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IL MESSAGGERO DEL SUD – IL FOTOAMATORE – ESPERIENZE PSICOPEDAGOGICHE
RIVISTA DI FORMAZIONE PSICHIATRICA
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GENI E ARTISTI CATTIVI GENITORI
FREUD: CENTO ANNI DI SOGNI
IMMAGINI SALATE E COLORI RUMOROSI
QUALE TELEVISIONE?
LA LIBERTÀ, È FORSE SOLO UN’OPZIONE?
SICILIA: l’ISOLA DELLA CULTURA
L’ENIGMA DELLA MENTE UMANA
PROGRESSO TECNOLOGICO E FALLIMENTO UMANO
IL CARATTERE E L’IMPROBABILE INFLUENZA DEGLI ASTRI
GLI INTERVENTI DIDATTICI E LE DINAMICHE DELL’INCONSCIO
PSICOLOGIA DEL MISTICISMO E DELLA FUGA DALLA SESSUALITÀ
IMPORTANTISMO, MODESTISMO E PARTECIPAZIONISMO
HOMO FEROX
LE BARBARIE UMANE
LA STORIA: UN CALENDARIO DI EFFERATEZZE
XX SECOLO: I CENTO ANNI PIU’ FEROCI DI TUTTA LA STORIA DELL’UMANITA’
GUERRE, CRIMINALITA’ E DROGA LE PESTI DEL XX SECOLO
VIOLENZA, CRIMINALITA’ E TENSIONE EMOTIVA
LA PENA DI MORTE : DELITTO O CASTIGO?
IL MEDIOEVO ALLE SOGLIE DEL DUEMILA
MA QUAL È IL TERZO MONDO?
LE MARGINALITA’ DI FINE MILLENNIO
XX SECOLO : QUANTI MORTI PER CONFLITTI BELLICI!
LE DUE AMICHE ASSASSINE
STUPRO SHOW TRA MINORENNI!
RAZZISMO: UN MALE ANTICO
STRAGI DOMESTICHE
TERRORISMO
VENTI DI GUERRA
LE DONNE HANNO RAGGIUNTO LA PARITA’?
NEW AGE: FILOSOFIA SALVIFICA?
ANORESSIA: TRA MEDICINA E ASCESI MISTICA
LA “FEBBRE” DELLA CREATIVITÀ
CREAZIONE ARTISTICA E DESIDERIO DI ONNIPOTENZA
PERCHÉ FREUD
CIÒ CHE È RIMASTO VALIDO DEL PENSIERO DI FREUD
L’INTERVENTO PSICOANALITICO
LA TERAPIA ANALITICA
PSICOANALISI E CULTURA
FREUD E IL DISAGIO DELLA CIVILTA’
L’ASSASSINO RIPETITIVO: IDENTIKIT DEL SERIAL KILLER
IL CERVELLO E L’ARCOBALENO
PRIVILEGI E RICCHEZZE NON CAMBIANO LA VITA
LE DITTATURE E LA SOTTOMISSIONE DELLE MASSE
L’INTERESSE PER I SOGNI
LA MANCANZA DI BUON SENSO
LUIGI PIRANDELLO SEMPRE ATTUALE
LO STRESS DELLE FESTE
GENIALITA’ E NEVROSI, ESISTE UN NESSO?
LA RAGIONE ? E’ SOLO UNA FAVOLA!
CREDULITÀ UMANA :OCCULTISMO VIA TV
L’INVIDIA, E’ SOLO UN SENTIMENTO SPREGEVOLE?
IL POTERE DEI MEDIOCRI
PSICOLOGIA E PSICOPATOLOGIA
DONATO BILANCIA: ASSASSINO CON LA FACCIA DA UOMO QUALUNQUE
C .G. JUNG, L’UOMO E LO STUDIOSO
EDUCAZIONE E CARATTERE: I TIPI UMANI
FISIOGNOMICA E PERSONALITA’
IL RAPPORTO TRA IMMAGINE E PENSIERO
LO HUMOUR
LA GELOSIA, “PERICOLOSO” SENTIMENTO
BENESSERE PORTA ALLA SUPERFICIALITA’?
A SCUOLA, EDUCARE O ETICHETTARE?
