio scenico.
La descrizione dell’alienazione, è rappresentata a piene mani nella lirica e la troviamo nella scenografia e nei testi che narrano di Ofelia, protagonista femminile dell’Hamlet (1868) di Thomas Ambroise Charles Louis (1811-1896), e ancora nell’Elvira de I Puritani di Bellini che, volendo sposare Arturo Talbo, ma credendo di essere tradita, cade nello smarrimento e finisce con l’impazzire. E Lucia di Lamermour, di Donizzetti, va fuori di senno dopo aver ucciso il marito Arturo, come anche la protagonista dell’opera Il Pirata di Bellini, Imogène, che impazzisce quando viene a sapere che Gualtiero, che ella ama, viene condannato.
Nel Macbeth di Verdi si trovano stranezze mentali come il sonnambulismo di Lady Macbeth, le visioni di fantasmi di Macbeth, i soliloqui e i dialoghi, tutte permeate dall’insanità mentale. Troviamo la follia altresì in Anna Bolena di Gaetano Donizzetti, nel Boris Gudonov di Modesto Musorgskij, e nelle varie Medea: quella di Giovanni Pacini, quella di Vincenzo Tommasini e di Paul Bastide.
Stravagante e squilibrato è anche il personaggio di Nerone nell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi; e non è certo sana di mente la protagonista dell’opera Dinorah di Mayerbeer che smarrisce il senno e la memoria. E ancora, Margherita, nel Mefistofele di Boito, che muore pazza perché ha ucciso il bambino che ha avuto da Mefistofele, e fuor di senno è certamente la protagonista dell’opera Ninao sia la pazza per amore (1789) di Giovanni Paisiello. E il musicista siciliano Pietro Antonio Coppola (1793-1877) ha scritto anch’egli un’opera, La pazza per amore ( 1835) la cui protagonista è un po’ matta.
Una posizione a parte merita il Parsifal di Wagner, che riprende modificata l’antica leggenda medievale, e in cui il giovane Perceval, “puro folle” (così è traducibile il suo nome dall’arabo), dopo essere vissuto in un primo tempo in solitudine e sotto l’ombrello edipico della madre, la abbandona, facendola morire di dolore, e si riscatta dal quel senso di colpa, ma anche da quella inconsapevole malia, cercando Dio, con una aspirazione incerta e conturbante, tramite il misticismo simbolico del Graal. Essere uomini, impara a sue spese il giovane Perceval, significa errare ed espiare. Lo scrittore Thomas Mann notò quanto fossero bizzarri e poco comuni i personaggi del Parsifal: un mago, Klingsor, che si è evirato, una donna, Kundry, che è una creatura ibrida, donna fatale e nel contempo Maddalena pentita, un sovrano, Amfortas, sofferente per i suoi peccati volontari, che invano invoca la morte perché si è reso colpevole. E forse nell’ambivalenza di tutti questi personaggi bislacchi e nello stesso tempo nella loro natura profonda sta il fascino dell’opera wagneriana.
Anche la musica leggera s’interessa alla follia, e un caso davvero emblematico, a tal riguardo è la canzone di Don Backy, Sognando, cantata da Mina, che racconta la vita e la disperazione di una matta. Altro esempio si ha nella musica del jazzista Charles Mingus, che ha scritto un brano, in collaborazione col proprio psicanalista, la cui tradizione dall’inglese suona più o meno così: Mi sarebbe piaciuto essere figlio della moglie di Freud, per conoscere meglio la psicoanalisi.
In conclusione, sebbene la musica abbia un impianto semantico del tutto differente dalla letteratura, dal teatro e dalla pittura, perché i ritmi, le melodie e gli accordi, restano pressoché astratti, mentre la scrittura e la pittura, si prestano a una più realistica descrizione dei contenuti e dunque possono uscire dalla ambiguità dell’astrazione, è possibile ipotizzare che la psicopatologia stia entrando a poco a poco, anche nella cultura musicale, tant’è che, lavorando con le nuove esperienze timbriche, i compositori moderni possono tramutare gli accordi tonali in squarci di angosce, provocando, attraverso la immensa gamma della musicalità, la percezione della follia.
Luca Francesconi con la sua composizione per grande orchestra intitolata Wanderer, impostata con l’uso insistente e tematico della dissonanza, sembra proprio viaggiare su questa lunghezza d’onda. Infatti, to wander significa sia vagabondare che divagare e vaneggiare. E difatti Francesconi sembra narrare con la musica il delirare della mente. Il precursore di questa ricerca può essere ritenuto Schönberg che, con la sua avventura nel mondo dell’atonalità, è stato in grado di offrire una tensione e una ricchezza timbrica spregiudicata, sbalordendo lo spettatore con quel gareggiare di suggestioni emotive sempre più travolgenti e usate per sottolineare l’innegabile marasma del mondo. Anche certe composizioni di Luciano Berio, il quale ha rifiutato l’ordine formale precostituito e non ha accettato l’instaurazione di rapporti tonali classici, può darsi che colmino, in qualche caso, con le punte avanzate di un linguaggio musicale lampeggiante e senza nesso apparente, lo spazio “del tutto irrazionale” che mancava alla musica, consentendo all’inconscio di produrre stimoli che portino ad un genere di sonorità del tutto diversa dalla consueta composizione classica.
Ed è all’americano John Cage che si devono sistemi di notazione “irrazionale” che puntano sulle reazioni imprevedibili del lettore-esecutore, sistemi utilizzati dai cosiddetti compositori “aleatori”. Insomma, il vecchio sistema tonale, o scala d’ottava, che permetteva un certo grado di prevedibilità in ogni musica, per cui la composizione musicale rendeva gli accordi tali da indurre l’ascoltatore ad essere in grado di “possedere” una composizione, non si ritrova più in questo tipo di nuova musica, la quale ha cercato di rendere, invece, i suoni sotto il segno di una libertà assoluta e secondo leggi non più riconoscibili.
Non è questa, forse, in un certo senso, la stessa “libertà” di cui usufruisce la follia?
6 Gli inventori e la stravaganza
Arte e scienza, afferma Martin Kemp, sono pressoché indiscernibili, in quanto l’esperienza estetica e quella cognitiva sono un tutt’uno, come ha dimostrato l’attività creativa di Leonardo da Vinci. E così, stranezze e bizzarrie, alienazione e atteggiamenti maniacali non si riscontrano solo negli artisti, il cui genio, per definizione, si pasce della sregolatezza tipica dei creativi, ma si rilevano anche nei protagonisti della scienza, nei grandi inventori, nei filosofi, negli ideatori di grandi scoperte tecniche, in coloro che approfondiscono i più intimi segreti della natura. Insomma, gli scienziati, che, dovendosi raccapezzare nel caos dell’universo, sono tenuti ad essere “mentalmente” chiari e disciplinati, per rendere più efficace il loro sapere e per approfondire la ricerca sistematica, in molti casi, pur essendo persone “di primo piano”, hanno sorpreso per qualche tratto balzano nel loro carattere.
E così, infatti, è accaduto che, innescato il sacro fuoco del lavoro di ricerca scientifica, il furore creativo ha travolto l’esistenza di alcuni apprendisti stregoni, conducendoli nell’antro infernale della esaltazione, della frenesia aberrante e in deliranti vaneggiamenti, come accadde, alla fine del XVIII secolo, allo scopritore dell’uranio, Martin Klaproth, che, ad un certo momento della sua esistenza smarrì la via della ragione.
Il grande pedagogista Jean Jacques Rousseau, autore de L’Emilio e del Contratto sociale, è un esempio di genio strampalato, il cui stato mentale potrebbe essere definito bordeline. Eppure le sue opere sono di grande valore e su di esse si basano spesso la sociologia e la pedagogia moderna. Rousseau era affetto da crisi paranoiche e fu ossessionato, tutta la vita, da idee persecutorie che lo resero inviso a chiunque lo frequentava. Secondo René Laforgue, la malattia del filosofo ginevrino si manifestava sotto tre diversi aspetti: esibizionismo, pulsione irrefrenabile alla confessione e mania di persecuzione. Rousseau aveva un incontenibile bisogno di scrivere non solo perché ciò gli procurava autostima ma perché egli si considerava un redentore, e, di conseguenza, s’era posto il compito di migliorare l’umanità col suo trattato pedagogico l’Emilio.
Inoltre Rousseau aveva uno spasmodico bisogno di mettere a nudo le bassezze dell’animo umano e di guardare così in faccia la miseria della condizione individuale, cosa che fece nelle sue Confessioni; il terzo tratto caratteriale di Rousseau, afferma Laforgue, scaturì dalle sue infelici esperienze dell’infanzia, i cui traumi gli comportarono una aberrante paura d’impotenza e il timore panico di una omosessualità più o meno latente.
E, a questo proposito, passando ad altro autore, è noto che Johann Joachim Winckelmann, fondatore dell’archeologia, visse in modo drammatico la propria omosessualità. Winckelmann cercava di nascondere quella passionalità carnale che egli avvertiva verso il corpo maschile (a quei tempi essere omosessuali poteva far insorgere problemi con la giustizia), adducendo come scusa, per la sua necessità di compiacersi della bellezza virile, l’avere appreso durante gli studi liceali il fatto che un tempo, sommo ideale della Grecia classica, era stato il corpo umano maschile. Ma l’interesse del famoso archeologo per il corpo maschile, soprattutto quando si trattava di quello di un giovane che corrispondeva all’ideale “classico” della bellezza e della nobiltà (kalòs kagathòs), era aumentato vieppiù in età avanzata, e ciò aveva spinto Winckelmann a praticare in modo sempre più disinibito i rapporti omosessuali. Qualche tempo prima di morire Winckelmann scrisse ad un amico, esplicitandogli il proposito di prendere con sé e di educare un giovane perché potesse fargli compagnia nella tarda età. Per ironia della sorte, sebbene l’archeologo avesse cercato di nasconderla, la sua omosessualità venne in luce traumaticamente, quando, nel 1768, con grande scalpore, si ebbe la notizia che colui che ha avuto una parte di primo piano nel risveglio dell’amore per la cultura classica, era stato strangolato da un giovane col quale, in precedenza aveva cenato in intimità, e col quale era andato a letto.
Per una serie di circostanze venne scoperto e, in seguito, condannato l’assassino dell’archeologo. Il giovane omicida, prima di essere giustiziato, affermò che aveva compiuto quel gesto perché si era sentito troppo “oppresso” dalle attenzioni del suo anziano amico.
Il filosofo Friedrich Nietzsche, uno degli uomini più intellettualmente vivaci dell’Ottocento, mente lucida e illuminata, morì, purtroppo, a cinquantasei, a causa di una malattia mentale che lo ridusse in breve tempo ad una larva umana. Infatti, negli ultimi anni della sua vita rimase quasi inebetito. E un altro grande filosofo dell’Ottocento, capostipite dell’esistenzialismo, il danese Sören Kierkegaard, era spesso affetto da crisi maniaco-depressive e ossessionato da paure ipocondriache e da allucinazioni. Kierkegaard, per sua stessa ammissione, affermò di avere dissipato l’ingente patrimonio ereditato dal padre, perché il dilapidare tanto denaro gli dava una esaltante ebbrezza e si era dimostrato l’unico antidoto per fronteggiare le insopportabili crisi depressive che lo assalivano. E tuttavia, malgrado questi gravi disturbi, o forse proprio per questo, Kierkegaard fu grande indagatore dell’animo umano, in pratica uno dei grandi psicologi dell’era moderna. Vincenzo Rapisarda gli riconosce il merito “di avere affrontato per primo il problema dell’ansia in una prospettiva esistenziale” e, inoltre, di avere proposto una definizione del concetto di ansia come “paura senza oggetto”, che, in pratica, è la espressione con la quale a tutt’oggi viene identificata l’ansia.
Studiando la vita degli scienziati, gli psichiatri E. Plank & R. Plank, e A. Storr, hanno rilevato, per esempio, che le tendenze caratteriali che inducono a scegliere l’atteggiamento positivo verso la matematica derivano da un processo sublimatorio, utilizzato dall’Io per risolvere problemi di ambivalenza.
Secondo Storr, infatti, Isaac Newton, cercò sempre di minimizzare la propria depressione, dovuta al fatto di essere stato abbandonato da piccolo dalla madre, compensando quella carenza affettiva con lo studio delle scienze matematiche.
In seguito, sempre secondo Storr, Newton divenne permaloso, e ossessionato dalla paranoica paura che altri si appropriassero delle sue scoperte scientifiche. Anche Biagio Pascal, a causa della perdita della madre, fu uno spirito depresso, ed ebbe la tendenza alla ricerca nel campo della fisica e della matematica, perché quella scienza, comportando un grande impegno mentale, lo distraeva dai guai psichici. Ma in Pascal, secondo Sporr, l’operazione di rimozione non ebbe esito del tutto positivo dal momento che le carenze affettive gli determinarono disturbi psicosomatici gravi e apatia sessuale. A causa di quei disagi psicoemotivi Pascal rifiutava qualsiasi sostituto della madre, cibo compreso, il che lo portò anche all’anoressia. In quanto al sesso, poi, la ferita edipica allontanò il filosofo dalle donne. Pascal, inoltre, avvertiva una strana “debolezza alle gambe”, che gli derivava probabilmente da una somatizzazione, e che era forse un modo per esprimere il desiderio di essere tenuto in braccia dalla madre, cosa che gli era mancata da bambino.
Lo scienziato cecoslovacco Kurt Göedel, fu internato più volte in ospedali psichiatrici, per depressione e a volte anche perché in preda a crisi di paranoia. Eppure Göedel fu uno dei più grandi studiosi di logica matematica di tutti i tempi. Egli, nel 1930, dimostrò che l’uomo ha raggiunto i confini della logica classica. E tuttavia, pur avendo tanta “lucidità” mentale e sebbene la sua sia stata una impresa scientifica poderosa, mai riuscita a nessuno studioso prima di lui, Göedel passò buona parte della sua vita nei manicomi. Altra mente di alto livello, ma, a dir poco, eccentrica, fu John von Neumann, ideatore di un tipo complesso di calcolatore elettronico. Neumann era capace di leggere un libro e poterlo riferire anche dopo molto tempo, parola per parola; e malgrado ciò a volte “non ci stava più con la testa”: era distratto e svagato, tanto da perdere “la bussola” e da non sapere più nemmeno rientrare a casa, perché dimenticava dove abitava.
Anche un grande genio come Albert Einstein ebbe atteggiamenti, a dir poco strani se non nevrotici. Nel periodo in cui Albert convisse con Milena Maric, nacque loro una bambina, ma il fisico non volle riconoscerla come propria figlia perché temeva che sua madre Pauline Kock, non avrebbe accettato che il suo Albert avesse figli ad di fuori del matrimonio. Per ciò, la bambina venne data in affidamento, e di lei Albert non ne seppe più nulla. Altro atteggiamento strano il grande fisico lo manifestò quando, qualche tempo dopo che s’era sposato, scrisse una lettera a Milena, ingiungendole, con un vero e proprio diktat demenziale (che compromise la loro relazione), di sottostare ad un menù di comportamenti affinché “la loro convivenza non sfociasse in alterchi”. Questi erano alcuni degli ordini impartiti dal marito verso la moglie convivente, anch’essa una scienziata: “I miei vestiti e la mia biancheria devono essere tutti in ordine; i tre pasti dovranno essere serviti regolarmente nella mia camera; rinuncerai ad ogni relazione con me, oltre a quelle richieste per mantenere le apparenze in società; non mi chiederai di passare il mio tempo a casa con te; non mi devi chiedere di uscire o fare viaggi assieme; devi lasciare immediatamente e senza protestare la mia stanza o il mio studio quando ti chiedo di andare via; non mi rimprovererai perché non mostrerò affetto per te; dovrai rispondermi subito quando ti parlo; etc”.
Qualche mese dopo Milena abbandonò il marito e andò a vivere in Svizzera.
Anche tra gli studiosi della psiche si annoverano insigni personalità che hanno patito sofferenze esistenziali. Alcuni di essi hanno confessato di essersi interessati ai problemi psicologici perché avevano avvertito che i disagi che riscontrano i nevrotici, sono spesso più o meno simili ai problemi di cui soffre l’umanità. Del resto, afferma Binswanger che, paradossalmente, per capire al meglio un alienato bisogna avere vissuto, almeno per qualche momento, quella condizione.
E così non si può tacere che Sàndor Ferenczi, tra i primi grandi psicoanalisti fondatori della scuola freudiana, allievo e pupillo di Sigmund Freud, il quale lo riteneva suo successore al comando della Società Psicoanalitica, verso la fine della sua breve esistenza ebbe crisi depressive, fobie e manifestazioni nevrotiche, che indussero Ernest Jones, a diagnosticare per il collega Ferenczi una psicosi latente. Anche allo psichiatra Otto Rank, uno studioso che aveva molto contribuito agli studi psicoanalitici, venne riscontrata una forma di psicosi, e a causa di ciò venne invitato a dimettersi dalla Società Psicoanalitica Viennese. E ancora: Fritz Perls, autore di un fondamentale trattato sulla Gestalt, fu soggetto, com’egli stesso ammise, a svariati periodi di depressione ed ad atteggiamenti paranoici, il che lo portò al desiderio di studiare e combattere questi stati psicopatologici, per cui fondò in California The Esalen Institute. Anche Melanie Reizes Klein, personalità di spicco nel movimento psicoanalitico delle origini, dietro la facciata di psicoterapeuta impeccabile “aveva una vulnerabilità da bambina, unita a una coscienza di sé da persona pienamente matura”. Da ragazza, Melanie, pur non essendo stata toccata da drammi angosciosi, ma essendo dotata di una sensibilità, di una intelligenza e di una acutezza psicologica non comuni, aveva sofferto, per alcune circostanze della sua vita, più di quanto non avrebbe patito se fosse stata una persona meno reattiva. I punti cardini che condussero la Klein a una sensibilità molto vicina al disturbo dell’umore furono il rapporto con una madre invasiva e oppressiva, l’avere avuto un padre che si disinteressava dei figli e della famiglia, e i litigi con i due fratelli. In seguito, i suoi disturbi aumentarono a causa del mancato feeling col marito, Arthur Klein, uomo che la Reizes aveva sposato per pura convenienza e dal quale presto divorziò. Tutti questi eventi produssero in Melanie una infelicità che si tramutò ben presto in una depressione che la donna cercò di curare prima nella clinica svizzera di Chur, e, in seguito, quando ella aveva trentadue anni, si sottopose a terapia psicoanalitica con Sandor Ferenczi. Conclusa favorevolmente la psicoterapia, Ferenczi introdusse la Klein nell’ambiente psicoanalitico, facendola partecipare al congresso che si svolse a Budapest, ove, l’ex paziente poté incontrare Freud e in seguito a ciò aprire con lui un proficuo dialogo che, qualche tempo dopo, la portò a diventare membro della Società Psicoanalitica.
In quanto ad Alfred Adler, il quale era convinto che vi fosse uno stretto collegamento tra la spinta creativa e il complesso d’inferiorità, si può mettere in correlazione il suo tipo di ricerca col suo vissuto personale. Analizzando l’evoluzione psicologica di Adler, appare chiaro che la sua teoria deriva anche dalla sua vicenda personale: infatti, quando Alfred era giovane, venne colpito da varie e gravi malattie, quali, tra le altre, rachitismo e asma, il che gli creò un “complesso d’inferiorità” che emerse soprattutto nella prima parte della sua vita. L’influenza di tale sofferenza è evidenziata sia nel tipo di ricerca condotta in seguito dallo scienziato, come anche nella teoria che Adler sviluppò. Egli difatti ritenne che vi fosse il complesso d’inferiorità all’origine di ogni nevrosi. Conoscendo i disagi giovanili di Adler, è dunque possibile associare al periodo più delicato della sua vita l’origine delle sue teorie psicologiche e il senso delle sue ricerche.
- G. Jung, spirito sensibile e in parte anche suggestionabile, risentì molto del forte impegno psichico profuso nella sua attività di elaboratore di nuove scoperte scientifiche, tanto che egli visse in una situazione drammatica quando credette persino di udire delle voci che gli parlavano. Da questa situazione psicopatologica Jung si salvò perché immaginò di essere guidato da quella che chiamò “l’idea forte”, la quale gli consentì di constatare che era stimato dai pazienti, dalla comunità e dalla propria famiglia.
La tensione psichica creativa non risparmiò gravi stress nemmeno al padre della psicoanalisi. Sigmund Freud, che era molto narcisista ed aveva un carattere accentratore, riusciva quasi sempre a contenere la sua ira quando veniva a contrasto con qualcuno, ma in tre casi, forse perché troppo travolto emotivamente, lo scienziato arrivò persino a svenire. In due di queste vicende, il fatto avvenne dopo uno scontro frontale col pupillo, C. G. Jung.
La prima volta accadde nel 1909, a Brema: i due erano a pranzo, e Jung s’intestardì a raccontare storie di cadaveri e di mummie, argomento che diede ai nervi a Freud, il quale si arrabbiò esageratamente e svenne. Quando si riprese, Sigmund Freud giustificò il suo mancamento affermando che aveva ritenuto che quell’insistente parlare di morti su cui s’era dilungato Jung, gli aveva data la sensazione che il suo allievo avesse un desiderio di morte verso di lui. Del secondo svenimento di Freud, anche questa volta la causa fu Jung. Il fatto accadde dopo che tra i due si sviluppò, durante un Congresso, una vivace discussione causata dal risentimento manifestato da Jung nei confronti del maestro perché questi non era andato a trovarlo quando andò a Zurigo per incontrare Ludwig Binswanger. Freud spiegò a Jung che se non era andato a trovarlo non era stato per scortesia, ma perché aveva avuto fretta di tornare a Vienna. Dopo quel battibecco Freud era molto scosso anche perché, poco dopo ebbe un altro contrasto con Jung e Riklin, e li rimproverò di avere divulgato alcuni articoli senza avere accennato al suo nome. Jung replicò dicendo che non gli era sembrato necessario apporre il nome del maestro, considerato quanto egli fosse conosciuto. A quel punto, Freud, tra l’imbarazzo e lo sbigottimento generale, svenne.
La terza volta Freud svenne nell’Acropoli di Atene. Questo episodio pare sia dovuto alla grande emozione avvertita dallo scienziato per essere al cospetto di quella magnifica opera del genio greco, che egli aveva tanto desiderato vedere, e forse, anche a causa dell’agitazione che comparve improvvisamente alla sua mente, sollevata, forse, per associazione d’idee, dal problematico rapporto che Freud ebbe col padre.
In realtà però si trattò di episodi marginali, che certamente non mettono in dubbio le qualità psicologiche di quel grande scienziato, ma che tuttavia sottolineano come qualsiasi personalità creativa è esposta a stress intensi, e che, a volte, vi sono incidenti emozionali che non possono essere evitati, nemmeno se si è un personaggio della levatura di Sigmund Freud.
Cesare Musatti, da grande dissacratore qual era, mise idealmente anche Sigmund Freud sul divano analitico. Musatti provava gusto non tanto nell’abbattere, quanto nell’umanizzare i grandi scienziati e mostri sacri della psicologia. Nel caso di Freud, l’averlo posto sul lettino psicoanalitico significò ben altro per Musatti: era un voler dare maggior credito alle scoperte freudiane, dimostrando che nemmeno chi ha inventato quel tipo di ricerca, come qualsiasi altro individuo, creativo o meno, può dirsi esente da un pizzico di nevrosi. Afferma E. Neumann, che nella persona creativa è presente una forte tensione psichica che fa vivere in una dimensione più ampia ma più “pericolosa”. E lo psicoanalista Aldo Carotenuto aggiunge che si possono realizzare opere di valore universale solo quando si è immersi nella dimensione fantastica fino a raggiungere contenuti universali. Lo psicobiologo Freeman Dyson, una delle menti più fervide dell’University’s Plasma Physics Laboratory di Princeton ha affermato: “La nostra università è piena di pazzoidi sul punto di fare qualcosa di grandioso che passerà alla storia. Perché non si dovrebbe essere folli? La Natura è folle. Mi piacerebbe vedere più gente stramba qui all’Istituto”.
7 Il suicidio dell’artista
Il suicidio, afferma, Claude Sigismond, è un atto denso di significati, non una malattia; è un atto umano, e può essere una fuga, un ricatto, l’espressione di un lutto, un atto disperato e persino un atto d’aggressività. Ogni uomo, afferma Sigismond, per condurre la propria esistenza appronta un certo numero di strumenti psicologici, che costituiscono il puntello e la propria strategia di vita. Quando, per caso, vengono meno alcuni (o buona parte) di questi sostegni, l’individuo avverte un senso di fallimento, che può essergli fatale. Malgrado possa sembrare assurdo, tutta l’umanità subisce da sempre il fascino malefico del suicidio. Ed è l’incapacità di capirsi, la depressione, la disperazione o i dissapori con se stesso e con gli altri, o il credere di non essere stato ben valutato, che più o meno consciamente inducono a volte a cercare “la fine”. In un certo senso, vi è una subdola cultura del suicidio (come si evince dal detto: “meglio la morte che il peccato!”) e inoltre vi sono anche forme mistificate di suicidio. Chi assume sostanze tossiche, dalle droghe alle sigarette, da certi anabolizzanti a sostanze micidiali per l’organismo, non cerca forse, anch’egli, consciamente o meno, il suicidio? E i kamikaze giapponesi, i Crociati che morivano in guerra “perché Dio lo vuole!”, i fedayn Islamici che imbottiti di tritolo fanno esplodere la carica che hanno addosso, sicuri di finire nel giardino di Allah, non sono esempi di suicidi? E persino i “martiri”, cercando di sfuggire ad una forma di vita che non accettavano, preferivano morire piuttosto che abiurare; così facendo, in sostanza, essi “lasciarono ad altri la responsabilità di por fine alla loro vita” ovverosia cercarono una forma, sebbene impropria, di suicidio.
I propositi suicidi restano, inoltre, a volte celati per anni nelle pieghe più recondite dell’animo umano. Fortunatamente, quasi sempre, si mutano in sfoghi autocommiserativi che compensano l’avvilimento causato da una sconfitta.
A volte, però, l’artista disperato che smarrisce la ragione, spinto dalla depressione, pone in atto l’insano progetto, ritenendolo utile ad evitare qualche, vera o presunta, umiliazione nei confronti del proprio talento. Ma sarebbe oltremodo azzardato indicare una connessione tra lo snervante logorio della creatività e il suicidio, anche se, tuttavia, alcuni geni si sono tolta la vita, col pretesto che gli è sfuggita la gloria, o hanno posto fine ai loro giorni come estremo atto ideologico causato dalla coscienza dell’insipienza della condizione umana.
La psichiatra americana Nancy Andreasen ha condotto un accurato studio sui parenti di trenta scrittori e artisti, confrontandoli con un gruppo equivalente di individui che non avevano legami con artisti. La studiosa ha constatato che nei ceppi familiari dei geni che presentano disordini mentali, i disturbi psichici sono frequenti anche nei parenti e, anzi, spesso, i genitori di persone creatrici, mostrano evidenti alterazioni psicopatologiche. Tanto per fare qualche esempio: due fratelli di Henry James erano malati di nervi; Theo, il fratello prediletto di Van Gogh e la sorella Wilhelmina furono ricoverati più volte in manicomio; e un altro fratello di Vincent, Gérard, si suicidò giovanissimo. Il padre di Ernest Hemingway, uno zio e una zia dello scrittore si suicidarono. Ernest Hemingway visse in bilico tra depressione e narcisismo di macho e, malgrado il profondo realismo, il senso della combattività, l’amore per la vita che si trovano nelle pagine delle sue opere, finì i suoi giorni suicida.
Forse fu la tensione emotiva, l’eterna inquietudine che egli si trascinò dalla nascita a fargli scrivere pagine bellissime, ma che fu anche la causa della sua fine. In quanto al filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, che trascorse in convento un lungo periodo di depressione, due suoi fratelli si suicidarono.
Tuttavia, se in qualche caso la depressione è il prezzo che qualche individuo paga per affinare la propria creatività, non bisogna generalizzare e ritenere il suicidio come fenomeno comune tra gli artisti e tra i pensatori. Infatti, se in alcune famiglie di artisti suicidi è stato accertato che vi erano componenti del nucleo che soffrivano di depressione, questo non autorizza ad affermare che ciò si riscontra in tutte le famiglie di persone creative. Infatti è probabile che una tendenza alla depressione e al suicidio possa rilevarsi pure in famiglie meno note, ma poiché una simile indagine, non trattandosi di casi di persone culturalmente interessanti, sfugge alle statistiche, il fatto è stato riscontrato “prevalentemente” nelle famiglie dei creativi.
E che il suicidio del creativo faccia notizia, lo si rileva anche nell’antichità. In passato, infatti, se questo insano gesto veniva compiuto da un artista era considerato quasi un symbol. Tito Lucrezio Caro e Marco Anneo Lucano si diedero la morte, e Catone Uticense, prima di darsi la morte, volle leggere alcuni passi del Fedone di Platone e poi si trafisse il petto con la spada.
E si diede la morte anche l’architetto Francesco Borromini, uno degli artefici degli splendori della Roma seicentesca, il quale si suicidò trafiggendosi con una spada. Prima di perdere definitivamente i sensi, con grande sangue freddo, l’architetto dettò ad uno scrivano, per filo e per segno le fasi del suo gesto e le sue ultime volontà. E tuttavia, prima che avesse messo in atto quella sciagurata risoluzione, nulla lasciava prevedere quel gesto del Borromini, nemmeno il fatto che di tanto in tanto l’angosciasse una fastidiosa forma asmatica, che di notte non lo faceva dormire e che frustrava la sue forze; per il resto egli lavorava sodo, con fervore e con ingegno, anche se, negli ultimi tempi, era ossessionato da funesti pensieri e da una strana forma di gelosia per le proprie opere.
Nella seconda metà del ‘700 si suicidò, a diciassette anni, il poeta Thomas Chatterton, e si diede la morte un altro poeta, il quarantacinquenne Thomas Lovell Beddoes, eccentrico e stravagante personaggio della prima metà dell’Ottocento,
Macabro fu il suicidio di Gérard de Nerval, scrittore forse poco conosciuto agli inizi dell’Ottocento, ma apprezzato in seguito dai surrealisti e valorizzato anche da Marcel Proust. Gérard de Nerval, a causa della sua depressione, in un primo tempo venne rinchiuso in una clinica. In seguito, dopo essere stato dimesso, egli si tolse la vita in un modo grottesco: venne ritrovato appeso con una corda al collo alle sbarre di una finestra in un sordido vicolo di Parigi, con un cappello a cilindro ben piazzato sul capo.
Lo scrittore surrealista René Crevel, animo tormentato e artista di talento, del quale rimangono personaggi tragici, scarni, allucinati, al pari della sua stessa conformazione psichica, dopo una drammatica esistenza, “trovò pace” togliendosi la vita. A molti surrealisti il suicidio sembrò quasi una conclusione obbligata. Uno di essi, Jaques Rigault scrisse, prima di metterlo in pratica, che “il suicidio è una vocazione”. Il suo gesto venne copiato da altri “colleghi” surrealisti, come Drieu La Rochelle e Jacques Vacché. Qualcuno ha voluto trovare nell’ideologia stessa del surrealismo la coscienza del vuoto che porta all’abisso della fine, in quanto, come sosteneva Paul Valery, il surrealismo edifica per abbattere, e crea personaggi allucinati che si specchiano nel nulla. E fu la straziante incomunicabilità che spinse il poeta Vladimir Majakovskij al suicidio. Il poeta russo cercò di farsi apprezzare nella sua terra, ma, paradossalmente, ritenne di essere sempre più artisticamente lontano dalla comprensione dei suoi concittadini. Inoltre, a indurlo a quel folle gesto, contribuì anche il fatto che non poté rassegnarsi ad essere stato abbandonato dalla sua Lili Brik.
La commistione romantica tra creatività e amore infelice, è una miscela esplosiva in ogni tempo. Il giornalista Jean-Louis Bory del Nouvel Observateur, quando aveva trent’anni, ammise in una intervista che da giovane aveva rischiato il suicidio per un mal d’amore, gesto che non evitò, quando ne aveva sessanta, perché, depresso, s’era messo da parte e non era riuscito più ad interessare la giovane Bory, con la quale era vissuto alcuni anni e che lo aveva lasciato essendo stanca dei suoi continui malumori.
Ma ciò che può indurre l’artista alla rottura con la vita dipende da varie circostanze: il cantautore Luigi Tenco si suicidò per non aver avuto successo al Festival di Sanremo. “Morire è meno faticoso, meno snervante e fa soffrire meno” aveva detto sotto l’effetto dell’angoscia del perdente, Luigi Tenco. Tentarono di togliersi la vita, per lo stesso motivo, anche Anna Identici e Armando Stula. Uguale sorte quella di Iolanda Gigliotti, Dalida, che si suicidò nel 1987, a cinquantaquattro anni, dopo tanti successi, forse perché ossessionata dalla paura di diventare grassa, ma soprattutto perché temeva d’apparire sorpassata. Nel 1972 si suicidò Henri de Montherlant, scrittore membro della Accadémie française, perché paventava di diventare cieco.
Per essere stato bocciato dagli editori o dal pubblico, si tolse la vita lo scrittore Guido Morselli e lo stesso motivo indusse al suicidio lo scrittore Franco De Longis, il quale, dopo avere pagato, invano, pagine e pagine di giornali italiani e stranieri, per pubblicizzare il suo romanzo Il cerchio, non riuscì mai a piazzare la sua opera. E forse fu proprio a causa dei dissapori con l’editore e con i critici, che si suicidò l’autore di Il maestro di Vigevano, Lucio Mastronardi. Identica fine quella del drammaturgo Heinrich von Kleist le cui delusioni per i mancati successi artistici, si sommarono alle angosce esistenziali, fino a indurlo, ineluttabilmente, al gesto disperato, che compì assieme alla sua fedele amica Henriette Vogel.
Emilio Salgari, invece, pose fine ai suoi giorni per un motivo del tutto indipendente dalla sua professione: egli era affranto e desolato per ricovero improvviso della moglie in manicomio. E fu anche fortemente turbato dalla morte della moglie, l’antropologo Géza Róheim, studioso che applicò la psicoanalisi alla comprensione delle culture umane. Egli, in pratica si lasciò morire, non essendosi più ripreso dal dolore per quel lutto. Lo scrittore Jack London, che ha affascinato con i suoi romanzi d’avventura generazioni di lettori, si diede la morte a quaranta anni.
Spesso, al suicidio, qualcuno arriva per gradi, o dopo tentativi, come accadde al poeta operaio ungherese Attila Jòzsef e allo scrittore russo Sergej Esenin. In qualche caso, invece, è paradossalmente l’arrivo del successo inaspettato, come nel caso dello scrittore Carlo Michelstaedter, che produce un crollo emotivo che porta all’insano gesto. Altre volte, è il drammatico passato, mai “metabolizzato”, che induce a spezzare il cerchio angoscioso e insopportabile, come nel caso di Primo Levi, il quale fu travolto dalla ineliminabile, dolorosa sindrome dell’olocausto.
In quanto allo scrittore giapponese Yukio Mishima, dopo avere affrontato nei suoi libri le passioni più torbide dell’umanità, scelse il suicidio come fuga dalla ipocrisia della vita. E il regista James Whale, ossessionato dalla incipiente vecchia, si tolse la vita a 68 anni, perché abbandonato dal suo ultimo amore, il venticinquenne attore Pierre Foeghel. Akira Kurosawa, il grande regista giapponese, tentò il suicidio dopo l’insuccesso commerciale di Dodes’ka-den, il film che ritrae la società giapponese odierna, soprattutto quella composta dagli emarginati. L’opera, non compresa dal grosso pubblico e osteggiata dalla critica fu un fallimento e il regista, dopo il tentativo di togliersi la vita, profondamente depresso, rimase in disparte per cinque anni.
In quanto a Virginia Woolf, molto probabilmente, ella fu stimolata proprio dalla problematicità esistenziale, che accompagnava la nevrosi di cui era affetta, a scrivere opere di grande levatura letteraria. Ma quella insopportabile tensione fu forse lo stimolo che la indusse a porre fine ai suoi giorni. Anche la settantenne Elsa Morante, costretta per molti mesi a letto dopo essersi rotto il femore, depressa ed avvilita a causa di un improvviso peggioramento delle sue condizioni, tentò il suicidio aprendo il rubinetto del gas. Tentò il suicidio, perché più volte ferita nell’orgoglio, anche una scrittrice femminista e contestataria, Mary Wollstonecraft, la quale si gettò dal ponte Putney nel Tamigi, e venne salvata a stento da alcuni pescatori.
La malinconia ha distrutto un artista di talento come Nino Ferrer, indimenticabile interprete di tante canzoni. Egli si era ritirato nel Sud della Francia, aveva preso a dipingere, stava scrivendo la sua biografia, e ad un tratto, senza lasciare qualche rigo di commiato alla moglie, con un colpo di fucile alla tempia mise fine alla sua esistenza. E nemmeno dello scrittore Arthur Koestler, che si suicidò a Londra, si conoscono i motivi di quel gesto. A quel tempo Koestler era ancora uno scrittore di successo e, in apparenza, aveva avuto tutto dalla vita. Forse il movente che lo spinse a porre fine ai suoi giorni, secondo alcuni, deriverebbe dal fatto che lo scrittore coltivava “particolari” propensioni sessuali e, in ogni caso, Koestler sicuramente perse la tramontana a causa dell’eccesso nel bere. Si suicidò anche lo scrittore peruviano José Maria Arguedas, con un colpo di pistola alla tempia. Prima dell’insano gesto scrisse un toccante biglietto che fece recapitare al rettore della facoltà dove insegnava: “Me ne vado perché sento di non avere più l’energia e l’ispirazione sufficiente per continuare a lavorare, vale a dire per giustificare la mia stessa vita”
Nella metà del Novecento, morì suicida anche il pittore di origine russa, Nicolas de Staël, che da Pietroburgo era emigrato prima in Polonia e poi s’era stabilito ad Antibes, ove aveva ottenuto la cittadinanza francese. De Staël fu un animo tormentato: le sue ricerche cromatiche, la tecnica del colore saturo di luce, furono ritenute tra le più interessanti della pittura contemporanea e tuttavia ritenendo di non essere sufficientemente apprezzato, caduto in depressione, si tirò un colpo di pistola. Anche un altro pittore, più o meno in quel periodo, Sergio Romiti, che era entrato in “rotta di collisione” con i critici perché non l’apprezzavano, dopo aver smesso di dipingere per alcuni anni, travolto da una delle sue crisi depressive, a 72 anni mise fine anch’egli alla ossessiva necessità di essere valutato come grande artista.
E suicidio sensazionale fu quello dello scrittore Otto Weininger che a ventitré anni pose fine alla sua esistenza, sparandosi platealmente nella stanza dove, tanti anni prima, era morto Beethoven. Il clamore di quel gesto contribuì ad aumentare vertiginosamente le vendite di Sesso e carattere, opera che egli aveva da poco dato alle stampe. Suicidi “eccellenti” furono anche quelli del pittore Richard Gerstl, dello scrittore Stefen Zweig, del poeta Josef Weinheber.
Il fondatore del positivismo, Auguste Comte, a 28 anni, manifestò crisi di malinconia e deliri di grandezza, tanto da dover essere internato. Egli tentò due volte di togliersi la vita, e la seconda volta addirittura dopo la dimissione dall’ospedale del dottor Esquirol. Anche Guy de Maupassant cercò, ma senza esito, di porre fine ai suoi giorni; e ci provarono, ma non vi riuscirono, lo scrittore Henry James e il filosofo Ludwig Wittgenstein.
Una vita alla ricerca della bella morte, fu quella dello scrittore Antoine de Saint-Exupéry, il cui presentimento-desiderio era di entrare nella leggenda con una fine che facesse scalpore. L’attore hollywoodiano James Cardwell, dopo un lungo periodo di depressione dovuta all’insuccesso di alcuni film nei quali non brillò particolarmente, si suicidò. La stessa sorte ebbe l’attore Grant Withers, che si suicidò a causa del fallimento della sua carriera.
Una nutrita casistica di suicidi la troviamo anche tra le scrittrici: Mary Shelley, Virginia Woolf, la russa Marina Cvetàeva, le poetesse Anne Sexton e Sylvia Plath, ed anche tra le attrici: Daniela Rocca, Diane Arbus, Jeanne Seberg, Margaret Sullivan, Peg Entwistle, Carol Landis, Anna Maria Pierangeli, Margaux Hemingway. Inoltre posero fine ai loro giorni la cantante Mia Martini e la francese Jeanne Hebuterne, pittrice di un certo talento, e giovane compagna di Amedeo Modigliani, che si gettò dalla finestra il giorno dopo la scomparsa dell’artista italiano.
Al dramma del suicidio non sono sfuggite nemmeno personalità che, per la loro professione, si sarebbe ritenuto che fossero immuni da questo tipo di pulsione. A metà del XX secolo, lo psicoanalista Paul Federn, autore di un trattato fondamentale sulle psicosi, affetto da un cancro alla vescica, preso dal panico, e temendo di dovere soffrire fisicamente, si suicidò. Vittorio Benussi, uno dei primi psicologi italiani morì suicida, così come, molti anni dopo, anche lo psichiatra e psicoanalista, Bruno Bettelheim, che, colto da crisi depressiva, pose fine alla propria esistenza. Si suicidò anche il sociologo Jacob Levy Moreno, l’inventore dello psicodramma, perché ormai si riteneva un malato inguaribile.
Nessuna malattia pare che affliggesse Alan Mathinson, matematico e filosofo inglese, che tuttavia decise di suicidarsi senza scrivere un rigo di spiegazione e senza che nessuno mai avesse potuto prevedere quel gesto.
Spesso è l’età avanzata che induce gli artisti a porre fine alla loro vita. Così fecero l’attore Charles Boyer, a 78 anni, l’attore George Sander, e il pittore Bernard Buffet, uno dei protagonisti della stagione dell’esistenzialismo, che troncò la sua esistenza a 71 anni.
Imprevedibile anche il suicidio del novantaduenne filosofo Roberto Ardigò, uno dei più significati rappresentanti del positivismo. L’editore Fortunato Formìggini, amareggiato dagli ostacoli frapposti alle sue iniziative editoriali, concluse a sessanta anni, con un tragico gesto, la sua vita gettandosi dalla torre della Ghirlandina a Modena; e a 67 anni, pare per motivi sentimentali, si è suicidato l’attore Luigi Pistilli.
Qualche artista, dopo aver bruciato la propria vita nel vano tentativo di appagare la propria ansia creativa, trova nel suicidio il gesto che mette fine alla logorante, tragica solitudine dell’essere un genio. Una conclusione, questa, tragicamente suggestiva e poeticamente romantica, che si evidenzia in un certo numero di suicidi tra i creativi, e che può far ritenere sia un gesto alquanto comune nell’ambiente dell’arte; ma in realtà, il suicidio dell’artista, non è un evento più frequente di quello che si registra che fra la gente comune.
Chi ritiene che l’artista sia più portato al suicidio dell’uomo della strada, sostiene che ciò dipende dalla tensione creativa, che sarebbe la via privilegiata per arrivare alle vette supreme, ma che corrode il sistema nervoso, e sarebbe anche causato dalla spasmodica competizione che s’innesca tra l’intellettuale e i suoi concorrenti.
Forse a causa di una visione più acuta della realtà, forse per quel navigare al disopra delle nuvole, che fa apparire tragica e magari strampalata la vita delle creature sovrane. Ma si tratta quasi sempre, invece, di individui le cui energie mentali tendono ad ottenere una comprensione della vita più ricca, più sensibile, più carica di esperienze. Probabilmente è inutile, se non impossibile, cercare un paradigma filosofico che possa inquadrare tutte le motivazioni del suicidio. In ogni caso, però, se si possono trovare mille giustificazioni e mille pretesti, difficilmente si può affermare che sia una costante tendenza degli artisti, sebbene, come s’è visto, vi siano vari esempi di personalità creative morte suicide.
8 Conclusioni
Forse è ipotizzabile che follia e genialità abbiano alcuni percorsi mentali comuni. Anche sul genio incombe, come a ristabilirne l’umanità, la spada di Damocle della stravaganza che, in verità, è uno stato particolare, diverso dalla psicopatologia, ma è una inquietudine che rende la sensibilità del creativo ineguagliabile.
Il poeta Novalis affermava che solamente colui che ha un animo profondo può scivolare nella follia. Secondo Novalis, la pazzia geniale non è quasi mai disordine delle idee, incoerenza, rottura con la realtà; essa è sofferenza che produce fantasie, esplosioni creative, innovazioni, eccezionali fantasticherie e, in qualche caso, esaltazioni narcisistiche. J.P.Sartre, scrivendo la vita di Jean Genet, affermò (forse un po’ troppo drasticamente): “il genio non è un dono innato, bensì la via di uscita per certi individui disperati”
“Pazzo e cane senza padrone e mostruoso”, si definiva Pier Paolo Pasolini, testimone sperduto per le strade della periferia romana, in preda ad una situazione d’angosciosa estraneità. Provocatore, pubblico accusatore, critico acuto e spietato, condusse una genere di vita che finì col portarlo in un vicolo cieco nel quale trovò la morte.
Scrisse Joseph-Ernest Renan che la storia dell’umanità dovrà essere esaminata attraverso lo studio delle umane follie, dei sogni e delle allucinazioni che si ritrovano in ogni pagina dello sviluppo dello spirito individuale e collettivo.
E Giovanni Cassano riporta un lungo elenco di artisti, scrittori e gente di spettacolo affetti da turbe psicologiche, da angosce, da distimie, da depressioni. Lo stesso Cassano ricorda il parere del dottor Louis Bertagna, molto noto in Francia come lo psicoterapeuta degli artisti, il quale afferma: “di fatto non esiste un solo essere eccezionale che non faccia almeno una depressione”.
E tuttavia, in qualche caso, quando la fatalità colpisce l’uomo di genio, sebbene a volte si tratti delle stesse disavventure che capitano anche ai più, di tali accidenti egli ne approfitta per farne materia della propria arte. Le migliori sinfonie Beethoven le scrisse negli anni della sua disperazione dovuta al sopraggiungere della sua più assoluta sordità, ed Haendel, quando divenne cieco, disperato e quasi ammattito per quella infermità, intensificò la sua produzione.
La follia colse Torquato Tasso quando aveva trentacinque anni. Il poeta, visse la sua esistenza in preda a squilibri psicologici, fino al contrastato amore per Eleonora D’Este, sorella di Alfonso d’Este, che era il suo munifico pigmalione; una passione, quella per Eleonora, che si rivelò nefasta, perché, sentendosi colpevole di “tradimento”, il poeta provò un forte ansietà e, temendo la persecuzione perché si credeva mal gradito dal Duca Alfonso, fu colto da un tale accesso di demenza furiosa, che venne imprigionato; e tuttavia, dopo un primo momento di sbigottimento, si mise a scrivere e così il dolore del poeta si tramutò in opera letteraria. Lo psicoanalista Hans Sachs, che studiò i fondamentali problemi dell’estetica, ne L’inconscio creativo sostiene che la fonte della creatività è l’inconscio, il quale sarebbe il punto di partenza di ogni produzione artistica. Ma la creatività rappresenta un’arma a doppio taglio; perché sono tante le creature che nutrono o hanno nutrito sogni di gloria e speranze di notorietà, che hanno lottato con tenacia per emergere e per dominare; ma le loro biografie sono, a volte, cosparse d’insensatezze, di gesti squilibrati che segnalano più che il naufragio della ragione la resa davanti alla complessità dell’essere.
Gli uomini e le donne dall’ingegno vigoroso e poliforme, che emergono dalla moltitudine per creare un capolavoro o per formulare teorie innovative, a causa delle continue tensioni emozionali e creative, sono creature “a rischio”, e il loro destino è in bilico tra le scoperte titaniche e il precipizio della alienazione.