I PILASTRI DELLA DISEDUCAZIONE
LA FORMAZIONE DEGLI EDUCATORI
Il SESSANTOTTO
L’IPERPROTEZIONE INFANTILE
ECSTASY : MORIRE PER NULLA
COME PENSANO I GIOVANI
SE SI ISTITUISSE LA “PATENTE” DI GENITORE?
LA FIGURA PATERNA E I SUOI RISVOLTI
I GIOVANI E LA DROGA
IL MALESSERE DEI GIOVANI
LA TELEVISIONE FA MALE ALL’INFANZIA?
CRESCE L’EMERGENZA MINORI ASSASSINI
I GIOVANI E I PERICOLOSI “PASSATEMPI”
UN GIUDICE “CONVALIDA” UN MIRACOLO
QUANDO L’AMORE È PERICOLOSO
PERBENISMO E RIDICOLAGGINI
LA POLITICA E L’ALCOVA
PREGIUDIZI ED ETICHETTE
I GRANDI PLAGI DELLA STORIA
LE DONNE FURONO “EMERGENTI”
MAMMISMO E RAPPORTI TRA I SESSI
OTTO MARZO
L’ALTRO PICASSO
COME I POLITICI UTILIZZANO L’EMOTIVITA’
LA CONDIZIONE DELLE DONNE NEL CAMPO SCIENTIFICO
LA GLOBALIZZAZIONE NELLA STORIA
IL CULTO ESAGERATO DELLA BELLEZZA FISICA
L’AMBIGUO RUOLO DI CERTI INTELLETTUALI “CAUTI E GUARDINGHI”
UOMINI E CAPORALI
INNAMORAMENTO O DEPRESSIONE?
L’ INNAMORAMENTO DEI LETTERATI E L’AMORE NELLA REALTA’
I PERICOLI DEI PARTNER COMPETITIVI
SINGLE E DIVORZI SPRINT
CARATTEROLOGIA NELLA RELAZIONE DI COPPIA
COPPIE BIZZARRE, ECCENTRICHE E INSENSATE
LA FOLLIA COME AMORE
I FORZATI DELL’EROS
I DUE VOLTI DELL’AMORE
I PARTNER IMPOSTI E QUELLI SCELTI MALE
AMORE, SENTIMENTO COMPLESSO
L’INFEDELTÀ
SE NON C’E’ AMICIZIA TRA I PARTNER, C’E’ SOLITUDINE NELLA COPPIA
AMORI CRUENTI E SCELLERATI
LE COPPIE IMPOSSIBILI, O QUASI
Il TRIANGOLO NELLA COPPIA
SINDROME DI CLEROPATRA E COMPLESSO DEL DONGIOVANNI
LE COPPIE EDIPICHE
LIBRI EROTICI
IL SESSO, UNA QUESTIONE DI PILLOLE?
VITALIANO BRANCATI E IL GALLISMO
CICISBEI E CONCUBINE
IL PARTNER IDEALE
IL SENSO DEL PUDORE
AMORE ED EROS DI SOVRANI, CONDOTTIERI E DITTATORI
LE RAGAZZE DA MARITO, IN PASSATO
LE DONNE E IL MATRIMONIO
GLI ARTICOLI :
GENI E ARTISTI CATTIVI GENITORI
Si potrebbe pensare che maltrattino i bambini solo gli adulti di scarsa cultura. Invece molti uomini di stato, intellettuali famosi, scienziati, artisti hanno fatto soffrire e bistrattato i propri figli.
Il pedagogista Jean J. Rousseau abbandonò la sua numerosa prole all’ospizio, senza più curarsene, impegnato, ironia della storia, a scrivere di pedagogia e di metodica educativa! Proverbiali sia la devozione e l’ ammirazione che Matilde Manzoni ebbe per il padre che l’ indifferenza con cui lo
scrittore ricambiò l’affetto della figlia. Alla morte della madre, Matilde fu messa in collegio e dopo la maggiore età poiché il Manzoni si rifiutò di tenerla con sé andò a vivere a Torino con la sorella Vittoria. Intento ad accudire la seconda moglie Teresa Stampa , inquieto per i propri malesseri ipocondriaci, e occupato alla stesura delle sue “Osservazioni sulla morale cattolica” il Manzoni non si curò della figlia né andò a visitarla quando, malata di tisi e in punto di morte, lo mandò a chiamare. Altro genitore indifferente fu Galilei.Lo scienziato non aveva voluto sposarsi e non volle mai legittimare Polisenna e Virginia,che ebbe da Maria Gamba,e che dichiarò all’anagrafe ‘di padre ignoto’! Deciso a lasciare Padova per stabilirsi a Firenze, Galilei ritenne che le bambine gli avrebbero creato fastidi. Per non dare l’impressione alla convivente che l’abbandonava, la ‘sistemò’ con un certo Bartoluzzi, al quale chiese di sostituirlo in tutto e per tutto. In quanto alle bambine, l’una di nove e l’altra di undici anni, Galileo le mise in convento.