Ma esistono limiti di sicurezza, nello sforzo della creazione, al di là dei quali il pensiero può perdersi? La sofferenza psichica che l’artista subisce nel momento della creazione quando oltrepassa il livello di guardia, può produrre disturbi psichici? Oppure il genio è genio proprio perché ha superato la soglia di sicurezza?
Forse, non vi è creatività senza angosce, senza sofferenze, senza rischi, senza inevitabili ferite nell’animo. “Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non di fatto, per uscire dall’inferno” ha scritto il poeta e regista Antonin Artaud.
Da uno studio degli psichiatri Hagop e Kareen Akiskal, che lavorano a S. Diego (California), condotto su venti scrittori, poeti e scultori europei, si rileva che i due terzi degli individui intervistati presentavano tendenze ipomaniache o ciclotimiche, e molti di essi avevano avuto più o meno gravi forme di depressione.
Secondo Freud esistono molti individui geniali che hanno gravi squilibri psichici ma ne esistono di quelli che possono essere definiti assolutamente normali. I primi, secondo lo psichiatra viennese, sono avvantaggiati dalla parte rimasta intatta delle loro personalità, e riescono ad essere creativi “nonostante” la loro struttura nevrotica o psicotica, gli altri, invece, sono creativi, proprio perché non hanno nessuna parte alienata nella loro struttura psichica.
Schopenauer era del parere che il genio vede le cose in maniera diversa da tutti gli altri. A. H. Maslow ritiene che la persona creativa sia un tipo particolare e speciale di essere umano che deve essere considerato nel suo complesso e non frammentariamente.
Sul problema dunque, se vi sia una correlazione tra intelligenza e creatività, gli studiosi non sono tutti d’accordo. Secondo Silvano Arieti benché le persone creative siano intelligenti, un quoziente intellettivo eccezionalmente alto non è essenziale per la creatività.
Bisogna inoltre tenere presente che la possibilità concreta di scoprire le pieghe più recondite della mente e della struttura empatica di un artista o di un inventore non sempre è esente da errori e da arbitrii d’interpretazione, soprattutto quando si tratta di analizzare artisti del passato. L’interpretazione psicologica di una personalità di questo genere dipende dalla quantità e dalla qualità delle notizie che si possono avere sulla sua vita, oltre che dall’analisi delle sue opere. Walkup, sottolineando forse troppo l’importanza della visualizzazione dei creativi scientifici, arrivò a dire, senza solide basi, che i grandi pensatori nel campo della scienza hanno una immaginazione visiva quasi allucinatoria. Cesare Lombroso, cercò di provare che molti geni avevano avuto gravi malattie mentali, ma per molti casi da lui riferiti è ben difficile essere certi che si trattasse di psicosi e non di “stranezze” da creativo. Lombroso infatti pose troppo l’accento sulle qualità negative dei grandi uomini e, nel suo trattato sul genio e la pazzia, accomunò Molière, Händel, Petrarca, Flaubert, Ampère, Comte, Pergolesi, Donizetti e tanti altri in quadri clinici di conclamate neuropsicosi.
- C. Jacobson, sostiene invece che i tratti patologici ostacolano la creatività e che le persone creative che ne sono affette producono le loro opere migliori nei periodi in cui sono più sani. Ma è pur vero, come afferma un allievo di George Devereux, François Laplantine, che dipende dalle varie culture decidere chi è pazzo e chi non lo è.
Anche Havelock Ellis, studiò il rapporto tra creatività e follia attraverso un considerevole materiale biografico (lettere, manoscritti, racconti di terzi) e le opere di molti autori, trasse la conclusione che, sebbene il genio sia a volte anche un po’ folle, non si può sostenere una teoria che ritenga la genialità una forma di pazzia.
I quadri di Salvator Dalì, per esempio, fanno scoprire, così come i suoi scritti, i tratti di una personalità geniale, anche se un poco matta: “… tutti gli uomini sono uguali nella loro pazzia, … la pazzia costituisce la base comune dello spirito umano”, afferma il grande pittore spagnolo che certo non può essere considerato matto, sebbene, come egli stesso ha scritto, anch’egli aveva una sua “paranoia personale”.
La chiave di lettura del processo creativo, e forse della vita in sé, molto probabilmente è quella che ci fornì proprio Salvator Dalì, il quale la racchiuse in un concetto abbastanza semplice: “se non sei un po’ matto, in questo mondo finirai con l’impazzire”.
9 Sommario
Alcuni grandi ingegni hanno attraversato, in vari periodi della vita, gravi crisi esistenziali. Rimbaud, Burns, Kafka, Scheber, Althusser, Burrougghs, Van Gog, e altri hanno avuto drammatiche difficoltà psichiche, ma molti di essi, fortunatamente, ne sono venuti fuori utilizzando la creatività come deterrente contro l’angoscia. Il genio, sia esso un letterato, un filosofo, uno scienziato, o un artista, poiché vede il mondo in maniera diversa dagli altri, soffre maggiormente le incongruenze e le insufficienze del suo tempo. E sebbene ciò gli dia la possibilità di anticipare nuovi modelli e magari di essere un rivoluzionario, tuttavia, questa esperienza lo rende e lo fa sentire differente dalle persone comuni.
La letteratura, il teatro il cinema e le arti figurative descrivono la drammaticità della vita tenendo sempre presente l’alienazione che si trova in molte circostanze della vita. E così, dai personaggi come Don Chisciotte, Re Lear, Enrico IV, Achab, Dinorah, Lucia di Lamermour, Medea, Grieta e tantissimi altri usciti dalla fervida fantasia di scrittori, musicisti, pittori, impariamo che la logica può contenere anche un pizzico di insensatezza, così come la follia può racchiudere una punta di ragione. E questo connubio intrigante tra creatività e follia, tra razionalità e assurdità, non solo ha prodotto suggestive opere d’arte, ma ha anche fatto comprendere che un pizzico di follia è inevitabile in molte circostanze della vita.
Summary
Some people of great genius have suffered existancial crises during their lives.
Rimbaud, Burns, Kafka, Scheber, Althusser, Burrougghs, Van Gog and other have had severe psychological difficulties. Many of them were able to overcome their problems using creativity as a remedy against existential anxiety. The genius, whether phylosopher, scientist or artist suffers greatly the incongruent aspect of his time because is able to observe the world in an unconventional fashion. Although the genius is often an innovator, and revolutionary thinker,his uncommon experience of the world makes him/her feel different from the common people. Literature, theatre, cinema, and all liberal arts describe the drama of life as the alienation inherent to many events of daily living. When we read of Don Quijote, King Lear, Enrico IV, Achab, Dinorah, Lucia di Lamermour, Medea, Grieta and many others described by writers, musicians, painters we learn that logic thinking may include a bit of nonsense, as well as madness may contain aspects of reason. The intriguiging coupling of creativity and madness, of rationality and absurdity produced interesting works of art but let all of us aware of the inevitable madness of many life circumstances.
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IL VIDEO NELLE TECNICHE DELL’EDUCAZIONE E DELLA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA E PSICOSOCIALE
Ricerca clinica e possibilità terapeutica
A partire dal 1882, nella clinica di Charcot, all’ospedale della Salpêtrière di Parigi, il dottor Albert Londe, su espressa indicazione del grande psichiatra francese, fotografò i malati di mente.
L’intuizione di Charcot di fotografare i degenti durante tutto il periodo di ricovero fu una vera rivoluzione perché l’immagine fotografica migliorava l’informazione nei riguardi del malato: si potevano visionare e confrontare immagini relative ai vari periodi di degenza e avere così un quadro nosografico più completo.
Le fotografie scattate in quel periodo sono un testimonianza importante perché, a quell’epoca, la malattia psichiatrica era relegata in un “cantuccio” e ritenuta un dramma infamante di cui vergognarsi. La raccolta fotografica voluta da Charcot assume così, oltre che il valore di strumento di indagine scientifica, anche quello di una documentazione storico-nosografica sulla condizione della follia tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo.
Con l’avvento della videoregistrazione computerizzata, diverse strutture universitarie stanno sviluppando progetti di ricerca che uniscono gli sforzi degli psichiatri e dei neurologi con quelli dei programmatori di software per costruire piattaforme virtuali in grado di trovare soluzioni alternative da utilizzare per alcuni disturbi come le fobie, gli stati ansiosi, e patologie similari. Una équipe di psichiatri, assistiti da ingegneri informatici, stanno studiando, nel Dipartimento di Psichiatria di Chapel Hill (Usa), la possibilità di realizzare software per ambienti virtuali tridimensionali “molto semplici” e perciò idonei a mettere a proprio agio i bambini autistici, i quali potrebbero imparare ad utilizzare con un videocasco gli oggetti virtuali, primo passo per potersi in seguito “mettere in contatto” con quelli reali.
Anche nella Clinica Psichiatrica dell’Università di Catania, la tecnologia video comincia a svilupparsi, grazie alla iniziativa del Prof. Vincenzo Rapisarda che, affiancato da una équipe di medici psichiatri e di specializzandi, intende sperimentarla, insieme alla tecnologia multimediale, come mezzo diagnostico e riabilitativo.
Nell’Istituto universitario catanese si trovano già attrezzature sofisticate; una di queste è il casco-video-virtuale che, unito al computer e a software dedicati può “riprodurre” situazioni che possono aiutare i pazienti ad affrontare certi tipi di disturbi.
Con la ripresa video, inoltre, è possibile creare un archivio delle varie comunicazioni verbali e non verbali dei pazienti, il che può dare un quadro esaustivo dei loro disturbi. Le “annotazioni” , memorizzate nel supporto magnetico o nel computer, permettono di studiare mimica, espressioni verbali e non verbali, stati d’animo e comportamenti che possono consentire, in seguito, un’ accurata indagine psicopatologica .
Tuttavia, è importante che il “caso” venga ripreso senza forzature e che il procedimento narrativo comprenda anche i momenti di stasi psicopatologica oltre a quelli di alterazione.
In ogni caso le immagini devono essere “leggibili”, per chiarezza ed espressività, in modo da mostrare tutta la multiformità degli aspetti psicopatologici. Il paziente che viene ripreso dalla telecamera, si sente gratificato e si rende disponibile: ciò concorre alla riuscita dell’operazione videografica.
Premesso che, ovviamente, non è possibile “fare miracoli”, tuttavia, l’immagine video si può collocare anche tra gli interventi riabilitativi perché, col mezzo audiovisivo, il paziente esprime il proprio vissuto emozionale, fissando gli aspetti della realtà che lo interessano e sottolineando i disturbi che lo affiggono. Nell’autosservazione, le capacità di riflessione aumentano e si creano anche procedure terapeutiche utili.
Con più sedute di ripresa la variegata sintomatologia evidenzia sia il percorso patologico che quello terapeutico. I disturbi da attacchi di panico, i tic, l’agorafobia, la claustrofobia, ripresi col mezzo video e presentati al paziente che ne è affetto, gli consentono di esaminare la propria patologia e di fissarne gli aspetti più salienti in modo obbiettivo e distaccato, dandogli indicazioni utili per affrontare il problema. La video ripresa serve anche a migliorare la partecipazione alla vita di gruppo. E particolare rilievo hanno, nella psicoterapia della famiglia, le immagini registrate delle sedute, perché mostrano “con obbiettività” le interazioni tra familiari, pazienti e terapeuti. Nel rivedere la dinamica della seduta tramite i filmati, pazienti e familiari sono spesso in grado di prendere coscienza dei loro coinvolgimenti psicologici. E anche i terapeuti, in tal modo possono gestire in maniera più corretta il training e riconoscere i propri eventuali errori.
L’immagine visiva evidenzia meglio le manifestazioni non verbali della comunicazione intersoggettiva, e fa scoprire i messaggi che il soggetto invia attraverso il proprio corpo, messaggi che, rivedendo la ripresa, lo stesso paziente può percepirli chiaramente e in modo cosciente.
Come accade per una partita di calcio, osservata alla moviola, il rallenty fa cogliere sfumature che in “diretta” sfuggono; e il paziente, dalle proprie manifestazioni sintomatiche, può individuare in modo realistico i propri disturbi e arrivare ad un un certo insight ; il ché gli consente tra l’altro di trovare il modo migliore di gestire e forse anche di imbrigliare la propria psicopatologia.
Confrontando in fine le riprese girate durante tutto l’arco della terapia, si può capire meglio l’evoluzione e l’andamento del disturbo nel paziente.
Sarà anche il caso di riprendere le attività ricreative come il canto, la pittura, la recitazione, la danza, attività che impegnano i pazienti in una serie di esercizi e mansioni che distolgono l’iter parassitario della loro mente e che fungono da cartine di tornasole per evidenziare i lati più fragili e sensibili delle loro personalità. Filmare queste attività, significa avere la possibilità di studiare meglio il paziente e perché ciò avvenga nel migliore dei modi, è necessario che il paziente sia libero di esprimersi e di “impersonare” il ruolo che più gli è congeniale.
Lo psicodramma, utilizzato a fini terapeutici, serve a far esprime liberamente le ostilità, le paure, le tendenze nascoste, fungendo da terapia abreativa. E poiché non sempre, durante la recitazione, il soggetto arriva all’insight, solo rivedendosi sullo schermo potrà assaporare con senso critico il proprio vissuto scenico.
Nel rivedere il modo come canta, nell’analizzare la propria recitazione e i propri esercizi fisici, il paziente può migliore la comprensione del proprio sé, può valutare la propria mimica, la propria gestualità e arrivare ad un’esperienza che, senza l’immagine registrata, gli sarebbe certamente mancata.
Sarà fruttuoso registrare, come ulteriore fonte di indagine clinica, anche le reazioni, i silenzi, i giudizi che il paziente esprime osservando la propria immagine sul televisore.
I soggetti che presentano disturbi nella sfera dei rapporti con gli altri, spesso ignorano l’entità della propria patologia; ed è con la ripresa video, che si possono rendere conto del grado della propria incomunicabilità. L’immagine video, stimolandoli a prendere coscienza e a riflettere sulle loro incongruenze; alla fine potrebbe essere un utile insight per migliorare le relazioni di gruppo.
Non bisogna però focalizzare i difetti, ma occorre che sia il paziente a rilevarli anche perché, altrimenti, potrebbe sentirsi “accusato”, scoraggiarsi ed abbandonare l’esperimento.
Poiché ogni linguaggio “tradisce” la mentalità, il modo di vivere e persino le pieghe più recondite dell’animo, stimolando i pazienti ad utilizzare essi stessi il mezzo video, essi manifesteranno gusti e scelte che fungeranno da utile strumento diagnostico e terapeutico.
Infatti, dal tenore delle riprese girate dal paziente si può capire se egli è timido, voyeurista, sentimentale, narcisista o ossessivo. L’immagine è linguaggio comunicativo dai grandi poteri semantici ed è perciò un importante strumento di metaforizzazione della realtà.
Infatti, analizzando, per esempio, le foto di Charles Lutwidge Dodgson (in arte Lewis Carroll) incentrate su immagini di bambine, emerge il disagio del puritano matematico nei confronti della sessualità e si comprende la scissione del suo Io, sempre diviso tra erotismo e religiosità. Facile è pure intuire, dalle foto scattate da Wilhelm von Gloden, che fotografò molti efebi, le tendenze di quel barone fotografo, il cui studio taorminese fu l’apoteosi della sua omosessualità.
Sull’uso della telecamera da parte dei pazienti, il concetto base è che nel momento in cui diventano fruitori attivi del processo creativo, il loro filmati diventano espressione delle loro esigenze ed inoltre servono loro anche per capire i loro stessi disturbi.
Professionalità nell’ulitilizzo della ripresa video a fini clinici e rieducativi
Bisogna tenere presente che è inevitabile e necessaria una certa competenza nel campo della videoripresa e del montaggio, perché nulla è più banale che pensare di ignorare la grammatica fotografica. Infatti se chi riprende non ha alcuna idea né della tecnica né di ciò che vuole ottenere, il risultato finale è la saga del kitsch.
Lavorando con la telecamera bisogna evitare la pigrizia mentale e fruttare al massimo la creatività; non riprendere immagini confuse, disordinate e poco chiare che impediscono una lettura corretta del filmato.
Anche se non si richiedono risultati da opera d’arte, tuttavia non bisogna nemmeno essere sgrammaticati.
Perché la ripresa sia corretta, l’operatore dovrà sfruttare l’illuminazione, saper registrare il sonoro con più soggetti e avere rudimenti tecnici di montaggio, adoperare le apparecchiature con familiarità, senza tentennamenti e, soprattutto, prevedere il risultato finale, poiché, dominando il mezzo tecnico, si può fronteggiare qualsiasi situazione.
Importante è anche l’approccio col soggetto, il quale deve essere sempre messo a proprio agio. Infatti, al cospetto della telecamera chiunque tende a irrigidirsi e ad assumere pose innaturali; ma quando si instaura un clima favorevole, le riprese procedono senza troppi intoppi, soprattutto se non si utilizza il mezzo video in maniera “aggressiva”.
Nell’insegnare ai pazienti ad usare la telecamera bisognerà spiegare che è uno dei mezzi di espressione più completi, e che, pertanto, non dev’essere banalizzato. In questo senso, sarà pedagogica e riabilitativa una opportuna alfabetizzazione video, che insegni ad usare la telecamera così come si insegna a scrivere.
Affrontare la realizzazione di un’opera videografica significa apprendere la recitazione, la gestualità, il gusto dell’inquadratura, la connessione tra musica e stati d’animo, l’atmosfera, il ritmo della narrazione, il dialogo etc.
Si possono girare piccoli filmati, assegnando ai pazienti brevi parti; e sarebbe opportuno che i pazienti partecipassero a tutte le fasi della lavorazione e fossero presenti anche durante il montaggio: tutto questo lavoro di gruppo sarà utile alla socializzazione e ai rapporti interpersonali.
Facendo in modo che siano anche i soggetti ospedalizzati a filmare qualche scena, si stimoleranno, oltre le loro capacità creative, quelle cognitive e mnemoniche e ciò farà loro comprendere l’ambiente, la natura e la società in cui vivono.
Vale la pena di togliere i pazienti dalle ruminazione sterile, eliminare la loro noia, mettere in moto la loro fantasia. Forse non tutti gli ospedalizzati saranno in grado di portare a termine il progetto, ma sarà stato sempre utile tentare di migliorare le loro capacità.
Dare credito alle qualità personali del paziente affidandogli la realizzazione video, significa anche ricostruire la sua autostima, spronarlo ad avere fiducia in se stesso, cancellare una parte la sua emarginazione e mostrare che può essere capito, stimato e trattato come “persona”.
Riassunto
L’idea iniziale di Charcot di fotografare i degenti dell’Ospedale della Salpêtrière per avere un quadro nosografico-storico relativo a vari periodi di degenza ha posto le basi per ampliare gli spazi di utilizzo delle immagini. In seguito, col migliorare delle tecnologie fotocinevideo esse sono state adoperate non solo a fini diagnostici ma anche a fini terapeutici.
Un progresso ulteriore è rappresentato dalle registrazioni visive ed auditive dei comportamenti dei malati, che consentono agli operatori psichiatrici un più attento esame delle variegate sintomatologie. E così, grazie alle nuove tecnologie, si possono aiutare i pazienti ad affrontare alcuni disturbi di carattere psicologico e psichiatrico.
Trattandosi di nuove sperimentazioni, è inevitabile che gli operatori del settore psichiatrico, che intendono servirsi di queste nuove strategie terapeutiche, debbano avere una certa competenza delle nuove tecnologie. Infatti, senza un corretto approccio con le apparecchiature, i risultati potrebbero essere scarsamente utilizzabili.
Inoltre, il consentire l’uso della telecamera ai degenti che sono in grado di farlo, mette in moto un processo creativo-abreativo molto utile sia ai fini diagnostici che terapeutici.
Abstract
Charcot’s starting idea of taking photographs of the patients of the “Hopital de la Salpêtrière” in order to obtain a historic-nosographic summary concerning different periods of their staying in hospital, has laid down the basis for widening the range of utilization of the patients’ pictures.
Later on, the photocameratape technologies getting better, they have been used not only for diagnostic, but also for therapeutic aims.
A further success has been represented by the audiovisual recording of the patients’ behaviour; and this has given the psychiatrists the opportunity of observing more attentively the different symptomatologies.
So, thanks to new technologies, we can help patients to front some psychological and psychiatric troubles.
As the psychiatrists deal with new experimentions it’s clear that, willing to use these new therapeutic strategies, they must have a real competence
in new technologies.
In fact, without a right competence in the use of these equipments, they could reach scarce results
Moreover to allow the camera use to the patients who are able to do, helps them to begin a very useful process in diagnostic and therapeutic fields.
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VIOLENZA GIOVANILE E CRUDELTA’ ANCESTRALE
Un male oscuro sembra gravare sul nucleo domestico: la famiglia è dunque un valore a rischio?
In Italia, negli ultimi anni, i reati commessi in famiglia da giovani sono in crescita. Mentre dal 1945 al 1975 si erano registrati una decina di parenticidi commessi da minori o da giovanissimi, nel ventennio 1975-95 la cifra è salita a 53 (di questi, 25 sono avvenuti al Nord Italia, 18 al Centro e 10 al Sud). Dal 1995 al 2001 si sono avuti oltre venti casi di omicidi di minori in famiglia. I giovani che hanno commesso delitti familiari sono in una età compresa tra i sedici e i venticinque anni e sono più maschi che femmine. Ma quando le donne commettono questo genere di crimini lo fanno anch’esse in maniera efferata.
Ecco alcuni orribili episodi di violenza giovanile avvenuti all’interno della famiglia: nel 1974 il ventiduenne Giuseppe Meli, che a quel tempo era in servizio militare, rientrando a casa per una licenza, dopo aver litigato col fratello Antonio, di 19 anni, lo ha ucciso e ne ha fatto scomparire il cadavere in un canale. La polizia scoprirà casualmente, dopo ventisei anni, attraverso il diario dello stesso Giuseppe, che è diventato nel frattempo un barbone, ciò che è successo tra i due fratelli; nel 1981 Roberto Succo ha soppresso il padre e la madre senza apparenti motivi; nel 1985 Massimo Bosso a Biella ha massacrato il padre con colpo di spranga; Giuseppe Carretta, dopo avere sterminato nel 1989 padre, madre e fratello, per ben nove anni è riuscito a far perdere le tracce di sé; nel 1986 Stefano Diamante, ventiseienne, assassinato la madre, la preside Silvana Petrucci, a seguito dei rimproveri per non avere sostenuto gli esami all’università; nel 1998 Riccardo Colombo a Giavera del Montello, ha soppresso madre e fratello «colpevoli – così affermò l’omicida – di avere sbagliato la dichiarazione dei redditi»; Nadia Frigorio, a San Michele Extra, ha strangolato la madre; Pietro Maso, a Montecchia di Crosato, il 16 aprile del 1991 ha massacrato con l’aiuto di tre amici i propri genitori; nel 1992, Giovanni Rozzi, a Cerveteri, complice un amico, ha soffocato i suoi genitori mentre dormivano; Carlo Nicolini, a Giavera del Montello, nel 1995 ha sterminato i suoi genitori a fucilate; Paolo Gagliano, nel 1997 ha soppresso i genitori e il cane che stava con loro. Nel 1975, la diciottenne Doretta Graneris, aiutata dal fidanzato, ha assassinato padre, madre, fratello e nonni, senza avere mai spiegato il perché di quell’insano gesto. Nell’agosto del 2000, il trentatreenne Potito Conte, giovane violento ed ubriaco fu accoltellato dal fratello Nicola di 29 anni. Nel 2001, Paolo Pasimeni, colto da un raptus di paura, ha accoppato il padre, docente universitario, per nascondergli di non avere sostenuto alcuni esami all’università; a Ghemme, nello stesso periodo, nel novarese, la ventunenne Barbara Barbero e il suo fidanzato, Angelo Martinetti di 19 anni, hanno tentato di uccidere la madre della ragazza per futili motivi: la vittima si è difesa ed è riuscita a salvarsi. Nel marzo 2001, a Pompei, la signora Marina Allocca, madre di tre ragazzi, è stata strangolata dal figlio maggiore, Alessandro, di sedici anni, che da tempo le rimproverava di essere la causa del divorzio col padre per cui tra i due da tempo non correvano buoni rapporti.
E una terribile storia di degrado ha fatto scoppiare un dramma domestico ancora nel marzo 2001: al centro della vicenda i continui litigi tra il trentottenne Paolo Magazzù, aiuto cuoco, e la vecchia madre settantenne con la quale conviveva in un tugurio. L’uomo, spesso alcolizzato, da tempo bastonava la madre, la quale però non l’aveva mai voluto denunziare. I vicini avevano più volte convinto Paolo, che non voleva più vivere con sua madre, a tenerla ancora con lui. E ciò fino a quando, dopo un’ultima lite, l’uomo l’ha massacrata barbaramente a pugni e pedate.
Un altro crimine giovanile agghiacciante, accaduto però al di fuori dell’ambito familiare, ma che ha trasformato due giovani vite in un deserto, è stato commesso da due ragazze, Anna Maria Botticelli e Maria Filomena (Mariena) Sica, le quali, dopo aver preparato freddamente l’omicidio,e senza alcun motivo apparente, hanno soppresso l’amica Nadia Rocca.
Casi simili a questi si riscontrano nelle cronache degli ultimi anni anche in altri paesi, quasi che “uccidere” possa essere considerata una scorciatoia per risolvere i problemi che sorgono in famiglia. Gli Usa vantano un terribile primato al riguardo: ogni anno, dicono le statistiche, sono circa trecento gli episodi del genere. Nel 1989, una vicenda sembrò riassumere quanto di più atroce può accadere in una famiglia: i fratelli Menendez massacrarono entrambi i genitori, e, durante il processo, “giustificarono” la loro efferatezza affermando che la madre aveva impartito loro una educazione spietata e il padre aveva abusato di loro sessualmente e psicologicamente per anni.
Un altro “giovane perbene”, Ronald De Feo, qualche anno dopo, massacrò padre, madre e fratelli, e non si è mai potuto appurare perché lo abbia fatto.
Si tratta di atroci episodi, commessi da adolescenti e giovani senza alcuna risonanza emotiva, con straordinaria freddezza, come se fossero indifferenti e incapaci di capire cosa abbiano fatto e senza alcuna presa di coscienza e pentimento; lo stesso isolamento affettivo e distacco dai sentimenti che, a Novi Ligure, nel febbraio 2001 ha spinto la sedicenne Erika Di Nardo, aiutata dal fidanzato, il diciassettenne Omar, ad uccidere la madre e il fratellino. Una “freddezza” che ha fatto dire ad Erika, ad un parlamentare che era andato a trovarla in carcere: «Speriamo che con quel che è successo non perda l’anno scolastico».
È possibile che, dietro tanta glaciale ferocia vi sia invece un eccesso incontrollabile di emozioni e di frustrazioni, con una conseguente incapacità a governarle, sino a far scatenare reazioni così forti e poi a nasconderle anche a se stessi con una impassibilità fittizia.
Necessità di salvare le apparenze
Sebbene non si possa ignorare che tra parenti e consanguinei non mancano tensioni e rancori, si cerca di mascherare lo sconquasso emotivo familiare con una maldestra finzione di perbenismo e di tranquillità. Si tratta di strategie di “copertura” che hanno radici culturali profonde e che tendono ad occultare le conflittualità familiari, che, di certo, sono più estese di quanto le statistiche non sottolineino. Infatti, proprio nella quotidianità domestica si possono sviluppare e moltiplicare tensioni, astii, perturbamenti, dovuti a incomprensioni, a “piccole” ma continue situazioni di gelosia, a persistenti mancanze di rispetto della privacy e della personalità, a punizioni umilianti, e ad altre significative prevaricazioni. Infatti, in nessun luogo come nel nucleo domestico sono permesse tante violazioni del rispetto della persona, ed è tollerata una gradualità di violenza che sarebbe ritenuta inaccettabile in qualsiasi altra struttura sociale.
La giornalista Brunella Giovara, a proposito della violenza tra le mura domestiche, riferisce lo sfogo di Andrea, un perito chimico di trent’anni, che lavora in un’azienda alla periferia di Milano. Andrea racconta alla giornalista che le aggressioni, le provocazioni, il sadismo di suo padre sono stati, per oltre dieci anni, l’inferno per lui e per suo fratello. Se la moglie cercava di farlo ragionare, l’uomo diventava più furioso. Mentre in pubblico questo padre era una persona piacevole, ben inserita, e mostrava di avere molti interessi, in casa era violento con le parole e con i fatti, e teneva tutta la famiglia sotto una morsa psicologica gelida e terrificante. «Ricordo punizioni terribili, completamente sproporzionate. Mio padre era ossessionato dalla sua infanzia trascorsa in un collegio molto severo. A me ha detto che meritavo il collegio o il riformatorio». Il padre legava i figli a letto e li prendeva a cinghiate. Quando aveva diciassette anni, Andrea, fattosi più risoluto, disse a suo padre: «Un giorno o l’altro ti ammazzo». E l’intervistato confessa alla giornalista: «Nessuno al di fuori di noi sapeva cosa stava succedendo a casa».
Si tratta di una delle tante storie, di quelle che comportano la perdita del senso di sicurezza, la perdita del senso di sé. Come questa, coperte dalla privacy e dal segreto domestico, ce ne sono molte, in cui padri padroni maltrattano i familiari, in cui madri lamentose ed ossessive fanno dei figli individui nevrotici e ansiosi. Quella narrata da Giovara è emblematica, e serve da esempio per capire cosa può anche accadere in una famiglia.
In alcuni casi le conseguenze di queste trasgressioni alla civiltà del rispetto non tardano a farsi sentire nei giovani, i quali manifestano la loro ribellione con l’indisciplina e il disinteresse allo studio, il mutismo e l’accidia nei confronti dei genitori, le reazioni psico-corporali, come l’obesità, l’anoressia, e le manifestazioni psichiche più evidenti come un’accentuata timidezza o un’eccessiva aggressività sportiva.
Liebowitz sostiene che in alcuni casi vi può essere un’incapacità neurologica a gestire la frustrazione e la rabbia, e definisce questo disturbo disforia isteroide, che, decifrando il senso dalle parole greche, significa difficoltà a sopportare umiliazioni e avvilimenti, e che si traduce in un turbamento del tono umorale ed affettivo. Si tratterebbe, in pratica, della sindrome che manifestano le persone che non resistono agli stress emozionali, le quali, quando si sviluppa questa sindrome, provano uno stato di disagio che produce una tensione che può far evolvere il rapporto in una situazione infernale.
E tuttavia, nell’ambito del nucleo domestico non è insolito che si venga a costituire una specie di omertà, che occulta il palcoscenico quotidiano di tensioni e drammi e crea una barriera di silenzio nei confronti di tutti gli estranei, impedendo così che appaiono all’esterno fenomeno disgregativi.
Inoltre, poiché è difficile ammettere che il seme della violenza, insito nella natura umana, possa essere coltivato anche nelle famiglie e possa evolvere in maniera devastante, quando si evidenziano crimini domestici che no n possono essere occultati, si cerca di accollarne l’origine ad eventi esteriori alla dinamica familiare.
Non potendo negare che fenomeni tanto efferati accadono anche nelle comunità familiari “perbene”, e non volendo smascherare la causa recondita di questi incidenti, si fa ricorso a spiegazioni di comodo, attribuendone la responsabilità alla eccessiva permissività concessa dalla società agli adolescenti, oppure al consumo di droga, o alla violenza in Tv, o colpevolizzando la Scuola (che non fornirebbe modelli adeguati), o all’influenza delle amicizie “devianti”, o, se si tratta di giovani in età da lavoro, attribuendone la colpa alla mancanza di esso. Ciò contribuisce a mantenere un’immagine della famiglia rassicurante e accattivante, in cui papà, mamma e figli appaiono felici esibendo sorrisi e affettazioni di circostanza.
La gente non ha voglia di approfondire e conoscere come stanno davvero le cose al riguardo, tant’è che mostra stupore e sbalordimento, quando accadono avvenimenti estremi come quelli testé ricordati. Alla presenza di fatti del genere, si può avere trepidazione e amarezza, ma non meraviglia. E tuttavia, c’è chi tende a rimanere con gli occhi chiusi alla realtà. Probabilmente anche la famiglia Di Nardo, distrutta nel febbraio del 2001 dall’insano gesto di una figlia, in passato aveva rigettato, come assurda, l’idea di essere scalfita da un dramma domestico.
«La mia più grande amica è mia sorella», scriveva proprio qualche giorno prima d’essere ucciso dalla sorella Gianluca De Nardo.
L’agghiacciante vicenda di Novi Ligure, in cui la sedicenne Erika e il suo fidanzato, il diciassettenne Omar, hanno massacrato proditoriamente la madre e il fratello della ragazza, porta ad analizzare ulteriormente il problema della ferocia umana, cioè a capire come può accadere che il nostro cervello operi anche con modalità delittuose.
La violenza familiare non è solo quella minorile
Se è difficile stabilire a priori cosa funziona e cosa non funziona in una famiglia, ciò che è più drammatico ed insensato è non rendersi conto che le tragedie familiari possono esplodere in qualsiasi contesto. Per inciso, se non si vuole mancare di obbiettività, bisogna sottolineare che, oltre alla violenza dei figli nei confronti di adulti e parenti, esiste anche l’efferatezza degli adulti sui minori: neonati abbandonati nei cassonetti della spazzatura, sgozzati “perché facevano troppo chiasso”, massacrati per non affidarli al partner, uccisi “per fare uno sgarbo” al coniuge. E ancora: bambini precipitati nel vuoto tra le braccia di un genitore suicida, che li trascina con sé nell’abisso; bambini legati al letto perché non girino per casa quando i genitori sono assenti.
C’è poi la feroce violenza che si consuma tra coniugi, con omicidi per gelosia, pestaggi e stupri all’interno della coppia, fino ad efferatezze imprevedibili, come ciò che avvenne nel 1984, a Chester. In questa ridente cittadina inglese, John Frederich Perry, per non acconsentire al divorzio chiesto dalla moglie Annabel, che, secondo la sentenza del tribunale, gli sarebbe costato la somma di 15.000 sterline da versare alla donna, la uccise, e, dopo aver sezionato il cadavere, lo disperse giorno dopo giorno in una discarica. Ma, non avendo fatto in tempo ad occultare tutti i “pezzi”, Perry non poté impedire che gli agenti di polizia, che cercavano la donna scomparsa, trovassero alcuni resti di Annabel nel suo frigorifero.
Nell’epoca dei progressi della medicina, delle scienze e della tecnologia, l’umanità, per certi versi, affonda ancora nell’età della pietra. Si avverte un forte senso d’insicurezza leggendo le quotidiane cronache criminali: una studentessa che passeggia all’università viene freddata da un colpo di pistola sparato da chi sa chi; una suora è assassinata da alcune ragazze senza una spiegazione; una ragazza viene uccisa dall’amica più intima, la quale, “curandole” il raffreddore, le somministra un potente veleno nella minestra; a Cologno Monzese una donna è stuprata da un giovane ventiquattrenne per strada tra due cassonetti della spazzatura, e nessuno le corre in aiuto, anzi, due giovani di passaggio, la deridono e la insultano; a Sesto San Giovanni, Roberto, studente di diciassette anni, ha sgozzato la propria ragazza, Monica, anch’essa studentessa, di sedici anni, con un colpo di temperino, e in tasca aveva un biglietto d’amore per lei.
Lo sfascio dell’umanità appare più paradossale se si pensa all’enorme progresso in cui viviamo.
La violenza si verifica nella giungla metropolitana come nelle campagne, nel mondo industriale e in quello contadino, e non si tratta di delitti commessi solamente da gente appartenente a classi sociali emarginate, ma anche da persone di buon livello sociale ed intellettuale. La storia e la cronaca sono lastricate di emblematici, sanguinosi drammi domestici, tragiche prove dell’efferatezza della mente umana, in cui è anche possibile decifrare disturbi emotivi, che sfociano in violenze nella famiglia.
E ciò accade anche quando tutto in superficie sembra tranquillo. In realtà, gelosie nascoste, risentimenti celati, ostilità che covano nell’inconscio se tirati troppo alla lunga fanno esplodere sconsiderate crudeltà. Per capire l’origine di tutto ciò bisogna risalire alla storia dell’umanità, e metterne a nudo pregi e difetti, luci ed ombre, virtù e deficienze.
Il cervello primitivo
Quando accadono eventi così violenti e improvvisi, esplode l’indignazione e si leva la condanna. Aldus Huxley ritiene che vi sono persone che utilizzano l’odio come una reazione compensatoria, se non addirittura appagante, sicché, quando tipi del genere accumulano una forte energia aggressiva, si lasciano trascinare a comportamenti feroci. E anche Fromm è del parere che spesso «l’uomo agisce con crudeltà e distruttività traendone una immensa soddisfazione». E pur tuttavia, per una sorta di autodifesa collettiva, si tenta di “rimuovere” l’esistenza di tanta spietatezza nell’essere umano, e non si vuole riconoscere che l’umanità possa cadere così in basso. Si preferisce invece parlare di malattia mentale e di fatalità.
Ma se si vuole veramente tentare di capire i motivi di tanto sconquasso, bisogna convenire che esiste una aggressività, una crudeltà, una brutalità psicofisiologica. Essendo il cervello dell’uomo, come si presenta attualmente, il risultato dell’evoluzione di un aggregato di strutture, molte delle quali ebbero origine all’alba della vita sulla terra, esso è condizionato dagli elementi arcaici primitivi, elementi che di conseguenza sono modellati a strutture comportamentali alquanto selvagge. Analizzando la psicologia dell’aggressività dell’individuo, si può presumere che questo malcostume affondi le radici in un passato ancestrale, del quale l’umanità non si è ancora liberata. In quel “contenitore” che è la mente, si può trovare di tutto, anche la scheggia assassina.
Secondo P.D. McLean il cervello umano sarebbe formato da tre cervelli soprapposti, dei quali i primi due sono retaggio dei rettili e dei mammiferi. Ha affermato a tal proposito Rita Levi Montalcini: «Studi sull’architettura e sulla configurazione dei centri nervosi dei tre cervelli hanno posto in rilievo, nel cervello dell’uomo, l’esistenza di costellazioni nucleari interconnesse da circuiti nervosi non dissimili da quelle del cervello dei rettili».
La Montalcini si è chiesta se non vi siano nel comportamento dell’uomo componenti comuni non soltanto ai mammiferi, ma anche ai vertebrati inferiori. La parte più recente del cervello dell’uomo, la corteccia, è quella che ingloba le parti più primitive – sostiene la scienziata – ed è come un manto ripiegato in mille circonvoluzioni, ma sotto questo mantello corticale dell’uomo, permane in qualche modo anche il cervello del rettile.
In pratica, solo la corteccia, sede della ragione, è la sezione più squisitamente umana del nostro cervello; ma quando la mente perde il controllo critico, essa regredisce a livelli primitivi, ed emerge la zona più ancestrale del cervello, quella di cui si servivano i nostri bis-bis-antenati. A quel punto la natura selvaggia ha il predominio e l’individuo commette crimini efferati.
Secondo Vittorino Andreoli vi è una relazione tra aggressività e alcune parti dell’encefalo come il bulbo olfattivo, l’ippocampo, i nuclei del setto, e quelli del rafe nel pavimento del quarto ventricolo e l’amigdala. Ciò denunzierebbe un retaggio di comportamenti primitivi fissati nel nostro patrimonio fisiologico, che si riflettono anche in quello psicologico.
Già in passato, Konrad Lorenz e A. Storr erano del parere che l’aggressività è deterministicamente un comportamento spontaneo non solo negli animali ma anche nell’uomo. K. Lorenz riferisce che agli inizi del ‘900, il fisiologo W. B. Cannon, cercò di spiegare il complesso meccanismo fisiologico dell’aggressività, assegnandogli come sede principale l’ipotalamo. In condizioni non estreme la corteccia, affermò Cannon, inibirebbe questa attività ipotalamica; ma allorquando si scatena una pulsione iraconda incontrollabile, l’inibizione si attenua e l’ipotalamo ha via libera nel provocare il meccanismo fisiologico di base della aggressività. Si tratta di affermazioni fatte in un periodo in cui l’indagine scientifica cerebrale non utilizzava ancora i mezzi diagnostici più evoluti dell’ultima generazione. Oggi, che la ricerca è più evoluta, si hanno anche delle conferme. Grazie a nuove tecniche di ricerca, N. C. Andreasen afferma che l’ipotalamo contiene i centri che regolano l’aggressività e che pazienti che hanno disturbi affettivi possono soffrire di uno squilibrio nell’asse ipotalamico-surrenale-ipofisario: ciò creerebbe una scarsa adattabilità allo stress.
Sono molti i tentativi di localizzare nell’encefalo le funzioni psicologiche (Paul Broca, Franz Gall, Karl Wericke), ma a tal proposito, sia Oliver Sacks che A. R. Luria sono propensi a ritenere che singole aree cerebrali possano essere incluse in diversi tipi di sistemi funzionali, arrivando così al concetto di polivalenza funzionale delle strutture corticali.
Luria, in particolare, afferma che per analizzare l’attività aggressività dell’individuo, si deve indagare su un complesso polifunzionale che si basa su elementi, tra loro correlati ma anche altamente differenziati, non solo fisiologici ma anche psicologici e storico-sociali. Afferma infatti lo scienziato russo: «Conquista fondamentale della psicologia contemporanea può esser considerato il rifiuto delle posizioni idealistiche che nelle funzioni psichiche vedevano l’espressione di un principio spirituale, diverso da ogni altro fenomeno naturale, e il rifiuto all’approccio naturalistico che nei processi psichici non vedeva se non proprietà naturali del cervello umano».
Un’altra via interpretativa della interconnessione encefalo-violenza, è riferita da Vittorino Andreoli, il quale afferma che secondo alcuni studiosi, «l’encefalo è un sistema organizzativo che sarebbe in grado di integrare un sapere genetico e uno acquisito, storico». In altri termini, l’esperienza è in grado di modificare l’encefalo, il quale, a quel punto, organizzerebbe una struttura biologica così come impone l’ambiente.
In ogni caso però, e indipendentemente dalle localizzazioni delle funzioni mentali, non si può ignorare che nel “contenitore” del cervello esistono, latenti, quei comportamenti ancestrali o acquisiti, che sviluppano aggressività, brutalità, odio, ferocia e violenza, e che sono tutte reazioni di cui si è servito l’essere primitivo. Queste modalità di reazione possono restare inattive per tutta una vita, ma, per una serie di fattori concomitanti e scatenanti, possono essere rimessi in funzione.
Il bambino che si comporta in modo crudele con gli animali, l’adulto che uccide per un sorpasso, il soggetto che replica in maniera aggressiva e sproporzionata ad una minaccia (vera o supposta), non sono che “risposte” ancestrali, non inibite da una efficiente educazione e da un valido controllo di sé.
Partendo da queste considerazioni, è forse possibile formulare l’ipotesi che il cervello umano, la cui base originaria affonda le radici in una struttura atavica, a volte può agire aderendo del tutto alla propria natura originaria, a volte, invece, se ne distacca. E questo accade secondo le esperienze e le sollecitazioni occorse nella esperienza del singolo e in conformità alla sua resistenza personale alle pulsioni.
Scrive infatti la Montalcini: «Nel percorso della specie umana si alternano periodi di progresso e di oscurantismo. Nelle fasi migliori il rettile nascosto nei meandri della massa grigia cerebrale rimane silenzioso(…). Nei periodi di oscurantismo il rettile esce dalla tana (…)».
L’Io, per un istinto di sopravvivenza innato, tende a “difendersi dalle aggressioni” (vere o presunte, fisiche o psicologiche) e, di conseguenza, a reagire per allontanare i pericoli (reali o immaginari) che ritiene incombano su di lui. Ma poiché l’essere umano, a causa delle parti più ancestrali del suo encefalo, ha a “disposizione” metodi anche feroci “di difesa”, quanto più teme che il pericolo abbia poteri distruttivi, tanto più utilizza meccanismi primordiali di difesa. Soprattutto se la personalità è debole, vacillante, e se i suoi “controlli civili” sono corrosi, può accadere che essa faccia ricorso a reazioni primordiali, distruttive e brutali. In quanto ai giovani, dal momento che la corteccia prefrontale raggiunge la sua maturazione tra i 18 e i 20 anni, prima di quelle date essi non solo hanno minore capacità di controllare le emozioni, ma anche la valutazione delle loro azioni non è in una fase di piena maturità. Ne consegue una maggiore irruenza e una inadeguata possibilità di controllo dell’impulsività, assieme a un accentuato amore per il rischio.
Allora si può dire che, sebbene il cervello umano sia passato dai 400 grammi iniziali alla dotazione attuale di circa 1450 grammi, l’umanità non adopera ancora questo meraviglioso strumento nel migliore dei modi. Infatti all’evoluzione della materia cerebrale non è seguito un buon uso della ragione, il cui baricentro a volte si sposta, per motivi ignoti, verso comportamenti primitivi, e così l’uomo, trascinato dall’impulsività, si comporta da stolto e in maniera crudele, non essendo stati ancora del tutto bloccati i meccanismi del cervello primitivo.
Per questo motivo non è possibile ignorare o minimizzare l’esistenza della ferocia e dell’aggressività nell’essere umano: non riconoscendola, o peggio ancora, soffocandola con prepotenza, non si raggiunge lo scopo di eliminarla.
Come afferma Levy-Bruhl, di fatto la nostra attività mentale è insieme razionale e irrazionale, e la prelogica del primitivo coesiste con la logica dell’essere evoluto. Si deve allora tentare di far funzionare al meglio la ragione e di ridimensionare l’aggressività, facendola defluire in comportamenti più utili, sublimandola, insomma, mediante un’educazione appropriata.
Nella mitologia, nelle letteratura, nella storia, l’umanità presenta una sequenza di ferocie
Secondo i racconti delle religioni e della mitologia, la storia dell’umanità è cominciata davvero male: Caino, primogenito della prima coppia, Adamo ed Eva, uccise suo fratello Abele essendo geloso di lui; Absalon uccise il fratello Amnon per vendicare il torto che questi aveva fatto a Tamar (Samuele. Libro II, 13); Jefte fece voto che se avesse sconfitto gli Ammoniti, avrebbe sacrificata la prima persona che sarebbe venuta incontro a salutarlo, uscendo da casa sua. Poiché, rientrando a casa dopo la vittoria, fu proprio la sua unica figlia che gli andò incontro, il voto fatto alla divinità venne adempiuto da Jefte, addirittura con il coraggioso consenso della ragazza (Giudici 11: 29-40); i Cananei, per ingraziarsi la divinità, sacrificavano i figli e le figlie bruciandoli senza esitazione (Deut.12:30-31).
Euripide ha suscitato l’orrore per l’infanticidio perpetrato da Medea sui propri figli, Shakespeare ha reso famosi i drammi familiari di Amleto e di Macbeth. Emblematica è la vicenda dei fratelli Tieste e Atreo, i quali, secondo la tradizione orale, narrata poi dalle tragedie di Sofocle e di Euripide, uccisero il fratellastro Crispippo. Poiché Tieste gli sedusse la moglie, Atreo, divenuto re, invitò il fratello a pranzo e per vendicarsi del torto subito, gli servì come pasto le carni dei figli di Tieste. Questi, avendo saputo di cos’era composto il cibo che gli aveva approntato il fratello, fuggì via maledicendolo. Dall’unica figlia che gli rimase in vita, Pelopia, Tieste ebbe un figlio, Egisto, che, quando fu grande, uccise Atreo e vendicò il padre.
Altra coppia fratricida, quella di Etéocle e Polinice, figli di Edipo, che si uccisero reciprocamente in duello durante l’assedio di Tebe.
In quanto all’eroe della epopea omerica, Ulisse, dopo essere tornato ad Itaca e avere ripreso il suo posto di re, venne ucciso da Telegono, il figlio che l’eroe greco aveva avuto dalla maga Circe. Il giovane era andato a Itaca a trovare il padre, ma, poiché non conosceva chi fosse, essendo entrato per caso in diverbio con lui, lo uccise. Un episodio al quale di certo si ispirarono altri autori greci, e in particolare Sofocle, per la leggenda di Edipo, il quale, come si sa, uccise il padre, mettendo in atto la maledizione di Pelope.
Vicende, queste, alle quali certamente si riferì Sigmund Freud, che probabilmente le prese come prototipi classici di quel parricidio pre-storico, inteso come atto violento della conquista del potere da parte dei figli. «L’eroe che si ribella al padre e in qualche modo lo uccide». Nell’orda primitiva, afferma Freud, il progenitore era il modello invidiato e temuto dai figli. Uccidendolo e divorandolo essi non solo ritennero di aver realizzata l’identificazione col genitore, ma anche di averne acquisito la forza.
Teresa Raquin, di Zola è una delle opera più emblematiche sulla ferocia familiare. Ad essa si è ispirato cento anni dopo il regista Bob Rafelson, che, ne Il postino bussa sempre due volte, ha descritto con quanto indifferenza si possa arrivare ad uccidere il coniuge.
Gianluigi Ponti e Ugo Fornari sottolineano che persino i racconti più innocenti, contengono a volte storie truculente. Si ricordi per esempio Lo Cunto de li Cunti di Giambattista Basile, storia scritta nel XVII secolo, in cui l’Orco, personaggio ricorrente di tante favole, uccide per il piacere di uccidere. Nelle favole dei fratelli Grimm, viene ripresa l’idea cannibalica di mangiare i bambini, come nel racconto di Hänsel e Gretel.
Non è escluso che mito e favole siano la reminiscenza e la narrazione di fatti umani avvenuti in epoche primordiali e ricordati dalla tradizione orale, o quanto meno, che siano la oggettivazione di vicende suggerite dall’immaginazione, dai desideri, dalle paure dell’umanità. Mito e leggende narrano “i segreti dell’anima”, e quelli della vita sociale dimenticata e rappresentano dunque un lato “della storia psichica dell’umanità”.
Ma anche le cronache di vita reale testimoniano, da sempre, l’esistenza di una inusitata ferocia contro l’infanzia: negli scavi di Cartagine si sono ritrovati scheletri di bambini sacrificati dai genitori alla dea Tanit e così pure sono stati rinvenuti copiosi resti di sacrifici infantili presso gli Egizi, gli Aztechi, gli Incas e gli Ewe, antica popolazione dell’Africa.
La crudeltà ha avuto anche come oggetto le donne, le minoranze etniche, i “diversi” e gli estranei al gruppo. Violenza e ferocia sono mezzi di sopraffazione di chi è al potere, di chi non accetta le idee altrui.
Guerre sanguinarie tra Stati, massacri in nome delle religioni, brutalità criminali nei confronti di popolazioni inermi, sono all’ordine del giorno da che mondo è mondo.
Alcuni episodi emblematici evidenziano che persino popoli civili hanno commesso efferatezze inimmaginabili. Basti ripensare ai Latini che distrussero la città di Veio e ne sterminarono gli abitanti perché facevano “concorrenza”. In quanto alla “grande Roma”, essa ripeté il medesimo livello di violenza contro i Volsci, i Sanniti e contro Cartagine. Gerusalemme fu messa a ferro e fuoco dai Crociati che praticarono una vera e propria “pulizia etnica”.
Due secoli prima di Cristo, la dinastia Qin sterminò le popolazioni degli staterelli cinesi che le si opponevano e divenne un “Grande” impero. Gli spagnoli del civilissimo re Filippo trucidarono i “moriscos” di Spagna, perdendo così, tra l’altro, una stirpe civile e molto utile per le sorti della nazione. Orribile fu anche il massacro degli Ugonotti,e quello delle popolazioni indigene americane da parte degli Europei conquistatori. E come non vedere nella castrazione dei bambini utilizzati perché cantassero nelle chiese e nei teatri, anche un atto di inaudita violenza? E come ignorare l’odio esternato nelle persecuzioni tribali, religiose, politiche e razziali, sin dall’origine dell’umanità?
Per secoli, prima e dopo il Medio Evo, anche nei Paesi considerati più “civili”, la criminalità spicciola, soprattutto giovanile, ha imperversato, con feroce teppismo, nei borghi, nelle campagne e nelle città, senza che nessuno potesse difendere la popolazione da quei manigoldi. Erich Fromm sostiene che «la sete di sangue può impadronirsi delle masse umane». A causa della loro struttura caratteriale, dice Fromm, certi gruppi aspettano o creano situazioni tali da consentire l’espressione della distruttività.
Infatti, non si può dimenticare che, per centinaia d’anni, un pubblico in delirio e pieno di entusiasmo, si è infervorato e si è divertito a vedere l’orribile spettacolo delle sanguinarie lotte dei gladiatori. L’origine di questa truculenta manifestazione non è datata nella Roma imperiale, ma si colloca più indietro nel tempo, e cioè, nel V° secolo prima di Cristo, presso gli Etruschi. Secondo le credenze popolari, lo spettacolo di morte dei gladiatori era stato richiesto dai defunti che avevano bisogno che scorresse del sangue per placare le loro anime. Dal tempo degli Etruschi, e fino alla fine dell’Impero romano, milioni e milioni di persone, in tutti quei secoli, “godettero” quello spettacolo di morte, di ferocia e di crudeltà che veniva rappresentato nell’arena. E non si pensi che lo spettacolo non appassionasse anche le donne, alcune di esse era anche gladiatrici. Ma il fatto più saliente è che i gladiatori erano oggetto del desiderio della signore romane, che, si racconta, in molti casi, erano anche le più sanguinarie tra gli spettatori. Durante gli scavi di Pompei, a riprova della passione femminile per la violenza dei gladiatori, si è trovato, nel luogo dove era la caserma di quei combattenti, lo scheletro ingioiellato di una donna: probabilmente una matrona romana colta improvvisamente dall’eruzione del 79 d. C., mentre era in intimità col suo amante.
Si potrebbe allora dire che, in quanto a crudeltà, l’essere umano non si è fermato a quella dei rettili e degli animali primitivi, i quali, uccidono solo per sopravvivenza. L’uomo, invece, – afferma Fromm – ha una più vasta gamma di interessi vitali, perché non deve sopravvivere solo fisicamente, ma anche psichicamente. Ogni elemento che perturba il suo equilibrio psichico è considerato una minaccia altrettanto vitale, per cui l’uomo tende a conservare anche il proprio schema di orientamento. L’aggressività difensiva ed offensiva umana ha dunque uno spettro più ampio di quello animale. Non solo, ma, come si è ricordato a proposito degli spettacoli truculenti del circo, l’essere umano arriva persino a dilettarsi con la visione della morte.
Secondo Fromm, l’uomo, è «forse il più feroce fra tutti gli animali», e , per una condizione paranoidea, allorquando percepisce un oggetto come una minaccia alla propria sopravvivenza – anche se in sé e per sé illusoria, ma “psicologicamente reale” – è portato a combatterlo e a distruggerlo.
Meccanismo, dice Fromm, che si rileva nelle tribù primitive, quando, morto un membro del gruppo, si immagina che la morte sia dovuta ad influenze magiche nefaste della tribù concorrente. Ciò scatena l’odio e la necessità di annientare la tribù straniera.
Anche questo è un punto di riferimento per capire la sopravvivenza ancestrale della ferocia nei confronti ”degli altri”.
Se crudeltà e violenza fanno parte dell’orizzonte mentale dell’uomo, ciò ovviamente non significa che tutti gli uomini siano nella stessa misura crudeli e violenti; solo che non si può negare che quelli che si dimostrano più sanguinari fanno, purtroppo, anch’essi parte del genere umano.
Come educare: autoritarismo o autorevolezza?
Se è vero che non ci sono rimedi sicuri contro l’esplosione della violenza, una cosa è certa: bisogna acquistare una concreta sensibilità nell’intuire quali tensioni possono comportare conseguenze deleterie e capire che dissapori e animosità possono creare un danno irreversibile. In famiglia, infatti, si deve essere attenti ai retroscena dell’affettività ed è necessario interpretare i silenzi e le fantasticherie, rispettare l’umanità e la sensibilità anche dei più piccoli, oltre che mantenere una continua disponibilità ad allontanare malintesi e ostilità, risentimenti e rancori.
Quando invece, nel contesto domestico si rigira il coltello nella piaga, prima o poi si arriva all’esplosione che meraviglia e stupisce.
Se la sede originaria dell’aggressività e della violenza è nella struttura più profonda del cervello, ciò non significa che non è possibile trovare meccanismi inibitori idonei a trasformare l’essere primitivo in un persona sociale. Infatti, l’educazione converte l’individuo primigenio in protagonista civile.
Vi sono tanti modi di “educare”: la maniera più positiva ed opportuna è quella di impartire una formazione che susciti valori e programmi di vita dagli alti contenuti, una cultura intellettiva insomma che, trasformando profondamente la personalità, sviluppi il senso critico, la ragionevolezza, induca alla presa di coscienza, e apra la strada alla maturità psichica.
Spesso, invece, viene dispensato un tipo di insegnamento che trasla solo “informazioni”, istruzioni, indottrinamenti che insegnano in modo meno impegnativo, e che fanno memorizzare le buone maniere ma non attivano la coscienza si sé e il senso profondo e filosofico dell’esistenza. Si tratta di “istruzioni” che riguardano soprattutto i comportamenti più che le idee, il sapere più che l’essere.
Vi è una forma ancora più superficiale di educare, la quale addestra senza sviluppare capacità autonome di valutazione o affinate prese di coscienza. L’individuo “addestrato” si uniforma agli insegnamenti ricevuti e scarta meccanicamente ciò che gli è stato inibito; egli si adegua all’autorità per pura sottomissione. In questi casi, non viene sviluppata la formazione di un “Io” maturo, e può accadere che il soggetto, in particolari condizioni di stress e di disagio, abbandoni “l’apprendimento ricevuto”, e lasci via libera agli impulsi più ancestrali.
Quando si afferma che un individuo è «bene educato», non sempre è precisata la tipologia pedagogica: c’è educazione ed educazione, e non tutti adottano quella più efficace.
In ogni caso, la peggiore forma d’educazione è quella che si basa sull’emotività degli “educatori”, e che procede ora con permissivismo ora con estrema severità, creando una confusione “schizofrenica” nella mente dei giovani.
È questo il motivo per cui molti di essi non hanno idee chiare sulla vita, sul loro comportamento, su ciò che è possibile fare e su ciò che non può essere fatto.
L’avventura della gioventù nei secoli
Una constatazione di carattere sociologico evidenzia che, a partire dalla seconda metà del Novecento, con la fine dell’autoritarismo si è sviluppata una maggiore permissività nei confronti della gioventù, tolleranza che era mancata durante l’Ottocento. Ciò può indurre a ritenere che la violenza giovanile dipenda dal tramonto del rigorismo, e che basterebbe riattivare l’educazione rigida per ripristinare la «docilità» giovanile. Ma questa è una affermazione che deve essere ponderata con attenzione. Innanzi tutto sperare di ripristinare il rigorismo di stampo ottocentesco sarebbe un’utopia, perché la liberalizzazione che ha inciso profondamente su tutte le strutture civili, non riguarda solo l’educazione, anzi, si può dire che alla pedagogia è arrivata di riflesso.
Infatti, se si osserva la Storia, non si può dimenticare che, nell’era del colonialismo, delle dittature, del nazionalismo esasperato, dell’autoritarismo, del servilismo psicologico dei dipendenti, tutto era improntato all’autoritarismo.
In sintonia con i tempi, i politici avevano un’aria sussiegosa e truce, come se, qualora fossero stati colti in atteggiamento più rilassato o addirittura gioioso, perdessero di credibilità: Mazzini, Cavour, Rattizzi, Ricasoli, Crispi, Bismarck, Metternich, e tanti altri, mostravano di sé un’immagine seriosa e “autoritaria”. Tutto ciò si ripercuoteva anche a scuola, ove il maestro era una figura severa, incapace di un sorriso e nella iconografia familiare borghese, ove le anziane zie, spesso nubili, le vecchie nonne, arcigne tutrici della morale sessuale, i padri di famiglia, alteri e seriosi, erano sempre pronti al rimprovero e a zittire i giovani che volessero dire la propria idea.
Oggi tutto questo è in parte scomparso: anche l’aspetto dell’uomo politico è mutato: egli deve essere allegro, aperto, solare; bisogna che ispiri fiducia col suo sorriso. I politici degli ultimi decenni, da Tony Blear, a Bill Clinton, da Chirac a Gorbaciov, hanno avuto facce distese, spesso in atteggiamento sorridente. Parimenti, anche i maestri sono più affabili con gli alunni, così come pure zie e nonne hanno dimesso i vestiti scuri e il cipiglio di un tempo; ed anche i padri vanno in giro in jeans e sfoderano ampi sorrisi accattivanti. Alla vecchia atmosfera rarefatta si è sovrapposto un clima più disteso ed egualitario come forse non era mai accaduta dall’origine dell’umanità.
Ciò sottolinea l’esistenza di una ampia rivoluzione libertaria e antiautoritaristica a tutti i livelli. Persino la Chiesa, che, nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, era stata molto rigida, ha allentato la morsa, ed è più permissiva ed indulgente con i giovani, tant’è che le iniziative per mettere a proprio agio la gioventù non mancano.
Non si può ignorare che un forte colpo all’autoritarismo è stato impresso dall’ultimo grande conflitto mondiale, al quale parteciparono attivamente, anche con azioni belliche, ragazzini e adolescenti, i quali combatterono, assieme agli adulti, in piazza o alla macchia, e subirono gli sfasci di una guerra atroce e logorante.
Durante la guerra, bambini, ragazzi e adulti furono accomunati nella stessa sorte, subirono bombardamenti e deportazioni. E così, con la fine delle ostilità, anche i giovani, che avevano passato tanti guai assieme agli adulti, divennero protagonisti sociali.
Che un nuovo rilievo abbia preso la gioventù, si deduce dalla tendenza, riscontrata in quasi tutti gli Stati, che ha portato ad abbassare a diciotto anni l’età per esercitare il diritto di voto.
Insomma, a partire dalla seconda metà del Novecento, in Occidente, la gioventù non viene più ritenuta, come era accaduto nell’Ottocento autoritario, uno stadio dello sviluppo in cui l’essere umano è ancora impreparato del tutto alla vita, incapace di gestire la propria esistenza e di comprendere i fatti sociali e politici; ma come un periodo molto attivo dell’essere umano, un’età che consente di essere già integrati nei processi quotidiani di globalizzazione.
Questa trasformazione non poteva non riflettersi anche nei rapporti familiari, che sono stati intesi in modo del tutto diverso dal passato, a favore di un maggior rispetto e di un maggiore interesse per le idee e le attività dei giovani.
Il passo efficace verso una minore oppressione dispotica è avvenuto allorquando coloro che da giovani avevano sofferto i disagi del conflitto mondiale, decisero di non essere a loro volta autoritari, come era stata, nei loro confronti, la generazione precedente. Essi capirono che, dal momento che avrebbero voluto che gli adulti rispettassero la loro emancipazione (cosa che non tutti erano riusciti ad ottenere), ora che loro erano diventati genitori, avrebbero dovuto rispettare la personalità dei propri figli. E così, l’enorme distanza storica, che in passato aveva caratterizzato le generazioni dei genitori da quelle dei figli, si ridusse di parecchio.
La seconda metà del Novecento sdoganò, dunque, la gioventù europea dalle secche in cui era stata relegata per oltre cento anni e la riportò ad una specie di par condicio. Ma, senza la mano pesante dell’autoritarismo ottocentesco, l’irruenza e la violenza giovanile ripresero il sopravvento, così come era accaduto prima dell’Ottocento.
Infatti uno dei problemi sociali del Medio Evo e delle epoche successive ad esso, fino al XIX secolo fu proprio l’irruenza devastante della gagliardia giovanile, che imperversò nelle città e nelle campagne. Fu anche per poterla ingabbiare che ebbero luogo le Crociate, nelle quali confluì la forza dirompente di una gioventù sbandata e senza futuro.
Nel Cinquecento e nel Seicento, le Compagnie di Ventura usufruirono a piene mani del contributo di una gioventù ruspante e senza meta. In quei secoli, il ruolo educativo della famiglia fu limitato, perché buona parte della prima infanzia i figli la passavano presso le balie, e l’adolescenza la trascorrevano nella bottega di un artigiano o al soldo di qualche condottiero che li intruppava nel proprio esercito.
Il Settecento fu un secolo di transizione. In esso si concretizzò quella che è stata chiamata la “pedagogia nera”. La sociologa Katharina Rutschky ha definito pedagogia nera una raccolta di antichi precetti pedagogici, di norme educative a livello quasi delirante che certi perversi “educatori” consigliavano per sottomettere i loro pupilli. La pedagogia nera è l’ingerenza falsamente pedagogica e l’imbonimento di pregiudizi e di norme di pseudogalateo che arrecano danno alla personalità. Su questa scia di farneticazioni, nell’Ottocento si fece strada la convinzione che i bambini si dovessero piegare con le batoste, anche perché, essendo marchiati fin dalla nascita dal peccato originale, era necessario ridurli in soggezione con qualsiasi mezzo per frenare l’istinto peccaminoso congenito.
Nel “Secret Diary of W. Byrd” del secolo XVIII si racconta che quando il piccolo figlio del servo di Byrd cominciò a bagnare il letto, il padre gli fece bere ogni volta una pinta d’urina. Dopo alcune di queste “punizioni esemplari”, afferma l’autore del libro, il piccolo smise di urinare la notte.
Un orripilante esempio di pedagogismo nero è il trattato scritto dal dottor Schreber, padre di quel paziente affetto da paranoia analizzato da Sigmund Freud. Libri come quello di Schreber ebbero successo e fecero della crudeltà e dell’insensibilità verso l’infanzia il credo pedagogico di molti “educatori” di quel tempo. Leggendo le folli idee pedagogiche del dottor Schreber, è evidente che egli, con il suo pazzesco modo di intendere l’educazione, ha certamente fornito una spinta alla paranoia del figlio.
L’educazione nell’800 si basava dunque sulla convinzione che l’amore dei genitori verso i figli si manifestasse trattandoli non solo in modo rigido, ma addirittura quasi crudele. Ogni violenza psichica verso i bambini era irrilevante e ai genitori era concesso qualsiasi tipo d’intervento, anche il più brutale, se sostenevano di operare per il «bene» dei figli.
- J. G. Kruger, altro pedagogista nero in voga tra il Settecento e l’Ottocento, affermava che i genitori sono autorizzati «a scacciare la violenza con la violenza perché così si rafforza la considerazione che i figli hanno dei genitori, senza la quale non sarà possibile educare in alcun modo». Leggendo le farneticanti pagine di questi assurdi “pedagogisti”, sembra di trovarsi in mano un bollettino di guerra. Nella metà del XVIII secolo, Johann Sulzer, altro educatore nero, scrisse che si può far uso della violenza perché, sostenne, con il passare degli anni i bambini dimenticano tutto ciò che è occorso loro durante la prima infanzia.
Il dispotismo era l’humus sociale che imperversava in ogni campo, da quello politico a quello del lavoro, e fu preso a modello anche dai genitori europei, che finirono col riversare sui figli un addestramento che non lasciava spazio allo sviluppo della personalità matura, perché imposto in modo autoritario e senza badare alle esigenze giovanili.
Nei paesi occidentali, agli inizi dell’Ottocento, il ruolo della famiglia e della parentela assunse un peso determinante, ma divenne anche la sede privilegiata di formalismi, di luoghi comuni, di affermazioni da accettare e da non verificare. Gli adulti strutturarono la vita dei figli con una serie di doveri come mai era accaduto prima di allora ed inoltre non diedero alla gioventù alcuna possibilità di contraddittorio.
Questo rigorismo, se da un lato spense gli ardori e le stravaganze giovanili che avevano in precedenza assillato generazioni di adulti, dall’altro si trasformò in un crogiolo, a mala pena mascherato, di tensioni, di malumori e di rancori, che spense l’iniziativa personale, e in molti casi portò alla nevrosi.
Scrive la psicologa Alice Miller che le persecuzioni sul piano fisico, praticate in un lontano passato sui bambini, dall’Ottocento in poi furono soppiantate da forme di crudeltà psichica, appena mascherate dietro il termine eufemistico di “educazione”. La famiglia ottocentesca, creando un distacco generazionale, perse l’occasione di “educare” in maniera consona i figli.
Nei paesi non europei, questo genere di cultura pedagogica ottocentesca influì poco; cosicché, oggi non possiamo meravigliarci della violenza dei niños delle favelas, dell’asprezza e della durezza dei ragazzi nelle metropoli extraeuropee, dell’aggressività e della brutalità dei giovani mercenari orientali ed africani addestrati militarmente: si tratta di masse giovanili che non hanno mai avuto un’educazione sul genere di quella che, nel diciannovesimo secolo, imperversò in Europa. La violenza che ritroviamo nei niños sbandati che vivono una vita violenta nelle strade e nelle campagne, è rivolta all’esterno della famiglia perché col nucleo familiare il rapporto è estremamente labile; per cui essi non subiscono alcuno stress da una struttura, quella familiare, che in quei Paesi è quasi assente: essi rivolgono la loro aggressività nei confronti della gente che trovano in strada, contro i gruppi concorrenti, che sono gli unici “interlocutori” della loro esistenza giornaliera.
In Occidente il problema è di tutt’altra natura: l’irruenza giovanile si sviluppa nei confronti della famiglia, interlocutrice dei giovani occidentali, come la strada è l’interlocutrice dei ragazzi del Terzo Mondo.
Ma la violenza nella famiglia non è dovuta esclusivamente al sopraggiunto permissivismo. Lo attestano storie domestiche sanguinose, accadute proprio in periodi di maggiore rigidità educativa. Si tratta di orribili misfatti familiari, tutti collocati in periodi non certo di lassismo educativo, anzi, tutt’altro.
Infatti, anche le cronache redatte proprio in periodi di forte autoritarismo, narrano di efferati crimini familiari. Ecco alcuni esempi: nel XVI secolo, a Roma, Beatrice Cenci, fanciulla molto bella e di nobile famiglia, assieme ad un sicario, uccise nel sonno il proprio padre, che certo non era uno stinco di santo. La vicenda fece molto scalpore, anche perché fu lo stesso papa, Clemente VIII, che, riconosciuta la colpevolezza della donna, la mandò a morte. Un caso di parricidio, questo, che gli scrittori Percy B. Shelley e Stendhal hanno raccontato e reso celebre con due loro romanzi; nel XVI secolo, Marie de Brinvilliers-D’Aubray, avvelenò il padre, conte Antoine Dreux d’Aubray.
Nel 1720, la figlia dell’avvocato Francio Blandy, avvelenò il padre che non voleva che si sposasse con l’uomo che lei amava ma che non era piaciuto al genitore; in Francia, verso la fine dell’800, un signora della borghesia, Adelaide Bourcer avvelenò il marito e la figlia; nel 1892, la dodicenne Lizzie Borden, fino a quel momento ritenuta una ragazza modello di una famiglia perbene, massacrò a colpi d’ascia il padre a la madre. Nel 1960, a San Francisco, Ann Duncan, una signora il cui aspetto era quello di una borghese della media società, essendo morbosamente attaccata al figlio, assoldò due sicari perché facessero fuori la giovane nuora, Olga Kupcyzk, “rea” di avergli portato via il “suo” Frank.
Nel 1954, in Nuova Zelanda, la sedicenne Pauline Parker, aiutata dall’amica del cuore, Juliet Hume, uccise a colpi di mattone la madre, che voleva separare le due ragazze, temendo che fossero legate da un’amicizia lesbica.
Nel 1957 il ventenne K. Horst uccise a Francoforte il padre l’odontoiatra Otto Horst, e la matrigna, perché non aveva perdonato al padre d’aveva divorziato. Nell’agosto del 1958, l’industriale tedesco D. Gerdts noto esponente dell’alta società di Amburgo, uccise la moglie, più giovane di lui di ventisei anni, e la suocera. Nel 1960 una anziana signora di Norimberga, di una famiglia agiata, Josephine Fischold, ritenuta fino ad allora correttissima e irreprensibile, recise la gola al figlio Rudolf, per dissapori familiari.
Come si può rilevare, a giudicare da questi e da moltissimi altri casi, quando scatta irrefrenabile il conflitto emotivo e la furia dei sentimenti, i comportamenti violenti ed esasperati si possono manifestare anche in famiglie apparentemente immuni da aberrazioni e da turbamenti morali.
Un sistema educativo adeguato deve sopperire alla transizione dal sistema coercitivo a quello permissivo
Se anche nei periodi di maggiore rigore sono stati registrati efferati delitti, ciò dimostra che non è sufficiente adottare semplicemente un sistema pedagogico rigido per avere la serenità familiare.
Esistono alcune caratteristiche psichiche dell’animo umano, che, se non sono controllate dalla maturità emotiva, possono dare luogo a comportamenti efferati. Se a ciò si aggiunge la difficoltà di sottrarsi, nell’ambito del nucleo familiare, alle inevitabili tensioni e conflittualità, non è difficile desumere quali sono i motivi che fanno esplodere le violenze.
E così, se è pur vero che la maggiore libertà ha dato corso a una flessione della ubbidienza, fino ad arrivare alla ribellione, ciò è potuto accadere anche perché, tolti i blocchi e la repressione, la gioventù non ha ricevuto, in alternativa, un adeguato sistema educativo che potesse frenare l’irruenza propria della giovinezza e la ferocia del “retrobottega” della mente umana: l’autoritarismo dei genitori non è stato sostituito da una adeguata autorevolezza.
I giovani, non più sottoposti ad una istruzione severa e non più inibiti da un addestramento duro e a volte anche arrogante, venuta meno la paura dell’autorità, non hanno incontrato alternative all’indottrinamento di un tempo, e, liberi da vincoli e senza sufficiente maturazione, hanno dato via libera a reazioni violente. Ciò che prima era inibito dal tabù dell’autorità, è diventato, secondo loro, legittimo e realizzabile.
Giovani e giovanissimi credono di essere nel giusto (e in molti casi lo sono) quando contestano la società con le sue contraddizioni. Ma ciò che essi non riescono a valutare è l’impossibilità di riformare, come vorrebbero, la struttura sociale in un batter d’occhio. E così, in una società permissiva, i giovani, perse le inibizioni, sono tornati ad essere agguerriti e aggressivi come prima dell’Ottocento.
La rivoluzione sociale che è in atto, non trova in sintonia adulti e giovani: i tempi adattativi degli adulti sono più lenti di quelli dei giovani, i quali sono più pronti ad assorbire la evoluzione della comunità Questo crea un accentuato divario tra le generazioni; tant’è che i genitori spesso non comprendono i figli, che, invece, si sono subito adeguati alle nuove frontiere del villaggio globale.
I giovani, educati un tempo con rigore dispotico, non azzardavano alcuna ribellione, ma quando è venuta meno la repressione, rimossi i blocchi dittatoriali, hanno perso le inibizioni. La maggiore libertà ha avuto alcuni effetti benefici, tuttavia, poiché non sempre è impartita una educazione razionale, basata sul dialogo e sulla maturità, può accadere che oggi i giovani siano più esposti al pericolo di stravaganze e di violenze.
Ed allora, era meglio l’autoritarismo?
Nemmeno questa sembrerebbe la strada più opportuna, se è vero che l’Ottocento, periodo di maggiore autoritarismo educativo, ha prodotto, più di qualunque altro secolo, individui nevrotici. In molti casi l’autoritarismo, schiacciando la personalità, ha generato individui frustrati o belve inselvatichite dalla rabbia; ma di converso, una gestione troppo assillante dell’amore genitoriale può essere dannosa tanto quanto l’abbandono e la disaffezione. Pur essendo atteggiamenti antitetici, autoritarismo e accondiscendenza sono fonti di disagio esistenziale, di paure e di inquietudini.
È dal carattere degli adulti e dal loro modo di educare che derivano la maturità o la caparbietà, l’irragionevolezza o la serenità, l’immaturità affettiva o l’equilibrio interiore, la gracilità psichica o la forza d’animo dei loro figli. Quando le situazioni che affliggono gli adulti vengono “riversate” sui figli, si creano “corti circuiti” emozionali e psicologici che restano impressi nella vita dei minori.
Purtroppo, spesso la transizione dal rigore educativo alla accondiscendenza pedagogica, avviene nell’ambito delle singole famiglie, con una specie di fai da te educativo, incontrollato e privo di riscontri. Spesso la famiglia non è in grado di promuovere l’educazione dei sentimenti, anzi, in qualche caso, sollecita, senza volerlo, una vera e propria confusione dei sentimenti. L’amore possessivo dei genitori, paradossalmente, può soffocare la libertà e affliggere la vita di bambini e adolescenti. L’individuo deve invece essere aiutato a maturare, e solo dopo cesserà di essere un bambino per diventare un membro della comunità. Spesso s’incontrano adulti che non sono affatto cresciuti emotivamente e dunque non sono all’altezza di educare. L’ansia di alcuni genitori pone l’adolescente al centro dell’attenzione e lo stringe in un vero e proprio “accerchiamento” emotivo. Questo atteggiamento soffoca la libertà del minore e stimola problemi psicologici di vario genere. Il minore assillato da adulti nevrotici cresce con una evidente “fragilità” psichica difficilmente sanabile.
I sistemi educativi costruiti sull’onda dell’emotività, non contribuiscono alla maturazione dei giovani. E purtroppo, anche la cronaca dimostra come molte famiglie non siano idonee al compito educativo, e come non tutti i genitori sono maturi e preparati ad impartire un’educazione raziocinante. Anzi, spesso, molti adulti impongono ai figli luoghi comuni e criteri insensati, senza che i minori siano in grado di rigettare quel genere di pedagogia.
E così, allorquando la gioventù ha conquistato il diritto alla libertà, senza che avesse però raggiunta una riflessiva e matura consapevolezza, è stata indotta a sentirsi legittimata a conseguirne i propri obbiettivi con qualsiasi mezzo, violenza compresa. Una deflagrazione rabbiosa, questa, che è stata favorita anche dalla «aggressività ancestrale» di cui è dotato il cervello umano.
L’esplosione è improvvisa e imprevedibile?
La educazione formale, imposta con la paura, stimola la mistificazione, tant’è che parole, gesti, e mimica vengono disciplinati dall’ipocrisia e dal timore di castighi, sicché i reali sentimenti del soggetto non trapelano quasi mai.
È questo il caso in cui non è possibile capire quali emozioni provi davvero la persona che si autocontrolla. I sorrisi stereotipati e un’affettata cordialità, a volte nascondono dinamiche psichiche complesse e pulsioni emotive impossibili da esprimere. Questa apparente tranquillità esteriore rende vaga e ambigua la differenza tra il mondo “dei sani” e quello “dei malati”; infatti, solo quando emerge la furia selvaggia, è svelato il contrasto tra follia e normalità.
Ma come prevedere il “salto” dal mondo dei falsi sani di mente a quello dei malati? Come spiegare l’omicidio di genitori da parte di figli che davano l’impressione di essere educati e rispettosi dei principi loro inculcati?
Spesso i giovani non lasciano trapelare che “dentro” al loro animo, consciamente o meno, ribolle una furia atavica, a volte incontrollabile. In molti casi si tratta di personalità deboli, insicure e infantili, a cui manca un obbiettivo processo di valutazione del reale.
La ragionevolezza di un individuo dipende anche dal buon funzionamento del suo sistema emozionale, e se questo va in tilt, come nel caso delle personalità più fragili, ecco che esplode l’insensatezza umana. Non sapere ascoltare, non sapere intercettare i messaggi più significativi al riguardo è una responsabilità da attribuire agli adulti.
Per dipanare la intricata matassa della violenza e del disagio giovanile, bisogna rassegnarsi all’idea che, agli inizi del terzo Millennio, sebbene l’uomo viva in un mondo tecnologico progredito, egli non ha ancora estirpato dalla propria anima i retaggi della primitiva barbarie. L’unica possibilità che si ha per frenare questa follia è educare meglio i giovani. Infatti, solo un’educazione intelligente e civile potrà renderli consapevoli, non-nevrotici, e ragionevoli.
Purtroppo bisogna riconoscere che gli educatori dovrebbero essere “meglio educati” perché possano educare meglio. Infatti è alquanto tangibile la carenza degli adulti in campo pedagogico.
Spesso i delitti dei giovani si verificano quando sono stati cancellati i confini tra sogno e realtà, e hanno preso il sopravvento gli stereotipi, le chimere e le incongrue convinzioni che sono il bagaglio “culturale” di una società troppo competitiva e arrivista. Se la mente è inquinata da archetipi “para-logici” e da categorie di pensiero inattendibili, allora le capacità di controllo del reale s’indeboliscono e si possono commettere atti inconsulti. In questo caso, la differenza tra normalità e delirio si affievolisce e determinazioni perverse maturano nel crepuscolo della mente, tra conscio e inconscio. A quel punto, il buio scende nel cervello, e, dato che il buon senso viene surrogato dagli atavici meccanismi di difesa-offesa, può accadere che, giovani apparentemente “tranquilli” e “perbene”, si comportino con crudeltà e distruttività.
Se il cervello è integro, se l’intelligenza è sufficientemente sviluppata, allora il controllo della realtà è più chiaro. Tuttavia, la ragionevolezza di un individuo dipende non solo dalle capacità intellettive, ma anche dal buon funzionamento del sistema emozionale. Se questo va in tilt, la necessità di cicatrizzare qualche sopruso (vero o presunto) causa un’esaltazione rabbiosa che porta talvolta persino al delitto. Poiché certe ferite dell’anima sono devastanti più di quelle fisiche, i giovani che non sono più inibiti dal rigore della ubbidienza e che non sono resi ragionevoli da un’educazione formativa, che fornisca loro opportune riflessioni civili, quando sono invasi da un insostenibile accumulo di risentimenti, esplodono in violente e incontrollate manifestazioni di rabbia e di odio.
E in fine, bisogna anche dire che, oltre alla struttura cerebrale primitiva, un altro fattore che determina le azioni crudeli è ciò che L. Athens chiama, in The Creation of Dangerous Violent Criminals, opera di violentizzazione, cioè il genere di educazione che insegna l’utilità della violenza o che si esprime con brutalità. In altri termini, poiché ci comportiamo in conformità con i modelli ricevuti, chi ha subito, oppure ha appreso, uno stile di vita feroce e brutale, finisce inevitabilmente col comportarsi in maniera violenta.
Il poeta e drammaturgo inglese W.H Auden così si è espresso in proposito: «Colui a cui viene fatto del male, farà del male a sua volta»
Conclusioni
L’adolescenza è un’età difficile; tende a contrapporsi all’età adulta, e poiché nessun adolescente è immune da sofferenze psicologiche, bisogna sapere ascoltare e anche parlare con i toni giusti. È probabile che alcuni dei misfatti accaduti all’interno del nucleo familiare, se fossero stati meglio monitorati con una più efficace opera educativa, si sarebbero potuti prevenire. Ma non si deve demonizzare né la famiglia moderna, né i genitori, né la gioventù: il nucleo familiare non è solamente un problema, può essere una risorsa e una certezza e, per fortuna, la maggior parte dei genitori e dei giovani riescono ad intuirlo. E per ciò, è necessario ricordare anche i grandi gesti d’affetto che ancora si usano in famiglia. Uno di questi, forse quello che li riassume e li nobilita, è accaduto a Milano, nel marzo 2001. Un figlio trentaduenne, Daniele Maccarinelli, sposato e padre di due bambini, rischiando la vita e ipotecando un futuro che per la sua salute potrebbe essere denso di incognite, ha voluto donare al padre metà del suo fegato per salvargli la vita. Si tratta di un edificante ed emblematico episodio che, dopo tanto orrore, bilancia quelli delle cronache nere.
Non bisogna dunque lasciarsi trascinare dall’onda dell’emotività, e giudicare troppo severamente la gioventù d’oggi. Tracciando un identikit dei giovani del 2000, senza banali luoghi comuni, si può affermare che non sono né più egoisti, né più fragili di quelli di un tempo. Essi pongono, però, una maggiore attenzione, di quanto non facessero i giovani del passato, alla critica sociale e familiare, e, a differenza dei sessantottini, credono meno all’agone politico, anche perché quello attuale lo trovano arido e desolante.
I giovani del XXI secolo, hanno, in cima ai loro bisogni, l’obbiettivo dell’indipendenza psicologica dagli adulti. Un traguardo che, assieme alla necessità di realizzare al meglio le proprie capacità personali, è al primo posto nei loro desideri.
È un errore grossolano ritenere che vi siano davvero tanti giovani così cinici e prepotenti da formulare piani diabolici per impossessarsi dei beni domestici e sopprimere la loro famiglia quando litigano con essa.
Non si deve pertanto attribuire ai fatti che la cronaca riporta una valenza statistica maggiore di quella reale. Infatti, se da un lato un giusto allarme viene segnalato dai media, soprattutto per quanto riguarda i crimini commessi dai giovani, dall’altro non bisogna ignorare che le statistiche dell’Istat (annuario n°37 del 1991) mostrano attraverso una analisi degli omicidi volontari, preterintenzionali e degli infanticidi commessi in famiglia, che in Italia dal 1930 al 1989, non vi sono stati grossi aumenti percentuali. Anzi, le statistiche indicano che dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975 l’indice di criminalità, per i delitti contro la famiglia è passato, dal 20,8 per 100.000 abitanti nel 1975, al 14, 4 nel 1989.
Insomma, la patologia della famiglia ha un andamento stabile, e se essa è sempre più evidenziata, ciò è dovuto soprattutto alla maggiore sensibilità con la quale vengono rilevati i crimini in famiglia, una trasparenza e una attenzione che, in passato era mancata, e che può indurre a pensare erroneamente che prima di oggi non vi fosse un numero altrettanto consistente di delitti. Bisogna inoltre riflettere, senza ipocrisie, sul fatto che non esiste il mondo ideale e aprioristicamente perfetto, ma che è possibile, comprendendo certe rabbie, certi distacchi e certi mutismi significativi, intervenire per evitare la loro pericolosità.
Fortunatamente come afferma Frans De Waal, l’essere umano, come tutti i primati, tende anche alla riconciliazione, e far la pace è naturale tanto quanto lo è la guerra. Il comportamento della riconciliazione è un tassello che fa parte della nostra eredità biologica. E meno male.
RIASSUNTO
La violenza giovanile in famiglia è un male oscuro che sembra gravare pesantemente sul nucleo domestico, dal momento che le cronache riferiscono sempre nuovi atti inconsulti commessi da giovani e da minori. Le cause di questi episodi vanno ricercate sia nella stessa natura umana, ancora troppo legata al proprio passato ancestrale, sia in un difettoso e carente imprinting educativo.
È probabile che alcuni dei misfatti accaduti all’interno del nucleo familiare, con una più efficace opera socio-pedagogica, si sarebbero potuti prevenire. Ma non si deve demonizzare né la famiglia moderna, né i genitori, né la gioventù: il nucleo familiare non è solamente un problema, può essere una risorsa e una certezza e, per fortuna, la maggior parte dei genitori e dei giovani riescono ad intuirlo.
SUMMARY
Juvenile violence in families is a sombre evil that seems to seriously oppress the domestic nucleus. As reported by the newspapers, more and more crimes are committed by the young and youngsters under age. The causes of these episodes are to be found both in human nature itself – which is still too tightly depending on its ancestral past – and in a wrong or insufficient educational imprinting.
It is probable that some of the crimes that have been committed within the nucleus of a family could have been prevented by a more efficient sociological and pedagogical action. But one should not put the blame on the family, on parents or on the youth: the family nucleus is not simply a problem, it can also be a resource and a certitude. Luckily, most parents and most youngsters are able to understand it.
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Psicoterapie
Malattia mentale, sofferenza psichica
e
terapia della parola
Fino ad oggi non erano stati in alcun modo rilevabili le alterazioni neurologiche dovute a stati psicopatologici come l’angoscia e alla malattia mentale in genere. Ciò che di quei disturbi si poteva vedere erano le manifestazioni esteriori, le conseguenze comportamentali ed espressive del disagio psichico, ma non si potevano identificare “neurologicamente” i processi mentali che presiedono e sviluppano le stranezze della parola e del comportamento nel malato di mente.
Il lavoro del terapeuta non aveva riscontri fisico-neurologici, come invece ha il chirurgo, l’ortopedico, il dentista, il medico internista, etc.
Grazie al migliorare delle acquisizioni delle neuroscienze che indagano sulle strutture e le funzioni cerebrali, oggi possiamo avere informazioni concrete sulle strutture fisiologiche dei processi mentali, sui cambiamenti della cervello-mente, anche in relazioni alla malattia psichica e alla psicoterapia.
Secondo E. R. Kandel è possibile riscontrare cambiamenti a livello celebrale dovuti alla psicoterapia. L’Autore afferma che si possono notare determinare modifiche a livello sinaptico dovute all’apprendimento e, a tal proposito, ha osservato cambiamenti della architettura cerebrale in soggetti sottoposti a psicoterapia.
L’esperienza psicoterapica può dare dunque l’avvio a modificazioni della plasticità cerebrale. Di converso, si può affermare che, avendosi cambiamenti nel pattern delle connessioni cellulari, l’apprendimento di comportamenti sociali distorti, gli stress psichici consistenti e continuativi, possono comportare la strutturazione e il mantenimento di alterazioni nelle funzioni cellulari che, assieme ad alterazioni genetiche e biochimiche, si rendono causa di qualche malattia mentale.
Le neuroscienze hanno mostrato che la mente umana è un misto di fisiologia e psicologia: è il prodotto della eccitazione neurale, il risultato della interazione tra processi neurofisiologici interne al cervello e l’acquisizione e l’elaborazione di esperienze esterne, che costituiscono un patrimonio di notizie che determinano il funzionamento della mente, le sue scelte, il profilo personale del soggetto.
Anche i più complessi e astratti processi mentali sono il prodotto di operazioni fisiologiche cerebrali, e quindi dipendono da una serie di funzioni che dipendono dalla materia cerebrale.
Grazie alle nuove tecniche di ricerca, studiando i processi mentali anche dal punto di vista biologico, è possibile raggiungere conoscenze abbastanza pertinenti sui meccanismi biologici che creano il funzionamento della mente.
Il livello di indagine delle nuove tecniche di brain-imaging delle neuro scienze, consente di approfondire “neuro-fisio-biologicamente” i processi cerebrali. Con queste tecniche, per esempio, si sono chiarite le basi biologiche della memoria.
In passato si pensava che ogni tipo di memoria avesse una sede precisa; con le nuove ricerche, grazie alla tecnologia PET, (tomografia ad emissione di positroni), si è potuto appurare che la memoria dipende da una fitta rete di neuroni che connettono siti cerebrali diversi e pertanto sono numerose le strutture e i sistemi che contribuiscono ad incamerare ricordi e a riportarli alla memoria.
Utilizzando la PET, ricercatori tra cui James Flyn, Howard Gardner e altri, hanno constatato quali sono le zone del cervello attivate mentre il soggetto svolge diverse attività. Si è scoperto che vi sono aree del cervello che presiedono al linguaggio, altre all’orientamento spaziale, altre al pensiero logico, alla musicalità e via dicendo.
Queste ricerche indicano che le capacità mentali dipendono da una vasta interconnessione tra varie zone cerebrali e che vi possono essere delle specifiche capacità: linguistico verbale, logico matematica, musicale, cinestetica, spaziale, sociale, ognuna delle quali è maggiormente presente in un individuo e meno in un altro. Si deve desumere che alcuni individui la cui sezione cerebrale si attiva maggiormente in concomitanza di un problema matematico, ma non hanno però la medesima capacità per quanto riguarda la abilità sociale.
Studiando il cervello in maniera più appropriata si è potuto constatare che non esiste (come si riteneva) “l’intelligenza” in senso globale, ma varie forme di intelligenza, per cui può accadere che persone che eccellono in un campo, mostrano sensibili inadeguatezze in un altro. Vi possono essere geni in un campo, ma non significa che costoro lo siano in altri campi. A tal proposito c’è da rilevare che la stupidità ha in sé una forza che la rende coriacea e vincente e che porta alla sua diffusione. La stupidità è il cortocircuito della ragione, e spesso è proprio l’atteggiamento irrazionale che ha più presa perché, essendo un corto circuito, è più semplice da propagandare (e da accettare!). L’essere umano è portato ad escludere dal suo pensiero, per vari motivi soprattutto emozionali, quei ragionamenti che definisce “freddamente logici” e preferisce ciò che è suffragato apparentemente dalla morale, dal buonismo, dall’umanitarismo e dalla religione. Tutto questo comporta una saccenza, caratteristica principale della stupidità, e teorie “politiche” percepite come una sorta di intuizione morale, salvifica, grazie alla quale si eviterebbero le “ingiustizie” e si avrebbe la felicità degli uomini. Che poi in realtà non possono essere adottate non mette in crisi il credo di coloro che le abbracciato: l’essere umano è portato ad escludere dalla propria vista ciò che non collima con le proprie utopie e le “aspettative messianiche” (buona parte della gente è convinta dei poteri dei fenomeni paranormali e questa è una delle convinzioni così diffuse che si fa forza da sé ed è difficile da estirpare).
L’umanità dunque ha molte illusioni: spesso si tratta di convinzioni condivise dalla massa, e in questo caso è difficile dimostrare la loro falsità. Il delirio, invece, è una convinzione che ha un singolo individuo, non condivisa dalla massa, una convinzione che quasi nessuno condivide con chi ce l’ha, ma quando questa convinzione è presente in molte persone, è difficile poterla sradicare.
Il cervello umano tende a vedere ciò che si aspetta di vedere ma che in realtà non c’è e spesso tende a notare correlazioni che non esistono, come nel caso della fortuna o della sfortuna.
Quando la mente ha una ipotesi ingannevolmente plausibile, costruisce delle prove che ne attestano la veridicità. In questo caso, il soggetto ha una irrazionale fedeltà nelle proprie convinzioni e fa di tutto, accettando anche prove inconsistenti, per attestarne la veridicità, e rifiuta qualsiasi prova contraria!
L’incapacità di vedere ciò che è ovvio, le fantasiosi spiegazioni di avvenimenti, sono il corollario che consegue alla fiducia, senza razionale dimostrazione, nelle proprie convinzioni.
Spesso il nostro cervello per restare fedele alle proprie convinzioni, o per paura di trovare verità scomode, schiva e scarta ogni prova contraria, elude ogni esperimento rigoroso e critico della realtà, arrivando all’appagante credenza di essere a confronto della verità.
Questo spiega perché è vano tentare di aprire gli occhi a persone che sono abbarbicate emotivamente nelle loro convinzioni.
Le argomentazioni “razionali” che tendono a smantellare il castello di illusioni che il soggetto si è creato, ricevono una fredda accoglienza, i ragionamenti che sostengono il punto di vista contrario sono rilevati come pericolosi e fuorvianti.
Questa rigorosa censura e la necessità di non approfondire la veridicità della proprie convinzioni comporta, in molta gente, il persistere di convinzioni, impressioni, opinioni che spesso nulla hanno a che vedere con la realtà. La gente ostenta una perniciosa sicurezza in attestazioni che non sono mai stata passate al vaglio della ragione, e che si sono formati nell’innocenza dell’infanzia o in preda all’emotività.
Il cervello dell’uomo e della donna
Con ricerche in campo neurobiologico si sono scoperte strutture cerebrali diverse tra uomini e donne, e si è appurato che questa distinzione mostra che il diverso modo di comportarsi dei due sessi deriva proprio da tali dissomiglianze nel funzionamento cerebrale.
Si può affermare che la diversità tra uomo e donna non deriva soltanto dagli orientamenti socio-culturali ma da significative differenze neurologiche.
Non è, come si riteneva in passato, la differenza del peso cerebrale che distingue il comportamento e l’attività mentale della donna da quella dell’uomo. Le diversità emotive e comportamentali, studiate con tecniche raffinatissime quali la risonanza magnetica funzionale e la tomografia ad emissioni di positroni, dipendono dalle differenziazione di strutture cerebrali e di funzionamenti neurologici nei due sessi.