Entrambe, abbandonate per sempre dal padre, presero i voti, l’una col nome di Suor Maria Celeste e l’altra di Suor Arcangela .Malgrado tutto, suor Maria Celeste scrisse al padre una fitta corrispondenza alla quale Galilei rispose solo di rado. Anche il soprano Giuseppina Strepponi, eroina del bel canto, amata ed idealizzata, tenne rinchiusi negli orfanotrofi i figli che ebbe dalle numerose avventure sentimentali. Nel 1859 sposò Giuseppe Verdi, che aveva perso qualche anno prima moglie e figli. Secondo Mary Phillips-Matz, biografa di Verdi ,la Strepponi prima del matrimonio col musicista di Bussetto, avrebbe avuto anche da lui una figlia, abbandonata poi in un orfanotrofio. Si vociferava inoltre che Verdi, donnaiolo impenitente, avrebbe avuto dalle cameriere e dalle cuoche che aveva a servizio ,alcuni figli che mai riconobbe. Pare che Verdi abbia anche vietato alla Strepponi, divenuta sua moglie, di rivedere i figli che la donna aveva partorito prima delle loro nozze.
Molti figli di genitori in carriera sono stati allevati con scarso impegno. Daniel Bergman, figlio del regista Ingmar e della pianista Kaebi racconta che i suoi genitori si separarono quando lui aveva sette anni e nessuno dei due si occupò più di lui, lasciato alla cura di governanti e cameriere. Mary Catherine Bateson, figlia dello psichiatra Gregory Bateson e dell’antropologa Margaret Mead, soffrì per carenza d’affetto. Sia la madre che il padre, instancabili viaggiatori, vissero lontani da lei, suscitando il rancore di Mary Catherine .
Secondo i suoi figli, l’attore Bing Crosby, che in pubblico appariva accattivante, affabile e raffinato, in famiglia era molto scostante. Gary Crosby,in un libro di memorie sostiene che la durezza con la quale il padre aveva trattato i suoi sette figli avrebbe portato due di essi, Lindsay e Dennis, al suicidio. “Chi è concentrato sulla carriera e quindi su se stesso – afferma la psicologa Tilde Giani Gallino- dà poco ai figli”- I personaggi pubblici e gli artisti, troppo impegnati, trovano poco tempo per la famiglia. Pare che anche Ronald Reagan come padre sia poco apprezzato dai figli. In un best-seller, la figlia Patricia lo ha descritto ‘ meschino e sottomesso a Nancy’ e Ron, si è lamentato d’essere stato molto trascurato .In una crisi di sconforto la figlia di Jacques Chirac ha tentato di gettarsi dalla finestra accusando il padre di averla trascurata. Il figlio di Margaret Thatcher, Mark, ha affermato di essere depresso perché sua madre gli ha dedicato poco tempo .
Molti biografi sostengono che Mazzini ebbe da Giuditta Sidoli un figlio del quale si disinteressò del tutto. Montanelli racconta che il patriota conobbe Giuditta a Marsiglia nel 1832.Vedova di un cospiratore morto in Svizzera, la Sidoli, lasciati i figli al suocero, fuggì con l’amante. Ma poiché i compagni gli rimproverarono di anteporre Giuditta alla causa politica, Mazzini abbandonò la Sidoli al suo destino. Dal carteggio di Emile Ollivier sappiamo che il figlio di Mazzini fu affidato a Démostène Ollivier (padre di Emile), perché lo allevasse assieme ai propri figli. Arturo Lanocita riferisce che il bambino morì di colera a tre anni senza che Mazzini lo avesse più rivisto. La genialità non fa necessariamente buoni genitori !