Una forte asimmetria nei due emisferi nel cervello dell’uomo e una sensibilmente minore asimmetria nella donna porterebbe a pensare che la donna ha maggiore facilità di parola dal momento che nell’uomo l’area del linguaggio è sostanzialmente confinata nell’emisfero sinistro, mentre nella donna è più bilanciata tra emisfero destro e sinistro.
Se i maschi hanno una maggiore capacità spaziale questo dipende da una facoltà neuropsichica che si attiva maggiormente nella corteccia frontale: infatti quando si tratta di valutare misure e requisiti spaziali, a differenza di quanto avviene nelle donne, l’uomo ha intuizioni più precise
Le risposte allo stress, in genere diverse negli uomini e nelle donne, dipendono dalla struttura dell’ippocampo, difforme nei due sessi. L’ippocampo femminile sopporta meglio gli stress di carattere cognitivo, mentre è più vulnerabile agli stress che riguardano l’umore. La eterogeneità ormonale e la difforme funzionalità del sistema endocrino nei due sessi causano comportamenti e acquisizioni diversificate.
Il ruolo dei due emisferi cerebrali (il destro presiede alla conoscenza delle immagini e il sinistro al linguaggio) è importante ai fini del coinvolgimento emotivo, del desiderio sessuale, del potere decisionale, dell’orientamento spaziale etc. etc.
Poiché i due emisferi hanno caratteristiche di funzionalità differenti nei due sessi, diverso è, di conseguenza, l’approccio di maschi e femmine nelle varie situazioni della vita. E questo indipendentemente dall’educazione e dalla condizioni sociali.
Possiamo fidarci del nostro cervello?
Purtroppo diamo per scontato che i nostri giudizi e i nostri pensieri siano attendibili, ma è sbagliato fidarsi tanto. Ne «Gli inganni della mente» dice la psichiatra Cordelia Fine che il cervello non merita “fiducia”. Gran parte di quel che crediamo non è come sembra e la nostra mente non è affidabile.
A parte le difficoltà genetiche e ontologico filosofiche, l’essere umano è vanesio e ritiene che il proprio ragionamento sempre corretto. Purtroppo le nostre strategie mentali cercano di esorcizzare e di sminuire i nostri fallimenti, affermando che le probabilità di successo erano poche; o che non ci siamo essersi impegnati al massimo, ed è per tale motivo che non sono riusciti.
Le emozioni falsano le decisioni. Spesso i ricordi, sono “memorie di fatti” che il cervello non ha valuta realisticamente.
Il cervello è suggestionato da convinzioni sociali e religiose. La mente umana ha una convinzione esagerata della obbiettività delle proprie credenze e crea anche prove false a sostegno di esse.
Le verità, non inquinate dall’interesse o dallo spirito di parte, sono poche.
A volte perseguiamo mete che l’inconscio ha innescato nella nostra mente, senza ce ne rendiamo conto e poiché questi obiettivi sono il prodotto di scopi che non consociamo nella loro profondità inconscia, non possiamo fidarci che il giudizio del cervello sia sempre obiettivo!
Tra le persone che danno la stessa valenza a un argomento, si crea una connivenza più o meno inconscia. In questi casi a nessuno importa sapere la verità, ognuno vede ciò che vuole vedere.
La concretezza della verità, associa all’opinione della maggioranza
Sviluppata è la presunzione che ciò che sostiene a maggioranza, sia da considerare l’opinione migliore. Conferire valore alla maggioranza ha il grave difetto di accreditare la convinzione che il giusto e il vero stiano supportati dalla quantità e non dalla qualità.
Se ciò risolve alcuni problemi pratici in campo politico, per esempio, comporta una grave diseducazione: la convinzione che la ragionevolezza sia nella maggioranza a prescindere che sia o meno competente a decidere quel problema. Dando per scontato che la quantità sia più vicina alla sensatezza, si fa discendere la convinzione che è migliore l’opinione della maggioranza piuttosto che quella di una minoranza più tecnica e più precisa. Le convinzioni supportate da un numero inferiore di persone induce i più a rifiutarle.
Di converso, nel campo scientifico, si seguono le persone più qualificate, e si accetta ciò che pensa la minoranza qualificata.
Parlare di libertà in senso filosofico mi sembra, come dici bene, una impresa vana. In senso pratico è ancora peggio. Siamo modellati psichicamente e neuro-fisiologicamente da una lunga serie di esperienze, ed ogni esperienza altera i circuiti nervosi e li ricondiziona. L’esperienza memorizzata ora, per esempio, non solo comporta alterazioni neuronali (che si assomano ad altri condizionamenti neuro-fisiologici precedenti), ma condiziona la nostra vita a partire da questo momento, comportando altre “alterazioni” del comportamento, del gusto, dell’affettività etc. etc. e dunque della libertà, alterazioni che non avremmo avuto senza questa ultima esperienza. Come è mai possibile stabilire dunque se un gesto “sia stato dettato dalla libertà”?! Diciamo allora che s’intende per libertà l’ignoranza dei condizionamenti che hanno indotto quell’ atto.L’insigth iniziale porta l’anatroccolo a seguire qualsiasi cosa si muova davanti a lui entro la prima mezz’ora della sua nascita. E da quella cosa che si muove danti a lui nella prima mezz’ora della sua vita sarà condizionato per la vita! L’essere umano ha una lunga serie di insight, che lo modellano per sempre. E allora come si può dire che il suo comportamento non è affatto condizionato, e cioè come si può affermare che è assolutamente libero? Ed anche a volere largheggiare: quando possiamo dire con certezza che un comportamento è libero e quando invece non lo è? Il problema diventa insolubile nella “nebbia” di un atto criminoso ed in quel caso è del tutto inutile parlare di capacità di intendere e volere, senza fare “del pettolezzo” e nient’altro. Anche ammesso che vi sia una confessione…chi dice che il soggetto sia stato “libero”, come lui afferma, quando commise l’atto criminale? La giustizia non può che essere “approssimativa” per eccesso o per difetto. Per questo, giustamente, l’avvocato Calamandrei diceva che se veniva a sapere che avevano rubato il campanile di Giotto si dava alla latitanza. Quando poi si parla di giustizia in Italia, c’è da accapponare la pelle. Bellissimo, al riguardo e ti consiglio di leggerlo, “Il paese del pressapoco” di Raffaele Simone ( Garzanti). Una parola definitiva, detta con lo stile di Montanelli, e con la profondità di uno storico come l’Omodeo, sull’Italia di ieri, di oggi e di domani.
Cervello e comportamento
Ma siamo anche ingannati della nostra struttura cerebrale: umori, passioni, paure, contentezze, predilezioni, rabbie sono in parte dovuti a sottili cambiamenti della chimica cerebrale. Invece siamo convinti che le nostre scelte e i nostri gusti siano indipendenti dalla nostra struttura neurologica. A volte un insieme di opinioni e di convinzioni spesso sono dominate da fattori biochimici e fisiologici, e da imprinting sociali e libertà ce n’è ben poca!
La mente funziona con diversi moduli, e ognuno di essi è collegato a funzioni che nel passato dell’umanità si sono dimostrate utili per la sopravvivenza della specie. Queste funzioni adattative del cervello hanno una grande importanza nelle scelte e nei nostri comportamenti.
Le nostre preferenze possono dipendere da processi mentali che a volte sono in conflitto tra loro. Osservando lo schizofrenico notiamo che a volte si sente “indotto” a fare cose che un’altra parte del suo cervelIo non farebbe. Gli vengono in mente conclusioni e scelte che l’altra parte di Sé non accetta!
Spesso le emozioni paralizzano la libertà di pensiero del cervello che davanti alla pressione emotiva si “lascia convincere” a fare cose che, senza l’emotività incombente, non avrebbe fatto.
Intelligenza e memoria non sono sempre egualmente efficienti. Nella sindrome di savant che colpisce alcuni soggetti, la memoria in alcuni campi ( musicale, matematico etc.) è prodigiosa, sconfinata, ma ad essa non si associa pari “capacità” nel campo sociale, affettivo, relazionale.
Le immagini digitali dell’encefalo di tali persona mostrano alcune anomalie strutturali: l’assenza o il rimpicciolimento del corpo calloso, il cervelletto piccolo e malformato, le sconnessure (fasci nervosi che collegano i due emisferi, anteriori e posteriori) sono a volte minori della norma o mancano del tutto.
La razionalita’, gli schemi della mente e l’interpretazione del reale.
Gli schemi mentali, cioè le categorie con le quali interpretiamo ciò che c’è e vive attorno a noi , aiutano a relazionarci nel presente, velocizzando le esperienze attuali grazie ad una conoscenza, acquisita nel passato, che fa da guida e rende più facile capire il presente, con le basi costruite dalla comprensione precedente.
I neonati non avendo esperienze non hanno schemi mentali e sono del tutto incapaci di riconoscere la realtà.
Vedono e non sanno dare un significato. I bambini cominciano a capire il mondo che li circonda quando imparano le schematizzazioni mentali dai genitori. Ciò è un grosso vantaggio ai fini della sopravvivenza. Ma se questo procedimento ha il vantaggio di orientare l’individuo non solo nella realtà quotidiana, ma anche in tutti i settori, dal campo filosofico e morale a quello del gusto e delle preferenze e dei sentimenti, l’utilità di questi schemi dipende dallo loro flessibilità e modificabilità.
Se essi sono troppo rigidi e immutabili, se vengono interiorizzano al punto che non possono essere più cambiati, essi regolano troppo rigidamente l’interpretazione del presente, del proprio sé, dei fatto della vita, dei sentimenti e il modo di pensare, in maniera così inflessibile da impedire di comprendere diversamente il mondo se fosse più utile e ove ce ne fosse bisogno.
In un primo tempo i bambini vanno avanti nella conoscenza grazie agli schemi mentali appresi dai loro genitori. Anzi, poiché i genitori “premiano” i bambini che seguono i loro schemi essi si sottomettono con uno scarso margine personale di interpretazione del reale.
Gli schemi mentali imposti in questo modo, possono acquisire una specie di corazza spessa, e limitare in maniera marcata la interpretazione e valutazione della realtà al punto da diventare una “corazza del carattere” che impedisce al soggetto di accettare liberamente altre idee e altri giudizi che non sia quelli inquadrati negli schemi mentali acquisisti in gioventù.
Insomma questi schemi mentali possono diventare delle lenti deformate che creano modi di penare, di sentire, di agire e di realizzare che possono essere in contrasto con esigenze di adeguatezza al reale.
Più è alto il livello di rigidità dei modelli della mente, più difficile è fruire serenamente delle esperienze quotidiane e ancor più rigido è lo stereotipo nel quale viene inquadrata ogni forma relazionale.
Si creano così delle distorsioni che diventano a mano a mano patologiche. Gli schemi rigidi prendono la forma di procedure di interpretazione e di valutazione distorte della realtà e del proprio sé, perché sia la realtà che il proprio sé sono visti con le lenti deformanti e interpretazioni psicopatologiche.
Quando gli schemi diventano patologici ingabbiano la vitalità, inibiscono, fanno distorcere al soggetto le proprie percezioni e i priori bisogni.
Comincia la malattia psichica proprio quando la spontaneità della decifrazione del reale è deformata. In questo caso infatti si ha una riduzione della esperienza, che comporta vari disagi, tra cui disturbi relazionali, mancanza di autenticità, incapacità di riconoscere e di seguire i propri bisogni.
Gli schemi mentali si ritrovano nel cinema della“follia”. Il cinema utilizza molto gli schemi mentali.
La necessità che ha il cinema di usufruire di parametri e schemi precostituiti deriva dal fatto che essendo essenzialmente una comunicazione visiva, deve utilizzare per essere meglio compreso comunicazioni e messaggi a tutti noti. Un viso di uomo con sfregi, torvo e truce viene utilizzato, senza troppe lungaggini per indicare che chi ha quell’aspetto è un individuo poco affidabile. Tuttavia si tratta sempre di un preconcetto, di uno schema di comodo, fino a prova contraria.
Infatti può accadere che un soggetto che ci sembra inaffidabile a causa del suo immagine sia invece una persona dolce e tranquilla. Il gobbo di Parigi, nell’opera Notre Dame, sia pur dall’apparenza torva era una persona molto sensibile. In questo caso mostrare un soggetto dall’apparenza crudele per poi segnalarlo come persona sensibile aumenta l’impatto affettivo. L’inversione insomma ha anche essa un effetto forte: sembrava cattivo invece è buono, anzi, in contrasto con la sua immagine è “molto più buono”. Il problema della rigidità degli schemi fu molto sentito nel teatro greco.
Le maschere avevano una rigidità espressiva che non consentiva modulazioni di umore. A spiegare che l’umore dell’attore era cambiato rispetto alla maschera che indossava ci pensava di solito il coro, il quale spiegava il perché dei cambiamenti. Ma un attore con una maschera truce restava con quella maschera anche se poi nella recitazione doveva piangere come un bambino, creando una certa discrepanza, proprio perché la maschera era uno schema che non aveva anche il concetto di pianto.
Per ovviare all’inconveniente, i greci a volte facevano rientrare dietro le quinte l’attore il quale indossava una maschera consona a quel momento emotivo. Del resto i greci erano abituati a queste performance. Nella scena non c’erano mai più di tre o quattro personaggi e se doveva comparirne un quarto, uno degli attori,con una scusa plausibile, s’allontanava dalla azione teatrale, andava dietro le scene, si cambiava e entrava inscena per rappresentare il nuovo personaggio.
Il cinema non ha bisogno di questo stratagemma, ma utilizza le “maschere degli attori” per sintetizzare subito il personaggio e renderlo subito leggibile mal pubblico.
Tuttavia il cinema “soffre” di schemi mentali rigidi. Accanto alla rappresentazione corretta della malattia psichica , per motivi di spettacolo, per esigenza di cassetta c’è una modalità di raffigurazione della follia nella cinematografia che crea una fuorviante disinformazione perché associa la follia alla violenza selvaggia, la malattia mentale alla assoluta emarginazione, e determina una serie di pregiudizi che portano alla incapacità di comprendere la situazione reale del malato di mente.
L’incapacita ad uscire dagli schemi prestabiliti
Poiché si cerca l’approvazione degli altri, un eventuale tentativo di liberarsi degli schemi acquisiti – facendo temere con questa svolta la disapprovazione degli altri – fa scaturire l’angoscia. Il bisogno di sicurezza allora impedisce la liberazione dagli schemi mentali rigidi, ma pur rassicuranti. Il bisogno di sicurezza è maggiore del bisogno di libertà, sicché il libero pensiero difficilmente raggiunge la propria pienezza, perché il soggetto temendo la disapprovazione sociale, si sottomette per “motivi di sicurezza” agli stereotipi. Tutto ciò porta ad una rinunzia alla propria indipendenza, in favore di una sottomissione che comporta la certezza di non essere criticato ed emarginato. Chi finisce con l’assumere come proprio lo status mentale di altre persone ( dei genitori in particolare) perde una parte del proprio dinamismo cognitivo. A lungo andare così, la carenza di libertà crea una specie di soffocamento negli individui che sono più propensi a cercare la emancipazione e al bisogno di non essere limitati dagli schemi. Di conseguenza in loro viene fuori una conflittualità che crea disagio e inquietudine. Chi vorrebbe sviluppare spontaneamente la propria autentica natura e i propri autentici interessi, se non si libera “del passato” finisce col soffrire una dinamica conflittuale che lo porta all’angoscia e alla nevrosi. Questo individuo infatti constata con sempre maggiore dolore la dissintonia tra ciò che vuole e ciò che gli è imposto. L’importanza di accordare il sociale col personale, gli schemi con la libera interpretazione soggettiva del reale, conduce, quando è possibile, ad una mediazione, che arriva ad un compromesso e ad una condivisione non rigida tra il soggetto e l’ambiente. Se invece lo scontro è troppo radicalizzato, gli scambi dinamici tra il sé e il mondo esterno diventano problematici, e si sviluppa l’angoscia. Quando l’ambiente è troppo invalidante al soggetto non resta che sottomettersi o combatterlo. Nell’uno e nell’altro caso il prezzo che paga in termini di salute mentale può essere alto. In ogni caso si tratta di esperienza sfibranti e dolorose che comportano, oltre che un depauperamento della qualità delle capacità psicologiche, ad una marcata inibizione delle espressioni personali, anche modificazioni biochimiche nel soggetto. Oggi si sa che precoci esperienze traumatizzanti sono anche responsabili di alterazioni cerebrali.
La mancanza di logica, dipende da inadeguati stati d’animo?
Quali sono le caratteristiche del pensiero razionale, di solito attribuito alla persona sana di mente e quelle del pensiero irrazionale, di solito attribuito al malato mentale?
Una persona può commettere errori logici in una situazione emotiva, quando è confusa, davanti ad evento imprevedibile e coinvolgente. In questi casi il ragionamento può apparire irrazionale, ma la persona può non essere irrazionale.In certi casi un individuo può ragionane in modo inadeguato non perché è “irrazionale” ma perché ignora alcuni principi, perché non conosce la storia o la psicologia, oppure perché propende a sviluppare illusioni oppure applica, per mancanza di cultura, criteri inadeguati.In un contesto un pensiero può essere “razionalmente adeguato” (per esempio nel contesto religioso) ma al di fuori di quell’ambito (nell’ambiente laico per esempio) esso non fa parte delle convinzioni razionali. Se un soggetto ha una credenza “irrazionale” appresa attraverso un processo di suggestione, o educativo, ciò indica che il soggetto sia razionale? Quando può essere considerato un soggetto razionale, quando i processi di formazione delle sue credenze si sono sviluppati liberamente e senza pressioni esterne? Diceva Aristotele che la caratteristica precipua dell’essere umano è la razionalità; ma in determinate situazioni (amore, paura, sentimenti, desideri, conflittualità, religiosità etc. etc.) la maggior parte della gente “pensa” e fa scelte irrazionali. A questo punto l’affermazione che gli uomini sono razionali, deve essere ridotta in ambiti particolari: in quello della scienza, della matematica, della tecnologia, nei quali “l’irrazionalità” salta subito all’occhio, perché se si procede in maniera irrazionale non si hanno risultati validi e funzionali.
Può accadere che una persona in alcuni ambiti manifesti razionalità e in altri non lo sia? Una persona che nel campo economico si dimostri irragionevole: un esempio è spendaccione, è poco accurato nel controllo dei propri averi, può essere razionale in altro campi?. Nel diritto, può accadere che un giudice – persona ritenuta razionale – emetta una sentenza valutando un fatto, in materia di reati sessuali per esempio, sotto lo stimolo di supponenze che possiede in quel campo. Anche nel campo delle nevrosi e delle malattie mentali è possibile dividere ciò che è razionale dall’irrazionale? Prendiamo per esempio la “paura dell’aereo”. In teoria qualsiasi aereo è soggetto ad avere un incidente. Le statistiche però assicurano che è un evento remoto. Dimostrato, statistiche alla mano, che il pericolo di una catastrofe aerea è poco rilevante, come definire chi ha paura di volare: prudente o irragionevole?
Spesso le strategie più utili per convincere non sono quelle che utilizzano la logica
La politica per esempio, è dominata più dalla emotività, e dagli interessi che dalla ragionevolezza. Non c’è motivo dunque che un politico debba inserire nei suoi discorsi ” affermazioni logiche” che non produrrebbero i risultati come quelli che producono gli stimoli emotivi.
La gente va avanti a suon di emotività, e, per trascinarla con sé, il politico deve usare mezzi idonei: la nebulosità delle affermazioni, lasciare intendere ad ognuno ciò che vuole intendere, far leva sul sentimentalismo e sull’illusione, sulle aspettative piuttosto che sulle possibilità concrete.
Meno la gente si rende conto della realtà, meglio può essere abbindolata. Il politico usa strategie emozionali e chi meglio riesce a far breccia sulla impressionabilità della gente, riceve più consensi. Tutto ciò che è nebuloso, suggestivo e che non del tutto chiaro e dimostrabile, ha più effetto immaginifico. L’esistenza di un più o meno larvato mistero spiega il successo della religione: la gente meno pensa e più accetta. Lo stesso in politica: se la gente avesse chiaro il quadro, trarrebbe conclusioni più realistiche. Ma una banconota falsa, si spaccia meglio al buio, in fretta, e distogliendo l’attenzione di chi la riceve.
I politici in parte, “sono costretti” ad operare con questi mezzi in caso contrario rimarrebbero fermi alla linea di partenza. Visto come stanno le cose, sono più soggetti a perdere i politici che agli elettori fanno vedere motivi realistici e logici.
L’insicurezza
L’insicurezza può essere uno stato obiettivo o soggettivo. In senso oggettivo l’insicurezza è precarietà, insufficiente ordine pubblico e una tale quantità di rischi, nella società, che non si possa vivere sereni. In senso soggettivo essa è, secondo un dizionario, una “condizione caratterizzata da dubbi su se stessi, dal timore di sbagliare e di non essere all’altezza della situazione”. Questa insicurezza è fonte di ansie o addirittura d’angosce. Per uscirne e per provare a se stesso il proprio valore, il soggetto tenta a volte di compiere miracoli: ma più spesso è paralizzato dalla paura e sopporta l’insicurezza come una sua croce personale.Radici dell’insicurezza e possibile soluzione del problemaLa prima ragione per avere “timore di sbagliare” è che, effettivamente, non si è all’altezza del compito. Una seconda e più frequente ragione è che non ci si reputa all’altezza di quei mirabolanti risultati che reputeremmo normali per noi, data la stima che abbiamo o vorremmo avere di noi stessi. Chi si rifiuta di affrontare un compito spesso fa ciò perché ha troppa paura di non riuscire come vorrebbe. Questo dipende a volte da un eccesso di lodi ricevute rispetto ai propri reali meriti. Un tempo, quando le ragazzine studiavano pianoforte, c’era l’eterna commedia delle famiglie che le invitavano pressantemente a suonare per gli ospiti e di loro che si rifiutavano con tutte le loro forze.
Come mai? Semplicemente perché le famiglie esageravano con le loro lodi mentre le ragazzine, oltre al naturale fastidio dell’esibirsi, avevano la coscienza della propria mediocrità, nata dai rimproveri del maestro di piano. Per questo si sottraevano con la fuga ad una prova che le esponeva al rischio del ridicolo.Le lodi sono pericolose perché abbiamo tendenza a prenderle sul serio. Tutti vorremmo essere i migliori e proprio per questo crediamo facilmente di esserlo. Il bambino non si stupisce affatto se qualcuno gli dice che è il più bello del mondo. La realtà però c’infligge una tale quantità di frustrazioni e umiliazioni che crescendo di solito siamo costretti ad uscire dai nostri sogni. Se però qualcuno coltiva le nostre naturali propensioni, ricoprendoci di lodi e rassicurandoci sulle nostre superiori qualità, rimaniamo nella nostra illusione infantile ma chi ci apprezza troppo non ci fa per nulla un favore: infatti finiremo con l’aspettarci da noi stessi prestazioni di cui siamo incapaci. Saremo ovviamente frustrati e ci rifiuteremo d’apprendere dalla realtà il nostro vero valore. L’insicuro è qualcuno cui è stato detto che vale dieci, che ama pensare di valere dieci, ma al quale le precedenti esperienze hanno troppo spesso detto che vale tre. O forse due. Anche se questo non è sufficiente a fargli cambiare opinione. Più si ha stima di sé, più è facile essere delusi di se stessi. Mentre il disprezzo ingiustificato è a volte il prologo di una favola a lieto fine, le lodi ingiustificate sono il prologo d’una tragedia.Il primo passo verso la soluzione del problema dell’insicurezza è la conoscenza dei dati di fatto, perché quando non si hanno elementi concreti su cui fondare il proprio giudizio, l’insicurezza è addirittura doverosa. Se qualcuno è chiamato a sostenere un esame di storia senza che gli sia stato comunicato il programma, per quanto colto sia, non potrà non soffrire di insicurezza. Da un lato bisogna spendere una vita per avere un’infarinatura della storia universale, dall’altro essa non è sufficiente se poi l’esame verte esclusivamente sul processo a Girolamo Savonarola. Viceversa, se un individuo vuole ignorare quali compiti è effettivamente in grado d’affrontare, la sua insicurezza sarà per così dire volontaria. A volte infatti i dati sono facilmente conoscibili o addirittura evidenti. Se un giovane ha ottenuto buoni voti in un compiacente istituto privato e poi ha paura degli esami di Stato, non soffre di un’insicurezza caratteriale ma dalla coscienza che i suoi voti precedenti sono stati fasulli. Non è insicuro: è impreparato. Non soffre d’amnesia, soffre d’ignoranza. Dovrà solo mettersi a studiare sul serio, per la prossima occasione. L’accettazione della realtà è un dovere ineliminabile, quale che ne sia il costo. Se un giovane brutto è insicuro perché ha il dubbio d’essere brutto, la soluzione è dirgli che non deve avere nessun dubbio, è effettivamente brutto. Sia pure aggiungendo che non è una tragedia. Avrà certo più difficoltà della media, nella vita e con l’altro sesso: ma c’è modo di cavarsela. Alla lunga potrebbe anche essere più felice dei belli. Ciò che si può star certi non sia la soluzione è negare il fatto che sia brutto.Non vanno negati neppure i piccoli difetti dei più dotati. Se una bella ragazza è insicura perché ha le gambe troppo magre, è inutile negarlo lodando la sua bellezza complessiva. Bisogna innanzi tutto riconoscere che le sue gambe sono effettivamente troppo magre, per poi dirle che lo sanno tutti e tutti la considerano una bella ragazza lo stesso. Dopo di questo, se la giovane continua ad essere insicura, è perché l’hanno tanto lodata, soprattutto da bambina, che ella considera la perfezione come un minimo sotto il quale non si sente assolutamente di scendere. In tutti i casi il primo passo è il riconoscimento della realtà. All’uomo di bassa statura è inutile dire che anche Napoleone era piccolino. L’interessato non è Napoleone e se una donna non accetta la sua corte perché è basso, non può certo dirle: “Bada che anche Napoleone era un tappo”. Tuttavia al mondo c’è posto anche per gli uomini di bassa statura e, per quanto riguarda le donne, basta pensare al successo d’un donnaiolo brutto e pelato come D’Annunzio.Il primo rimedio contro l’insicurezza è la conoscenza e l’accettazione della realtà. Essa può essere terribile come può essere consolante: ma è risolutiva. Ecco perché la cosa peggiore che si possa fare è rassicurare una persona cara con bugie. Esse rendono doloroso ed insolubile il problema dell’insicurezza. Dinanzi alle esitazioni dell’insicuro la giusta reazione non è dire – come fanno molti – “Ma sì che ce la fai, dai!” Perché l’individuo da un lato non è affatto convinto di farcela, dall’altro, con questo atteggiamento ottimistico, si ingigantisce la delusione che provocherebbe il fallimento. Bisogna proporre un ostacolo più semplice, e poi invitare l’insicuro a superare un ostacolo un po’ meno semplice, e poi un altro un po’ più difficile, fino a conquistare la disinvoltura. Cosa da fare con sforzo, umiltà e pazienza. La massima ragione di sicurezza la dà la certezza, nata dall’esperienza, di essere in grado di superare l’ostacolo. Il caso peggiore non cambia la regolaUna vecchia vignetta rappresentava uno psichiatra con la mano sulla spalla del suo cliente, mentre gli diceva: “No, lei non ha nessun complesso. Lei è realmente inferiore”. Una diagnosi in questi termini sarebbe controproducente per la sua brutalità ma non per la sua sostanza. Nella realtà, avendo a che fare con un uomo realmente inferiore, bisognerebbe riuscire a rivelargli piano piano che è inferiore, per poi consigliargli di aggrapparsi non ai meriti che non ha, ma a quelli che ha. Per esempio un bel carattere. Chi è pronto alla lode e al riconoscimento degli altrui meriti, chi è gentile e offre amore a tutti, sarà ricambiato da molti. Come dice il proverbio, attira più mosche una goccia di miele che un litro di fiele. La regola dell’accettazione della verità, come rimedio all’insicurezza, non conosce eccezioni: nemmeno nel caso più drammatico. L’insicuro che non vuole rinunciare alle proprie illusioni peggiora la propria situazione. Non deve dire all’avversario che lo ha vinto a scacchi, anche se è vero: “Ho perso solo per una distrazione”. Deve riconoscere la sconfitta (che tale effettivamente è) aggiungendoci una lode: “Non solo giochi bene ma non perdi mai la concentrazione”. I fatti non cambieranno ma il vincitore gli sarà grato della lode che ha effettivamente meritato e magari dirà lui stesso generosamente che l’altro, distrazione a parte, meritava di vincere. La lotta contro l’insicurezza comincia dalla percezione della realtà ogni volta che sia ottenibile. La prima cosa che l’individuo deve conoscere è il proprio vero livello. Le illusioni consolatorie sarebbero smentite dalla realtà. Gli atteggiamenti utiliCi sono tuttavia dei casi in cui è difficile valutare la realtà. Nessuno può essere sicuro di essere promosso. Anche chi ha studiato sufficientemente non può escludere che ci sia un punto importante che gli è sfuggito, che al momento dell’esame dimentichi qualcosa, che il professore chieda una minuzia o che sia un pazzo. Questo genere d’insicurezza è del tutto normale. L’insicurezza diviene patologica solo se il soggetto non ha studiato adeguatamente e intimamente pretende di essere promosso lo stesso. Oppure se ha studiato per la sufficienza ma ha la pretesa d’ottenere il massimo dei voti. Per guarire dall’insicurezza, una volta che si conosce la verità, si può o accettare il proprio limite (“Sì, sono effettivamente un uomo di bassa statura e lo sarò per tutta la vita”) o, quando è possibile, cercare di superarlo: “Sì, sono ignorante in storia, ma da domani mi metterò a studiare”. Per non dire che si potrebbe anche dire: “ “Sì, sono ignorante in storia ma chi se ne frega”. In ogni caso, l’insicurezza non si cura con l’illusione.L’insicurezza dei bambiniI bambini rappresentano un caso particolare e molto importante d’insicurezza: essa infatti è connaturata alla loro età. Gli adulti hanno avuto il tempo di orientarsi nella realtà, di valutare se stessi e gli altri, mentre il bambino arriva nel mondo come tabula rasa: non sa nulla di nulla, né di sé né del mondo. È come un astronauta che giunge su un pianeta di cui non sa nulla. In un caso del genere, chiunque non soffrisse d’insicurezza sarebbe un imbecille. Ma, ancora una volta, la risposta al problema è una corretta informazione. L’adulto, anche di fronte ad una situazione nuova, ha alcuni punti di riferimento. Conosce se stesso e le proprie possibilità. Il bambino non dispone neppure di questi dati. Da un lato è incapace d’essere autonomo, di procurarsi la sussistenza e di difendersi dai pericoli, dall’altro è oggetto dell’affetto e della protezione dei genitori. Da un lato cioè la sua situazione è troppo difficile, dall’altra è troppo facile. Questo gli falsa tutti i parametri. Per un verso è visceralmente spaventato dalla propria debolezza e dipendenza, ed ecco perché piange se appena perde di vista i genitori, per l’altro l’affetto e la condiscendenza dei genitori lo illudono sulle sue possibilità. Il bambino che fa i capricci si trasforma in un tiranno che collauda la propria forza, cosciente del fatto che un vero potere assoluto è tale quando se ne può abusare. I capricci non sono un’assurdità: sono una risposta eccessiva al sentimento d’impotenza.Vivendo lo straziante contrasto tra un eccesso d’insicurezza e un fragile complesso d’onnipotenza, il bambino sente la necessità di raccogliere al più presto le cognizioni necessarie ad un corretto adattamento all’ambiente. È in questo che gli adulti devono aiutarlo. La realtà vorrebbe che si cominciasse spiegando al bambino che egli non ha nessun potere, che è l’omega del gruppo e dipende da tutti, perfino per la propria sopravvivenza fisica: ma questo messaggio è quasi inutile, perché il bambino queste cose le sa già. Ripetergliele potrebbe addirittura creargli angoscia. Per converso, pur mentre gli si assicura soccorso e affetto, è necessario che non gli si permetta di scambiare l’affetto dei genitori per un proprio potere. Non appena accenna a strafare, è necessario rimetterlo al suo posto. Come lottare contro l’insicurezza infantile. Il bambino deve essere aiutato a prendere coscienza della realtà. Per questo devono essere accuratamente evitate tutte, diconsi tutte le informazioni false. Mai dargli ragione quando ha torto. Mai dargli spiegazioni cervellotiche. Mai parlare di “Uomo nero” o “lupo cattivo”. Mai suggerire paure fantastiche e mai fargli credere che il happy end è la conclusione di tutte le vicende umane. Non ci sono fate ma non ci sono neanche streghe. Le favole, naturale alimento dell’immaginazione infantile, vanno sempre accompagnate da una chiara affermazione della loro infondatezza. Mai edulcorare la realtà: il nonno non è partito, il nonno è morto. Mai giocare con l’ignoranza dei bambini, come raccontare ad un piccolo di quattro anni che lo zio è andato dai nonni, a Torino, volando. E come? Ma così, agitando le braccia! Questo genere di scherzi, che può divertire gli adulti sciocchi, è due volte sbagliato: da un lato si ride di chi non può difendersi, dall’altro si corre il rischio che il bambino di tre anni, una volta o l’altra, provi a volare fuori dalla finestra.L’essere bambini non dà nessun diritto, se non il rispetto dovuto ad un essere umano di quell’età. Servire per primi i bambini, a tavola, “perché hanno fame”, è sbagliato: è un messaggio in contrasto col fatto che essi sono l’animale omega del gruppo, non l’animale alfa. Per primo si serve l’ospite, animale alpha pro tempore. Poi mamma e papà. Poi il bambino. Lasciar sedere il bambino sulle ginocchia del padre al volante, “perché vuole guidare come papà”, è sbagliato: il piccolo non ha l’età per guidare e farglielo credere è una stupidaggine. Quando sarà un adulto, guiderà anche lui; prima, è inutile fare la commedia.Sempre in nome dello stesso rispetto, non bisogna aiutare i bambini a fare i compiti. Aiutarli corrisponde a dichiarare che non sono in grado di farli da soli. E questo crea insicurezza. Esattamente la precisa coscienza di “non essere all’altezza del proprio compito (per casa) ”. Non essendo aiutati, o avranno una corretta conoscenza di sé e del fatto che “non sono all’altezza”, o impareranno a cavarsela da soli, eliminando dunque l’insicurezza. Un guadagno in ogni caso.Il bambino ha diritto a vivere come tale. Dunque è sbagliato vietargli di giocare “perché suderebbe e potrebbe raffreddarsi”, o “perché potrebbe cadere e farsi male”. Bisogna dirgli di no solo quando ci sono precise ragioni per dire di no.Tutti questi esempi illustrano un principio generale: l’insicurezza del minore si cura migliorandone il contatto con la realtà. Se un ragazzo ha l’angoscia degli scacchi, perché perde troppo spesso mentre vorrebbe essere un campione, è inutile che gli si dica che è un campione, che gioca benissimo ed ha perduto per sfortuna, per distrazione, per caso. Gli si deve dire la verità: che gioca da settimo od ottavo su dieci; e che, lungi dall’essere un campione sfortunato, è una schiappa normale. Che giochi dunque per divertirsi, non per trionfare. Certo, se studia qualche buon libro e se sta più attento, c’è qualche speranza che migliori. Ma se non dovesse migliorare – e dove sta scritto che debba per forza migliorare? – rimarrà confermato che il suo normale livello è di settimo od ottavo. Ogni volta che si fa una classifica, forse che non c’è un ultimo? Fra l’altro, se si riesce ad essere ultimi col sorriso si sarà anche simpatici.Questo atteggiamento che sembra crudele è l’unico pietoso. Il ragazzino a cui si dice la verità sul suo livello scacchistico o si rassegnerà a giocare per giocare, sapendo che i campioni sono altri, o s’impegnerà per giocare meglio. Con o senza buoni risultati, ma essendo pronto ad accettare la realtà. Se invece lo si loda a sproposito e lo si rassicura sulla sua presunta natura di campione, che nulla prova, lo si esporrà ad un tormento più lungo e sottile: quello delle continue smentite della realtà, quando non a quello dell’irrisione. Mentre il disprezzo ingiustificato è a volte il prologo d’una favola a lieto fine, le lodi ingiustificate sono il prologo di una tragedia.
La lotta al pensiero superstizioso con convinzioni e credenza irrazionali
Uno dei motivi che portano alla irragionevolezza è l’esempio. Quando una autorità, un sistema educativo, un gruppo di cultura adopera mezzi irrazionali per avvalorare le proprie tesi, per educare e indirizzare le menti, la massa educata con questi parametri finisce inevitabilmente col confondere ciò che è irrazionale con il razionale.La religione cristiana ha combattuto le superstizioni, ma è stata essa stessa il terreno più fertile per credenze irrazionali. Nel Medioevo, quando si trattò di convertire i pagani al cristianesimo, compito dei santi e dei vescovi era quello di entusiasmare le masse con miracoli che trascinavano la gente con entusiasmo al fonte battesimale. San Martino, San Germano, San Marcello, San Lucio, San Simplicio, San Benigno, Sant’Ilario, Santa Radegonda furono strenui avversari dell’idolatria, ma essi stessi furono portatori di superstizione sotto l’apparenza del culto cristiano. Se da un lato essi combatterono l’adorazione pagana degli alberi, delle acque,dei fiumi, essi d’altro canto affermavano nuove credenze superstiziose. Se vescovi e preti si davano da fare pere estirpare le radici pagane dell’arte dei sortilegi e della magia essi ne “creavano” altri “garantiti” dal cristianesimo. Essi ritennero ovvia l’influenza del demonio che inganna i cristiani e nuoce alla Chiesa. Interessante nel Medioevo fu la concezione cristiana riguardante i defunti: la Chiesa disapprovava le tombe sontuose della gente comune, importante era la salvezza dell’anima; poco interessava il corpo dei morti, eccetto il caso del corpo dei santi che diventavano reliquie. In questi ultimi casi, si costituiva attorno ad essi un apparato di credenze e prodigi che ne giustificavano la sacralità. La Chiesa combatteva la credenza popolare secondo cui i morti tornavano nel mondo terreno per visitare i parenti, ritenendo queste convinzioni sopravvivenze di paganesimo, ma avvaloravano le apparizioni di santi perché potevano avvalorare la santità del morto.Tuttavia dopo la seconda metà del XII secolo la credenza negli spiriti suscitò un rinnovato interesse e una accettata credibilità e legittimità: si ammise che i morti che soffrivano nell’aldilà potessero ritornare a supplicare i parenti di pregare per loro, far dire messe, fare offerte per alleggerire le loro sofferenze ed abbreviare la loro permanenza in purgatorio. A partire deal XII secolo si moltiplica la letteratura narrativa che racconta questo genere di apparizioni. Addirittura si raccontava della apparizione di eserciti di morti, avvenute in Italia, ma anche in Germania nella Francia, nel Galles, in Spagna. La Chiesa avvalorava questa credenza, avvalorando così l’esistenza del purgatorio e delle sofferenze che esso comportava. Gervasio di Tilbury riferisce di simili apparizioni, e con lui tanti altri tra cui Gualtiero Map, il cistercense Elinardo di Froindmont, Stefano di Bourbon etc. etc.Anche i sogni furono per la Chiesa al centro del problema delle superstizioni, tuttavia i sogni furono un terreno ambiguo. Nelle Scritture,m per esempio, i sogni interpretati da Daniele o da Giuseppe erano considerati strumenti utili e positivi della rivelazione divina.Insomma secondo il Cristianesimo medievale bisognava distinguere i sogni “veri” che vengono direttamente da Dio, quelli che si riscontrano nelle agiografie dei santi, dei monaci, da quelli vani e ingannevoli sollecitati dal diavolo. In fine c’erano i sogni che si originano dal corpo umano, che spesso sono sogni provocatori di incubi, e di desiderio sessuali, Sogni lussuriosi che rivelano la fragilità umana nei confronti del peccato.Secondo i chierici, quando uomini rozzi e incolti pretendevano di interpretare i loro sogni senza la mediazione della Chiesa, fuor di dubbio erano spinti a far questo dal diavolo. Insomma la Chiesa non lasciava nulla alla iniziativa e alla interpretazione personale del singolo, perché riteneva suo dovere prendersi “cura” affinché il singolo potesse procedere col giusto pensiero.Se un soggetto si mostrava “irriducibile” a seguire il pensiero della Chiesa, allora la convinzione clericale medievale era che dopo il parto il neonato fosse stato sostituito dal diavolo e al suo posto si trovasse un piccolo demone. Secondo la tradizione il futuro S. Stefano fu sostituito dal diavolo mentre era in una culla con un demonietto, e venne salvato dal vescovo che vide il diavolo sorvolare la culla del bambino, e ridato ai suoi genitori. Quando Santo Stefano ritornò dai genitori, trovò nella sua culla l’essere demoniaco col quale egli era stato sostituito, e lo fece dare alle fiamme. (Martino di Bartolomeo, Vita di Santo Stefano).
Il Medioevo fu anche terreno fertile di miracoli. San Tommaso distingueva tre tipi di miracoli: supra naturam,contra naturam, praeter naturam. In tutti i casi, bisognava assicurarsi che non c’entrasse il diavolo con le manifestazioni miracolose. Monaci e vescovi, sebbene combattessero le superstizioni, credevano nell’efficacia del malocchio . Il monaco Guiberto di Nogent, ha scritto nella sua biografia che suo padre rimase sette anni senza avere figli a causa di un malefizio fattogli dalla matrigna invidiosa. Alessandro IV ordinò all’Inquisizione di perseguitare non solo l’eresia, ma anche i sortilegi e le divinazioni. Nel XIII secolo, Etienne Tempier, vescovo di Parigi, avversò l’introduzione della scienza e della filosofica araba nella cultura cristiana, ritenendole opera del demonio. Grandi dotti tra cui il catalano Raimondo Lullo, l’alchimista di Mompelier Arnaldo di Villanova, l’alchimista parigino Jean de Bar, il prete spretato Olivier Pépin e tanto altri, che utilizzavano la scienza araba furono condannati a lunghe pene corporali e detentive e alcuni anche dati alle fiamme. Vennero perseguitate particolarmente le streghe, che si “univano” carnalmente col Diavolo, e gli eretici che seguivano il Saba, ritenuto superstizione giudaica.
Normalita’ e anormalita’: un dato geografico e culturale?
La psichiatria transculturale è impegnata nell’individuare cosa s’intende per anormalità e normalità nei vari contesti culturali. Essa, indagando in varie aree geo-culturali l’origine del disturbo mentale, ha identificato quasi sempre una responsabilità nel tipo di insegnamento sociale impartito la radice dei conflitti tra il singolo e la sua cultura. Ma se i disturbi psichici sono frequenti in tutte le società umane e in tutte le epoche, tuttavia l’atteggiamento delle varie collettività verso di essi, la ricerca della loro spiegazione e della loro cura, sono differenziati.
Dal punto di vista linguistico, la parola matto ha tanti sinonimi che indicano vari significati: folle, demente, forsennato, bizzarro, eccentrico, singolare, alienato, stravagante, strambo, strampalato, diverso, estroso, dissennato, balordo, pazzoide, etc. etc. Ma è innanzi tutto fondamentale il tipo di cultura in cui avviene il disturbo per individuare e definire se esiste una malattia mentale e di che genere è.
Dice il Deveroux, nei suoi Saggi di etnopsichiatria generale,[1] che ogni società incoraggia alcuni comportamenti e ne scoraggia altri, per cui è il gruppo di appartenenza a stabilire chi deve essere considerato “matto”e ad indicare quale condotta deve avere un individuo per non essere riconosciuto “anormale”.
La convinzione che alcuni atteggiamenti, certi modi di essere, taluni principi siano i soli validi, fa sì che, in un contesto sociale, il diverso rientra nel cliché che lo identifica come non uguale agli altri ed egli, a sua volta, si adegua e si atteggia nel modo in cui la società lo ha individuato, cioè “fuori dalla norma”.
Tuttavia, se si facesse un’analisi comparativa delle valutazioni psichiatriche si potrebbe mettere in luce che certi presupposti che indicano uno stato di malattia mentale, ritenuti scontati per una cultura, non sono sicuri indici di malattia per un altro gruppo sociale.
Infatti, poiché in ogni cultura, la gente è portata a credere in valori e in verità sociali che magari per un’altra sono prive di certezze, ma alle quali il gruppo è attaccato con una fede incrollabile, non è possibile definire certe convinzioni culturali come dei vaneggiamenti, in quanto fanno parte della tradizione di un popolo. Altrettanto problematico è considerare alcune manifestazioni mentali “non comuni”, singole o collettive, come anormali.
È probabile che, indagando sull’origine delle une e delle altre, si trovino motivazioni e ragioni che fanno loro da supporto, e che li rivelano come metafore di una congettura, di una paura, di una credenza occulta.
Il relativismo culturale comporta dunque diverse interpretazioni, e si possono avere per uno stesso comportamento, per una medesima usanza o per una stessa credenza, a seconda del punto di vista culturale che si esaminano, una valutazione psichiatrica e una di “normalità”.
Colui che per molti minuti dimena compulsivamente la testa verso un muro, è considerato un individuo religioso se lo fa davanti al muro del pianto; ma fuori da quel contesto, chi si comportasse in quella maniera sarebbe oggetto di indagine psichiatrica.
Vi sono sette religiose che hanno credenze, costumi, e propongono esperienze assai simili a quelli manifestati dai pazienti psichiatrici di tipo paranoie e schizoide. Il limite di demarcazione tra sanità mentale e follia è, in questi casi, assai difficile da tracciare, anche perché, a volte, quanti si addentrano in simili esperienze ha spesso già una componente mentale che vira verso tendenze psichiatriche.
- Spencer[2], esaminando i casi di degenza psichiatrica negli ospedali australiani, ha potuto rilevare che le persone che seguivano la setta dei Testimoni di Geova, erano, in rapporto ad altri pazienti affetti da disturbi psichiatrici, il doppio o il quadruplo. Questo può essere spiegato perché da un lato chi ha dei disturbi psicologici tende a cercare aiuto in primo luogo rivolgendosi all’aiuto di forze soprannaturali o di persone che affermano di fare da intermediarie tra queste e chi soffre, e poi perché, di converso, vi sono confessioni religiose che incoraggiano, più di quanto non facciano le altre, ad avere esperienze inverosimili e impressionanti.
Del resto, deliri ed allucinazioni, secondo alcune fedi religiose, posso significare una unzione particolare, un singolare stato di grazia, piuttosto che uno stato di disagio psichico. Alcuni individui che presentano particolari manifestazioni psichiche sono considerati, secondo la cultura dove avvengono tali eventi, in preda a un maleficio, mentre altri individui, che presentano identici sintomi, sono indicati come “segnati” dalla benevolenza della divinità.
Così come alcune caratteristiche psicologiche, in una cultura sono valutate positivamente, mentre in un‘altra cultura sono considerati segni inequivocabili di malattia mentale. Molte manifestazioni comportamentali e molte convinzioni, asseconda delle funzioni che rappresentano nei contesti in cui accadono, possono essere dunque considerate negative o positive.
A tal proposito J. P. Sartre ha osservato che coloro che sono affetti dal disturbo che Janet[3] ha raggruppato sotto l’etichetta di psicoastenia hanno sovente, grazie al loro stato, intuizioni metafisiche che l’uomo normale non ha o che fa di tutto per mascherare a sé stesso e agli altri.
Tuttavia, malgrado tanta finezza di pensiero e tanto coraggio intellettuale, a volte, afferma il filosofo francese, quando la lucidità dell’autocritica è spietata e senza mezzi termini, avvelena la vita e paralizza l’azione. Così, in Occidente, chi si rende conto dell’inutilità dell’esistere, e perde la voglia febbrile, può approdare alla depressione, malattia dell’anima o atteggiamento di chi non prende più sul serio l’impresa della vita.
Il pacato e ascetico keif, cioè quel senso di assoluta inattività, in cui sprofondano molte persone, che nell’area mussulmana è considerato un comportamento normale, e in India è chiamato “distacco dalle cose terrene”, possono essere visti nelle aree occidentali dove è ritenuta unica “virtù” la fretta e l’intensa attività psicomotoria come forme di “depressione psichica”.
Da qui il fatto che le persone che vanno contro la tradizione dominante vengono considerate “anormali”. Ma, paradossalmente, si può anche diventare “anormali” quando si sviluppa in modo eccessivo l’aderenza e la sottomissione al modello culturale. Troppa solerzia e sottomissione alle regole possono far esplodere nell’Io un conflitto dal quale vengono fuori disagi e frustrazioni. Si pensi a chi si fustiga per qualsiasi piccola sbavatura comportamentale, o a chi, in modo maniacale, è così ligio alle regole che la sua vita quotidiana è scandita da assillanti sensi di colpa.
In questi casi si è di fronte a quella che in natura viene chiamata ipertelia, cioè lo sviluppo di caratteristiche che, normalmente utili, se assumono dimensioni esagerate, risultano addirittura dannose. Per il cervo, per esempio, le corna sono uno strumento di difesa, ma quando sono esageratamente sviluppate possono diventare un impaccio, o addirittura un pericolo, se, a causa della loro mole, l’animale resta imprigionato in una selva di alberi e, paralizzato, diventa facile preda di animali che lo cacciano. Per quanto riguarda il campo umano, l’ipertelia può indurre un individuo ad un eccesso angoscioso di sottomissione a regole che, se osservate con criterio risultano utili, ma diventano una camicia di forza se sono seguite con assillante compulsione.
Per curare radicalmente un disturbo nevrotico a volte bisogna rimettere in discussione le strutture sulle quali si è evoluto, cioè l’educazione, i cliché, le credenze e i valori che lo hanno “nutrito”. Nevrotico è spesso colui che non è riuscito a far combaciare le proprie necessità con ciò che la società si aspetta da un individuo ritenuto nella norma, e questo contrasto ha origine non solo nella relazione con la famiglia, ma nel confronto con l’ambiente.
Una società evoluta dovrebbe invece essere in grado di accettare anche le esigenze “diverse” dalla norma che fanno parte del bagaglio psicologico del singolo e trovare un “modus vivendi” che tenga conto anche delle necessità di ogni individuo.
Un giovane omosessuale tentò il suicidio perché si sentiva rifiutato dalla sua famiglia. Non avrebbe commesso quel gesto se si fosse sentito accettato dall’ambiente sociale e familiare.
Lo psicologo Paolo Inghilleri, membro della Sezione della Psicologia Transculturale dell’Università di Milano, sostiene che ogni individuo riceve una eredità culturale specifica e il suo sviluppo psichico e comportamentale deriva dalle caratteristiche della società che lo circonda. Secondo Tobie Nathan[4] ciascuna cultura può sviluppare modelli di disordine psichico che sono spesso il risultato di una elaborazione culturale complessa. Dopo un lungo apprendistato frutto di un continuo insegnamento si forma la struttura che porta al disturbo. Ad essa concorrono le esperienze personali, le suggestioni e i principi informatori di una determinata cultura che costituiscono il repertorio emozionale di ogni individuo.
Alcune forme psicopatologiche sono anche il risultato di una evoluzione del livello culturale, e variano o si spostano da una regione ad un’altra, da un periodo storico ad un altro, secondo che l’evoluzione sociale le determina o le fa regredire.
Afferma Julian Leff[5] che, mentre nel XIX secolo, a causa del tipo di educazione di struttura sociale l’isteria era molto diffusa nei paesi europei, dalla fine del XX secolo in poi, in paesi come l’Inghilterra, il Galles, la Germania, si è notato un regredire dell’isteria, perché, a causa dell’attenzione posta sugli stati affettivi, i pazienti hanno progressivamente modificato il loro modo di esprimere il malessere, passando dalle esperienze psicofisiche dell’isteria, a quelle più stremante mentali dell’ansia e della depressione. L’isteria si trova, invece, ancora di frequente in paesi in via di sviluppo. Elsarrag[6] ha rilevato in Sudan cecità isterica, diplopia monoculare, paralisi isterica, parestesie, e altre forme di conversione, proprio come succedeva ai tempi di Charcot a Parigi alla fine del XIX secolo. In Libano Katchadourian e Racy[7] hanno appurato che l’isteria di conversione costituisce un’alta percentuale dei disturbi nevrotici. Anche in Libia, in Egitto e in India, i casi di isteria sono molto frequenti secondo i rilevamenti di vari psichiatri transculturali.
Il confronto tra i vari tipi di disturbi psichiatrici che si manifestano in culture differenti porta ad una serie di informazioni di estremo interesse. Non sono solo le caratteristiche individuali, ma anche quelle culturali che determinano differenziazioni sostanziali nelle risposte ai disturbi psichici. Prendiamo ad esempio le allucinazioni: viste nel contesto religioso, Sant’Antonio d’Egitto, detto Abate, che visse per settanta anni nel deserto in preda ad esse, proprio perché rappresentavano la sua pia fuga dalla sessualità, sono state considerate come manifestazioni meritorie di santità, laddove, invece, in un ambito non religioso, fanno passare per malato di mente chi ne è affetto.
Altro dato importante è poter seguire i flussi migratori di determinate popolazioni per stabilire come esse reagiscono ai disturbi mentali ed emozionali nel paese dove sono andate a impiantarsi e se le manifestazioni dei disturbi mentali aumentano o diminuiscono nella gente quando si stabilisce in un’altra area culturale.
Importante è dunque mettere in luce se il disagio e lo stress dello spostamento da un posto ad un altro e il vivere in un paese diverso da quello d’origine, possa causare, nella popolazione degli emigrati, un maggior numero di malati psichici rispetto a quelli dello stesso tipo di popolazione che però sono rimasti nella patria d’origine.
Un fattore importante, poco considerato dall’analisi statistica, ma che invece è molto utile, è testare, al momento della partenza, la mentalità e la psicologia dell’emigrante. Conoscere “lo stato mentale di chi emigra”, significa potere definire se alla partenza vi sono contorni caratteriali particolari nell’animus di chi affronta l’emigrazione rispetto a chi resta in patria. Ciò potrebbe esser utile quando si esamina l’incidenza della malattia psichica tra quanti si sono stabiliti in un altro paese e quelli che sono rimasti in patria.
Da uno studio approfondito dell’Organizzazione Mondiale della Sanità si è anche appurato che molto spesso il destino dello schizofrenico cambia a seconda dello stile culturale della équipe psichiatrica e che secondo il tipo di approccio: in alcune aree vi è guarigione, in altre la malattia permane in cronicità. Questa constatazione induce a ritenere che psicologi e psichiatri dovrebbero utilizzare oltre alla competenza clinica anche un sistema appropriato per decifrare i cliché del contesto sociale che hanno causato la malattia, e prevedere quali parametri sociali da utilizzare per ricostruire la serenità del malato.
La linea di demarcazione tra follia e normalità.
Pensiamo per esempio a Salvator Dalì, molte delle cui opere sono espressione di una mente dalle impressionanti e inquietanti rassomiglianze con quella di un maniaco omicida: nei suoi disegni ci sono corpi smembrati, segni di violenze, certamente prodotto di una inconscia fantasia malata che fortunatamente per Dalì si è estrinsecata nell’arte piuttosto che nel reale quotidiano. Nel quadro Lo spettro del sex appeal emerge un profondo sadismo. Sadismo che Dalì ancora bambino estrinsecò nella realtà in molte occasioni (uccidendo animaletti, spingendo un amichetto giù da un ponte etc etc) e che poi “convogliò” nella produzione artistica, estrinsecando finalmente il proprio sadismo la propria necrofilia e persino il propri istinto cannibalico solo in maniera artistica, cioè sublimata nei suoi quadri.
Le paure sessuali di Grosz e il suo terrore della donna lo portarono a dipingere corpi femminili deformati, alterati e mostruosi, affinché, diceva egli stesso, “il nudo femminile fosse il meno possibile desiderabile e peccaminoso”. Ma nel contempo egli esercitava il proprio sadismo sul corpo della donna dipingendolo in maniera oltremodo aberrante. In Omicidio in Acker Street. Grosz dipinse una donna seminuda distesa sul letto, con la testa mozzata e le mani tranciate. Uno scempio molto simile alla scena del crimine che si trova quando un maniaco sadico uccide una donna.
La creazione artistica – diceva Grosz – è il modo migliore per rendere innocue le nostre pulsioni interne.
Se questo può in parte essere accettabilmente vero, resta il fatto che le sue opere testimoniano pulsioni più o meno consce e maniacali da omicida seriale.
Sulla stessa linea, anche il cervello di un altro grande pittore, George Grosz, nei cui quadri sono presenti donne mutilate, squartate, violentate; un cervello, quello di Grosz, il cui il sadismo si rivela nella produzione artistica, un sadismo però non del tutto dissimile da quello di un serial killer, il quale “mette in pratica” lo stesso immaginario sadico di Grosz.
Stesso discorso si può fare per il pittore Otto Dix, i cui quadri sono l’espressione ossessiva della fantasiosa connessione tra eros e morte. Quando qualcuno gli chiedeva come mai fossero rappresentate tante violenze nei suoi quadri, Dix rispondeva che era stato “costretto” a farlo, sennò quelle impressioni orribili sarebbero rimaste “dentro” di lui e lo avrebbero ossessionato.
Insomma, Dix affermava d’avere adottato una psicoterapia nella esternazione visiva delle proprie angosce, che, riversate nella tela, lo dispensavano dal compiere gesti reali in tal senso. Otto Dix affermava con chiarezza che realizzare un crimine nell’immagine artistica è un escamotage profilattico che serve ad evita all’autore di compiere gesti reali inconsulti.
Il regista americano John Waters al quale furono contestate certe scene nei suoi film troppo crudeli, rispose che secondo lui la creatività può essere un buon veicolo di scarico grazie al quale l’artista soddisfa certe tendenze violente sublimandole con il simbolismo artistico.
Come si vede la linea di demarcazione tra normalità e follia è un sottile filo, che spesso può spezzarsi. Si veda il caso di tanti artisti che non sono riusciti, malgrado la sublimazione degli impulsi aggressivi tramite l’arte, ad essere immuni dal compiere realmente anche azioni criminose.
La malattia mentale
Alla malattia mentale, nell’antichità, venne dato scarso rilievo. In seguito, quando divenne un problema pressante, per fronteggiarlo furono riaperti i lebbrosari, in queste strutture venivano ricoverate le persone che avevano comportamenti strani.
Da quel momento un particolare tipo di umanità venne rinchiusa nei luoghi nei quali per secoli avevano avuto asilo i lebbrosi. A quelle che venivano chiamate “teste pazze”, vennero associati i poveri e i vagabondi, personaggi scomodi che si avviavano ad essere considerati più o meno folli. Le stranezze dei pensieri dei malati di mente e i loro comportamenti vennero attribuiti a colpe morali o sociali, fatti commessi da loro stessi oppure erano riflesso di colpe dei loro ascendenti, e a causa delle quali, i matti, espiavano con la loro insanità mentale, le “responsabilità” dei loro parenti.
In molte culture extraeuropee coloro che avevano fabulazioni incomprensibili, che parlavano con l’aldilà, che vedevano spiriti, che avevano contatti con forze sconosciute, erano ritenuti dei privilegiati, dei predestinati dagli dei.
In seguito, quando la società occidentale evolse modernamente, l’uscire fuori dall’ordine costituito mise in luce la condizione di devianza e la follia prese la via dell’esclusione e dell’internamento.
Prima di quel tempo i malati di mente gironzolavano in strada oppressi dai loro fantasmi mentali, farfugliando, biascicando, gridando, camminando nudi, molestando la gente e chiedendo l’elemosina. Nessuno si curò concretamente di loro fino al XV secolo quando le città cominciarono a provare una forma di rigetto per quel tipo di umanità la cui sofferenza era spesso incompresa o sottovalutata.
Nel Medio Evo, a poco a poco, la paura della follia prese il posto del precedente orrore della lebbra, e creò raccapriccio nella “gente per bene”, tant’è che s’aprì la caccia ai matti, mandati via dalle città così come s’era fatto nei secoli precedenti con i lebbrosi. Si cominciò a capire che il fenomeno della malattia mentale era complesso e si ritenne che quel morbo non fosse paragonabile alla lebbra, la quale era una malattia solo fisica; alla follia si attribuirono anche connotati psicologici ed esistenziali mai prima d’allora riconosciuti per altre malattie. Tuttavia, anche per la follia, come per la lebbra, si operò con rituali di purificazione. Spesso si andava per le spicce: gli insensati venivano frustati pubblicamente e malmenati persino per divertimento. Ciò scaricava le tensioni della popolazione assillata dai comportamenti dei matti, “puniti” così per il disturbo arrecato alla quiete pubblica.
Una misura adottata per sbarazzarsi dei folli era quella di affidarli a marinai che li caricavano nelle stive per poi abbandonarli in isole deserte o in porti lontani. Verso la fine del Medioevo il problema dei malati mentali assunse rilevanza pregnante e nacque così tutta una letteratura di racconti e di favole in cui erano protagonisti i matti. La follia venne paragonata alla morte, perché essa fatalmente riduce l’individuo al nulla, proprio come fa la morte.
Allo stato mentale alterato, con la sua esperienza tragica e cosmica, non poteva che essere associata l’idea della morte, e come la morte la follia era sentita una minaccia per l’esistenza perché rendeva deboli e meschini di fronte alla vita. La follia, mettendo a nudo le debolezze del mondo, mostrava, così come la morte, che anche la vita è un insieme di momenti fatui, di fatti senza senso. Si immaginò allora che i folli, con la loro assenza d’interesse per quelle cose per cui l’altra umanità, quella “normale” s’accapiglia, lotta forsennatamente, e persino ammazza, in pratica palesavano molto più buon senso di coloro che vengono considerati sani di mente.
La definizione di “follia” è ambigua, inafferrabile. Sia la medicina che la filosofia la interpretano e la spiegano con vari termini, ma la condizione della insanità mentale è pur sempre oscura. L’enigma della mente resta sempre imperscrutabile, sicché l’espressione “malattia mentale” continua ad essere tenacemente sfuggente. La connessione tra follia e imprinting sociale è un problema delicato. In qualche caso sono stati considerati matti non solo coloro che presentavano turbe mentali accertabili psichiatricamente, ma quanti hanno creato scandalo contrastando con il loro comportamenti e le loro idee i principi sociali del tempo. Talvolta sono stati giudicati come “devianti” persino i precursori di grandi sconvolgimenti politico-sociali.
Dal XVIII secolo in poi in Occidente il trattamento della follia passò dall’immobilizzo del matto, com’era nei secoli passati, al recupero psicosociale. La psichiatria cominciò ad ascoltare il malato di mente e gli riconobbe il “privilegio” di esprimersi anche mediante l’inconscio.
Alla fine del ‘700, Philippe Pinel, medico alla Salpêtrière, ritenne di avere scoperto una relazione tra lo stato maniacale e le alterazioni dei gangli nervosi; ma andò oltre, e rivoluzionò il sistema di cura dei malati mentali. Egli col permesso della Convenzione sostituì i mezzi repressivi, fino a quel tempo unica “cura” della malattia mentale, con la psicoterapia del lavoro.
Tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento un considerevole numero di ricercatori ha affrontato lo studio della malattia mentale. Nel 1862 Lemoirne attribuiva alla follia una predisposizione innata. Alla teoria della ereditarietà delle malattie mentali seguì la ricerca genetica. Rosenthal ritenne che le turbe mentali fossero più frequenti nei gemelli monozigoti che nei dizigoti. Comte invece era convinto di trovare un legame tra i fatti sociali e le malattie mentali, mentre Morel negò questo legame e attribuì ad alterazioni di carattere fisiologico il disturbo mentale.
Alla Salpêtrière di Parigi, nel 1882 Jean-Martin Charcot istituì una cattedra di clinica delle malattie nervose. Egli fu tra i primi studiosi a cercare le cause dell’isteria e ad iniziare lo studio scientifico dell’ipnosi. Charcot considerò il malato di mente come una persona bisognosa di cure e non un soggetto da reprimere e imbavagliare. L’isteria è un termine obsoleto, maschilista, ormai dimenticato. Così la pensano oggi la maggior parte degli psichiatri. Eppure c’è chi ha “fotografato” la malattia per la prima volta riportando in auge un morbo in realtà tutt’altro che sparito.Studiosi di Sydney hanno utilizzato strumenti diagnostici alla avanguardia, la Pet e la Spect, e hanno propriamente visto ciò che accade in un cervello devastato dalla malattia. Coinvolte sono le aree emozionali e quelle legate al coordinamento dei movimenti, a riprova della spiccata “fisicità” della patologia. Tutto da rifare quindi per gii psichiatri? Non proprio. In fin dei conti, spiegano i medici, il termine isteria non si usa più (è sparito da decenni dal Dsm, manuale che classifica le malattie psichiatriche) ma i malati di isteria (adesso non si chiamano più isterici ma con altri nomi più tecnici e specifici) ci sono ancora. E quel che è importante sottolineare è che il fenomeno non riguarda solo gli ap -partenenti al genere femminile: ci sono anche maschi, circa il 10 per cento dei malati.Oggi in particolare il termine isteria è stato sostituito da “reazione dissociativa” e “reazione di conversione”.Nel primo caso il paziente malato non si riconosce più, può sviluppare una voce diversa dalla propria, e parlare altri idiomi. Nell’altra variante si ha invece a che fare con persone che addirittura possono subire paralisi degli arti e soffrire di anoressia. In generale, dicono gli specialisti, la personalità isterica si contraddistingue per l’immaturità e l’infantiismo. Si tratta di soggetti che, anche da adulti, non raggiungono un’indipendenza affettiva, sono volubili e capricciosi, si esprimono con teatralità. Gli isterici hanno una certa difficoltà a valutare la realtà, pretendono l’immediato soddisfacimento dei loro bisogni, sono facilmente distralbili e impressionabii.Secondo alcuni scienziati gli attacchi di panico, oggi tanto diffusi, sarebbero la versione moderna della vecchia isteria. Anche qui infatti sono strettamente coinvolte emozioni e sintomi fisici. In particolare sono le emozioni vissute in modo abnonne a scatenare crisi ‘fisiche” come tachicardia, respirazione alterata, annebbiamento della vista, giramenti di testa, vertigini, sudorazione alterata, tutti sintomi accompagnati da una serie di sensazio -ni che non permettono di essere lucidi nelle azioni e nei pensieri.La psicoterapia però può aiutare i pazienti isterici ad avere una visione meno distorta del mondo, ad osservare con maggiore attenzione gli eventi, a fissarli in memoria, a riconoscere le proprie emozioni e a controllarle. Sembrano essere utili le terapie di gruppo, dove gli isterici sono ammirati per la loro capacità ad esprimere le emozioni e riescono a conquistare le simpatie degli altri pazienti grazie alla loro naturale abilità nell’instaurare relazioni. In Italia gli isterici rappresentano circa il 2,5 per cento della popolazione.
La depressione: la causa nel talamo uno studio Usa riscontra eccesso di neuroni in quello dei malati . Il sovraffollamento cellulare nella parte del cervello che controlla le emozioni, nel talamo, sembra sia la causa della depressione. Lo ha scoperto un gruppo dell’universita’ del Texas che ha analizzato tessuto cerebrale da vari cadaveri. E’ stato notato che nelle persone morte durante un grave stato depressivo, il talamo e’ piu’ grande del 16% rispetto alla norma e che la quantita’ di neuroni e’ maggiore del 31% rispetto a quella presente nel talamo di individui sani.
Com’era intesa la follia nel passato?
Un tempo la follia fu poco presa in considerazione e non fu mai studiata in maniera approfondita. Per secoli, prima che la malattia mentale fosse inquadrata come entità nosografica, non si fece distinzione tra stupidi, stolti, dissipatori, sbandati, e coloro che presentavano disturbi psichici di rilievo.
Tutti costoro affollavano quotidianamente le strade e facevano parte della “gente comune”, senza che venissero identificati con differenze di rilievo.
Prima di arrivare ad una disciplina scientifica che avesse come oggetto la lotta contro la malattia mentale, bisognò sgombrare il campo da pregiudizi sociali e dalla insensibilità con la quale venivano valutati i comportamenti insensati.
Si dovette attendere che la società si sensibilizzasse alle espressioni patologiche che per molti secoli furono ritenute esclusivamente comportamenti bislacchi, e si dovette cancellare la credenza che i disordini della mente fossero dovuti all’opera di un dio o di una entità punitiva.
L’idea di una disciplina (la psichiatria) che affrontasse i problemi inerenti al disturbo mentale fu a lungo del tutto assente. I morbi che nell’antichità assillavano maggiormente la popolazione erano la tubercolosi, la sifilide (le cui prime notizie si hanno a datare dal 7000 a.C.- malattia di cui parla anche la Bibbia “in: Numeri, 25”) e la lebbra. Quest’ultima apparve in India (nel primo Millennio a.C.), e per secoli si diffuse nel Medioevo.
Per quanto riguarda le malattie fisiche in passato vi era la tacita convinzione che re e imperatori avessero virtù curative.
Il re dell’Epiro, Pirro, era, secondo Plinio, un buon manipolatore e curava varie malattie. Nell’Epiro egli aveva fama di guarire le affezioni gastriche, appoggiando la sua mano sul ventre del malato. In Francia la tradizione dei re guaritori iniziò con Luigi IX il Santo. Secondo qualche storico, addirittura il primo re con questi poteri fu il figlio di Ugo Capeto, Roberto II il Pio.
La leggenda dell’esistenza di tale caratteristica regale durò fino a Luigi XVI.
Riferisce lo storico Marc Bloch ne I re taumaturghi, che, secondo i racconti del tempo, la gente era convinta che il potere regio guariva la scrofola o tubercolosi linfonodulare, chiamata “morbus regius” proprio perché il guarirla era una esclusiva prerogativa regale. Ma anche l’epilessia e l’itterizia facevano parte dei malanni che solo la regalità poteva far cessare.
Filippo di Valois ne avesse addirittura “toccato” in una seduta più di 1500. Luigi XIV anche sul letto di morte proseguì la sua opera di guaritore, “toccando”, prima di spegnersi, più di mille malati. Ma il primato spetta a Luigi XVI, che il giorno della sua incoronazione, impose la sua mano guaritrice su 2400 sudditi.
Si racconta che Carlo VII abbia preteso di essere investito di tutte le prerogative regie, compresa quella delle guarigioni.
L’etnologo James Frazer sottolinea che simili usanze in altre culture appartengono al lavoro degli stregoni. In Europa l’incoronazione regia comprendeva anche l’unzione con l’olio santo contenuto nella “Santa Ampolla”. Ciò conferiva al re la capacità di guaritore.
La capacità di guarire veniva attribuita ai re perché erano ritenuti unti della investitura divina. Dio consacrava il re, e, assieme allo scettro, gli concedeva facoltà di procedere alla guarigione dei sudditi. L’investitura regia era sacra e di conseguenza comportava capacità taumaturgiche. I Faraoni erano dei , e come tali avevano facoltà e capacità che i comuni mortali non potevano avere.
Poiché era al dio che gli infermi si rivolgevano per essere guariti, essi pregavano il dio che li governava chiedendo di essere aiutati. Nelle prerogative taumaturgiche reali c’erano anche delle specializzazioni: una vecchia diceria riteneva che nessuno guarisse meglio dei re iberici gli indemoniati, mentre era assodato che i monarchi inglesi erano specialisti nel far cessare l’epilessia e le malattie mentali.
Portavano lustro e prestigio alle dinastie regnanti l’essere terapeuti. Edoardo II introdusse l’usanza di concedere una somma di denaro il giorno del Venerdì Santo, perché si fabbricassero i “cramprings“, cioè gli anelli “taumaturgici”.
Formule e cerimoniali si svolgevano nel modo seguente: il malato s’inginocchiava davanti al sovrano che, poggiandogli la mano sulla parte malata pronunciava pressappoco questa frase: «Il re ti tocca e Dio ti guarisce». Qualche sovrano non ammetteva di essere un semplice mediatore del potere divino di guarire. Carlo V di Francia, per esempio, riteneva che a lui la virtù miracolosa provenisse direttamente dal Padreterno. D’altronde Carlo V, detto il Saggio, doveva pur rifarsi la reputazione dopo la sconfitta francese a Poitiers contro gli inglesi. Addirittura sembra che abbia spinto lo storico Jean Golein a scrivere il Traité du sacre per testimoniare le qualità taumaturgiche di cui si riteneva investito.
Per secoli la fiducia sui poteri taumaturgici è rimasta intatta a causa del terreno fertile della credulità popolare. Chiunque avesse un po’ di carisma induceva a credere di essere in grado di guarire malattie creando una sudditanza psicologica che non si è modificata nei secoli.
Ancora oggi il fascino e lo strapotere dei guaritori e la superstizione nutrono le antiche credenze. I maghi utilizzano la suggestione creata dalla tecnologia per conferire credito ai loro poteri. L’occulto e il paranormale, propagandati sotto l’aspetto di fatti scientifici, hanno presa tra le masse, affascinate dai termini tecnici utilizzati. Si crea così un miscuglio di fantasia e scienza pericolosamente irrazionale e morbosamente rischioso. Il linguaggio dei fantomatici guaritori mutuando quello tecnico-scientifico induce a credere nell’efficienza degli interventi degli occultisti.
Molti esempi di pratiche occulte demenziali e a volte persino crudeli, dimostrano ignoranza dei principi più elementari del buon senso. In questi casi non si può che essere sorpresi e sbalorditi per la credulità con la quale la gente si sottopone all’operato dei maghi.
Terapie transculturali, mistiche e sociali. La suggestione
Afferma Tobia Nathan[8] che si possono rifiutare le divinità di vario genere, si può rifiutare il Cristianesimo, o la razionalità scientifica, ma è difficile che venga rifiutata la magia. Poiché il fine di ogni psicoterapia è aiutare a vivere serenamente, oltre alle terapie praticate dai terapisti classici, vi sono quelle atipiche, dei pranoterapeuti e perfino quelle dei maghi. Può accadere così che interventi terapeutici ritenuti dei placebo, come le pratiche esoteriche, abbiano successo. Il terapeuta europeo non sempre può entrare in sintonia con chi è di cultura diversa dalla sua ed è in questi casi che interviene lo sciamano. Gli etologi hanno preso l’abitudine che chiamare sciamani, stregoni, maghi, quegli individui che hanno un certo carisma su un gruppo di persone e che su di esso esercitano una funzione psicoterapeutica. Secondo G. Róheim[9] lo sciamano si comporta, senza saperlo, come uno psicoanalista «selvaggio».
In Africa, per esempio, calmare l’angoscia o la depressione, entità cliniche rilevate anche in quel continente, non sempre hanno successo le terapie di cultura occidentale e necessitano quelle specifiche del luogo. Del resto anche in Occidente, in certe aree culturali non sempre le psicoterapie sono accette; sono molte infatti sono le religioni che mostrano diffidenza verso i terapeuti.
Scrisse Freud «A questo proposito vorrei dire che non credo che i nostri successi terapeutici possano competere con quelli di Lourdes; le persone che credono nei miracoli della Santa Vergine sono molto più numerose di quelle che credono nell’esistenza dell’inconscio. Se ci volgiamo a considerare la concorrenza terrena, dobbiamo collocare la terapia analitica accanto ad altri metodi psicoterapeutici, essendovi oggi ben pochi trattamenti fisico‑organici di stati nevrotici, meritevoli di essere menzionati».
La fede in qualche modo può frenare l’angoscia e l’adesione alla religione può essere un rimedio e persino una profilassi. A meno che non siano proprio dubbi e angosce religiose a scatenare il conflitto interiore. Sebbene Freud fosse alquanto scettico a proposito della funzione terapeutica della fede, e sostenesse che il credente è indotto a sminuire il valore della vita e a deformare l’immagine del mondo reale, tuttavia malgrado questo giudizio non poté fare a meno di notare testualmente che: “la religione riesce a risparmiare a molta gente la nevrosi individuale”. La religione ha il vantaggio di considerare la sofferenza un “riscatto”, e per questo in certi casi stimola la rassegnazione. In coloro invece che non accettano l’irrazionale e le contraddizioni dei misteri insiti in ogni fede, il pensiero religioso, creando conflittualità, può originare situazioni nevrotiche. Osserva l’antropologo Rogers Bastide[10] che la valenza religiosa è presente in ogni cultura e determina una particolare forma mentis. Gli studi condotti negli Stati Uniti mostrano che sulla gente ha più influenza la fede religiosa di quanto non ne abbiano le tradizioni, i costumi e la cultura etnica di appartenenza. La mentalità tipica di un gruppo etnico cede il passo – secondo alcune ricerche fatte in proposito da Bastide – agli insegnamenti e alla mentalità religiosa!
Sempre secondo R. Bastide: «Il fatto è che la religione, per quanto dimenticata, ha modellato la cultura di un popolo di generazione in generazione, definendone i costumi secondo regole implicite, specialmente nel modo di allevare i figli».
I principi del culto, anche se poco praticati, restano determinanti e sono radicati nelle strutture sociali, nelle credenze e nei precetti morali. Nelle attese e nelle speranze i credi religiosi permangono a volte anche mistificati e nascosti, persino sotto forma di superstizione. Molte persone, la cui fede tiepida sembra non dar credito alla religione, si appoggiano all’occultismo e alla magia che ne rappresentano l’alternativa. Questo avviene non solo nei continenti extraoccidentali ma anche nella cultura europea e occidentale. L’International Cooperative Biodiversity Group, forse fiutando l’interesse della gente per la magia, forse anche per puro spirito di ricerca, è riuscito a suscitare e concretizzare l’interesse per “la medicina alternativa” in alcune Università site in territori con significativa presenza di quel tipo di medicina transculturale (Argentina, Camerum, Cile, Costa Rica, Messico, Perù e persino Stati Uniti) coinvolgendo, pare, anche la Bristol Myers Squibb per finanziare un piano di studi che possa vagliare ciò che v’è di utile nelle antiche conoscenze terapeutiche. Ma al di là di questo tipo di ricerca che, tutto sommato, potrebbe essere un proficuo stimolo per un studio storico-antropologico che appuri quanto vera sia la cosiddetta saggezza ancestrale, la fragilità emotiva e la suggestionabilità di chi soffre del male oscuro, spingono verso il guaritore atipico (o transculturale). La suggestione e l’influenza dell’occulto sono forti in chi crede e in chi confida nei poteri magico-extrasensoriali.
Racconta l’antropologa Margaret Mead in Sesso e temperamento[11] che gli aborigeni della Siberia conferivano dignità sacerdotale agli individui dal sistema nervoso instabile. Essi li eleggevano al rango di sciamani e le loro sentenze, ritenute di ispirazione soprannaturale, erano valide per tutti i membri della tribù. Gli sciamani, presso i popoli primitivi, assumono la figura di “sacerdoti guaritori” e il loro intervento suasivo ed ipnotico produce effetti rilassanti. Non bisogna meravigliarsi di simili credenze, in quanto in quasi tutte le religioni primitive, anche quelle occidentali, i sacerdoti furono identificanti come guaritori. Per tradizione in fatto di salute, anche oggi, sono chiamati anche in causa i Santi e molti di essi sono stati nominati protettori di malattie.( S. Ignazio è protettore delle appendiciti, Benedetto da Norcia è chiamato contro gli avvelenamenti, S. Stefano influirebbe contro i calcoli renali, S. Giorgio contro le epidemie, S. Caterina d’Alessandria preserva dall’aborto, S. Bernardo da Chiaravalle è il protettore degli epilettici, S. Biagio eviterebbe le malattie della gola e persino ultimamente è stato nominato, contro la piaga dell’AIDS, San Luigi Gonzaga santo famoso per la sua opera di assistenza)
Osserva Julian Leff4 che i guaritori e gli esorcisti sono abili nel comprendere quando un malessere con sintomi fisici dipende da problemi di natura psicologica. In questi casi si comportano come i medici occidentali che praticano la medicina psicosomatica. Lo psichiatra M. Nichter[12] osserva che nel sud dell’India l’angoscia nevrotica è manifestata con vertigini e capogiri e che i guaritori a conoscenza della simbologia che rappresenta il Tale tirigutade (espressione indiana per giramento di testa) intervengono rassicurando i malati che non si tratta di guai fisici.
Anche la superstizione, nell’ambito di una certa cultura, produce effetti benefici in chi si affida alla sua forza e riesce a sedare l’angoscia. Salvo poi, alla lunga, a procurare una vera e propria alienazione nei soggetti che si sottomettono ad esorcismi sempre più complessi e fuorvianti.
Chi crede nelle terapie che hanno a che fare col paranormale sostiene di averne beneficio e non gli interessa che al riguardo non esiste una scientificità dimostrata. Del resto, sostiene qualcuno, nemmeno i risultati delle psicoterapie sono verificabili scientificamente e tutta l’operazione terapeutica è lasciata alla valutazione soggettiva del terapeuta e a quella personale del malato. Per questo motivo c’è chi trova persino difficile stabilire una netta demarcazione tra le psicoterapie scientifiche e quelle alternative. La fiducia nel carisma del terapeuta è determinante sia nel caso di terapia occidentale che in quella transculturale.
Secondo lo storico Gustave Jahoda[13] non è possibile fare una distinzione tra società affrancate dalla superstizione e popolazioni superstiziose. L’inchiesta di Jahoda mette in luce che l’unica diversificazione possibile è il grado maggiore o minore di influenzabilità delle popolazioni e la percentuale di persone che si affidano alla superstizione. In Europa operano con discreto successo e a tempo pieno, medium, pranoterapeuti, guaritori e veggenti. Secondo i rilevamenti di Jahoda, in Inghilterra una persona su dieci sarebbe superstiziosa e in Germania la percentuale è ancora più alta. Un’inchiesta del giornale “Le Monde” rileva che metà dei francesi crede nella trasmissione del pensiero e il 40% si è dichiarato convinto che carattere e personalità dipendano dalle congiunzioni astrali. Un’alta percentuale di persone ritiene che i sogni sono rivelazioni e anticipazioni del futuro e che la preveggenza sia un evento possibile.
L’astrologia ha un fascino irresistibile: giornali e programmi televisivi danno ampia ospitalità alle previsioni astrologiche. In alcuni Stati esistono servizi telefonici che per una manciata di scatti forniscono oroscopi accreditati dall’essere prodotti da un servizio pubblico.
Poiché l’umanità non è uscita ancora dalla sua infanzia e ha bisogno di essere protetta dai genitori o da loro sostituti, essa si affida al potere rassicurante e protettivo di veggenti e guaritori, figure transferenziali, sostituti dei genitori, che tranquillizzano i più suggestionabili.
Sebbene, ovviamente, i terapeuti classici non ammettano che la superstizione e la magia possano sconfiggere l’angoscia, tuttavia non è possibile negare che si praticano con successo anche in Europa. Nelle culture extraeuropee i malati di psicosi e di nevrosi ricevono, al manifestarsi dei primi sintomi, il primo trattamento terapeutico dai guaritori. Questo genere di intervento è talvolta richiesto anche dai malati occidentali quando disperano della medicina ufficiale. Quando poi si verifica una remissione spontanea il caso viene esaltato per avvalorare il potere di guarigione delle forze occulte.
Una delle tecniche utilizzate dai guaritori nelle aree transculturali, per combattere il male è quella di “estrarre” dal corpo del paziente la “causa” del fastidio. Esempio classico sono i guaritori delle Filippine, che per anni hanno avuto un grande successo e un business incredibile. Non solo ipocondriaci ma anche malati gravi e incurabili fecero il viaggio fino a Manila ove i manipolatori “operavano” senza bisturi e senza tagli, sostenendo di guarire qualsiasi male con formule magiche e toccamenti. Gli aeroporti filippini furono testimoni di questo assurdo pellegrinaggio.
I guaritori attribuiscono alle malattie le origini più strane. C’è chi ritiene che il malessere nevrotico sia causato da “vermi” che si installerebbero nel cervello oppure e che gli spiriti maligni sarebbero entrati nella mente del malato. In ogni caso, secondo i guaritori, il rimedio è espellere dal malato la causa del malessere. I sintomi dei disturbi isterici sono fatti regredire (temporaneamente) dai guaritori mediante varie forme di suggestione, dando così l’illusione della avvenuta guarigione.
Ma “ordinare agli spiriti maligni” di andar via dalla mente non è una procedura di esclusiva origine tribale. Nel Vangelo di Luca(8,27-33) si legge che Gesù ordinò agli spiriti maligni di un indemoniato (oggi diremmo uno psicopatico) di abbandonare il corpo dell’individuo posseduto e di entrare in un branco di maiali che, subito dopo, si suicidarono gettandosi nel lago. Anche nelle guarigioni operate al tempo di Gesù è presente l’elemento purificatore dell’acqua, tuttora operante nei riti terapeutici dei guaritori del XX secolo.
Gli stati di “possessione” come qualsiasi situazione psichica alterata hanno da secoli, una terapeutica alternativa non solo nei paesi transculturali ma anche in quelli occidentali. In ogni tempo è stata forte, ad esempio, la convinzione che re e imperatori avessero virtù terapeutiche. Tacito riferisce che l’imperatore Vespasiano era molto amato dai suoi sudditi perché donava la vista ai ciechi. Il grande Adriano aveva il potere di ridare la salute agli idropici e Pirro era secondo Plinio, un buon manipolatore. Il re dell’Epiro aveva fama di guarire le affezioni gastriche,appoggiando la sua mano sul ventre del malato.
In Francia la tradizione dei re guaritori secondo alcuni storici iniziò con Luigi IX il Santo, secondo altri studiosi il primo re con questi poteri fu il figlio di Ugo Capeto, Roberto II il Pio. La credenza in questa caratteristica dei re durò fino a Luigi XVI. Riferisce lo storico Marc Bloch ne I re taumaturghi,[14] che secondo i racconti del tempo, il potere regio guariva la scrofola (tubercolosi linfonodulare), allora detta “morbus regius”. E guarire questa malattia era proprio una esclusiva prerogativa reale. Anche l’epilessia e l’itterizia facevano parte dei malanni che solo la regalità poteva far cessare.
Si narra che Carlo X avesse guarito in un giorno 120 persone e che addirittura Filippo di Valois ne avesse “toccato” in una sola seduta più di 1500. Luigi XIV anche sul letto di morte aveva proseguito la sua opera di guaritore, “toccando”, prima di spegnersi, più di mille malati. Ma il primato spetta a Luigi XVI,che il giorno della sua incoronazione, impose la sua mano guaritrice su 2400 sudditi. Si racconta che Carlo VII abbia preteso di essere investito di tutte le prerogative regie, compresa quella delle guarigioni. L’etnologo James Frazer[15] sottolinea che simili usanze in altre culture appartengono al lavoro degli stregoni. L’incoronazione regia comprendeva anche l’unzione con l’olio santo contenuto nella “Santa Ampolla”. Questo conferiva al re la capacità di guaritore. I re inglesi procedevano spesso alla cura “magica” dei loro sudditi mediante toccamenti e lavaggi.
In Inghilterra l’usanza ebbe inizio nella metà dell’anno Mille con Edoardo il Confessore il quale introdusse la prerogativa che rendeva sacra l’investitura regia, cioè la capacità taumaturgica. In questo campo c’erano anche delle specializzazioni: nessuno guariva meglio dei re iberici gli indemoniati, mentre era assodato che i monarchi inglesi erano specialisti nel far cessare l’epilessia.
Anche le regine erano guaritrici. Famosa è la consacrazione degli anelli fatta da Maria la Cattolica, figlia di Enrico VIII, che la regina distribuì santificati dal suo tocco reale, ai malati. Quegli anelli miracolosi vennero richiesti anche al di fuori dell’Inghilterra e portarono lustro e prestigio alle dinastie regnanti. Edoardo II introdusse l’usanza di concedere una somma di denaro il giorno del Venerdì Santo, perché si fabbricassero i “cramprings”, cioè gli anelli “taumaturgici”.
Le formule e i cerimoniali erano questi: il malato s’inginocchiava davanti al sovrano che, poggiandogli la mano sulla parte malata pronunciava pressappoco questa frase: «Il re ti tocca e Dio ti guarisce». Qualche sovrano, però non ammetteva di essere un semplice mediatore del potere divino di guarire. Secondo Carlo V di Francia non c’era bisogno di ricorrere a questa formula: a lui la virtù miracolosa proveniva direttamente dal Padreterno. D’altronde Carlo V, detto il Saggio, doveva pur rifarsi la reputazione dopo la sconfitta francese a Poitiers contro gli inglesi. Addirittura sembra che abbia spinto lo storico Jean Golein a scrivere il “Traité du sacre” per testimoniare le qualità taumaturgiche del re. Per secoli la fiducia sui poteri taumaturgici ha creato un terreno fertile di credulità. Chiunque avesse un po’ di carisma induceva gli altri a credere di essere in grado di guarire qualsiasi malattia creando una sudditanza psicologica che non si è modificata nei secoli. Il fascino, lo strapotere dei guaritori e la superstizione nutrono le vecchie credenze. Molti “maghi” utilizzano la suggestione della tecnologia per conferire più credito ai loro poteri. L’occulto e il “paranormale”, propagandati sotto l’aspetto di fatti scientifici, hanno più presa tra le masse, affascinate da termini tecnici utilizzati, in altro ordine di cultura, dalla scienza ufficiale.
Si crea così un confuso miscuglio di fantascienza che induce ad accettare principi e terapie che sono pericolosamente irrazionali e morbosamente rischiosi. Molti sono gli esempi di pratiche occulte demenziali: alcune sono così crudeli e dimostrano una tale ignoranza dei principi più elementari del buon senso, che lasciano davvero sorpresi e sbalorditi per la credulità con la quale certa gente le accetta e si sottopone ad esse.
I seguaci dell’astrologia, della medicina parascientifica, dello spiritismo per far presa sul pubblico e avvalorare i loro fantomatici ed ipotetici poteri, adottano espressioni messianiche. Il linguaggio dei guaritori mutua talvolta quello tecnico-scientifico e, grazie a questa terminologia usata però impropriamente, la gente è indotta a credere nell’efficienza degli interventi degli occultisti.
La fondatezza di un oroscopo viene inoltre avvalorata se esso è prodotto da un computer. Sono più convincenti e accattivanti i vistosi marchingegni elettromagnetici adoperati per la conoscenza del futuro. Talvolta la “fama” conferisce ad un occultista un credito che un luminare della medicina non ha. Diceva giustamente il presidente americano J. F. Kennedy che il più grande nemico della verità non è la menzogna, ma il mito. La suggestione ha un effetto dirompente ed è una trappola alla quale poca gente riesce a sfuggire. La fiducia nelle forze “ignote” è imponderabile e rassicura più della medicina classica.
Il filosofo Davide Hume[16] sosteneva che l’uomo è portato a stabilire ragioni sufficienti per razionalizzare l’esistenza di poteri invisibili. L’uomo primitivo “deificava” piante,animali,oggetti inanimati e forze della nature come il fulmine e il tuono. L’uomo moderno, più scaltro e smaliziato, crede in intelligenze invisibili e sofisticate.
Afferma Hume che alcuni eventi naturali, che al lume della ragione dovrebbero essere di ostacolo per il riconoscimento di una forza suprema “intelligente”,in realtà finiscono per essere argomenti che sono ritenuti atti a dimostrarne proprio l’esistenza! I disordini, i disastri, le incongruenze della natura e dell’uomo – sostiene Davide Hume -, generano nell’uomo ferree convinzioni riguardo all’esistenza di forze sovrannaturali ignote ed inesplicabili. Quando il panico ha invaso la mente, la fertile fantasia moltiplica sempre più i motivi per avere terrore e sempre più sviluppa la necessità di votarsi a qualcuno per essere salvati.
Gli spettri di forze distruttive si presentano sotto le più spaventose sembianze. E l’immaginazione umana cerca la salvezza, a volte, anche là dove c’è la più abietta perversità.
L’elenco dei folli traghettatori di anime, personaggi cupi, predicatori che sono stati a capo di sette salvifiche, e che hanno promesso la redenzione e invece hanno condotto il loro popolo alla distruzione è molto vasto. Uno di questi guaritori e redentori psicopatici fu Jim Jones, che portò il suo “popolo”, dopo la fuga dalla California, ove vennero considerati dei matti, nella terra promessa della Guyana, e che, arrivati nella jungla, nel 1978 impose ai 911 affiliati la morte come liberazione. L’elenco dei fatti del genere, accaduti nel XX secolo, è lungo ed orribile: nel 1985 vi fu il suicidio collettivo della tribù Ata, che “andò a trovare il dio della luna”; nel 1987 nella Corea del Sud, i seguaci del Park Soon Ja, furono massacrati dai capi i quali poi si suicidarono. Nel 1990 in Mexico si diedero la morte gli adepti del tempio di Mezzogiorno; in Texas, a Waco, nel 1993, dopo avere annunziato il suicidio collettivo, ed essere stati circondati per 51 giorni dalla polizia, i seguaci di David Koresh si diedero fuoco e si suicidarono in massa. Episodi del genere sono accaduti nel Vietnam, in Giappone, in Francia, in Svizzera e in Canada.
Nel Medio Evo, per esempio il bagno, soprattutto quello preso ad una certa temperatura, era ritenuto uno stimolo erotico e per questo motivo veniva sconsigliato dalle autorità ecclesiastiche. Secondo alcuni storici a quei tempi di solito le persone facevano un solo bagno in tutta la loro vita: quello battesimale. Pare che molti asceti nell’antichità aborrissero il bagno ritenendolo fonte di pericolose voluttà. Si racconta che santa Agnese morì giovanissima senza essere stata “contaminata” dall’acqua e che molti santi, come santa Caterina e san Francesco, non erano soliti fare alcun tipo di abluzione proprio per evitare sollecitazioni erotiche e conseguenti sensi di colpa.
Se la riluttanza al bagno nel periodo del Medio Evo fu considerata una pia consuetudine per evitare il peccato, oggi invece l’individuo che vive nello stesso sudiciume in cui molti vivevano allora, può incrementare il sospetto che la propria carenza di pulizia possa nascondere qualche devianza mentale. E’ chiaro dunque che colui che entra in conflitto con le idee della comunità viene emarginato e ritenuto “diverso”.
Tutto ciò è un aspetto della insensatezza umana, non codificato come “malattia”; ma non si può non riflettere seriamente su alcuni percorsi della mente e su certe quotidiane stupide credenze.
Per secoli, anche nei paesi europei, si ritenne che vi fossero persone dotate di particolari qualità terapeutiche. A tal proposito bisogna ricordare che in ogni tempo è stata forte la convinzione che re e imperatori avessero virtù curative. e il re dell’Epiro, Pirro, era, secondo Plinio, un buon manipolatore. Il re dell’Epiro aveva fama di guarire le affezioni gastriche, appoggiando la sua mano sul ventre del malato. In Francia la tradizione dei re guaritori iniziò con Luigi IX il Santo. Ma secondo qualche storico, addirittura il primo re con questi poteri fu il figlio di Ugo Capeto, Roberto II il Pio.
La leggenda dell’esistenza di tale caratteristica regale durò fino a Luigi XVI.
Riferisce lo storico Marc Bloch ne I re taumaturghi, che secondo i racconti del tempo, il potere regio guariva la scrofola o tubercolosi linfonodulare, chiamata “morbus regius” proprio perché il guarirla era una esclusiva prerogativa regale,.
Ma anche l’epilessia e l’itterizia facevano parte dei malanni che solo la regalità poteva far cessare.
e Filippo di Valois ne avesse addirittura “toccato” in una seduta più di 1500. Luigi XIV anche sul letto di morte proseguì la sua opera di guaritore, “toccando”, prima di spegnersi, più di mille malati. Ma il primato spetta a Luigi XVI, che il giorno della sua incoronazione, impose la sua mano guaritrice su 2400 sudditi.