Persino Albert Einstein fu un pessimo padre John Stachel studioso della vita dello scienziato, ipotizza che Albert Einstein, borghese, squattrinato e timoroso che la reazione con Mileva Maric non sarebbe stata accettata dalla sua severa madre, Paoline ,abbia preferito nascondere il frutto della loro passione .Della bambina, chiamata Lieserl, mandata presso i nonni materni in Serbia, e in seguito concessa in adozione, si sono perse le tracce. Un altro ‘grande’ che si disinteressò dei figli fu Gabriele D’Annunzio. Da Maria Ardouin, ebbe tre (Mario, Gabriellino e Ugo Veniero).Ma l’ardore della creazione, gli impegni mondani, le relazioni sentimentali, contribuirono al disinteresse di D’Annunzio per la prole. Ebbe anche una figlia dalla moglie del conte Anguissola, Maria Gravilla Cruyllas, alla quale impose come nome Renata. Qualche anno dopo D’Annunzio prese la famosa sbandata per la Duse, e abbandonò Maria Gravilla al suo destino. Quando in seguito Gabriele rientrò a Francavilla, dalla Cruyllas, per scrivere il suo romanzo ‘Il fuoco’, le fece fare un altro figlio, Gabriele Dante. Ma i successi allontanarono D’Annunzio dai doveri di padre. Soffrì la ‘tragedia’ di essere figlio di un uomo potente, anche il secondogenito di Stalin, Vasilij, la cui infanzia fu funestata dal suicidio della madre, Nadezhda Alliluieva, e dalla impossibilità di poter avvicinare il padre, troppo preso dagli impegni statali. Vasilij visse protetto dalle guardie del corpo, gente poco attenta alle esigenze di un bambino . Poiché nessuno aveva il coraggio di rimproverare né di negare nulla al figlio del dittatore, Vasilij crebbe insolente, arrogante, irascibile e prevaricatore. Alla morte del padre,fu arrestato, accusato di ‘furto e spreco della proprietà statale’ e, messo in carcere per otto anni. Le storie di bambini che hanno sofferto l’abbandono e il disinteresse di genitori illustri non si esauriscono in pochi esempi.
FREUD: CENTO ANNI DI SOGNI
In occasione dell’undicesimo convegno nazionale della società psicoanalitica italiana, che si svolge a Roma
Prima della teoria freudiana, ai sogni veniva data una valenza differente da quella individuata dal padre della psicoanalisi: il sogno era soprattutto interpretato come una preveggenza. Alcune battaglie vennero differite a causa di “nefasti sogni premonitori” che avevano scatenato gli incubi di strateghi e regnanti. I popoli primitivi non distinguevano ciò che accadeva in sogno dagli avvenimenti osservati nella veglia. E anche nelle popolazioni antiche più evolute il sogno aveva un
posto importante: era considerato divulgatore di verità superiori e serviva a stabilire quale doveva essere il corretto comportamento sociale. A Babilonia c’era addirittura un veggente, il bârû, che individuava le profezie contenute nei sogni.
Nei templi dell’Attica e della Beozia “un funzionario governativo”, opportunamente purificato, attendeva, addormentato, che un sogno gli desse indicazioni sulle scelte politiche che doveva fare la comunità. I sogni dei cittadini, in Grecia, erano considerati messaggi degli dei e venivano esaminati nei templi. Ippocrate, invece, riteneva che il sogno fosse sintomo di una incombente malattia. Il popolo, molto più semplicemente, pensava che i sogni erano suggerimenti, premonizioni e ad essi si atteneva prima di prendere qualsiasi decisione.
Artemidoro di Daldi, scrittore greco del II secolo d.C, scrisse un’opera in cinque volumi sull’interpretazione dei sogni, attingendo, com’egli stesso affermava, alla letteratura precedente sull’argomento e avendo ascoltato per anni, nelle piazze di molte città, gli indovini che discutevano sulla spiegazione dei sogni. Il trattato ha un notevole valore di documento perché testimonia le tradizioni e le credenze degli antichi su una materia tanto interessante. I sogni sono ritenuti anche la via maestra per le vincite al lotto e, sotto questo aspetto, c’è chi giura che, a saperli bene interpretare, si diventa sicuramente ricchi.