Si racconta che Carlo VII abbia preteso di essere investito di tutte le prerogative regie, compresa quella delle guarigioni. L’etnologo James Frazer sottolinea che simili usanze in altre culture appartengono al lavoro degli stregoni. In Europa l’incoronazione regia comprendeva anche l’unzione con l’olio santo contenuto nella “Santa Ampolla”. Ciò conferiva al re la capacità di guaritore.
La prerogativa che rendeva sacra l’investitura regia era la capacità taumaturgica.
C’erano anche delle specializzazioni: secondo una vecchia diceria nessuno guariva meglio dei re iberici gli indemoniati, mentre era assodato che i monarchi inglesi erano specialisti nel far cessare l’epilessia.
e portavano lustro e prestigio alle dinastie regnanti. Edoardo II introdusse l’usanza di concedere una somma di denaro il giorno del Venerdì Santo, perché si fabbricassero i “cramprings“, cioè gli anelli “taumaturgici”.
Formule e cerimoniali si svolgevano nel modo seguente: il malato s’inginocchiava davanti al sovrano che, poggiandogli la mano sulla parte malata pronunciava pressappoco questa frase: «Il re ti tocca e Dio ti guarisce». Qualche sovrano non ammetteva di essere un semplice mediatore del potere divino di guarire. Carlo V di Francia, per esempio, riteneva che a lui la virtù miracolosa provenisse direttamente dal Padreterno. D’altronde Carlo V, detto il Saggio, doveva pur rifarsi la reputazione dopo la sconfitta francese a Poitiers contro gli inglesi. Addirittura sembra che abbia spinto lo storico Jean Golein a scrivere il Traité du sacre per testimoniare le qualità taumaturgiche di cui si riteneva investito.
Per secoli la fiducia sui poteri taumaturgici è rimasta intatta a causa del terreno fertile della credulità popolare. Chiunque avesse un po’ di carisma induceva a credere di essere in grado di guarire malattie creando una sudditanza psicologica che non si è modificata nei secoli.
Ancora oggi il fascino e lo strapotere dei guaritori e la superstizione nutrono le antiche credenze. I maghi utilizzano la suggestione creata dalla tecnologia per conferire credito ai loro poteri. L’occulto e il paranormale, propagandati sotto l’aspetto di fatti scientifici, hanno presa tra le masse, affascinate dai termini tecnici utilizzati. Si crea così un miscuglio di fantasia e scienza pericolosamente irrazionale e morbosamente rischioso. Il linguaggio dei fantomatici guaritori mutuando quello tecnico-scientifico induce a credere nell’efficienza degli interventi degli occultisti.
Molti esempi di pratiche occulte demenziali e a volte persino crudeli, dimostrano ignoranza dei principi più elementari del buon senso. In questi casi non si può che essere sorpresi e sbalorditi per la credulità con la quale la gente si sottopone all’operato dei maghi. Emblematico è il caso dei samurai, i quali si dedicavano al mestiere della armi, con ideali e principi morali rigidi, influenzati dal buddismo zen. Le caratteristiche dei samurai erano la generosità e il coraggio. In caso di sconfitta, essi dovevano porre fine all’infamia col suicidio (seppuku). E così se da un lato in Giappone si cercava di impedire che l’aspirante suicida, sconfitto dalla vita. compisse il suo gesto, nel caso di Giappone si cercava di impedire che l’aspirante suicida, sconfitto dalla vita. compisse il suo gesto, nel caso di seppuku, chi non si dava la morte dopo una sconfitta, era ritenuto indegno. La follia è dunque un punto di vista culturale. Il famoso re persiano, Dario, chiese ad alcuni Greci a quale prezzo avrebbero accettato di mangiare la carne dei loro padri morti, invece di bruciarne, com’era loro costume, i cadaveri. Gli interpellati risposero che a nessun prezzo avrebbero mai fatto quel sacrilegio. Dopo quella risposta, il re persiano fece introdurre al suo cospetto alcuni Indiani Callari, che avevano l’abitudine di mangiare i cadaveri dei loro padri, e chiese loro a quale prezzo avrebbero rinunziato a quel rituale avrebbero consentito a bruciare i cadaveri dei loro congiunti. Essi dissero che non vi avrebbero mai rinunziatoLa follia ha sempre affascinato ed attorno ad essa si è sviluppata una nutrita letteratura. Nelle culture primitive, coloro che si ritenevano in comunicazione con l’aldilà, che “vedevano” gli spiriti e avevano contatti con forze sconosciute o presentavano fabulazioni incomprensibili, erano considerati privilegiati e predestinati dagli dei. Con i suoi simboli inquietanti la follia, venne accomunata alle manifestazioni oniriche, e ricevette nuovo credito, perché i sogni divennero importanti strumenti d’analisi. Si intuì che follia e ragione hanno vari punti di contatto, per cui i contorni sono sfumati: l’insensatezza può includere un’intrinseca ragione e la ragione può fondarsi su un pizzico di follia. Si intuì che la “normalità” non ha una direzione unica, né un cammino sicuro: essa è incerta, problematica; possiede due facce, come la follia. Il connubio tra creatività e follia si è fatto sempre più intrigante. In molti casi, l’arte è diventata un deterrente contro l’espandersi dell’angoscia e della insensatezza della vita. Molti personaggi illustri hanno attraversato alcuni periodi della loro vita in gravi crisi esistenziali e questi esseri eccezionali sono incappati, come del resto accade a uomini e donne comuni, in drammatiche difficoltà psichiche. Sebbene non esistano dati sicuri e incontrovertibili sulla connessione tra psicopatologia e creatività, si può ipotizzare che la creazione artistica sia un mezzo per fronteggiare l’afflizione della vita. La creatività non necessita inevitabilmente della spinta psicopatologica; se ciò non fosse vero, bisognerebbe dimostrare come mai, molti geni, la cui vita interiore non è stata toccata dalla psicopatologia, abbiano raggiunto eccelse vette creative. Tuttavia poiché un elemento importante della creatività è il fantasticare, il sognare ad occhi aperti, tutto questo può polarizzare l’attenzione degli individui creativi con pensieri che, se per la maggior parte della gente non hanno importanza, a causa della loro complessità possono far credere che l’artista sia una persona del tutto avulsa dalla realtà quotidiana, svagata, e persino “fuori di testa”. Il fatto è che il genio, osservando ciò di cui le persone non si accorgono, non sempre è in sintonia con le stesse cose di cui s’interessa la gente comune. Ed allora la gente non attribuisce all’artista reali qualità pratiche, ma solo un’attitudine a vagare con la fantasia e l’immaginazione, creando così il mito dell’individuo creativo, se non un po’ matto, quanto meno distolto dagli interessi quotidiani.E ci si chiede se sia possibile ipotizzabile che genio e follia facciano parte di una struttura mentale similare, in cui la prima, è la facciata favorevole, e l’altra quella negativa. La pulsione “geniale”, talvolta è simile alla ossessione e spinge l’artista alla creatività, alla smisurata ambizione, al tormento intellettivo; tutte situazioni equivalenti della follia.
La corteccia laterale sinistra, il precuneo sinistro e il cervelletto posteriore destro. Sono queste le tre aree cerebrali che ci consentono di immaginare il futuro. Funzionano come delle sfere di cristallo, rendendo possibile la nostra capacità di creare immagini mentali di eventi che non sono ancora accaduti.
La follia, soluzione esistenziale?
Trafiggere l’insipienza della vita, utilizzando la follia può essere un’operazione rischiosa, ma in qualche caso, è proprio la stravaganza che crea una “protezione” contro le inestricabili contingenze della quotidianità. La sregolatezza, nella dimensione artistica, metabolizza il potere nefasto della vita. La follia perde quel senso di pericolosità e di precarietà che le si attribuisce, ed anzi testimonia la drammaticità della vita.
La letteratura moderna ha compreso che nel matto, come in chiunque, convivono menzogna e verità, sincerità e simulazione, ambiguità e realismo; e che tutto ciò rende indistinta e scarsamente individuabile la demarcazione tra pazzia e sanità mentale.
La cultura, la filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema, le arti figurative, cominciarono a descrivere la vita tenendo presente anche l’alienazione.
La follia è stata anche tratteggiata da molte tele di insigni pittori, stregati dalle manifestazioni oscure e instabili della mente, i quali hanno ritratto l’alienazione con intriganti, vertiginosi tuffi nell’inconoscibile, nell’ambiguo, nella diversità.
La musica, dunque, difficilmente si può riferire a fatti o soggetti concreti, perché il linguaggio musicale è svincolato dalla verosimiglianza. Essa di rado e in casi particolari può modellarsi alla realtà pratica, evocando momenti extramusicali con mezzi musicali, come le dissonanze di Schönberg, che sembrano assumere la forma all’angoscia, con un linguaggio musicale vicino alla tensione catastrofica della follia. Sebbene la forte suggestione drammatica contenuta nell’intenso uso del semitono, può creare un formidabile pathos, così come accade anche con l’accordo di settima diminuita, ci si chiede se la musica può esprime stati d’animo e sentimenti “inconsci” e diventare così linguaggio della follia, comunicando quello che passa nella mente di una persona psichicamente malata.
È probabile che, essendo un linguaggio astratto, la musica non possa rappresentare mai nulla di concreto, e forse nemmeno stati d’animo particolari.
Nelle maglie della “stranezza” sono incappati non solo i grandi artisti, il cui genio, per definizione, si pasce di sregolatezza, ma anche le menti che meditano su teorie di grandissima importanza, e cioè inventori, filosofi della scienza, ideatori di grandi opere tecniche, scopritori dei grandi segreti della natura; scienziati che utilizzano come strumenti necessari del loro sapere l’ordine e la ricerca sistematica e che devono essere “mentalmente” chiari e disciplinati per raccapezzarsi nel caos dell’universo. Arte e scienza, afferma Martin Kemp[17], sono pressoché indiscernibili nel processo di osservazione, in quanto l’esperienza estetica e quella cognitiva sono un tutt’uno, come ha dimostrato l’attività creativa di Leonardo da Vinci..
Sarebbe gratuito e azzardato prospettare una connessione tra lo stress della creatività e il suicidio, anche se, tuttavia, non sfugge come dato di fatto, documentato da emblematici episodi che sono tanti i geni che si sono tolta la vita, a volte per umiliazione, a volte perché gli è sfuggita la gloria, a volte dopo aver preso atto della insipienza della condizione umana.
Secondo alcuni la depressione a volte è il contributo che l’individuo paga per affinare la propria creatività. Come che sia, è innegabile che il suicidio è un fenomeno comune tra gli artisti e tra i pensatori, per cui bisogna fare qualche puntualizzazione al riguardo. In proposito c’è da sottolineare che in alcune famiglie di artisti che si sono suicidati, sono stati riscontrati altri componenti che soffrivano di depressione.
Secondo Freud esistono molti individui geniali che hanno gravi squilibri psichici ma ne esistono anche di quelli che possono essere definiti assolutamente normali. In quanto alle prestazioni dei primi, sempre secondo Freud, possono essere avvantaggiate dalla parte intatta delle loro personalità, e nonostante la loro struttura nevrotica o psicotica, o, al contrario, essi riescono ad essere creativi, proprio grazie e mediante la parte alienata della loro struttura psichica. E Schopenauer era del parere che il genio vede in mondo diverso da tutti gli altri. A.H. Maslow ritiene che la persona creativa sia un tipo particolare e speciale di essere umano che deve essere considerato nel suo complesso e non frammentariamente. Molti si sono chiesti se vi sia una correlazione tra intelligenza e creatività.
Il presidente Schreber ( la cui storia psichica è raccontata da Frued) e narratori dello stampo di Fiedor Dostoievskij, Luigi Pirandello, William Shakespeare e nella pittura, artisti come Brueghel, Munch, Bouts e altri.
E difatti, la follia non solo è presente nel teatro, nella letteratura, ma è anche tratteggiata nelle tele dei pittori, spesso stregati dalle manifestazioni oscure e instabili della mente, che la presentano con intriganti, vertiginosi tuffi nell’inconoscibile e nell’ambiguo.
In quanto alla musica, sebbene la forte suggestione drammatica contenuta nell’intenso uso del semitono, può creare un formidabile pathos, ci si chiede se possa assumere l’espressività della follia, in quanto il suo linguaggio è astratto e dunque svincolato dalla verosimiglianza. La musica, forse, solo raramente configura in modo non ambiguo l’angoscia, e in questi casi viene rappresentata con linguaggi musicali provvisti di tensione catastrofica.
Secondo alcuni la depressione è il contributo che l’individuo a volte paga per affinare la propria creatività e infatti,
Nelle culture primitive quelli che presentavano fabulazioni incomprensibili, che oggi definiremmo “fuori di testa”, erano ritenuti predestinati dagli dei, perché si credeva che fossero in comunicazione con l’aldilà e con forze sconosciute. Inoltre la follia era accomunata alle manifestazioni oniriche.
che il fantasticare è un elemento della creatività, per cui spesso l’artista appare come una persona con la testa tra le nuvole, e ciò sviluppa il sospetto che sia “fuori di testa”. L
L’esperienza estetica e quella cognitiva , cioè l’arte e la scienza, sono così accomunate che non solo i grandi artisti , il cui genio si pasce di sregolatezza, ma anche gli scienziati, per raccapezzarsi nel caos dell’universo, e capire meglio le insensatezze di certe particelle subatomiche il cui moto è imprevedibile, devono fare in conti con una certa insensatezza della materia.
Demenza, squilibrio, delirio, follia, pazzia, confusione mentale, alterazione mentale, esaltazione, agitazione, perdita della ragione “comune”, diversità, dissennatezza, stoltaggine, matto, insensato, stravagante, bizzarro, frenesia, mentecatto, furioso, maniaco, vaneggiare, dissennato, delirante, vaneggiamento ammattire, demenziale, alienato, aberrante, esaltato, invasato, furioso, degente, malato, paziente, fissato, “suonato”, frenetico, stravaganza, bislacco,
Ansia, paura, attacchi di panico?Ora c’è un ormone sotto accusa
Studio: affetti da eccesso di aldosterone? Più disturbi dell’umore
Questa molecola forse è alla base del meccanismo scatenante Una ricerca dell’università di Padova rivela la fonte potenziale del maggior disturbo della vita moderna: l’ansia, la paura e i tanto temuti attacchi di panico potrebbero, infatti, dipendere dalla presenza eccessiva nel nostro organismo di un ormone, l’aldosterone.
Prendendo in esame un gruppo di pazienti affetti da una malattia causata da un eccesso di aldosterone, ha spiegato Nicoletta Sonino dell’università di Padova nell’articolo pubblicato sulla rivista Psychotherapy and Psychosomatics, è emerso il possibile legame tra la molecola e disturbi dell’umore come ansia e panico. In particolare, nello studio pilota sono stati coinvolti pazienti con iperaldosteronismo primitivo o Sindrome di Conn, una malattia dovuta ad un adenoma delle cellule della zona glomerulare della corteccia surrenale e pazienti affetti da un’altra forma di iperaldosteronismo. I ricercatori hanno esplorato con una serie di test standard, come quelli utilizzati in psichiatria, la presenza eventuale ed il tipo di disturbi della sfera dell’umore di cui i soggetti si trovavano a soffrire.
Il quadro emerso appare piuttosto chiaro: la probabilità statistica con cui i malati di eccesso di aldosterone soffrono di ansia e panico è di gran lunga maggiore rispetto alla media riscontrata nella popolazione in generale. Inoltre, sono emersi tra questi soggetti casi di disturbo ossessivo-compulsivo, irritabilità dell’umore e casi frequenti di demoralizzazione.
In studi precendenti era già stata osservata una possibile connessione tra ansia e la famiglia degli ormoni corticosteroidi, della quale fanno parte sia l’ormone dello stress (il cortisolo) sia lo stesso aldosterone. Quest’ultimo ormone, prodotto dalle ghiandole surrenali, è estremamente importante per la regolazione della pressione sanguigna.
La genesi del disturbo dell’ansia e della paura sarebbe, quindi, con grande probabilità, connessa proprio alla presenza di quest’ormone, conclude la Sonino, anche se sono necessari altri studi su un campione più vasto di pazienti per potersi basare su una copertura statistica maggiore.
Ma questa scoperta apre una strada agli scienziati che studiano il funzionamento dei meccanismi biologici alla base di questi disturbi, indirizzando la cura verso trattamenti più efficaci con un notevole miglioramento per i soggetti che ne sono affetti. Se le sperimentazioni confermeranno questa ipotesi, potrebbero sperare in una migliore qualità della loro vita tutti gli ansiosi eccessivi, troppo spesso limitati nella libertà quotidiana da quel piccolo inferno di panico e paure.
L’incontro antropologico con la persona delirante: apertura e/o scacco.
Bruno Calmieri: La “presenza” del soggetto delirante ci si ostende in molte e diverse modalità che, per lo più, sembrano precludere radicalmente il coesistere-con-l’altro, quindi vanificare ogni possibilità di incontro, momento costitutivo dell’intersoggettività, sulla quale cala la fitta nebbia dell’isolamento esistenziale. Certamente il delirante, che è lo psicotico per antonomasia, mondanizzato nell’irreale, o nel dis-torto, può ampiamente comunicarci ( ben più dello schizofrenico) la sua situazione, il suo in-der-Welt-sein, il suo esserci-nel-mondo; certamente anche per lui “il linguaggio è la dimora dell’essere” (Heidegger, Brief über del Humanismus, 1947), ma non è più domanda e risposta, non è più dialogo, non è colloquio, ma monologo. In un tal tipo difettivo di co-presenza manca l’apertura al Mit-Welt, al mondo umano comune e l’incontro sembra divenire praticamente irrealizzabile o, comunque, destinato allo scacco e a farci restare interdetti. Come scrive Cargnello (1984) “è proprio in questa prospettiva che la psichiatria può essere intesa come una scienza di distorti, falliti, impossibili incontri”. Viene così tracciato, tramite il delirante, un modello generale per la ricerca psicopatologica, appunto “quello dell’analisi delle specifiche declinazioni difettive delle categorie della coesistentività” (Stanghellini e Ballerini, Ossessione e Rivelazione, p. 79). In verità, in certe situazioni psicotiche, l’alter ci si propone come alcunché di estraneo, come alienus, da fratello a nemico ( A. Schnitzler), cioè muoventesi secondo parametri “altri”, paralogici e paratimici (Trupia, 1992), che sovvertono le “nostre” prospettive mondane e che ci obbligano a salti categoriali del tutto insoliti; è lo “scuotersi delle fondamenta” (il tillichiano shaking of the foundations) che, volentes aut nolentes, ci fa restare interdetti, in quanto sconvolti dall’invasione del significato abnorme (per es. di “fine del mondo” – Callieri) o dalla continua presenza della perplessità e poi, dell’illuminazione delirante.
Nell’esperienza del “restare interdetto” è fortemente implicato l’esser-preso (sorpreso) – da, c’è il sentimento attonito di una contemplazione obbligata, subìta, imposta, c’è la sgradevole sensazione dell’imprevisto, c’è – quasi sconvolgente — la sospensione della donazione di senso (non più ricevuto né dato, nell’arresto di un flusso coesistenziale che invece dovrebbe essere incessante, anche nei momenti di maggior solitudine). Nell’incontro col delirante, che ci comunica (o ci consente di cogliere) il suo mondo dereistico, fantasmatico, immaginario, si verifica – quasi brutalmente – una specie di collisione di categorie, con uno scatenamento infranabile di psichismi di difesa: nessun psichiatra, per quanto esperto, può esserne risparmiato ( a meno che esso non si burocratizzi piattamente e in una specie di burn-out).Atteggiamento di neutralità asettica, unica modalità d’esperienza di incontro, ma rende impossibile ogni tentativo di dialogo e ostacolato seriamente ogni conato di recupero dell’alienus . Ma il recupero dell’alter è lo scopo terapeutico autentico dello psichiatra, specifico delle sue capacità professionali e umane, anche avvalendosi del prezioso aiuto farmacologico, sempre criticamente considerato e prescritto, senza riduzionismi semplicistici e senza ideologiche negazioni o preclusioni. L’attività psichiatrica clinica, ospedaliera, e privata, sta nell’ accettare l’alienus nella sua insopprimibile qualità umana, come compagno di strada, delirante o schizofrenico, malinconico o maniacale, demente o oligogofrenico. Questa possibilità, costituisce la condizione preliminare per ogni incontro effettivo in ambito psichiatrico. Anche l’alienazione più radicale, l’autismo, più chiuso, il paranoidismo più spinto, il delirio più schiodato, la dissociazione più sfacciata, racchiudono in sè anche se inespresso, soffocato o radicalmente camuffato o nascosto un messaggio. Lo psichiatra deve accostarsi all’alienato anche con una dialettica dell’irrazionale in cui il medico affronta la problematica della propria angoscia. Quest’equilibrio delicato e precario, sul filo del rasoio, col continuo rischio di essere infranto, porta lo psichiatra ad una posizione essenzialmente ambigua, sempre problematica D’altro canto, pur di fronte all’emergenza dei sintomi psicotici di primo ordine, all’invasione dell’automatismo mentale e del pensiero xenopatico, al colpo di frusta della rivelazione delirante, dell’intuizione folgorante (Tua res agitur, di Hagen), permane, inconfondibile, lo stile della presenza paranoide, polimorfo ed equivoco, investente con i suoi perentori significati la realtà o tendente al nascondimento, al ritiro, comunque sempre con un’inequivocabile valenza di messaggio. Nella presenza paranoide l’alterazione psicopatologica più rilevante riguarda i significati logico-categoriali, che sottendono una donazione di senso, a volte data ab initio una volta per tutte, a volte lentamente ma inesorabilmente costruitasi (lo “sviluppo”, di jasperiana memoria), come nel “lavoro delirante” (Wahnarbeit) paranoicale, per es. di gelosia. Qui i recenti rilievi di Stanghellini e Ballerini (“Ossessione e Rivelazione” – 1992) mi sembrano fondamentali, anche perché mostrano limpidamente che il nostro tentativo di incontrare il mondo del delirante cozza contro la difficoltà massiccia di ricostruire proprio geneticamente i momenti costituenti di questo suo mondo, la sua è più narratologia che storia. Ad es. i rilievi che possiamo trarre dall’analisi della spazializzazione del paranoide sono solo indiretti, solo desumibili dal suo modo di incontrare o evitare gli altri, di fronteggiare determinate situazioni, di retrocedere di fronte a circostanze percepite come pericolo, tranello, trabocchetto. Ci imbattiamo dunque in una spazializzazione nettamente orientata, addirittura polarizzata. Qui non c’è posto per l’altro come socius; esso è il persecutore, da cui bisogna mantenersi a debita distanza, distanza che molto sovente è incolmabile.
A tal punto la polarizzazione della spazialità vissuta assorbe e cattura l’esperire del delirante da rendere impossibile il costituirsi e muoversi su altri parametri spaziali: basti pensare all’esperienza di “stato d’assedio”, al timore di quel che si cela dietro l’angolo o in quella sala cinematografica, per vedere come forse l’origine di tutto ciò non risieda tanto nella preesistenza della tematica persecutoria (come facilmente si ammette) quanto in una primariamente alterata progettazione spaziale. Vorrei ulteriormente sottolineare che quello che nel non-psicotico viene vissuto come avvertimento e messa in guardia, nel delirante paranoide e paranoico viene vissuto (cfr. anche M. Rossi Monti, nonché Clara Muscatello e paolo Scutellari ?) come un irrigidimento ulteriore in una direzione spaziale che è già pregiudizialmente tutta precostituita e scontata.
In altri termini, come si parla di overinclusion per l’assetto cognitivo del pensiero schizofrenico, così, partendo dal concetto di “mondo orientato” (tipico attributo dell’husserliana Lebenwelt), parlerei per il mondo delirante (paranoide e paranoico) di “sovraorientato”: nulla è lasciato alla possibilità del plurivoco, all’imprevidibile e al caso, e la pregnanza oggettuale è scontata nel suo significato, significato che avoca a sè ogni altra prospettiva (avvicinandosi così in modo davvero singolare al mondo del rupofobico; cfr. il fine apporto fenomenologico di L. Calvi).
Qui è opportuno ricordare anche il concetto di orizzonte (C.A. van Peursen, 1954) che convoglia ogni limite spazio-temporale delle situazioni, l’orizzonte che si situa sempre nella distanza davanti a noi, oltre ogni indicazione, che è riferito al corpo e al suo sguardo. Senza l’orizzonte l’esperienza del mondo è inimmaginabile, l’orizzonte è sempre oltre e non può essere ignorato, come invece può esserlo un oggetto nel mondo. E se, come dice suasivamente van Peurse, l’orizzonte è anzitutto distinzione fra interiorità ed esteriorità, ben si comprende come la Lebenswelt paranoide debba mostrare una profonda carenza di orizzonte, là dove tanto spesso i limiti dell’interiore vengono superati e cancellati (si pensi all’esperienza di influenzamento, alle voci interiori, al furto del pensiero, alla lettura del pensiero, all’onnipresenza dell’enigma), per cui vedere e essere visto, toccare ed essere toccato non vi sono più polarità distintive: le prospettive di dissolvono, la coerenza significativa si perde; in fondo, il paranoide non abita più, perché perde le prospettive a partire dalle quali ognuno ottiene il suo preciso “campo di visone”. In tal senso, proprio attraverso l’analisi della sua Lebenwelt (come hanno ben visto Ballerini e Rossi Monti, 1990, La vergogna e il delirio), ci è dato cogliere il pieno significato antropologico dello “sradicamento” (Entwurzelung, di J. Zutt), che si allinea alla perdita del limite (Entgrenzung) e alla perdita del sentirsi radicato e piazzato (Entbergung); quindi alla perdita della propria intimità, della propria dimora, del proprio nido nascondente. Qui, a mio parere, il dramma antropologico del delirante paranoide si svela appieno (una vera antropofania); egli ha perduto il “mondo comune” (il Mit-sein), per lui è svanito l’appello di un altrui nell’orizzonte: l‘autre, c’est l’enfer“. Il serrarsi del suo campo co-umano, il coartarsi del suo orizzonte, ne svela l’angoscia di base, quando ogni circostanza sembra estrometterlo da ogni progetto rassicurante di vita. le prospettive del mondo oggettuale vengono sempre spiazzate (dis-placed) e respinte oppure divengono invasive…e allora bisogna difendersi, magari attaccando fra sè e il mondo, nel delirante, viene a frapporsi una distanza che non è colmabile e ce, lungi dall’offrirsi come una spazialità di autentica salvazione, costituisce un radicale affossamento, rendendo la persona inaccessibile all’istanza alter-egoica. Alla mente di ogni psichiatra clinico si affollano innumeri esempi di ciò. E ancora: nell’ostendersi della Lebenswelt del delirante ci si imbatte in una modificazione significativa delle dimensioni temporali della sua presenza. Anche qui, temporalità over-orientata, con obiettivi fissi da perseguire, con nodi incombenti, in un’inserzione non-dialettica e non storica del mondo, che incombe o si estrania radicalmente (come nelle depersonalizzazioni allopsichiche, di cui mi occupai molti anni fa con Semerari e poi Felici).
Si può assistere persino ad una condizione peculiare di contaminazione spaziale della temporalità, vissuta come catastrofe incombente oppure come perdita dei limiti del proprio divenire (come accade nelle esperienze deliranti di eternità, spesso impregnate dal senso di colpa). Qui, nel processo di futurizzazione i l passato grava massicciamente e assume un incoercibile segno di indicazione di come il futuro debba delinearsi perché sia possibile evitare l’inatteso e l’imprevisto,denaturandolo così dei suoi connotati essenziali e consentendo, come ha detto Minkowski, memoria del futuro.
Nota: nel vecchio delirante domina la dimensione “nostalgica” dell’esistenza e non solo come semplice “ricordo delirante” (la Wahnerinnerung, di Hans Gruhle).
Questo peculiare modo di esperire la temporalità, proprio del delirante, informa la sua Lebenwelt in un modo che è da noi cognibile non tanto nel suo rapporto con le cose quanto nel suo rapporto con il mondo dei socii, degli “autrui”. Nell’incontro con la dimensione alter-egoica la situazione delirante produce diaframmi insormontabili per la dimensione dialogica per il Mit-einander-sein: l’altro ad es. lo psichiatra, è lo specchio del suo monologo, pura figura proiettata verso un futuro già scontato. La situazione del delirante è astorica; il suo è uno pseudodiscorso verso uno pseudo-altro.
Del pari va sottolineato, in questo mio tentativo di antropofania della “presenza” delirante, che la sua corporeità (Callieri, 1992) ci si mostra come divenuta radicalmente trasparente al senso di ostilità di cui si percepisce caricato sia il mondo che, in particolare, la configurazione mondana dei socci; fino a sentir ridotta la propria autonomia alla mercè degli altri, alla loro manipolazione (Butler, 1991): basti pensare a certi deliri di influenzamento, xenopatici, alle psicosi allucinatorie croniche, alle somatoparafrenie, alle dismorfofobie indotte (Phillips). I gradi di concretizzazione di tale intrudere dell’”altro” sono molto diversi, fino al delirio di possessione (Callieri, 1992, Yap, 1960), con annullamento totale della dimensione coesistentiva.
Nella tensione dialettica dei due poli dell’esser-corpo e dell’avere-un-corpo, si assiste qui ad un prevalente irrigidimento verso il polo dell’avere, fino a sfuggire alla propria disponibilità fungente, a sentirsene spossessati, divenuti “preda” o “bersaglio”:”mi fanno le onde, mi tormentano il petto con i raggi, mi “fanno le radiazioni alla testa, mi trafiggono col laser, etc.” con un’incredibile multiformità di sensazioni, aptiche, ottiche, uditive, cenestesiche. In tali condizioni (acerbamente sofferte e denunciate) sembra che la soggiacenza del proprio corpo agli altri sia l’unica possibilità di recepire l’”altro”, persecutore malvagio, carnefice raffinato e crudele. Allora la dimensione coesistentiva scade ad un mero e inane contrapporsi all’altro, al nemico, che viene vissuto orridamente come sempre più forte e invasivo, cui è impossibile sottrarsi e sfuggire. Al delirante (specie paranoide persecutorio) finisce per diventare impossibile anche il rifugio nell’anonimato: tutti sanno di lui, lo controllano, lo segnano a dito, lo spiano, locomandano, lo robotizzano, gli succhiano via la personalità ne invadono gli spazi più privati, in una vera “despazializzazione” (forse Zutt e kulenKampf avrebbero parlato di Enträumlichung). Qui la crisi dell’intersoggettività è kafkianamente radicale, non offre scampo, ed è impietosamente connessa alla crisi del “senso comune”, di quel tessuto, anche banale e scontato, anche deteriore che noi finiamo per accettare nella nostra pirandelliana “pena di vivere così”, nel nostro grigiore di riferimento all’esperire altrui.
In altri termini (il discorso è qui veramente inesauribile, come sono inesauribili gli accadimenti e gli avvenimenti), nel mondo vissuto (Lebenswelt) come è espresso e testimoniato dal delirante, anche tacitamente o mutacicamente, l’altro non può essere interiorizzato, come lo è invece in alcune esperienze sensitive (Kretschme) ma viene forzatamente e ineluttabilmente allontanato in una distanza (anche metrica) incolmabile; da tale distanza l’altro però, persecutore, costantemente torna a riproporsi come realtà ostacolante tanto più massiccia in quanto non può più essere ripreso nella sua interlocutorietà. Ogni volta che se ne ripropone la presenza, anche come aiuto ( si pensi a “Fuga nelle tenebre” di A. Schnitzler), si erge nel delirante il massiccio e implacabile impedimento di ogni riconfigurazione come “socio” (qui le spiegazioni psicoanalitiche sono divenute, in questi ultimi decenni, fecondissime – come ci ha fatta magistralmente intravvedere più volte Romolo Rossi).
Forse l’analisi ora abbozzata del delirante ci può far in parte comprendere (non certo “spiegare” – anche se oggi i due termini tendono epistemologicamente a convergere) la più intima ragione, direi la “ragione categoriale”, cui lo volge e lo consegna il suo Wahn-Sinn (Lenz), il suo esser-nel-delirio, questa smisurata (anzi proprio s-misurata) donazione di senso.
Per concludere, non vi è dubbio che queste massicce limitazioni dell’”incontro” con delirante ci fanno toccare con mano l’ambiguità fondamentale dell’essere-psichiatra (cfr. Cargnello, 1980), medico e human scietist, in un’ambivalenza che mi pare ineludibile e che mostra come sia difficile e forse proprio mistificatorio sostenere di poter uscire radicalmente dall’equivoco. Attualmente, malgrado l’affermarsi sempre più vigoroso dei progressi della psichiatria biologica, a me e a tanti cari amici sembra sempre più necessario coltivare nella formazione dello psichiatra, accanto al binomio mente-cervello, la passione per l’esistenza (come già dicevo in altro contesto): è una vera “paideia”, una formazione, una Bildun, che esige l’affinamento delle dimensioni coesistentive, la “svolta” antropologica, svolta che si concretizza nella disponibilità, nel bisogno di empatia, in un certo grado di oblatività, in un atteggiamento di tolleranza e di accettazione dell’”anormale” nell’altro e di riconoscimento in esso della qualità di “presenza”, superando,a nche solo in piccola parte, il proprio narcisismo.
Uno Nessuno Centomila
“L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa. Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? E’ forse questa forma la cosa stessa? Sì, tanto per me, quanto per voi; ma non così per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, nè voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo.
Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto”, [Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, , ed. Mondadori, 1969, pp.59/60] L’estremo relativismo riguardo la costruzione, la comunicazione e l’immagine di sè per sè e per gli altri, è di Vitangelo Moscarda, protagonista di uno delle più celebri opere di Luigi Pirandello, scritta nel 1925 (ma il suo inizio data 1909) e pubblicata a puntate sul settimanale “La Fiera letteraria” nel 1926, “Uno, nessuno e centomila”; ultimo romanzo del grande scrittore siciliano, esso è anche uno degli esiti più rivoluzionari della narrativa del ‘900.
Nessuno per sé, in quanto l’io è fondamentalmente essere-per-l’altro, il protagonista è contemporaneamente uno per quanti sono coloro che si mettono in relazione con lui e costruiscono la sua immagine, e dunque altri centomila. Costruire se stessi e la propria immagine, questa sara’ ricevuta per quanti sono coloro che si metteranno in relazione con quell’immagine: cio’ dimostra si’ la relativita’ della relazione, ma l’assolutezza della comunicazione: e’ impossibile non solo non comunicare (Watzlavick), ma e’ impossibile non comunicare la propria immagine (forma) seppure questa possa non coincidere con l’io vero della propria personalita’ (sostanza) [vedi dialettica io/me e il concetto di role-taking (Io Psicologico) di G.H.Mead] Eppure Pirandello parte da un altro assunto filosofico: è impossibile comunicare, l’uomo è destinato alla solitudine: “Abbiamo usato, io e voi la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto.”
L’unica strada per superare la chiusura della soggettività è essere consapevoli della relatività dei giudizi; ma, appunto, la solitudine e la chiusura in sé, assolutizzati, porterebbero ad occludersi ogni via di conoscenza, seppure costituirebbero la vera libertà. Il che sposta l’assunto pirandelliano, dall’incomunicabilità alla comunicazione e relatività comunicativa come via alla conoscenza.
D’altra parte lo stesso protagonista, Vitangelo Moscarda, attua la salvezza dalla razionalità attraverso il suo pieno inveramento (decidere di essere l’uno/nessuno di se stessi senza curarsi delle centomila immagini diverse, distrugge le relazioni così come esse si erano maturate nel corso dell’esperienza esistenziale, porta alla libertà ma lo conduce al mendicio). E, in definitiva, anche la riconquistata riappropriazione del proprio essere, a seguire Pirandello, porterebbe ad un’altra immagine per gli altri, mai concidente con la propria vera. “ ‘Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo, che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no’, E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io così come gli altri lo vedevano e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.” [pag.21/22]
Le Psicoterapie
Si potrebbe dire che la psicoanalisi e le psicoterapie in genere consentono di acquistare la consapevolezza di parti di noi che in primis ignoriamo, successivamente nel riconoscimento/ riscoperta di queste parti comprendiamo che sono illusorie e questo ci consente di abbandonarle, ma in pratica sono loro che abbandonano noi perchè ormai svuotate di energia.
Le parti di noi non riconosciute posseggono un’energia che staziona lì per consentirle di continuare ad esistere, di restare in piedi; quando le riconosciamo e ne prendiamo coscienza, nella loro riscoperta, ritorna in noi quell’energia che le sosteneva, una volta riconosciuta l’illusione di un’idea, di uno status, l’energia che le sosteneva le abbandona e loro vengono meno.
Il termine psicoterapia mette spesso fuori strada, perché questo vocabolo lascia intendere un intervento rivolto a tutte le alterazioni psichiche. Infatti dal punto di vista linguistico psicoterapia, o terapia della psiche, allude a interventi per ogni genere di malattia psichica, compresa la schizofrenia, l’autismo, etc.
Questo equivoco comporta due malintesi: il primo è ritenere la psicoterapia, nel senso di terapia con la parola, sia valida per ogni forma di alterazione mentale (una superficialità nella quale sono caduti illustri clinici); il secondo, di conseguenza, è l’essere rifiutata da persone che, avendo disturbi di carattere esistenziale, non si affidano ad essa perché impaurite di vedersi appioppare il marchio di malati mentali.
Per focalizzare meglio le opportunità connaturali alla terapia psicologica, bisognerebbe utilizzare un vocabolo che renda chiaro di che intervento si tratti. Tale termine potrebbe essere proprio terapia della parola cioè trattamento terapeutico per mezzo della parola.
In realtà è proprio di questo che si tratta: lo specialista ascolta ciò che il paziente dice e grazie a queste “confessioni” riesce a ricostruire l’eziologia dello “stravolgimento” che opera nelle credenze, negli stati d’animo, nelle preferenze e nei comportamenti del paziente.
La terapia della parola è adoperata nei casi in cui le alterazioni e le distorsioni nel ragionamento del paziente sono dovute ad uno scorretto stile di vita, a traumi emotivi subiti, a pressioni socio culturali,a una educazione sbagliata, che lo hanno allontanato dalla realistica e corretta interpretazione della sua consistenza psichica interna e della realtà esterna.
In questi casi, e solo con queste condizioni, la psicoterapia clinica, se ben trattata, riesce a trasformare la disperazione in serenità.
Ogni individuo ha una rappresentazione del mondo che deriva da una messa a fuoco con modelli appresi nell’infanzia, o, in seguito, in occasione dei vari avvenimenti della sua vita. Questa rappresentazione del mondo determina in larga misura le scelte, i sentimenti, gli stati d’animo, le convinzioni e i comportamenti del soggetto.
Se questi filtri con i quali il soggetto vede il mondo sono poco realistici, si costituiscono convinzioni e stati d’animo che cozzano quotidianamente con la realtà e determinano angosce e incapacità di “manovrare” correttamente la propria vita.
Così come un capitano di nave che ha la bussola inesatta, non potrà mai raggiungere il porto desiderato, così il soggetto la cui “bussola psicologica” è starata non potrà mai raggiungere il programma di vita più utile.
Ognuno di noi sviluppa dentro di sé in base alle vicende della propria storia personale rappresentazioni mentali della realtà che creano mappe e modelli di vita con valore orientativo; ma se queste rappresentazioni del reale sono state distorte da esperienze traumatiche, le opzioni, le scelte, i comportamenti del soggetto saranno in conseguenza limitate e incapaci ad adeguare l’individuo alla vita quotidiana.
Se le mappe di orientamento della realtà, se i modelli d’interpretazione della vita, non hanno una base realistica, la messa a fuoco della realtà sarà limitata e, di conseguenza, inopportune saranno le scelte che farà l’individuo la cui “vista psicologica” è carente.
Spesso il soggetto ha una immagine del mondo che deriva da una miope e limitata visione della realtà, e di conseguenza egli si “muove” nella vita con molta difficoltà a causa della sua miopia psicologica.
Questa situazione riduce di molto le scelte e le opzioni psicologiche del soggetto, e se le sue aspettative e le sue realizzazioni sono limitate da filtri e da modelli errati, gli cerano, di conseguenza, disagio e sofferenze.
L’intervento del terapeuta in questi casi è utile perché introduce nei modelli e negli schemi mentali dei pazienti cambiamenti che servono a migliorare il tipo di argomentazioni psichiche, a dare una visione più realistica della vita, ad ampliare e ad arricchire i modelli tanto da rendere la rappresentazione della vita più ricca e più degna di essere vissuta.
La sofferenza esistenziale
Quando, a causa di esperienze negative, si impiantano nel soggetto modelli e mappe sbagliare della realtà, la sua vita è inevitabilmente preda della sofferenza psichica
La qualità della vita di un individuo dipende da vari fattori: dalla configurazione genetica, dalla costituzione fisica, dalla educazione ricevuta, dalla personalità di chi ha educato il soggetto nella infanzia e nell’adolescenza, dagli eventi che hanno solcato l’esistenza dell’individuo e dal modo che egli ha di porsi nei confronti del mondo e di se stesso.
Chi non riesce a fronteggiare i problemi quotidiani, chi si sente disadattato, indeciso, fallito; chi è devastato da istinti asociali e violenti, e non riesce ad amare e a farsi amare, il più delle volte ha disturbi comportamentali dovuti agli imprinting educativi e culturali ricevuti. «Nevrotico, afferma Anaïs Nin, è colui che interpreta tutti i fatti come se congiurassero contro se stesso».
La nevrosi infatti si manifesta con una scarsa adattabilità a vivere una esistenza equilibrata, e ciò senza che motivi esterni evidenti possano indurre il soggetto a crucciarsi di qualcosa in particolare.
Il disadattamento alla vita quotidiana e l’incapacità di viverla serenamente si può manifestare in varie forme che possono però essere sintetizzate in tre gruppi principali:
La disfunzione emotiva più infantile, grezza e ingenua è il bisogno inarrestabile e incontenibile di affermazione del proprio Io. Questo atteggiamento, dovuto a precedenti ferite narcisistiche sofferte quasi sempre nell’infanzia o nella prima adolescenza, si concretizza in un continuo bisogno di auto incensamento e in una persistente insoddisfazione. La necessità continua di “fare bella figura” e di mostrare agli altri le proprie superiori qualità si manifesta con un comportamento sfrontato, col quale il soggetto pretende sempre di primeggiare e con una grossa dose di improntitudine. Questi atteggiamenti sono caratterizzati da un narcisismo debordante che ha origine sia dalla sproporzionata attenzione che gli adulti hanno avuto verso di lui quanto il soggetto era bambino, si anche da una serie di frustrazioni che il soggetto ha avuto nell’infanzia. Nell’uno o nell’altro caso, il narcisismo viene soddisfatto dal soggetto con l’attirare l’attenzione degli altri e piegarli al proprio volere.
La seconda disorganizzazione psicologica, che impedisce a una persona d’avere una vita serena, è la cavillosa e persistente ripetitività con la quale il soggetto sente il bisogno di reiterare atteggiamenti e comportamenti e di richiamare continuamente alla memoria idee e convincimenti per appurare se li ha utilizzati “alla perfezione”. Il soggetto affetto da questa ansia di puntualizzazione, a differenza dal precedente, il quale non ritiene mai di sbagliare, è sempre preoccupato di avere commesso degli errori e nel contempo è anche tormentato dall’idea che possano commetterli gli altri. Questo continuo bisogno di perfezionismo e di controllo deriva al soggetto da un’esperienza infantile trascorsa con educatori che gli hanno imposto continue e assillanti pignolerie. Tuttavia questo secondo tipo d’atteggiamento è il prodotto di una organizzazione psichica più avanzata della precedente, nella quale il soggetto ricerca solo la stima degli altri senza curarsi che sia o meno meritata.
In fine, l’ultima incapacità a vivere una vita serena si manifesta con una sopravvenuta impossibilità di accettare la quotidianità, anche se essa non è del obbiettivamente invivibile, e con la conseguente, cronica insoddisfazione che non dipende da fattori obbiettivi esterni, ma da una incoercibile incapacità di adattamento ai fatti della vita assieme a una perdita progressiva di ogni interesse per qualsivoglia avvenimento, idea, affetto. Questo atteggiamento mentale manifesta tuttavia una organizzazione psichica meglio articolata delle due esaminate in precedenza, ed è frutto di una visione meno elementare della vita.
Infatti, è frutto di maggiore consapevolezza di quanto ne abbia la prima struttura ed ha un atteggiamento meno ostinato di “perfezione” di quanto non ne sia portatrice la seconda. Questa terza struttura psichica è soprattutto dovuta alla perdita d’interesse per la vita, in un soggetto che, nella prima parte della sua esistenza ha ritenuto, a torto o a ragione, poter raggiungere mete molto elevate.
Questi tre tipi di “atteggiamenti mentali” derivano quasi sempre da una inadeguata e imperfetta “iniziazione” alla vita che familiari ed educatori incapaci hanno trasmesso al soggetto quand’era in gioventù.
L’individuo educato in maniera difettosa nell’infanzia, da adulto si mostra quasi sempre incapace di ponderare le cose con buon senso e di agire in maniera adeguata e ragionevole. Soprattutto chi non è abituato ad accettare razionali innovazioni sia nel proprio pensiero che nel proprio stile di vita, non può ottimizzare la propria esistenza, perché è spesso aggrappato a convinzioni che lo inducono a comportarsi e a pensare in maniera irrazionale e priva di perspicacia realista. L’affermazione di sé può essere un fatto positivo ma le relative distorsioni sono un fattore di rischio. Ogni essere vivente cerca di affermarsi sugli altri. Dal gradino più basso a quello più alto della scala naturale, si tratta di un atteggiamento utile per la sopravvivenza. Chi non cerca almeno in minima parte di affermarsi, rinunzia alla propria individualità e talvolta viene travolto ed annullato dalla massa. In quanto agli esseri umani, l’affermazione di sé è imprescindibile ed ha ormai raggiunto un carattere particolare, sofisticato, culturale. Il genio artistico afferma il suo sé tramite le proprie opere, il politico lo afferma tramite l’agone e nell’espletamento della ragion di stato, il religioso afferma il proprio sé nell’orgoglioso rapporto col proprio dio, il dittatore si afferma imponendo ai sudditi il culto della propria persona. L’innamorato afferma il suo sé, facendosi amare dalla persona amata. Ma, a seconda della strada che s’intraprende per l’affermazione di sé, questo tentativo può essere inoffensivo o estremamente pericoloso.
Spesso chi segue pregiudizi duri da eliminare, non può avere cambiamenti nella propria prospettiva mentale, sociale e culturale, anche se queste innovazioni potrebbero essere utili per sollevarlo dalle reazioni d’ansia. Infatti una situazione di stallo psicologico impedisce al soggetto il miglioramento della qualità della sua quotidianità.
Per far fronte a questo genere di difficoltà psicologiche bisogna fare coraggiosamente luce sulle origini della incapacità a modellare la propria vita in modo tale da raggiungere un certo benessere psichico quotidiano.
L’eterno indeciso, il timido, l’angosciato, il portatore di ferite narcisistiche, l’ossessionato da paure e dilemmi, colui che ha paura della gente, lo sfiduciato, l’insicuro, chi è incerto nell’approccio con l’altro sesso, devono comprendere l’origine delle loro disfunzioni per fronteggiarle.
Ovviamente, non è facile rendersi conto che idee e comportamenti aberranti sono dovuti al modo come vediamo le cose e gli altri, e che questo dipende dal filtro del pregiudizio, dai luoghi comuni e dai tabù che formano un corazza di manie, di rituali, di prevenzioni e inibiscono l’obbiettività. Con simili handicap è facile intuire che è poco probabile una visione serena e meno complicata della vita.
L’handicap più grave è l’immaturità psicologica. L’adulto con personalità acerba s’indispettisce, s’affanna, si dispera; incapace di venire fuori dal ginepraio dei suoi problemi come il pulcino quando è impigliato nella stoppa.