Freud si rese conto che il sogno era intimamente legato alla storia personale più di quanto fino ad allora s’era supposto. Egli cominciò l’analisi dei suoi stessi sogni, scoprendo coì che la produzione notturna ha come scopo principale il conseguimento dell’oggetto del desiderio, e si convinse inoltre che i desideri infantili “rimossi” sono all’origine di quasi tutta l’attività onirica, i cui contenuti rappresentano una sorta di sintomo nevrotico.
Carl Gustav Jung affermò addirittura che i simboli onirici appartengono ad un incoscio collettivo. Per Anatole France i sogni rappresentano le colpe di cui
ci rimproveriamo, che abbiamo cercato di soffocare da svegli e che ritornano durante la notte. Con il metodo della libera associazione, prima Freud e in seguito gli altri psicanalisti, da cento anni a questa parte, analizzando i sogni dei pazienti, portano alla luce quei drammi occulti che sono la causa remota dei problemi quotidiani e delle amarezze degli individui. Che sia importantissima la produzione onirica, definita la comunicazione più diretta per capire l’inconscio, lo attesta l’immenso rilievo che ha avuto la scoperta freudiana, che nemmeno i detrattori della psicoanalisi hanno potuto contestare.
Freud andò molto fiero della sua scoperta, ma quando seppe che del suo libro sui sogni, stampato in 600 esemplari, erano state acquistate solo duecento copie, se ne addolorò e disse all’amico Fliess: “decisamente il mondo non vuol far luce sulle proprie angosce”. È probabile che avesse ragione, infatti i libri della “smorfia” sono più consultati di quelli dello psicoanalista. Ma si sa, a volte si trova più comoda la politica dello struzzo e si preferisce “chiudere gli occhi”, ignorando i “nodi” che soffocano la nostra psiche, piuttosto che prendere coscienza dei motivi che originano la depressione.
IMMAGINI SALATE E COLORI RUMOROSI
Si chiama sinestesia e fa parte di una delle tante anomalie della nostra mente. Tra i più vistosi tratti di questo disturbo è la fusione dei sensi. In altri termini, in chi è affetto da sinestesia, il collegamento tra forme, colori, sapori, rumori, percezioni è così stretto e senza soluzione, che quando percepisce un suono vede contemporaneamente un determinato colore e magari prova nel palato un sapore particolare.
La prima volta che m’imbattei in un ‘sinestesico’ fu in aereo. Il mio compagno di viaggio era seduto vicino l’oblò e ad un tratto, guardando fuori un banco di nubi esclamo’: “Queste nuvole hanno un suono sgradevole”.
Sulle prime pensai che stesse scherzando, poi, il passeggero mi spiegò il suo problema. Mi disse che per lui il colore rosso era di sapore aspro e di suono stridulo, mentre il colore verde era pari alla nota la bemolle ecc. ecc.
Una particolare forma del disturbo è la sinopsia, detta anche audizione colorata, in cui le sensazioni visive vengono associate a sensazioni auditive. A chi è affetto da sinopsia può capitare di associare ad un colore un suono di frequenza determinata, oppure ad una parola particolari tonalità di colore! Un altro disturbo che mescola ‘colori’ con altre sensazioni è la sinalgia: con essa, un dolore può essere accostato a una sensazione particolare di colore.
Famosa è la descrizione di Ernst Hoffman, scrittore, musicista e pittore tedesco, che scrisse in un libro quasi autobiografico, che il maestro di cappella di Kreisler indossava un abito che sfumava verso il do diesis minore, ornato da un colletto colore mi maggiore. Un altro “fenomeno” fu il pittore Vasilij Kandinskij, iniziatore dell’astrattismo pittorico forse proprio a causa del suo disturbo. Egli sosteneva di leggere i colori in funzione di un rapporto diretto tra forme, suoni e movimenti.
Il famoso pittore russo affermava di aver realizzato con il suo modo di colorare un “libero gioco di suoni”. Il colore è una percezione sensoriale dovuta ai raggi luminosi riflessi o trasmessi dagli oggetti. Questa percezione, assimilata in un primo tempo chimicamente dalla retina, viene poi elaborata dal cervello. Secondo lo scienziato russo A. R. Luria, nell’apparato nervoso centrale non vi sono formazioni neuronali che possiedono una sola funzione ben determinata.
Da qui la possibilità di associazione di fenomeni percettivi di varia qualità. Questa polivalenza funzionale fa sì che stimoli di diversa polarità ma reciprocamente connessi, possono produrre “coppie” di sensazioni.