Solo la personalità matura interpreta e affronta la realtà in maniera corretta e con una certa flessibilità. Altrimenti è difficile l’inserirsi nella quotidianità, e si è preda di indecisioni, insicurezze, sospettosità fur di luogo, frustrazioni.
Allora per migliorare il rapporto col mondo e con se stesso bisogna cambiare atteggiamento mentale. E tuttavia il cambiamento è tanto più difficile quanto più l’Io è fragile e insicuro.
In questi casi il cambiare consuetudini e percorsi mentali consueti è avvertito come una minaccia per l’instabile struttura dell’Io faticosamente puntellato da tabù e luoghi comuni.
Chi vive del beneplacito sociale è vulnerabile. Sottomesso alle convinzioni e non riesce ad essere critico verso di esse, perché teme che così facendo mettere in gioco la propria stabilità emotiva.
Per venir fuori dalle angosce della quotidianità, bisogna intervenire sull’educazione ricevuta nell’infanzia e nell’adolescenza. Infatti, l’acquisizione di norme non adeguate ad una serena visione della realtà, causa disagi psicologici. Ma abbandonare ciò che si è ricevuto del passato causa difficoltà di adattamento al nuovo panorama di vita.
Nel corso della terapia imperniata sul dialogo possono insorgere delle resistenze a cambiare mentalità. Chi malgrado l’età adulta è ancora psichicamente dipendente dai genitori o quanti, durante l’infanzia, hanno indebolito le sue capacità di autonomia psicologica, malgrado “stia male col suo modo di fare” si sente sicuro solo se mantiene lo status mentale appreso nel passato; ogni cambiarlo gli da la sensazione di un pericolo maggiore della stessa angoscia provata con i suoi disturbi dell’umore.
Solo dopo un lasso di tempo in cui il soggetto confronta le proprie idee con quelle più ponderate del terapeuta, e quando subentrano in lui riflessioni, confronti e nuove istanze. Solo chi ha indebolite o cancellate le resistenze, ed è cosciente che si sta opponendo alla cura, raggiunge un miglioramento. A quel punto si rende conto che i disturbi che lo assillano sono dovuti ad atteggiamenti e scelte irrazionali. Ciò gli permette di modificare e cambiare prospettiva mentale, adeguandola il più possibile alla realtà.
Quando il soggetto capirà che alla base della propria cultura esistenziale stava una valutazione dei fatti della vita dovuta al filtro dell’umore e non con quello della ragione, si renderà conto che la propria mentalità si è basata su credenze irrazionali, su principi e convinzioni prodotti da emozioni e da sentimenti distorti, piuttosto che dalla ragionevolezza. Comprendere finalmente di avere accettato e ritenuto alcune verità come fondamentali e indiscutibili mentre erano solo dovute all’emotività, ai bisogni emozionali e alla suggestione, fa conseguire una visione più serena della vita.
Non sempre purtroppo le opinioni sono sottoposte al vaglio della ragionevolezza, sfuggono ad essa soprattutto quelle influenzate dalla perturbabilità affettiva e dalle passioni, sicché vengono accettate come logiche conclusioni guidate solo dai sentimenti, da giudizi irrazionali e da pregiudizi.
L’intelletto infatti non è indifferente alle ragioni del cuore e alla ipersensibilità alle emozioni.
Quando il ragionamento non è obbiettivo.
Stabilire come e quanto i percorsi del ragionamento del paziente dipendano da alterate strutture neurologiche o dall’influenza di condizionamenti e pregiudizi è la sfida fondamentale della psichiatria e anche di molte altre branche della ricerca: dalla biochimica alla neurologia alla sociologia. Intervenendo con rimedi farmacologici sempre più appropriati e lavorando in modo che il paziente modifichi il suo copione di convinzioni e di credenze fuorvianti, è possibile aiutarlo a cambiare le strategie del suo modo di ragionare e a migliorare la qualità della sua esistenza quotidiana.
Nella valutazione dei fatti e delle condizioni quotidiane della vita, vengono utilizzate a volte procedure non obbiettive.
Ecco alcune che falsano la visione imparziale:
La proiezione. Con essa il soggetto attribuisce agli altri sentimenti, propensioni che invece gli sono propri.
La razionalizzazione fa ritenere valida una opinione o una conclusione che non è frutto di un percorso obbiettivo ma di un desiderio, di una paura, di un sentimento. Con essa il soggetto dà per vero ciò che invece è solo desiderato come vero.
La identificazione è una modalità di pensiero con la quale si crede di avere capacità che invece si riscontrano negli altri.
Il narcisismo è una pulsione che fa aspirare alla super valutazione del proprio Io. Una persona narcisista non ammetterà imperfezioni nel proprio comportamento, nelle proprie scelte, nella propria persona,; il tutto a discapito della obiettività del suo modo di ragionare.
L’idealizzazione è una modalità mediante la quale una persona, un oggetto, un comportamento sono ritenuti senza difetti, indipendentemente che lo siano obbiettivamente.
Inoltre alcune considerazioni sulla vita non sempre sono obbiettive perché tabù, proibizioni, pregiudizi, preconcetti e luoghi comuni ne condizionano la veridicità.
Spesso il terapeuta scopre che il cliente ha “cancellato” buona parte delle opzioni che la vita riserva, ed è rimasto chiuso in un ambito molto limitato. In questi casi il modello di vita che il soggetto ha in mente è povero, senza sbocchi, senza scelte sufficienti. La strategia del terapeuta in questi case deve spingere il soggetto a capire meglio la realtà e a tendere a creare un più vasto orizzonte che arricchisca il suo modus vivendi . Per far questo il terapeuta spinge il paziente a cercare i motivi che lo hanno indotto a impoverire la sua visione del mondo, a cancellarli, arricchendo così la sua vita di altre opzioni. Il recupero di più vaste esperienze di vita serve a sbloccare comportamenti che si erano arenati in strettoie che rendevano la quotidianità del soggetto soffocante e dolorosa.
Poiché il paziente spesso si rifiuta di operare questo allargamento della visuale del mondo, sia perché è impaurito sia perché non riesce a vedere quali vantaggi può avere ampliando il suo orizzonte, il terapeuta deve influire con parole e ragionamenti appropriati a sboccare la paralisi psichica che condanna il cliente alla insoddisfazione di sé.
La terapia riesce quando porta nella mente del cliente un cambiamento del modello del mondo, una più realistica visione della realtà, un migliore apprezzamento di opzioni psichiche prima rifiutate dal soggetto. Per arrivare a questo il paziente deve rendersi conto che le sue scelte sono limitate e riduttive, il suo punto di vista è parziale, e che la sua vita può migliorare se egli si spinge in un terreno psicologico più modulare e con più scelte. Aiutare il cliente a comprendere che ha cancellato buona parte delle proprie possibilità, che si è autocastrato, che ha ridotto il proprio modello di vita ai minimi termini, significa rimettere in lui in moto la speranza che la propria vita, con i nuovi parametri, sarà più degna di essere vissuta.
Spesso il disagio psichico è prodotto da una serie di traumi che inducono il soggetto a generalizzare troppo gli eventi negativi, oppure la marcata generalizzazione serve a nascondere ben più profonde angosce.
Una donna afferma che alcune esperienze negative l’hanno indotta a farle ritenere che “tutti gli uomini” sono inaffidabili, e, di conseguenza, a rifiutare l’approccio con l’altro sesso. Questa dilatazione e generalizzazione di eventi negativi può essere anche un sintomo di una più profonda e nascosta paura: la persona che dice di ritenere tutti gli uomini inaffidabili, può nascondere (coperta da questa giustificazione più “accettabile”) un più profondo disagio, e rifiuta di mettere a fuoco, perché per lei più angoscioso, il vero problema del rigetto del maschio. Il compito del terapeuta è aprire la strada alla comprensione di questo secondo e più profondo disagio, al quale la donna sfugge per paura di rimanerne destabilizzata. Alla donna in questione fa più comodo, infatti, comportarsi in conseguenza delle proprie congetture e non affrontare il livello più profondo della comprensione di sé.
I sogni
Pare che sia la parte meno evoluta del cervello che ci fa fare i sogni più strani con creature bizzarre ed eventi improbabili. Come spiegare ciò che accade nel nostro cervello quando dormiamo? Un tema, questo, sul quale si sono concentrati gli scienziati del Centro ricerche di Neuropsicologla della Fondazione Santa Lucia di Roma, guidati da Fabrizio Doricchi, docente di Psicologia dell’università La Sapienza, e del Laboratorio europeo di neuroscienze dell’azione diretto da Alain Berthoz del College de France di Parigi. Fra i tanti misteri che ancora awolgono il processo onirico ci sono le incongruenze spazio-temporali, le bizzarrie e i movimenti degli occhi, definiti Rems (Rapid Eye Movements), che compaiono nelle fasi di sonno con i sogni più vividi.
Gli studiosi si chiedono da tempo se questi movimenti degli occhi nel sonno sono uguali a quelli effettuati durante la veglia e se corrispondono a ciò che vediamo nel sogno.
Le risposte arrivano proprio dallo studio italo-francese, che ha dimostrato l,esistenza di tipi diversi di Rems, la corrispondenza tra la direzione di questi movimenti e quella degli eventi visivi nel sogno e la coincidenza di alcuni tipi di Rems con i movimenti oculari della veglia. Non solo. Alcune stranezze dei sogni umani troverebbero una spiegazione nel fatto che durante il sonno si attivano in modo ordinato solo le parti più antiche del nostro cervello, ma non i settori che si sono evoluti più recentemente, quelli che nella veglia consentono alle nostre facoltà mentali un corretto orientamento nello spazio e nel tempo.
Per giungere a queste conclusioni i ricercatori hanno esaminato il caso di un paziente con una lesione cerebrale dell’emisfero destro che aveva perso la capacità di seguire con gli occhi gli stimoli che si muovevano lentamente da sinistra a destra, mantenendo intatta quella di seguire gli stimoli in direzione opposta.
Il disagio di vivere e il rimedio farmacologico
Non sempre esistono condizioni per un obbiettivo percorso mentale razionale. Certe evidenze, sono inquinate da motivi emozionali, e per ciò non sono sempre esaurienti. L’autodiagnosi di un disturbo nevrotico è soggetta ad interpretazione personale arbitraria e ritenuto magari una malattia corporale. Parenti e amici avvalorando l’ipotesi che il disturbo psicologico, che non è altro se non una modalità di fuga, sia invece un malanno fisico.
A influenzare in modo decisivo la medicalizzazione in qualche caso contribuisce anche il medico di base, il quale, per mancanza di tempo da dedicare al paziente, gli fornisce per sedare i disturbi psichici la terapia farmacologia la quale riduce ulteriormente la capacità del malato di ammettere che il suo malessere ha origini esistenziali e non fisiologiche. La medicalizzazione consente al malato di eludere la etiologia del disturbo e la terapia farmacologia può apparire sulle prime come una panacea.
L’azione del farmaco, controllando e regolando il tono dell’umore, frena l’ansia e consente di ridurre l’angoscia. Ma la temporanea attenuazione della sintomatologia impedisce un intervento profondo che metta in discussione la situazione esistenziale del soggetto.
L’assuefazione al prodotto farmacologico ne sollecita la prescrizione di un nuovo, si allontana sempre più la possibilità che il paziente rifletta sui suoi casi “senza la rete farmacologia” e vagli il suo cammino esistenziale.
Dopo avere eliminato le convinzioni e i tabù che hanno condizionato il mondo di pensare, e dopo avere cambiato in conseguenza stile di vita, il disagio esistenziale espresso in termini di mali fisici o di depressione e/o di angoscia si attenua in maniera consistente.
Se la prospettiva farmacologia impedisce che disagio e sofferenza psichica vengano presi in esame anche sotto l’aspetto esistenziale, la sofferenza psichica interpretata solo come malessere “corporale” ha difficoltà a cessare.
Infatti se l’intervento terapeutico rimane al solo livello farmacologico, le lacerazioni interiori che assillano non vengono prese in considerazioni e si radicalizza sempre più l’idea della organicità del malessere. Una spirale questa che non ha sbocco se non sopravviene una interpretazione sociologica dell’eziologia del malessere.
Il contatto con i problemi del paziente
Pur non essendo l’unico modo di trattare i disagi emotivi, la terapia psicologica è una strategia che rende possibile l’approccio col disagio esistenziale nella maniera più esauriente.
Con una serie di colloqui franchi e senza pregiudizi, che mettono a poco a poco il soggetto a suo agio e facilitano l’esposizione della sua sofferenza psicologica, egli stesso può, in un lasso di tempo ragionevole, mettere a fuoco le insoddisfazioni fondamentali e le difficoltà che sommergono la sua esistenza quotidiana.
Scopo dei colloqui e dell’interscambio di riflessioni tra il terapeuta e il paziente non è tanto quello di risolvere un problema particolare, quanto di aiutare chi è in crisi a “crescere” affinché possa risolvere non solo quel problema ma gli altri che si presenteranno nel suo cammino. Il dialogo terapeutico non deve convincere il paziente a fare o a pensare qualcosa: deve suggerire come pensare, non a cosa pensare. Con la psicoterapia si prende coscienza della radice dei propri dilemmi, si impara a capirsi e a compiere in maniera autonoma le scelte di vita.
Poiché il malessere psicologico è problema che non ha solamente radici nella personalità del singolo, ma anche nel complesso delle relazioni con l’ambiente, non è possibile isolare i disturbi psicologici e non prendere in esame il contesto in cui sono sorti. La psicoterapia studia dunque anche i processi che coinvolgono il singolo nelle relazioni interpersonali.
Valutazione e interpretazione del disagio psicologico
Non è semplice distinguere lo stato di normalità da quello di disturbo psichico, il disturbo lieve da quello in cui le anormalità producono angoscia nel malato. Sentimenti di dolore, paure, frustrazioni, ostilità e autorimproveri fanno parte del bagaglio quotidiano della persona “normale”. Spesso i punti di riferimento del malessere psichico si individuano in alcune manifestazioni infantili che si riscontrano nell’adulto. La insistente paura della perdita dell’oggetto d’amore o la rabbia dovuta alla frustrazione del sentimento di onnipotenza infantile mettono in evidenza un adulto debole e incapace di tollerare frustrazioni.
Una “diagnosi differenziale” tra disagio psichico e temporanea perturbazione emotiva si può stabilire con sufficiente adeguatezza. Se le crisi psicologiche che il soggetto incontra sono il risultato di una temporanea difficoltà, cambiate le condizioni di vita e di pensiero, il soggetto rientra nella normalità. Se questo passo è difficile o impossibile da attuare, ciò qualifica e quantifica la gravità delle perturbazioni emotive alla base dei disturbi del paziente.
A parte qualsiasi discorso sui fattori “predisponenti”, c’è una sostanziale difformità tra la paura che assale il soldato durante una azione di guerra e un improvviso attacco di panico che affligge un soggetto seduto comodamente al cinema. C’è differenza tra lo sgomento che assale chi si trova in un aereo in difficoltà di atterraggio e un individuo che viene colto dal terrore ogni qualvolta entra in ascensore. C’è evidente sproporzione tra la paura di chi si trova improvvisamente davanti a un leone e di chi è terrorizzato dalla presenza di un ragnetto o di uno scarafaggio nel muro della propria casa.
A volte il disagio psicologico si manifesta sotto mentite spoglie, e può essere equivocato.
Una meticolosità incessante, un’eccessiva cura del proprio corpo, l’attenzione smodata alla pulizia, l’apprensione sproporzionata, un tipo di bontà che rasenta la tendenza alla sottomissione, la leziosa accondiscendenza, una debordante socializzazione, l’esagerato controllo della parte sana della propria aggressività, la pudicizia strabocchevole, e l’essere benefattore sono considerate qualità sociali apprezzabili.
In realtà nascondono una illibertà comportamentale dovuta ad angosce e difficoltà emotive. La meticolosità può nascondere paura di decidere, controllo ossessivo, l’eccessiva cura del corpo sentimenti di “immoralità” e di peccaminosità, lo stesso dicasi per il bisogno eccessivo di pulizia e la pudicizia strabocchevole sono tipiche di chi “si sente sporco moralmente” ed ha paura della propria sessualità debordante, l’accondiscendenza eccessiva può nascondere un complesso d’inferiorità, dietro la bontà indiscriminata può esservi la paura degli altri o della propria aggressività, la socializzazione eccessiva può nascondere un bisogno di essere accettati esigenza che deriva da sentimenti di insufficienza e dalla paura della solitudine, l’esagerato controllo della aggressività il timore che, se non è carcerata l’aggressività, possa assumere un ruolo preminente e fare allontanare gli altri. Infine, persino il bisogno di fare della beneficenza può in casi estremi nascondere un bisogno, più o meno conscio, di essere perdonati.
In qualche altro caso all’inverso, la società frettolosamente etichetta negativamente comportamenti che dipendono da condizioni psicopatologiche catalogandoli e li stigmatizza con una valutazione etica piuttosto che psicologica.
Tra queste condotte negative sono annoverate la vocazione alla seduzione sessuale, il marcato narcisismo, l’aggressività, la sospettosità indiscriminata, l’egocentrismo ottuso e gretto, l’invidia meschina, tutti comportamenti adottati da chi è in crisi di autostima, e che ha bisogno di risposte consolatorie. Infatti, la seduzione esagerata e assillante nasconde un grave senso d’insicurezza: la persona che cerca di sedurre a tutto raggio cerca di testimoniare a sé stessa che, contrariamente alla propria insicurezza, ha buone capacità per attrarre. Ogni conquista è la prova che la propria immagine non passa sotto silenzio. Il narcisismo è specularmente il segno di una grave insicurezza: più una persona si sente impacciata e inconsistente e più pretende di essere considerata affascinante e splendida. L’egocentrismo è il sintomo più evidente di un infantilismo psicologico: l’adulto egocentrico si comporta ancora come un bambini viziato e nel suo orizzonte non ha altro che i propri problemi, mentre ignora quelli degli altri, anche se pretende che tutti lo accudiscano. L’aggressività dissennata sottolinea un disagio e una incapacità del soggetto di sopportare qualche disagio in vista di un traguardo più importante. Infondo anche in questo caso si tratta di una copia delle reazioni tipiche che si riscontrano nel bambino infuriato che non riesce a contenere un minimo di disagio. L’invidia è anche il campanello d’allarme di un animo che sta franando, che non ha alcuna fiducia in sé e che riesce a riequilibrare la propria disistima credendosi “furbo” per paura di non esserlo.
I comportamenti del primo tipo come quelli del secondo tipo fronteggiano pertanto gravi forme di autodisistima e sono messi in atto per scuotere gli altri e far convergere il loro interesse su chi è affetto da disistima.
In passato, chiunque riteneva essere idoneo a individuare gli stati psichici alterati. Ciò ha creato un tipo di diagnosi “fai da te”. Questo modo di procedere ha lontane radici: un tempo la diagnosi di alterazione psicologica era messa a punto in primo luogo dai parroci i quali, raccogliendo durante la confessione apprensioni, desideri, intenzioni e ossessioni dei parrocchiani, giudicavano quali di essi fossero affetti da stati morbosi tanto da proporre l’internamento in un istituto per malattie mentali di chi manifestava idee “patologiche”.
Erano oggetto di valutazione negativa le paure dovute a specifiche tipologie di animali, gli eccessivi scrupoli connessi alle pratiche di culto e i discorsi e le argomentazioni ritenuti contrari all’ortodossia religiosa, il racconto di possessioni, la narrazione di libertinaggi e di particolari fregole sessuali, di pensieri scandalosi per la morale corrente, condannavano chi svelava tali tormenti in confessione ad essere etichettato “insano di mente” e gli aprivano la strada al suo ricovero in manicomio. Ogni particolare società valuta alcuni modi di fare apprezzabili e altri “irregolari”. Per tal motivo vengono considerati aberranti in un contesto sociale modi di fare e di pensare che non sono conformi al segmento “di normalità” apprezzato in quel determinato ambiente. È il comportamento del gruppo che costituisce la norma.
Oltre ai parroci, in passato, la diagnosi di “alienazione” proveniva dai giudizi delle padrone di casa, che le formulavano per le loro domestiche, dai datori di lavoro che le sollecitavano nei confronti di chi era impiegato nella loro azienda. Tutta gente che richiedeva per i sottoposti, da loro considerati “alienati”, misure restrittive le quali in pratica si concretizzavano nell’internamento delle persone che avevano giudicate psicologicamente alterate.
In passato, si pensava che i disagi psichici potessero essere attuati mediante il soffocamento delle idee ansiogene del paziente, mediante il dominio che era in grado di esercitare sul malato il medico o il curato. Lasciando intatte le ideologie che avevano provocato il disturbo, essi si adoperavano, col loro carisma, a cercare di fare cessare la catena delle idee patogene mediante “l’autorevolezza” della loro personalità.
Il nuovo modello di cura dei disturbi del comportamento e dell’umore è incentrato sull’interpretazione e l’etiologia dei sintomi, sugli effetti che le relazioni interpersonali hanno avuto su di essi, sulla segnalazione della presenza di tratti patogeni nella società di cui il paziente ne ha assorbito la tossicità, sulla chiarificazione del potere di manipolazione della psiche da parte di coloro che educano e via discorrendo, ed ha messo in discussione l’opportunità di procedere, come accadeva prima, con una terapia che si muova a colpi di scure.
I principi su cui si fonda la terapia della parola.
La cura farmacologia dipende dal tipo di sostanze ingerite ed è indifferente chi la prescrive e chi la vende; nella cura psicologica la psicoterapia si basa su una particolare maniera di dialogare. Con essa una persona, il terapeuta, cerca di chiarire i motivi del malessere esistenziale e trasformare impressioni, idee, e la maniera di vivere di un’altra persona, il paziente, affinché non soffra più i disturbi psicologici che di cui è afflitto.
Si tratta di una interrelazione alquanto dissimile dai comuni approcci: le persone parlando e si influenzano le une con le altre; nel caso della psicoterapia l’influsso psicologico che va dal paziente al terapista è poco percettibile; è più evidente quello che va dal terapeuta al paziente.
Questo genere di “cura” si basa sul tentativo di mutare i punti di vista e di alterare, mediante adeguati ragionamenti, che creano un profondo insight che fa luce sui meccanismi della psiche del soggetto, quella parte della sua condotta che gli crea angoscia e depressione.
Le psicoterapie pur mostrando alcune diversità, hanno una unica matrice: creare una maggiore consapevolezza e un miglior realismo nel pensiero del soggetto, sviluppare una mentalità diversa da quella che lo ha portato alla stasi psicologica, dare risposte adeguate alle sue angosce, indurre il paziente a cambiare il tenore della propria esperienza, cancellando quei modelli di vita che gli hanno creato delle paralisi nella quotidianità. Vivere modelli che, ragionevolmente, hanno il minor numero possibile di vincoli, di strettoie e di preclusioni, per avere un sereno quotidiano.
Se il paziente riesce a recuperare quelle parti della propria esistenza che erano state cancellate e che lo privavano di alcune gioie della vita, se riesce a capire la contraddittorietà tra gli asfittici modelli di vita che aveva realizzato e quelli che, invece, più verosimilmente avrebbe potuto accreditare per migliorare la propria esistenza, egli potrà rendersi conto che i propri sintomi dipendono proprio dall’impoverimento della sua esperienza e dalla cancellazione di buona parte delle opzioni utili per una vita più serena. Comprendere in che modo ha organizzato la propria mentalità e come questa mentalità lo ha portato a subire tracolli e a utilizzare al peggio la propria vita, è la via maestra per la guarigione del paziente. Quando il paziente capisce che ha escluso un intero mondo di esperienze, ricavandone una riduzione della propria vita psicologica che lo ha portato alla sofferenza, è il primo passo per la sua guarigione. Capire che il modo come ci disponiamo verso la vita e le esperienze ci può far soffrire o imprimere una crescente stimolazione vitale è un altro passo vanti verso la guarigione.
Una mentalità completamente nuova, con modelli realistici e più ampliati, da la possibilità al paziente di disporre di scelte e di comportamenti che meglio sfruttano la sua esistenza.
Poiché difficilmente il terapeuta potrà cambiare il mondo come vorrebbe il cliente, è il cliente che deve cambiare la propria visione del mondo per crearsi modelli di vita meno incongruenti di quelli che lo avevano portato alla disperazione e più utili a migliorare la propria esistenza e impiegare meglio le proprie energie.
Chi ha un modello incongruo del mondo prima o poi verrà in conflitto con la gente e con se stesso, e avrà una vita disagevole e priva di luce.
Spesso questa incongruenza dipende da bislacchi schemi di vita appresi nell’infanzia, e che sono stati indicati – purtroppo- come “gli unici” per affrontare la vita, mentre invece si sono rivelati ( e non poteva essere che così) solo fonti di disagio e di incapacità a comprendere la vita.
Uno dei modi più comuni per non venire in conflitto con la famiglia è assecondare e seguire i modelli familiari, anche se errati; ciò se è utile nell’ambito ristretto della nucleo familiare, a volte però fa entrare in conflittualità col mondo. Mantenere la struttura dei modelli familiari anche quando sono fonte di angosce è tipico di chi, sentendosi psicologicamente debole, non riesce a vedere oltre un certo orizzonte, e non ha il coraggio del rischio di cambiare la propria mentalità
Compito del terapeuta è di riconoscere e di svelare al cliente quali sono le incongruenze nella mentalità della famiglia del paziente che lo hanno portato a impoverire le proprie risorse psichiche gettandolo nella paralisi psichica e nell’angoscia. Ovviamente occorre che questa demistificazione degli insoddisfacenti schemi di pensiero familiare sia fatta con il dovuto tatto per non far crollare di colpo certezze e affetti che potrebbe essere ancora più nocivo del rimanere legati ai modelli familiari. Sarà utile che sia lo stesso soggetto a scoprire incongruenze e mistificazioni nello schema familiare, il che rende più agevole e più solido l’acquisizione di nuovi modelli, più confacenti alla realtà.
Tutto questo può avvenire mediante la terapia della parola.
Questa forma di presa di persa di coscienza ha origini remote. Ebbe inizio con Socrate, il quale invitava la gente a conoscere se stessi.
Il sofista Antifone intuì che da decifrazione dei sogni potesse chiarire molte delle preoccupazioni che affollano l’animo umano.
Platone, sosteneva che la catarsi dell’anima si ha con la parola; non con una conversazione di qualsiasi tono: ma con parole efficaci, appropriate ed edificanti. Da questo punto di vista, una responsabilità incombe sugli psicoterapeuti, i quali devono trovare il ragionamento più efficace e le parole più giuste ed esprimerle al momento opportuno.
Delicata è anche la strategia del terapeuta, il quale non deve confondere l’intervento persuasivo con quello suggestivo.
Appare chiaro che il legame tra medico e paziente non è un semplice parlare, ma qualcosa di più profondo. Il paziente racconta i suoi sintomi, la sua malattia, ciò che gli accade e gli è accaduto nella vita, e l’altro ne individua le “malformazioni” dovute a idee, comportamenti, emozioni del suo interlocutore. Vengono a galla tutta una serie di “pressioni” più o meno involontarie, che spingono a comportamenti e a emozioni deleterie.
Per “guarire” da tali malformazioni non è sufficiente individuare la causa dei disturbi emotivi, bisogna cancellare nei meccanismi della psiche le “pressioni” che determinano nel soggetto una vita infelice.
Individuando certe forme di condotta personale, certe idee, certi impulsi identificati come cause dei disturbi che assillano il malato si ha il primo passo verso una maggiore consapevolezza. Una volta raggiunto questo stadio i malesseri psichici si attenuano o scompaiono. In ogni caso, possono essere gestiti senza disperazione.
È difficile giudicare e classificare se la psicoterapia sia un’arte medica o un dialogo.
Tuttavia, qualunque sia la catalogazione, questo contatto verbale ha anche delle implicazioni somatiche. Infatti, se il trattamento psicoterapeutico è riuscito, assieme alla mente, anche il corpo riceve una messa a punto e i malesseri fisici derivanti dall’emotività cessano o si attenuano con ragionamenti appropriato. Il malato psicosomatico, che soffriva di fenomeni nervosi che si manifestavano anche come malesseri fisici, vedrà attenuarsi o scomparire senza aver fatto uso di farmaci anche le sofferenze fisiche.
Le strategie del paziente e gli interventi del terapeuta
Pur andando contro ai propri interessi, a volte il paziente cerca di sviare le tracce che possono condurre il terapeuta a comprendere l’etiologia dei disturbi di cui egli è afflitto. Questo perché nel cliente assieme al bisogno di guarire vi sono tendenze più o meno coscienti a mascherare, per vergogna, per autolesionismo, per narcisismo i cadaveri nascosti nel proprio armadiopsichico.
A volte non solo il mutismo, ma persino l’eccessiva loquacità, sono una strategia per non dire nulla che possa essere interessante per comprendere la vera etiologia dei malesseri. Il paziente occulta, con una serie di ingannevoli argomentazioni, i motivi del proprio disagio psicologico, per evitare che vengano decifrati i temi più angosciosi della sua vita, è prassi consueta. Vanificare questa strategia è compito del terapeuta.
In qualche caso il paziente dichiarata di “capire”le spiegazioni e interpretazioni date dal terapeuta, mostra di volere entrare nel merito, di essere attento alle decifrazioni che dei suoi comportamenti fa il suo interlocutore, ma anche in questo caso, la docilità con la quale accetta tutto ciò che gli viene spiegato non è che una strategia per non cambiare lo status quo.
Infatti messo di fronte all’accettazione dei motivi più profondi delle proprie angosce e dei propri comportamenti, il paziente cerca di svicolare: troppo crudeli e orribili a volte gli appaiono le cause del suo dissesto emotivo. A quel punto gli viene più “comodo” restare com’era che imbarcarsi in una presa di coscienza che – egli intuisce – sovvertirà tutta la sua vita. È questo un depistaggio che il paziente articola mediante varie strategie tra cui quelle di mostrandosi arrendevole e persino seduttivo nei confronti del terapeuta.
Gli atteggiamenti del terapeuta dovrebbero essere sempre improntati a una chiare neutralità per evitare qualsiasi commistione tra la propria personalità e quella del paziente. Poiché i disturbi del paziente dipendono da angosce causate da una errata visione della vita, la cura deve consistere nel cancellare tali distorsioni, ma bisogna evitare di fare ancore altre scelte “per il paziente” e dunque l’intervento non bisogna suggerire cosa pensare, ma come pensare.
La scuola guida insegna a saper guidare, ma non indica di certo quali strade scegliere per andare in un posto! È ovvio che se una persona ha imparato a guidare bene, sceglierà le strade migliori.
In qualche caso il terapeuta può anche cedere alle preoccupazione umanitaria di aiutare il più possibile il cliente; ma facendosi prendere la mano e diventando troppo assistenzialista finisce col farsi manipolare del paziente. In altri casi il terapeuta arriva a perdere la neutralità e finisce col suggestionare il paziente il quale cede alla prevaricazione sottile che gli impone di uniformasi a idee e comportamenti che non gli sono congeniali, ma che egli accetta perché dettati dall’autorità. A volte, ed è il caso più grave, il terapeuta con un sovraccarico di narcisismo cerca di imporre al cliente soluzioni che egli vede come ottimali, ma che non tengono conto delle necessità e dei barriere psichiche del malato.
A volte un sia pur impercettibile desiderio d’onnipotenza fa capolino nel comportamento del terapeuta, il quale mostrando la propria competenza con sussiego finisce con l’influenzare il paziente che diventa una parodia dell’altro.
Capire le situazioni problematiche, e far regredire il disturbo
Sono due operazioni del tutto distinte: l’una, molto più lineare, è legge in maniera dettagliata gli input culturali che convergono sul paziente e che gli condizionano la vita, lo rendono ansioso e angustiato. Ma una cosa è stabilire i perché dei comportamenti e del modo di pensare del paziente e un’altra è far prendere coscienza al paziente che se vuol vivere meglio deve mutare costumi, abitudini, fisime, modalità di vita.
Paura di cambiare
Siamo affezionati alle nostre convinzioni ed evitiamo ogni ragionevole innovazione. Credenze e pregiudizi sono duri ad essere eliminati, e ogni pur minimo cambiamento nella nostra prospettiva mentale, sociale e culturale può sollecitare una reazione d’ansia. Ciò impedisce persino l’accettazione di novità che migliorano il tenore della nostra “vita mentale” e della nostra quotidianità.
Una delle conquiste della personalità matura è la capacità capire che in qualche caso valutiamo avvenimenti e persone tramite i pregiudizi e i luoghi comuni che fanno da filtro alla nostra comprensione del mondo esterno con un canovaccio culturale, che è come una corazza fatta di particolari manie, di piccoli rituali, di ingiustificate prevenzioni, che impediscono buone relazioni con se stessi e sereni rapporti sociali.
Le riluttanze al cambiamento sono tanto più salde quando più il l’Io è insicuro e fragile. E avverte i “cambiamenti” come pericoli che mettono in gioco l’instabile equilibrio psicologico.
In tali casi, accettare nuove idee e nuovi punti di vista, è avvertito come un pericolo che minaccia tutta la struttura dell’Io.
Si teme, infatti, che l’impalcatura, che faticosamente è puntellata, si possa sfaldare e far precipitare l’autostima a livelli molto bassi.
Tale vulnerabilità si manifesta maggiormente nell’individuo che collega la propria autostima esclusivamente a consensi di carattere affettivo e a giudizi di valore che riscuotono il beneplacito sociale. Chi è insicuro teme che cambiando atteggiamenti e convinzioni vengano meno i consensi delle persone che foraggiano la sua autostima e ciò metterebbe in gioco la sua stabilità psicoemotiva.
Durante la cura psicoterapeutica le maggiori difficoltà che si oppongono alla guarigione del soggetto si devono proprio alla difficoltà di cambiare il proprio registro mentale e le convinzioni che si radicarono in tempi lontani.
Pur tuttavia, sebbene molte delle insicurezze e delle angosce dipendano da quel particolare registro mentale, non è insolito che s’incontrino difficoltà di vario genere (tecnicamente chiamate “resistenze”) nell’introdurre elementi di cambiamento, sentiti come un “pericolo maggiore” della stessa situazione d’angoscia in cui il soggetto si dibatte da anni.
Solo dopo un lungo periodo di riflessioni, di riscontri e di confortanti rassicurazioni, che indeboliscono le credenze fuorvianti, e migliorano le strategie del ragionamento, è possibile modificare il copione delle nostre convinzioni e con esso la qualità della nostra esistenza quotidiana.
Cambiare prospettiva mentale per adeguarla il più possibile alla realtà, evitando facili illusioni, significa assumere il rischio di delusioni e sopportale con ragionevolezza.
Ma per far ciò la personalità deve essere diventata parecchio robusta.
Sindromi psichiatriche e arte
Agli inizi del Novecento fece discutere il caso della “pittrice” Aloysia, donna di discreta cultura (la cui condizione mentale andò deteriorando fino a far diagnosticare per lei una demenza precoce), che visse quaranta anni in manicomio, ove realizzò opere che sono state esposte nei più importanti musei del mondo. Alais Resnais guarì dalla propria malinconia con una serie di sedute analitiche ma, soprattutto, girando il film L’anno scorso a Mariembad. Ingmar Bergman confessò[18]: «Ero depresso, mi trovavo in una situazione difficile, lontano dal mio paese, e girando Un mondo di marionette ho trovato un modo, una forma molto precisa per trasformare la mia sofferenza in qualcos’altro». E anche Federico Fellini raccontò che, allorquando sentiva venire meno l’entusiasmo creativo, e gli si presentava l’uggia della vita, si sottoponeva a sedute analitiche. Quel genere di “medicina dell’anima” gli giovava a chiarire le proprie angosce, ma più d’ogni cosa, affermava il regista, gli ridava l’ardore creativo che lo stimolava a produrre nuovi film. Dalle opere di Edvard Munch e di Paul Klee, si possono rilevare la tensione psichica, i motivi ossessivi e l’angoscia che sono presenti nella loro vita. Henri Laborit, illustre scienziato e scrittore, è del parere che la “fuga nell’immaginazione” sia il modo migliore per allontanare l’angoscia. Secondo Laborit l’evasione più efficiente è la creatività. Coloro che meglio degli altri riescono a fronteggiare l’angoscia sono gli artisti e i grandi geni i quali, tuffandosi in un mondo tutto loro, posso essere indipendenti dalle convenzioni e liberarsi dalle afflizioni. Ma anche i fruitori della creazione artistica, detto per inciso, ricevono dei vantaggi terapeutici immergendosi nella contemplazione dell’opera d’arte
La Sindrome di Stendhal La psichiatra Graziella Magherini descrive in termini scientifici la sofferenza mentale che coglie i turisti in visita alle città d’arte, definendola con un’espressione entrata nel linguaggio comune “sindrome di Stendhal”. Stendhal, nel resoconto del suo viaggio a Firenze, racconta che durante la visita a Santa Croce fu costretto a uscire dalla basilica per riprendersi da un violento malessere. La vista dei capolavori, l’estasi della bellezza, il senso dello scorrere del tempo evocato dalle pietre secolari: emozioni che lo avevano sopraffatto. Proprio a Firenze la Magherini ha assistito centinaia di turisti stranieri ricoverati d’urgenza, spesso in preda a un acuto scompenso psichico.
“Sindrome di Stendhal” è una locuzione divenuta parte del lessico comune per indicare genericamente una sensazione di malessere diffuso avvertita al cospetto di un’opera d’arte. Tale espressione deriva dalla definizione coniata – e poi utilizzata come titolo di un volume sull’argomento (“La Sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell’arte”, Ponte alle Grazie editore) – dalla psicoanalista Graziella Magherini, molto conosciuta anche per i suoi interessi interdisciplinari tra psichiatria, psicoanalisi e scienze umane, che l’hanno fra l’altro condotta ad essere tra i fondatori del gruppo di studio “Arte e psicologia”, formato da eminenti psicologi, psichiatri, psicoanalisti, storici dell’arte e filosofi. Il gruppo è nato allo scopo di offrire una lettura multidisciplinare dell’opera d’arte, integrando le interpretazioni filologiche e storico-sociali con approfondimenti psicologici e psicoanalitici. Attualmente Graziella Magherini ne è la presidente.
In questo volume lei ha descritto per la prima volta in termini scientifici quella sofferenza mentale che a volte coglie i turisti nelle città d’arte. Vuole darci una definizione precisa di quello che si intende per “Sindrome di Stendhal”?
Con “Sindrome di Stendhal” si fa riferimento a una serie di esperienze critiche, di episodi di scompenso psichico acuti, improvvisi e di breve durata, tutti di carattere benigno, ovvero privi di conseguenze (e questo è importante sottolinearlo), e tutti correlati con l’elemento del viaggio in luoghi d’arte.
La definizione di questa sindrome è stata messa a punto per la prima volta dal nostro gruppo fiorentino tra gli anni Ottanta e Novanta, nonostante che di questo fenomeno in molti avessero già parlato senza però rendersene conto. All’epoca svolgevo l’attività di psichiatra responsabile del Servizio per la salute mentale dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova di Firenze, e fui molto colpita, insieme ad altri miei colleghi, dal fenomeno ripetuto di arrivi d’urgenza di persone colpite da disturbi psichici improvvisi. Lo studio di questi casi ci portò ad osservare che vi erano alcuni elementi ricorrenti: erano tutte persone in viaggio, tutte straniere e tutte partite da casa in uno stato di benessere o di compenso psichico. Il fenomeno ci pareva assolutamente degno di approfondimento, così vi abbiamo dedicato uno studio decennale, operando anche un’indagine su un campione di controllo.
Il riferimento a Stendhal non è ovviamente casuale.
Evidentemente no; infatti abbiamo scelto il suo nome facendo riferimento alle emozioni descritte in “Rome, Naples and Florence” del 1817, dove lo scrittore francese riferisce che durante una visita nella basilica di Santa Croce fu colto da una crisi che lo costrinse ad uscire all’aperto per risollevarsi da una vertiginosa reazione psichica. L’importanza dell’episodio è dovuta al fatto che il racconto di quelle emozioni assume un valore simbolico, estensibile a molteplici situazioni analoghe in contesti e tempi diversi, in cui però l’elemento costante è la presenza del soggetto in un luogo d’arte.
Il viaggio d’arte può essere considerato un viaggio dell’anima, capace di risvegliare una trama di emozioni e sentimenti che evidentemente però non tutti sono ugualmente in grado di gestire. Si usa in effetti la definizione di “turismo dell’anima” per indicare quel tipo di viaggio spesso compiuto in solitudine (dalle statistiche risulta che l’87% delle persone che hanno accusato i sintomi della sindrome erano viaggiatori individuali), in luoghi particolarmente carichi di arte e di storia, dove l’individuo si trova ad affrontare una prova importante per la propria identità. La tendenza a viaggiare, infatti, rappresenta un bisogno primitivo dell’uomo: durante il viaggio, però, l’identità è sottoposta ad un’oscillazione tra perdita e ricostruzione, il cui superamento può rappresentare una fonte di arricchimento, ma che spesso comporta il costo di una momentanea disorganizzazione del proprio campo mentale. In circa vent’anni di studi possiamo affermare che i casi di psicopatologia ci hanno, come spesso accade in psicanalisi, condotti a focalizzare tutta la serie di vicende emozionali che anche in condizioni di normalità caratterizzano gli individui che affrontano l’esperienza del viaggio d’arte.
Vogliamo ora indicare quali sono i sintomi più comuni?
La Sindrome di Stendhal si manifesta con tre differenti tipologie di disturbo. La prima è quella identificabile con crisi di panico e ansia somatizzata, dove i soggetti accusano improvvisamente palpitazioni, difficoltà respiratorie, malessere al torace, la sensazione di essere sul punto di svenire e conseguentemente lo sviluppo di un vago senso di irrealtà. Tali condizioni portano ad avvertire un improvviso bisogno “di casa”, di tornare nella propria terra, di parlare la propria lingua. Le altre due tipologie sono invece più serie. Una riguarda prevalentemente i disturbi dell’affettività, e si manifesta con stati di depressione – crisi di pianto, immotivati sensi di colpa, senso di angoscia …- o all’opposto con stati di sovraeccitazione – euforia, esaltazione, assenza di autocritica… -; l’altra riguarda i disturbi del pensiero, con alterata percezione di suoni e colori e senso persecutorio dell’ambiente circostante: a differenza della altre due tipologie, questa si manifesta frequentemente in persone con precedenti di scompenso psicologico, che, tuttavia, si trovavano prima della partenza in uno stato di benessere.
Queste tre tipologie sintomatiche sono comunque riconducibili a quella crisi d’identità a cui faceva riferimento prima?
Proprio così. In ogni caso sono in gioco vicende interiori complesse e conflittuali, legate alle singole biografie, alle storie infantili, alle angosce e ai meccanismi di difesa che si manifestano nelle singole circostanze. Ma in sintesi possiamo affermare che alla base di tale crisi d’identità vi è sempre la congiunzione di tre elementi: la storia personale del soggetto, e dunque la struttura della sua personalità, l’elemento del viaggio e l’immersione in un ambiente carico di arte e di storia.
Vi sono artisti o opere d’arte che più generano tale tipo di reazioni?
Non esistono opere o autori particolari che suscitino le reazioni descritte. Questo è un concetto molto importante: non sono le opere in sé, ma piuttosto alcune peculiarità proprie del singolo oggetto estetico che in particolari circostanze scatenano nel fruitore, a seconda anche della sua storia personale, una sostanziale difficoltà di contenimento delle emozioni e dunque una condizione di disagio. Dal punto di vista psicoanalitico, nell’istante dell’incontro tra il fruitore e il creatore, mediato dall’opera d’arte, si verifica in un primo momento il fenomeno dell’incantamento verso la bellezza formale, che richiama il primo incantamento dell’esperienza umana, e cioè quello verso la figura materna; quasi simultaneamente la forza espressiva delle grandi opere d’arte può risvegliare i contenuti più profondi dell’inconscio, rompendo alcune difese caratteriali e facendo emergere aspetti familiari, ma rimossi, e dunque dimenticati, della propria storia interiore. Non si può dire che esista una specifica opera particolarmente pregante per la mente del fruitore, se non in determinate condizioni, sebbene sia intuitivo che le opere più drammatiche, come ad esempio alcuni Nudi di Michelangelo o i giovani efebici rappresentati da Caravaggio, così ambigui e allusivi, possano essere particolarmente forti in questo senso.
Nel libro riportiamo il caso di un giovane turista americano che fu particolarmente colpito dal “Narciso” del Merisi, nel cui ginocchio riconosceva un simbolo fallico; oppure il caso di un maturo signore bavarese, a cui il confronto con il Bacco adolescente ripropose violentemente il conflitto interiore derivante da una non risolta valenza omosessuale. Ma altrettanto significativo è il caso di una ragazza colpita nel profondo dall’incontro con la bellezza passionale delle fanciulle dipinte da Botticelli. E ancora posso citare il caso recentissimo, che risale al luglio scorso, di una ragazza che ha subito in modo traumatico la vista della “Trinità” di Masaccio a Santa Maria Novella.
Tutti i casi studiati sono correlati all’elemento viaggio. Bisogna quindi escludere a priori che una persona possa soffrire di Sindrome di Stendhal al cospetto di un’opera d’arte ammirata nel proprio contenitore ambientale, per esempio durante una mostra nella propria città?
Non lo si può escludere, anche se, solitamente, trovandosi nel proprio habitat risulta molto più semplice contenere le situazioni anche di forte disagio emotivo.
Si possono provare grandi emozioni, quando si è nel deserto o di fronte alla vastità della natura. Qui però si entra nel merito di un altro discorso, che è quello che riguarda la percezione di trovarsi al di là dell’esperienza comune.
Se l’arte può creare almeno temporanee alterazioni mentali, come nel caso della sindrome di Stendhal, a volte, invece , la follia può essere una “guida” per la produzione artistica. La Neuroestetica, nuova area di ricerca sul cervello umano. Uno sguardo all’ arte tra lesioni cerebrali e creatività. L’arte ha origine nelle funzioni e nella struttura del cervello umano. Gli artisti possono aiutare tanto a comprendere il cervello che è dentro di noi quanto il mondo che è intorno a noi. Parallelamente, gli effetti cimici di lesioni del sistema nervoso ed i dati ottenuti con tecniche avanzate tra cui la Risonanza Magnetica Funzionale e la Tomografia ad Emissione di Positroni, possono aiutare a chiarire molti quesiti ancora irrisolti sulla natura dell’arte. Recentemente una nuova area di ricerca si è sviluppata nell’ambito delle Neuroscienze: la “Neuroestetica”. Da decenni, presso le sedi di Londra (University College) e di Berkeley, lo “Institute of Neuroesthetics” studia le basi biologiche dell’estetica ed i processi di coscienza e di creatività espressi da meccanismi cerebral (integrazione dei processi visivi, elaborazione del giudizio di bellezza, legato al ruolo di una specifica area cerebrale localizzata nella corteccia orbito-frontale mediale.Alterazioni dell’espressione artistica sono di particolare interesse in Neurologia. Lesioni di regioni cerebrali specializzate nell’elaborazione di suoni possono indurre incapacità selettiva nel percepire ed apprezzare la musica (“amusia”), senza altre disfunzioni concomitanti. L’amusia può riscontrarsi, frequentemente con familiarità, anche un ristretto numero di persone peraltro normali. In diverse forma di Demenza, l’espressione artistica si altera con modalità drammaticamente differenti. Nella malattia di Alzheimer si assiste ad una perdita progressiva dei contenuti espressivi e percettivi, con alterazioni del senso cromatico, alterazioni dell’organizzazione spaziale delle figure, semplificazione dell’immagine a contenuti elementari. L’espressionista Willem de Kooning, affetto da Demenza di Alzheimer, è un esempio di questa trasformazione.Nel diverso tipo di Demenza denominata Frontotemporale in base alla sede frontale e temporale del danno cerebrale, se la patologia prevale nell’emisfero sinistro si ha un’esplosione di raffinata creatività figurativa e musicale; ad esempio, durante tale malattia Ravel ha composto il “Bolero” ed il “Concerto per mano sinistra”. Analogo meccanismo di liberazione èsupposto nell’Autismo infantile, nel corso del quale il 200/o dei bambini, pur non comunicando con l’ambiente, è in grado di produrre disegni di straordinario realismo.L’educazione musicale in età infantile e l’arricchimento delle esperienze, anche visive, attivano meccanismi di plasticità del sistema nervoso attraverso i quali nuove connessioni vengono costruite tra neuroni e tra aree cerebrali.
Paolo Livrea: Scienze Neurologiche-Psichiatriche Univ. Bari
Le varie sindromi
La sindrome del ristorante cinese è un disturbo di tipo farmacologico e si manifesta con una sensazione di bruciore diffusa a tutto il corpo, senso di pressione facciale, cefalea, stato d’ansia, formicolio alla parte superiore del corpo, dolore in regione toracica, alterazioni della sensibilità e dolori del capo e del collo, senso di bruciore alla nuca, nausea, sudorazione e difficoltà respiratoria (broncocostrizione negli asmatici). La sindrome ha questo nome perché si manifesta talvolta dopo aver mangiato cibi cinesi, e da alcuni questo è attribuito alla assunzione di glutammato monosodico, un esaltatore del gusto, tradizionalmente usato in modo massiccio nella cucina cinese. La sua assunzione produce una sindrome direttamente legata alla dose assorbita e la sintomatologia varia considerevolmente da un individuo all’altro. Tuttavia, un test clinico in doppio cieco (esperimento nel quale né lo sperimentatore né il soggetto sanno quale prodotto è stato somministrato al soggetto) effettuato su persone che dichiaravano di soffrire della “sindrome” non confermò che il glutammato monosodico fosse l’agente responsabile . Altri studi hanno dimostrato che le reazioni di tipo allergico che insorgono dopo aver consumato pasti di provenienza asiatica sono solitamente attribuibili ad ingredienti come i gamberetti, le arachidi, le spezie e le erbe aromatiche.
Sindrome di Gerusalemme è simile a quella di Stendhal ma si rapporta all’ambito religioso. Consiste nella la manifestazione improvvisa da parte del visitatore della città di Gerusalemme, di appassionati sentimenti religiosi, e l’impulso a proferire espressioni visionarie.
Sindrome da sovraccarico cognitivo, meglio conosciuto come Information overload(ing), è la sindrome per cui si hanno troppe informazioni per riuscire a prendere una decisione o a rimanere informati su un argomento. Anche se tale patologia è stata riscontrata più volte nel passato, sicuramente lo sviluppo di Internet ha contribuito non poco alla sua diffusione e riconoscibilità, tanto che è stata definita da qualcuno come Inquinamento da Internet. La grande quantità di notizie inutili e scadenti che circolano in rete può infatti inibire la capacità di scremarle, specialmente nel caso connesso della Internet dipendenza presentato dalle persone che passano sempre più tempo in rete alla ricerca di informazioni, facendo web surfing, cioè passando in continuazione da un sito web all’altro senza riuscire a fermarsi. Inizialmente questo “viaggio” appare eccitante e piacevole ma pian piano il soggetto si trova intrappolato in un meccanismo in cui non c’è più soddisfazione nella ricerca di ciò che interessa, le informazioni non bastano e trovarne altre è percepito come un dovere, un obbligo a cui è difficile sfuggire. I segni clinici che si tengono in considerazione per la diagnosi sono: necessità di trascorrere molto tempo in rete per reperire notizie, aggiornamenti, o qualsiasi altra informazione; tentativi ripetuti senza successo di controllare, ridurre o interrompere l’attività di ricerca; perdurare di tale attività, nonostante questa provochi o accentui i problemi sociali, familiari ed economici. Occorre distinguere l’incapacità di prendere una decisione per sovraccarico cognitivo da quella legata al Paradosso di Buridano: in quest’ultimo caso, infatti, la sindrome non dipende dalla troppa scelta ma dall’incapacità di fare una valutazione. (M. Marcucci e M. Boscaro, Manuale di Psicologia delle Dipendenze Patologiche, L’Asterisco, Urbino 2004)
Da quando molte delle nuove malattie scoperte sono caratterizzate da questi comportamenti ripetitivi o preoccupazioni, gli aneddoti sostituiscono i dati. Il Prozac “sembra dare sicurezza sociale ai timidi abituali, trasformare i sensibili in esuberanti, conferire agli introversi le abilità sociali del piazzista.” www
La spiegazione più comunemente invocata per spiegare molte forme di comportamento irregolare concerne carenze della serotonina, uno dei naturali componenti chimici del cervello che trasmette il segnale tra le cellule nervose. In “The Broken Mirror,” la Phillips correla il dismorfismo corporeo ad “una anormalità del sistema neurotrasmettitore serotoninico .” Altri psichiatri hanno attribuito i disordini alimentari e di ginnastica, sindromi ombra e anche il PMDD a bassi livelli di serotonina. Qali sono le loro prove? I pazienti si sentono meglio una volta che i loro livelli di serotonina vengono alzati con la somministrazione di medicine chiamate SSRI, di cui il Prozac è il più comunemente prescritto. Poichè i pazienti con BDD sembrano rispondere a questi farmaci, la Phillips insiste che “La chimica cerebrale disturbata gioca un ruolo importante” in questa malattia.
In un articolo del New England Journal of Medicine intitolato “Running: An Analog of Anorexia?” Alayne Yates scrive che la ginnastica di routine può essere sintomatica di malattia. Una ginnastica troppo regolarei −o, in termini psichiatrici, compulsiva– indica un “disordine di attività,” scrive Yates. Il problema non è il momento del comportamento(come nel PMDD) o il suo contesto (come nella bulimia nervosa), ma il suo scopo. Nella visone di Yates, l’eccessivo correre per perdere peso o controllarlo diventa patologico. Il comportamento può ben essere incluso nella prossima edizione del DSM: la psichiatria è chiaramente preoccupata dalle piste [podistiche], dai centri di fitness e dalle palestere.
Il dissolvimento della distinzione tra normale e anormale che queste nuove patologie suggeriscono è ancora più evidente nelle cosiddette “Sindromi ombra.” Proposta da John Ratey, uno psichiatra della Harvard Medical School il cui nuovo libro ha preso come titolo il termine, le sindromi rappresentano disordini psicologici “nascosti”. Le persone che sono “un po’” depresse o ansiose o hanno un brutto temperamento soffrono di esse. Benchè Ratey ammetta che i sintomi sono troppo deboli per rientrare in quelli che egli chiama “Il blocco reale del DSM,” tuttavia argomenta che sentimenti di questo tipo sono un genuino rischio: “La vita della gente può andare in pezzi…a causa di piccoli problemi.”
Una ginnastica troppo regolare o, in termini psichiatrici, compulsiva indica un “disordine di attività,” scrive Yates. Il problema non è il momento del comportamento(come nel PMDD) o il suo contesto (come nella bulimia nervosa), ma il suo scopo. Nella visone di Yates, l’eccessivo correre per perdere peso o controllarlo diventa patologico. Il comportamento può ben essere incluso nella prossima edizione del DSM: la psichiatria è chiaramente preoccupata dalle piste [podistiche], dai centri di fitness e dalle palestere.
Negli anni recenti, i tipi di comportamenti etichettati come malattie sono aumentati drammaticamente. La psichiatria moderna è pronta a trattare non solo depressione e schizofrenia, ma anche malumore, ansia e bassa autostima, sentimenti che la maggior parte di noi ha provato ogni tanto.
Sindrome di Notre-Dame
Tutte queste sindromi sono imparentate con la più generale “Sindrome del viaggiatore”: dopo la preparazione dettagliata di un viaggio, nasce un disagio dovuto al trovarsi di fronte alla realtà del momento.
SINDROMI DA LAVORO Mobbing, Burnout
E SINDROME DEL BURN OUT
Possiamo sinteticamente definire la Sindrome del Burn Out come una progressiva perdita di idealismo, energia e scopi, vissuta da operatori sociali, professionali e non, come risultato delle condizioni in cui lavorano.
Nel burn out vengono riconosciute due condizioni di stress: soggettiva (o interna) e oggettiva ( o esterna). Fra le condizioni soggettive ci sono quelle legate alle motivazioni ed alle immagini ideali dell’operatore. Fra quelle oggettive ci sono quelle legate alle condizioni materiali di lavoro, alle ambiguità di ruolo, alle strutture di relazione ecc.. La medicina del lavoro ha portato a considerare come cause fondamentali di fatica e del conseguente calo motivazionale e di efficienza, anche le caratteristiche ambientali soggettive come rumore, sostanze tossiche presenti sul posto di lavoro ecc.; ma sembrano avere peso notevole le variabili più prettamente soggettive e sociali come il clima di gruppo, le comunicazioni interpersonali e la soddisfazione individuale. Il sovrappiù di reazione emotiva e mentale che il nostro lavoro richiede, deve essere sempre da noi ascoltato e valutato quando dà un segnale di allarme.
Il burn out, considerato una sindrome per l’insieme dei sintomi che lo contraddistinguono, viene riscontrato soprattutto tra gli operatori che lavorano a stretto contatto con situazioni di sofferenza.
Diversi autori, soprattutto anglo-americani, hanno affrontato il problema. a Maslach, in particolare, definisce il burn out come “una sindrome da esaurimento emotivo, da spersonalizzazione e riduzione delle capacità personali che può presentarsi in soggetti che per professione si occupano della gente”; e ancora: “una reazione alla tensione emotiva cronica creata dal contatto continuo con altri esseri umani, in particolare quando essi hanno problemi o motivi di sofferenza”.
Così come nello stress lavorativo, l’individuo non riesce a far fronte adeguatamente alle richieste ambientali, l’operatore sociale sperimenta una situazione di sovraccarico emotivo che si identifica nell’interazione continuata con l’utente, da cui può scaturire una sensazione di esaurimento emotivo e perdita di energia. L’operatore sociale si renderà conto molto presto di non poter essere utile agli altri come avrebbe voluto quando ha intrapreso la sua professione.
Le strategie che l’individuo mette in atto di fronte a situazioni di distress, modificando il proprio ambiente, vanno sotto nome di coping, che in italiano potrebbe tradursi con “cavarsela”. Si evidenzia così il tentativo di non soccombere alle pressioni ambientali. Gli stili di coping sono sostanzialmente dettati dalle caratteristiche dell’individuo e dalle esperienze personali. Per difendersi dal sovraccarico di stress l’individuo potrà sviluppare una risposta cinica e disumanizzata che possiamo definire spersonalizzazione. Le persone, quelle stesse con cui egli aveva condiviso dolore e disagio, diventano “oggetti” da cui è bene prendere distanza.
Crollate le aspettative, cadono anche le convinzioni personali riguardo alle proprie capacità e competenze: “non sono capace di aiutare gli altri”, “non valgo niente!”.
La Maslach ritiene che i lavoratori più a rischio di burn out siano quelli che hanno difficoltà nel definire i limiti tra se e gli altri ed i confini funzionali tra professione e vita privata; in generale individui che, per taluni aspetti della personalità, possiamo sinteticamente definire fragili, con la disposizione a dedicarsi al lavoro in maniera scarsamente discriminante, animati da un forte entusiasmo e da un eccessivo bisogno di aiutare gli altri. A fronte delle caratteristiche di personalità di ciascuno, bisognerebbe prendere in considerazione anche altri parametri: ad esempio gli orari prolungati, il sostegno inadeguato (a volte totalmente mancante) o la struttura rigida nella quale il lavoratore è costretto ad operare in condizioni quindi disumanizzanti.
Migliorare la struttura socio-organizzativa è perciò fondamentale per chi è responsabile delle risorse umane, perché possa prevenire il disagio del lavoratore e dunque migliorare la qualità globale del servizio all’utente. Gli studiosi del campo relativo alla psicologia del lavoro hanno evidenziato che nell’uomo moderno il contesto sociale e lavorativo è quello che risulta essere maggiormente in grado di attivare risposte di stress, sia dal punto di vista comportamentale che dal punto di vista fisiopatologico.
Le condizioni fisiche dell’ambiente lavorativo o la fatica fisica, il ruolo e le relazioni lavorative, la gestione del lavoro, la burocratizzazione, sono tutte variabili capaci di provocare negli operatori i sintomi che caratterizzano la sindrome del burn out: apatia, perdita di entusiasmo, senso di frustrazione. I comportamenti lavorativi messi in atto dagli operatori in fase di burn out (coping) riguardano soprattutto il rapporto interpersonale con l’utenza nel momento in cui tale rapporto perde la proprietà di relazione di aiuto e diviene essenzialmente una relazione tecnica di “servizio”: perdita dei sentimenti positivi verso l’utenza e la professione, perdita della motivazione, dell’entusiasmo e del senso di responsabilità, impoverimento delle relazioni, utilizzo di un modello lavorativo stereotipato con procedure standardizzate e rigide, cinismo verso la sofferenza, difficoltà ad attivare processi di cambiamento.
IL BURN OUT NELLE CORSIE OSPEDALIERE
OVVERO QUANDO AIUTARE “BRUCIA”
Curare gli altri può far male al punto di arrivare, ad esempio, alla depressione, all’abuso di psicofarmaci o, come avviene molto più spesso, al cinismo nei confronti del malato. Ad ammalarsi per primi sono gli operatori sanitari che lavorano in situazioni dette di prima linea: Rianimazione, Pronto soccorso, Chirurgia d’urgenza, Terapia intensiva, Clinica psichiatrica, Reparti di degenza, ecc….. ma anche gli assistenti sociali, gli psicologi, gli assistenti domiciliari e altri. La loro malattia, sindrome di Burn Out, come abbiamo visto, consiste in un esaurimento delle emozioni ed in una riduzione delle capacità professionali che si esplicano in una costellazione di sintomi: somatizzazioni, apatia, eccessiva stanchezza, risentimento, ecc…
Il disagio è così riconosciuto all’interno di queste categorie di lavoratori che due Società scientifiche (quella di Psicologia e Psicoterapia relazionale e quella di Terapia Comportamentale e Cognitiva) chiedono l’approvazione di un disegno di legge per inserire queste professioni fra quelle usuranti. Il primo campanello di allarme di un lavoratore che opera nell’ambito sanitario, bruciato dalla propria professione è quello di un atteggiamento burocratico. Il secondo passo è quello della fuga: aspettativa, malattia, ferie, sono una tecnica per sopravvivere al disagio che cresce. Le donne pagano il prezzo più caro a questa sindrome professionale, soffrendo del doppio peso del lavoro in casa e sul posto di lavoro.
DALL’ALTRUISMO AL CINISMO
Perché così spesso ci capita di osservare una sensibilità inadeguata in persone chiamate a compiti psicologicamente delicati ? Una spiegazione può essere data dal fatto che molti di essi sono “bruciati” (burn), vittime cioè della sindrome omonima, che secondo le statistiche più recenti colpisce fino al 60% di chi lavora a stretto contatto con la malattia, soprattutto se essa è cronica o inguaribile.
Vedere i malati soffrire, peggiorare, e spesso morire può logorare molto, con il tempo diventa difficile sostenere l’accumulo di stress e il dolore contamina chi è deputato a lenirlo. Il processo ha un esordio subdolo, ma oramai codificato. “La vittima del burn out fa sempre più fatica ad alzarsi la mattina”, spiega Nada Crotti, psicologa all’istituto dei tumori di Genova. “Va a lavorare contro voglia e con senso di oppressione, diventa progressivamente superficiale, reagisce infuriandosi se non riesce, ad esempio, a prendere subito una vena, non ammette serenamente i propri errori, scarica le colpe sui colleghi da cui tende progressivamente ad isolarsi”. Le collere esagerate, l’irresponsabilità, le accuse immotivate, tradiscono uno stato di frustrazione profonda, quello di chi sente di collezionare fallimenti e di non servire a nulla. Ovviamente si tratta di fantasie, in realtà queste persone sono state infatti tanto utili e capaci da ammalare per una sorta di esaurimento energetico. Tra tutti gli operatori la cui professione implica costante contatto con la sofferenza, dunque dove il coinvolgimento emotivo intenso può essere ad un certo punto insostenibile, gli infermieri sono i più a rischio di sindrome del burn out, soprattutto quelli che lavorano in aree critiche come Pronto Soccorso, Rianimazione, Terapia intensiva, Unità spinale, Reparti di degenza, in particolare quelli a contatto con malati terminali. Proprio in questi ultimi è stata descritta per la prima volta la sindrome, un decennio fa, un po’ per spiegare i fenomeni di acting out (l’infermiere che urla o maltratta il malato), un po’ per dare ragione del maggior assenteismo e del più rapido turn over nei reparti ad alta densità di decessi. Infatti, anche se fra i loro compiti non c’è quello di prendere decisioni determinanti ed anche se hanno il vantaggio di poter cambiare di reparto quando si accorgono dell’eccesso di stress, gli infermieri sono di fatto gli operatori sanitari che vivono più a stretto contatto con il malato, sia in termini di tempo, sia in termini di emotività.
L’infermiere, a differenza del medico, ben raramente è coinvolto nella ricerca, per cui non trae alcuna gratificazione scientifica dal proprio lavoro. Anche l’ambiente extralavorativo gli è spesso sfavorevole in quanto la sua professione non è, in genere, socialmente apprezzata come meriterebbe. Paradossalmente, gli infermieri non sono neppure menzionati nel disegno di legge presentato alla fine del 1998 dal senatore Athos De Luca per il riconoscimento degli effetti collaterali di alcune professioni psicologicamente e fisicamente usuranti. Inoltre sono del tutto discutibili i benefici previsti dal disegno di legge menzionato, in quanto invece di paventare strategie di prevenzione o di cura, si propone l’agevolazione del pensionamento anticipato, quando è statisticamente noto che andare in pensione può peggiorare uno stato psicologico già deteriorato.
Riassumiamo ora le fasi di questa sindrome che è tipica delle professioni di aiuto, caratterizzate da un distacco emotivo rispetto agli assistiti e dalla perdita di interesse per il proprio lavoro. Si distinguono quattro fasi:
A ) La fase dell’entusiasmo idealistico e delle aspirazioni
- B) La fase dello stress lavorativo, in cui si avverte un progressivo squilibrio tra richieste e risorse
- C) La fase di esaurimento, in cui si comincia a pensare di non aiutare realmente nessuno ed in cui compare la tensione emotiva, l’irritabilità, l’ansia
D Fase della conclusione difensiva o alienazione, con totale disinteressamento emotivo nel lavoro, apatia, rigidità e cinismo.
Inoltre sono stati individuati tratti caratteriali che predispongono al Burn Out:
- a) L’ansia nevrotica, propria di quelle persone che si pongono mete eccessive e che si puniscono se non le raggiungono
b)Uno stile di vita caratterizzato da eccessiva attività, competizione, in continua lotta contro il tempo
- c) La rigidità, cioè l’incapacità di adattarsi alle richieste sempre mutevoli dell’ambiente esterno
- d) L’introversione
Possibili soluzioni per la gestione dello stress e del burn out nelle professioni di aiuto
Il passo più importante è riconoscere le prime avvisaglie del burn out, in modo da intervenire prima che compaiano i sintomi fisici e prima che il malessere si ripercuota sulla vita familiare e sessuale. Studi recenti hanno individuato alcune strategie di cura individuali ed organizzative. Quelle individuali comprendono le tecniche di rilassamento e la psicoterapia. È utile ricordare che la vita è anche altrove, fuori dall’ambiente lavorativo; a questo scopo è importante praticare e coltivare hobby.
Esistono poi strategie organizzative e di gruppo.
Prevenzione primaria: agire sulle strutture di un sistema per eliminarne le caratteristiche patogene o che comportano peggioramento nella qualità del lavoro e della vita. Individuare fattori stressanti nell’organizzazione del lavoro e quindi risolverli, infatti, come afferma Spaltro, il costo del lavoro diminuisce e la produttività aumenta se si cambiano gli stili di gestione del potere, i modi di incentivare, il clima nell’ambiente di lavoro. Un ambiente lavorativo gratificante dal punto di vista umano allontana il burn out così come la condivisione con i colleghi del senso di angoscia e frustrazione. È importante che ai fini dell’organizzazione del lavoro si eviti di caricare la singola persona, così come di creare conflitti di ruolo.
IL MOBBING
Sintomi più comuni della sindrome in oggetto sono stress psicofisico, disagio profondo, ansia, depressione, difficoltà di digestione, disistima, disperazione, eritemi, impotenza sessuale, infarto, insonnia improvvisa e incubi, irritabilità, mal di testa, panico, paura di affrontare la giornata, pensieri autolesionistici e/o suicidi, perdita dei capelli, perdita identità, spossatezza, vertigini, vuoti di memoria, ecc… I sintomi, se non adeguatamente diagnosticati e curati, si possono cronicizzare e diventare malattie derivate (psicosomatiche e fisiche): bruciori di stomaco, cefalea, dermatosi, mal di schiena, attacchi di panico, tachicardia, gastrite, ulcera.
La Medicina del Lavoro ed il Legislatore hanno evidenziato i costi sociali del fenomeno, vediamo ora la genesi della sindrome. Il termine inglese mobbing è usato dagli studiosi dei comportamenti di gruppo negli animali, e definisce un complesso di tattiche messe in opera dal capobranco e/o dal gruppo per isolare, rendere inoffensivo, sopraffare, annientare un elemento del gruppo che, secondo le leggi della natura, è ritenuto non funzionale alla sopravvivenza del gruppo stesso.
La trasposizione di questo termine dal mondo animale a quello del lavoro, non avviene senza aprire una lunga serie di interrogativi circa i curiosi aspetti di cui si colorano le “leggi della sopravvivenza in natura” in una realtà aziendale, pubblica o privata.
Per quanto riguarda la tipologia delle vittime non sono state individuate attualmente inclinazioni caratteriali che possano definire una “predisposizione” al mobbing che colpisce lavoratori di qualsiasi livello in tutti gli ambienti di lavoro e in tutte le culture. In particolare, sarebbero più predisposti: distratti, presuntuosi, passivi, buontemponi, paurosi, ecc. (Harald Ege ne elenca ben 18). La tipologia dei persecutori è piuttosto varia, sembrano più predisposti: narcisista perverso, frustrato, istigatore, megalomane, ecc. (Harald Ege ne elenca ben 14).
MOBBING VERTICALE
E’ quello che si attua fra un capo, un dirigente ed uno o più dei suoi sottoposti. In pratica si verifica che il dipendente in oggetto viene privato di incarichi di rilievo, fino a configurare l’assenza di incarichi. Il dipendente è sottoutilizzato, emarginato, non coinvolto nelle decisioni, ignorato. Questa tattica ha lo scopo di logorare psicologicamente il dipendente fino a renderlo oggettivamente inefficiente, passibile di facile eliminazione o autoeliminazione dal gruppo di lavoro. Bisogna dire che talvolta questi comportamenti sono adottati dall’azienda per liberarsi di elementi che effettivamente non sono funzionali al buon funzionamento del gruppo di lavoro, ma più spesso entrano in gioco altri fattori.
Il mobbing verticale è spesso messo in opera da dirigenti inadatti al ruolo che rivestono, o che comunque nutrono il timore di non essere all’altezza dei compiti da svolgere. Tali dirigenti hanno l’ovvio problema di non palesare questa reale o supposta deficienza e, da sempre, il sistema scelto per raggiungere lo scopo è quello di emarginare, mettere in ombra, in una parola, mobbizzare, il collaboratore capace e intelligente che possa, con la sua sola presenza efficiente, evidenziare l’incapacità a dirigere.
MOBBING ORIZZONTALE
Viene messo in opera dal gruppo di pari per emarginare, isolare e, in definitiva, per eliminare un appartenente al gruppo stesso. Le tattiche sono vecchie come il mondo: maldicenze, calunnie, pettegolezzi, evitamento. Anche in questi casi si contano ragioni di reale dissonanza dal gruppo, ma più spesso, come vedremo, le motivazioni sono d’altra natura.
LEADERSHIP
Una frequente fonte di mobbing nelle strutture gerarchiche è da ricercare nella effettiva organizzazione della leadership. Pur senza qui approfondire aspetti di Analisi delle Transazioni (vedi approfondimento), è di comune riscontro la situazione secondo cui nella figura del leader non necessariamente si verifica la coincidenza delle tre figure di riferimento: Leader Istituzionale, Leader Effettivo e Leader Psicologico, dove il Leader Istituzionale è quello ufficialmente incaricato (tale affidamento sappiamo che può avere una base clientelare, indipendente dalle qualità di leader); il Leader Effettivo è quello che per competenze e professionalità costituisce il riferimento per le scelte operative; infine, ma non ultimo, il Leader Psicologico, che per statura umana, etica, intelligenza, sensibilità o altro, costituisce il reale riferimento per il personale subalterno.
SINDROMI AZIENDALI
Nella genesi di tali disturbi un ruolo fondamentale è rivestito dalle caratteristiche sociali ed organizzative del lavoro, le quali possono interagire con gli attributi psicologici e la personalità dei singoli individui.
Il principio di Peter (*) in estrema sintesi curata da Carlo Anibaldi
Nel nord Europa, negli Stati Uniti e, recentemente, anche in Italia sono molti gli studiosi che si sono occupati di questioni connesse alla qualità dei Servizi e delle problematiche connesse all’ “out-come” aziendale, pubblico e privato. Molte delle dinamiche che spesso riteniamo scontate in quanto “insite nell’ordine delle cose di questo mondo”, in realtà sono spesso frutto di pregiudizi sull’immodificabilità dei comportamenti e causa del basso profilo che troppo spesso incontriamo nell’offerta di servizi, pur ad alto costo per la collettività.
Fra i molti postulati utili a definire il concetto espresso, ho scelto “Il Principio di Peter” (dello psicologo canadese Laurence Peter che, assieme a Raymond Hull, formulava in chiave satirica il meccanismo della carriera aziendale), perché ben si presta alla semplificazione di studi talvolta complessi.
Un individuo inserito in una scala gerarchica inizia l’attività con un ruolo preciso, svolgendo compiti precisi. Se svolge bene i suoi compiti viene “promosso”, passando a compiti diversi. Dopo un certo tempo, se anche questi nuovi compiti vengono svolti bene, scatta una nuova promozione. Tali promozioni portano a posizioni dette apicali che, per definizione, devono essere occupate da persone con una spiccata attitudine a risolvere problemi.
Il gioco delle promozioni continuerà così fino al momento in cui l’individuo non sarà più in grado di svolgere i compiti assegnatigli. Da quel punto in avanti non avrà più promozioni. Ha raggiunto il massimo della sua carriera. Per cui ecco il principio: In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza. Da questo principio discende che ogni posto chiave tende potenzialmente ad essere occupato da un incompetente, un soggetto cioè in grado di creare più problemi di quanti possa risolverne. Il che spiega molte cose sul funzionamento di parecchie istituzioni.
Le società anglosassoni, che pur hanno studiato questi fenomeni assai prima di noi, sembrano impigliate in questo meccanismo in misura meno drammatica, probabilmente a causa della maggior diffusione della dottrina protestante che, come sappiamo, è libera da sentimentalismi ed assai più rigida nelle questioni di principio. Il messaggio sotteso al principio in oggetto anche in Italia comincia finalmente ad essere recepito e nell’affidamento di incarichi apicali emerge la tendenza di confidare non tanto sulle persone-brave e/o brave-persone, quanto su persone qualificate nello specifico compito di risolvere problemi e conseguire obiettivi.
Ovviamente nella categoria delle persone-brave e/o brave-persone possiamo includere anche le persone brave nel farsi raccomandare. Questa pratica non è certo solo italiana, quello che però ci distingue è la curiosa attitudine a vantarcene piuttosto che a vergognarcene; in genere siamo infatti disponibili a concedere ammirazione ad un individuo solo per le sue reali o supposte conoscenze importanti. Tale ammirazione troppo spesso trascende le reali competenze del soggetto e le sue effettive capacità.
In definitiva, se da una parte è indubbiamente premiante promuovere Capostazione un bravo Macchinista, oppure Direttore Sanitario un bravo Primario, dall’altra, come abbiamo visto, non è sempre detto che questo consolidato modo di operare faccia gli effettivi interessi delle rispettive aziende e degli utenti che vi afferiscono.
SINDROMI FOBICHE
Il sintomo cardine di questa forma è la fobia, timore morboso, riconosciuto come tale dal paziente, di situazioni, oggetti, animali e via dicendo di per sé non pericolosi o solo potenzialmente tali. Se la paura rappresenta la risposta emotiva ad un pericolo o ad una minaccia reali, la fobia al contrario è una paura del tutto immotivata. Le paure più diffuse sono:
agorafobia: paura delle piazze, degli spazi aperti;
claustrofobia: paura degli spazi chiusi;
ereutofobia: timore di arrossire;
rupofobia: timore dello sporco;
nosofobia o patofobia: paura delle malattie o delle infezioni.
Di solito, anche se la maggiore importanza non viene attribuita al contenuto, ma alle modalità con cui quanto è temuto viene vissuto dal paziente, si distinguono:
le fobie di situazione (chiuso, aperto, buio, acqua, temporali eccetera);
le fobie di esseri viventi (cani, gatti, serpenti eccetera);
le fobie di oggetti (coltelli, vetri eccetera).
Nel fobico il senso della realtà rimane intatto
Spesso la fobia, del tutto sproporzionata ed illogica, è talmente invasiva e minacciosa da comportare un vero e proprio stato ansioso e più spesso insorge o si accentua in forma di crisi in occasione di determinate situazioni o in presenza reale o anche solo immaginata di oggetti o condizioni particolari, spesso come ansia anticipatoria.
L’esistenza di generici atteggiamenti fobici, quali un senso di apprensione e timorosità in occasione di malattie somatiche o in condizioni di attesa di avvenimenti tristi, se da una parte può considerarsi normale, dall’altra deve essere giudicata morbosa quanto più venga a mancare la proporzione tra risposta emotiva ed entità dei fatti.
Il fobico è impaurito dalle sue fobie, ne riconosce l’estraneità e l’abnormità e cerca di combatterle; la critica, il giudizio e l’aderenza alla realtà sono “intatti”.
Il fobico presenta spesso anche altri sintomi nevrotici, inserendosi in un quadro con forte componente ansiosa. Comunque la nevrosi fobica o fobico-ansiosa è caratterizzata da uno o più timori fobici, vissuti con gradi di ansietà diversi a seconda delle situazioni, con sintomi di tipo vegetativo (ipersudorazione, tachicardia) e le più varie somatizzazioni.
Il soggetto più che combattere contro i contenuti delle proprie paure, ne è spaventato ed evita le situazioni o gli oggetti temuti, potendo condurre, purché lontano dai motivi delle sue fobie, una vita abbastanza regolare.
Nell’interpretazione psicoanalitica, il fobico fugge dalle rappresentazioni che creano angoscia spostando inconsciamente su oggetti esterni o situazioni le allarmanti relazioni con oggetti interni: vi è cioè un passaggio di angoscia dallo spazio interno allo spazio esterno ed è questo processo a creare il sintomo fobico.
La Sindrome della Madre Malevola
Lo studio, neanche a dirlo viene dagli Stati Uniti. Il titolo è inquietante: Malicious Mother Sindrome, Sindrome della Madre Malevola, descritta in un articolo on line di Ira Daniel Turkat, pubblicato sul sito Fathers’ Right Newsline. L’articolo è quanto mai attuale per le tematiche che la nostra società sembra oggi doversi confrontare.
«Con il crescere del numero dei divorzi che coinvolgono i bambini, è emerso uno schema di comportamento anomalo che ha suscitato scarsa attenzione. Data la mancanza di dati scientifici disponibili sul disturbo, è necessario approfondire i problemi della classificazione, dell’eziologia, della cura, della prevenzione». Così si apre l’articolo, partendo dunque dalla constatazione dell’aumento del numero delle separazioni e dei divorzi ed il sempre più frequente coinvolgimento dei figli.
Il punto è che, se pure il conflitto trova una soluzione per via legale – dettata più da una razionalità giuridica distante dalle concrete esigenze psicologiche e pratiche che lo scioglimento della famiglia comporta – troppo spesso si lascia che il vero conflitto, quello che ha inizio all’uscita del Tribunale, svolga le proprie conseguenze senza l’ausilio di particolari forme di comprensione e controllo.
Se da una parte si è fatto fronte alle problematiche economiche che affliggono molte madri per il mancato o saltuario versamento dell’assegno di mantenimento, dall’altra non si ha piena consapevolezza di quali dinamiche di conflittualità possano scatenarsi nel contesto della rottura dei legami: fino a portare, in alcuni casi, la madre ad avviare una vera e propria “crociata” contro l’ex coniuge, utilizzando qualsiasi mezzo. Turkat fa riferimento ad una “anomalia globale” del comportamento, intendendo che tale anomalia comprende diverse caratteristiche: la manipolazione dei figli utilizzati come arma contro il padre (come accade per la Sindrome da Alienazione Genitoriale); la vessazione attraverso accuse gravi, e infondate, per lo più di presunte violenze, spesso di carattere sessuale; la consapevole volontà di violare le leggi pur di raggiungere lo scopo. Questo non vuol dire che non possa esistere una sindrome anche per il “padre malevolo” ma questo fenomeno si innesca nella consuetudine giuridica dell’affidamento della prole alla madre e nel “potere di gestione”, a volte arbitrario, che ne può derivare.
I principali modelli che aiutano a rintracciare il fenomeno della madre malevola nei casi di divorzio – e che Turkat supporta con esempi tratti da casi clinici e giudiziari -sono:
- I) La madre, senza alcuna giustificazione razionale , è determinata a punire il marito da cui sta divorziando o ha divorziato:
− tentando di alienare i figli dal padre;
− coinvolgendo altri in azioni malevole contro il padre;
− intraprendendo un contenzioso eccessivo
L’alienazione dei minori si esprime nella varietà di azioni intraprese dalle madri al fine di allontanare fisicamente e psicologicamente il figlio dal padre, coinvolgendo quindi la prole in prima persona nella “guerra” che hanno ingaggiato. Si va dalla calunnia diretta a quella più subdola, arrivando alla richiesta esplicita di adottare un atteggiamento “di parte”. Si tratta, in ogni caso, di un comportamento teso a sminuire la figura paterna; l’obbiettivo, infatti, è la punizione dell’altro genitore attraverso la “privazione”
La “punizione del marito” può essere ottenuta anche attraverso il coinvolgimento e la manipolazione di persone terze in azioni dolose (persone appartenenti al nucleo familiare, conoscenti, ma anche gli stessi professionisti – medici, psicologi, avvocati, ecc. – che si trovino ad avere rapporti con la madre). In questo caso, «è importante rilevare che la persona manipolata dalla madre è stata in qualche modo coinvolta nella rabbia della madre e “alienata” dal marito di questa in procinto di divorziare. La persona “raggirata” assume un tipico atteggiamento di virtuosa indignazione che contribuisce a creare un’atmosfera gratificante per la madre che sì appresta ad intraprendere azioni dolose.
Infine, pur essendo un diritto presentare istanze o avviare azioni legali nel caso se ne rintracci la necessità, l’eccesso di azioni legali intraprese viene spesso utilizzato per inasprire i rapporti e “colpire” l’ex coniuge. In casi estremi, si arriva a lanciare false e gravi accuse: come quella di abuso sessuale. Ma se «non c’è un vero e proprio abuso sessuale, l’abuso diventa la violenza alla quale i minori vengono sottoposti (Montecchi, 1999)».
2) La madre tenta semplicemente di impedire:
– le visite regolari dei figli al padre;
– le libere conversazioni telefoniche tra i figli e il padre;
– la partecipazione del padre alla vita scolastica e alle attività extracurricolari dei figli.
Questo secondo corpus di modelli comportamentali probabilmente è quello più utilizzato poiché dà risultati immediati ed è più sotterraneo. D’altronde, in sede legale, è difficile dimostrare che fatti di questo tipo siano realmente avvenuti. Per esempio, in caso di mancato rispetto delle modalità di visita, il genitore non affidatario può avvalersi dell’attuazione coattiva dei provvedimenti emessi dal giudice, ma di certo questa è una soluzione quasi mai praticata, considerando il trauma che riceverebbe il bambino.
I meccanismi descritti si innescano facilmente, soprattutto quando sono coinvolti figli minori, nella fase della separazione e del divorzio, che raramente sono avulsi da almeno un periodo di conflittualità e rivendicazioni.
L’ostacolo al rapporto padre-figli attraverso la proibizione arbitraria da parte della madre di visite regolari, è sicuramente una delle conseguenze inflitte ai bambini, per i quali la continuità nel rapporto affettivo con il genitore non affidatario rappresenta un elemento fondamentale per il proprio sviluppo psico-fisico e per ritrovare un nuovo equilibrio nella situazione di distacco. Infatti questa alienazione è considerata una forma di violenza sul bambino (Levy, 1992).
Nello stesso contesto si colloca la privazione di libere comunicazioni telefoniche padri-figli, che pure rappresentano un mezzo per mantenere legami di “vicinanza”: «alcuni padri trovano questi tentativi di alienazione così dolorosi che alla fine smettono di telefonare ai figli: semplicemente “mollano”. In uno scenario di sconfitta, l’abbandono del padre (Hodge) raggiunge proprio il risultato che la madre si proponeva».
Un altro livello su cui si svolge il conflitto è quello delle attività extracurriculari; attività sportive o extrascolastiche, riunioni dei genitori, compleanni, ma anche eventi che riguardino la quotidianità di un bimbo, insomma, tutto ciò che si svolgeva prima del divorzio e in cui la presenza del padre rappresentava la normalità. La madre affetta dalla sindrome della “madre malevola” agisce, in pratica, mettendo in atto una sorta di boicottaggio quasi impossibile da contrastare; soprattutto se si considera che il rapporto del genitore affidatario è praticamente quotidiano ed esclusivo. D’altra parte, non c’è a livello giuridico una risposta di tipo sanzionatorio, a meno che questi avvenimenti non si protraggono nel tempo in maniera recidiva ed eclatante.
3) Lo schema è pervasivo e comprende azioni malevole come:
– mentire ai figli;
– mentire ad altri;
– violare la legge.
Se si pensa che i minori coinvolti in separazioni e divorzi in Italia sono stati, solo nel corso del 2°000, 68.563 (Istat) e che ci si riferisce a soggetti in età evolutiva, ancora emotivamente e psicologicamente vulnerabili, si può immaginare quali possano essere le conseguenze, nel tempo, di un comportamento volto a distorcere completamente la realtà, mentendo e influenzando negativamente i propri figli. Alcuni esempi, riportati sempre da Turkat, possono essere più che esplicativi: «Una madre in fase di divorzio ha detto alla sua giovanissima figlia che il marito non era il suo padre vero, anche se lo era» e ancora: «Una madre ha raccontato ai figli che il padre in passato l’aveva ripetutamente battuta, cosa assolutamente falsa”.
Da un confronto «con le manovre più sottili tipiche della PAS (…) la madre che causa la PAS può insinuare che vi è stata violenza, mentre la madre affetta dalla sindrome della madre malevola afferma falsamente che vi è stata effettivamente violenza». I figli vengono coinvolti anche quando le “menzogne malevole” sono indirizzate ad altre persone. I recenti casi di cronaca che sempre più spesso vedono prosciolti padri ingiustamente accusati di abusi sui propri figli sono l’esempio più lampante di un problema che si intreccia anche con la difficile questione dell’ascolto giudiziario del minore. Un’accusa così grave può essere facilmente utilizzata, dalla madre affetta dalla sindrome, in sede giudiziaria, ed avere effetti devastanti. Basti pensare che in questi casi l’allontana,mento precauzionale del minore dal genitore accusato è immediato.
Anche la violazione sistematica delle leggi e delle regole sociali per ottenere una sorta di vittoria o di risarcirnento sembra rientrare in un’ottica ai limiti della psicosi: «Gli esempi possono richiamare alla mente certi disturbi della personalità (antisociale, borderline, sadica); tuttavia questi comportamenti si possono riscontrare anche in donne affette da sindrome della madre malevola che non sembrano conformarsi ai modelli diagnostici ufficiali del disturbo di tipo AXIS II. Inoltre nessuna delle madri malevole ha subito una condanna dal giudice per il suo comportamento.
Infine, il quarto modello individuato da Turkat descrive la sindrome come un comportamento che non sembra derivare da un altro disturbo mentale in particolare. Nella maggior parti dei casi, nei soggetto che rispondono ai modelli comportamentali della sindrome, non si riscontrano – come invece sarebbe facile presupporre – disturbi prima di affrontare la separazione o il divorzio. Infatti si tratta di soggetti che non hanno ricevuto una diagnosi o cure precedenti per disturbi mentali
LE SINDROMI DA SOVRACCARICO NEI MUSICISTI E “L’ATLETA MUSICALE”
di Cristina Franchini
La mano è uno strumento preziosissimo per il musicista, anche se essi raramente ne conoscono l’anatomia e tanto meno la fisiologia.
La mano è parte del corpo, appendice estrema di un organismo che per funzionare nel migliore dei modi richiede il mantenimento di un equilibrio perfetto e di una funzione ottimale.
Quali sono i problemi di natura funzionale che possono interessare un musicista?
Per certi aspetti sono analoghi a quelli che, ben più noti, colpiscono gli atleti: contratture muscolari, traumatismi di vario grado, fratture da durata, tendinopatie, borsiti.
Tutta una serie di problemi nota come “Sindromi da sovraccarico funzionale”, “Overuse Syndrome” per la letteratura internazionale. Ma che cos’è in realtà una sindrome da sovraccarico?È un trauma? È uno sforzo? È una malattia?
Per Sindrome da sovraccarico (SDS) si deve intendere quella condizione derivata dall’eccesso, dall’abuso o dal cattivo uso che una determinata persona fa delle sue possibilità fisiologiche.
Il sovraccarico, che non è da confondersi con lo sforzo acuto ed improvviso, è un evento che compare nel tempo, è determinato da diversi fattori come l’uso prolungato, il carico eccessivo, le posture scorrette, gli strumenti inadeguati.
Tutte queste, ed altre condizioni, possono determinare una sofferenza delle strutture muscolari e legamentose soprattutto agli arti superiori.
Le lesioni da sovraccarico dell’apparato locomotore sono frequenti nei pazienti che esercitano un’attività sportiva o musicale in modo intensivo e continuativo.
Non stupisca il paragone, ma da più parti è entrato nel linguaggio comune parlare di “atleta musicale”, che rende più chiara la necessità che ha anche un musicista di essere in condizioni fisiche adatte alle esigenze della propria attività. Le lesioni sono identificabili come micro traumatrismi, sovraccarico, termine che solitamente traduce quello inglese più usato di “overuse”. L’età, gli sforzi, i fattori meccanici specifici, sono elementi molto importanti nella determinazione di una lesione da sovraccarico. È frequente riscontrarle in soggetti giovani senza precedenti patologici (15 – 25 anni) oppure nei soggetti più adulti (30 -40 anni) con intensa attività.
I fattori favorenti una sindrome da sovraccarico sono molto diversi tra loro, possono essere intrinseci od estrinseci.
I fattori metabolici come un’ipercolesterolemia, l’iperuricemia, alterazioni anatomiche di tipo congenito sono da annoverare tra i fattori intrinseci, mentre i fattori estrinseci possono dipendere da un errore nella pratica, nell’allenamento, nella quantità, nell’aumento improvviso del tempo dedicato al lavoro (necessità di preparare in breve tempo un concerto o un esame), nell’aumento dell’intensità con cui si pratica quel determinato lavoro; nei dilettanti è frequente vedere comparire una sindrome da sovraccarico per un errore di tecnica o per un cattivo adattamento allo strumento usato.
Si possono distinguere sindromi da sovraccarico benigne, per lo più descritte dal musicista come un dolore diffuso che compare durante l’attività strumentale e che scompare al momento della sospensione, e le sindromi da sovraccarico “gravi”, o vere e proprie “Overuse Syndrome” caratterizzate da dolori persistenti che non scompaiono con il riposo.
Altre forme di Sindrome da Sovraccarico sono le compressioni vascolo nervose che comportano pesantezza agli arti superiori, parestesie, rallentamento del gesto musicale, e la Distonia di funzione, che è la patologia più temuta dai musicista perché può essere causa di una interruzione definitiva di ogni attività artistica.
Da pochi anni si è diffusa e consolidata la necessità di istituire speciali servizi a cui i musicisti possano rivolgersi per ricevere assistenza e soprattutto consiglio preventivo. Infatti è nella prevenzione, nella conoscenza della propria anatomia, analogamente alla conoscenza della musica da eseguire, che il musicista può trovare sicurezza e forza per la propria espressione musicale.
SINDROMI DI GUERRA E DEL REDUCE
Psichiatria e interpretazione degli artisti
Nel descrive l’arte degli schizofrenici Karl Jaspers afferma che in essa, espressione particolarmente emblematica della vita psichica, c’è soprattutto la tendenza a dare “la rappresentazione di un insieme del mondo e dell’essenza delle cose”. E infatti, conversando con i malati autori dei disegni, Karl Jaspers rilevò che è possibile «venire a sapere che spesso le cose più semplici sono piene di significato simbolico e di fantastichi arricchimenti».
Dopo essere stato colpito da una crisi nervosa, o forse psicotica, il più importante pittore norvegese, Edvard Munch rimase più di un anno senza più lavorare, poi l’artista, che prima della malattia aveva avuto tendenze simboliste, si presentò con un tipo di pittura del tutto nuova, e profondamente mutata. La conoscenza del poeta Mallarmé , che posò per un ritratto, modificarono ancor più l’arte di Munch. In lui, l’angoscia metafisica trova l’espressione nel torbido arzigogolo delle immagini. Deliri e incubi ritrasse Edvard Munch, denunciando il proprio animo travagliato, in cui nell’esperienza tragica di un delirio espresso da visi disumani. L’urlo, in cui le forme sono ondulate, irreali, modificate dall’angoscia e Angoscia, entrambe manifestazioni di un’ansia, che ha una valenza metafisica.
Dal 1911 il pittore alleggerì la tensione “nevrotica” e mutò le figure dell’angoscia in un espressionismo quasi realistico, ( frutto forse della sua “guarigione”) con una tematica sociale, col bisogno di rinnovare la società, motivi che confluirono nell’arte di Munch assieme a un misticismo cosmico, e a un complesso e torbido senso dell’esistenza in sintonia con la letteratura scandinava, e materia tutta che che troverà una simbiosi filosofica nelle esperienze degli esistenzialisti.
[1] G. Devroux , Saggi di etnopsichiatria generale, Armando, Roma,1978.
[2] J. Spencer The mental health of Jehovah’s Witness, in British Journal of Psychiatry,126-1975, p 556-559
[3] M.P.Janet, Les nèvroses, Paris, 1909
[4] T.Nathan, La follia degli altri, Ponte delle Grazie, Firenze,1990
[5] J.Leff, Psichiatrie e culture, Edizioni Sonda, Torino, 1992.
[6] M.E.Elsarrag, Psychiatry in the Northen Sudan: a study in comparative psychiatry, in “British Journal of Psychiatry”, n. 114, 1968.
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[8] T. Nathan, op cit.
[9] G. Róheim, Psicoanalisi e antropologia, Rizzoli, Milano, 1974
[10] G. Bastide, Sociologia delle malattie mentali, Firenze, 1981
[11] M. Mead, Sesso e temperamento, Mondatori, Milano 1992
[12] M, Nichter, Idioms of distress: alternatives in the expression of psycho-social distress: a case study from South India. In «Culture, medicine and psychiatry», 5, 1981
[13] G Jahoda, Psicologia della superstizione, Milano, 1972
[14] M.Bloch, I Re taumaturghi, Torino, 1978
[15] J. Frazer, Il ramo d’oro, Roma, 1992
[16] D. Hume, Storia naturale della religione, Laterza, Bari,1994
[17] M. Kemp, Immagine e verità, Il Saggiatore, Milano, 1999
[18] I. Bergman, Immagini, Garzanti, Milano, 1993
Giuseppe Paradiso mail: giuspaso@tiscali.it
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