Forse anche il poeta Baudelaire intuì questa mescolanza sensoriale. Nella lirica Corrispondenze affermò che i profumi e i colori e i suoni si rispondono come echi che si confondono in una unità profonda. Baudelaire descrisse di profumi “verdi come praterie, dolci come gli òboi,e di altri “corrotti,ricchi e trionfanti””.
L’ipotesi di alcuni ricercatori è che probabilmente si nasca sinestesici e che poi la fusione dei sensi si perda, mentre in alcuni soggetti resta valida e radicata nel cervello fino all’età adulta.
L’esperienza di molti neurologi ci dice che sarebbero le donne ad avere questa caratteristica più degli uomini. In ogni caso, a volte, questo “disturbo” può essere anche utile. Sempre il famoso neurofisiologo russo A.R. Luria ricorda di aver avuto un paziente che aveva una memoria formidabile, soprattutto di carattere matematico. L’uomo riusciva a ricordare una serie di cifre anche a distanza di tempo, grazie al fatto che ad ogni numero associava un colore o un sapore. Al posto delle tabelle numeriche, in mente gli restava così un quadro policromo che quell’uomo “assaporava” con gusto.
C’è chi, con imprudenza e sprezzo del pericolo si crea in modo artificiale questo genere di sensazioni: è noto che chi assume mescalina quando percepisce un suono contemporaneamente vede anche un determinato colore.
Mi chiedo come si comporterebbe un pittore o un fotografo se i suoi legami associativi tra i vari stimoli sensoriali fossero così mescolati da fargli percepire al posto dei colori i suoni e al posto delle forme i sapori! Si dice che le qualità pittoriche di Leonardo da Vinci siano dipese dal suo mancinismo. Allora, come si regola un pittore e come fotografa reporter se sono sinestesici? Immagino già il dialogo tra il professionista e la cliente che va a farsi ritrarre: “Signora si tolga quel pullover rosso perché è troppo salato, e non va bene con la camicetta gialla che è dolce e per di più è in do diesis maggiore”.
Scherzi a parte, la sinestesia è un altro degli argomenti a sfavore di coloro che credono si possa conoscere con esattezza il reale. C’è infatti chi, forse con un po’ di superficialità, sostiene che “la realtà è quella che è e non la si può cambiare”.
Ma quale realtà ? Aveva ragione Pirandello quando diceva:” Così è se vi pare”.
QUALE TELEVISIONE?
Nessuna espressione dell’arte e delle comunicazioni di massa è stata tanto travagliata come la tecnologia televisiva. Né la fotografia né il cinema, nè la computerizzazione se pur con le loro evoluzioni inevitabili hanno subito mai tanti radicali cambiamenti come quelli che hanno stravolto il mezzo televisivo in un così ristretto numero di anni.
Quando si parla di televisione, non solo bisogna precisare se si tratta di bianco nero o colore, se con schermo di base per altezza di tipo vecchio formato (4×3) oppure di quello più moderno, con il medesimo schermo cinematografico formato 16×9,ma anche se il colore è nel sistema PAL, NTSC o SECAM e se l’immagine è configurata con il sistema analogico o con quello digitale ,e se è in alta definizione tipo HDTV giapponese o in alta definizione europea, sistema MAC.
Le cose erano cominciate male sin da principio per la tecnologia televisiva. Dopo che fu scoperta la TV b.n. si sentì l’esigenza di mandare in onda anche il colore. Ma per evitare che decine di milioni di televisori b.n fossero mandati al macero, i tecnici dovettero adattare il messaggio del colore in modo che potesse essere visto anche nei vecchi tv . Inevitabilmente, si costruì un grattacielo su fondamenta che fino ad allora erano buone solo per una baracca. Il sistema di produzione dell’immagine a colori fu un compromesso tra la tecnica e la commerciabilità, e il risultato in termini di spettacolo fu alquanto scadente.
Il compromesso che consentì che l’immagine colore potesse essere vista anche nei tv b.n. aveva creato un colore che si prestava poco ad essere registrato, ancor meno ad essere in seguito ricopiato. Le copie della seconda generazione (copia di una registrazione), risultavano pessime a causa del degrado cromatico molto pronunziato ed era quasi inaccettabile non solo in campo professionale ma anche in quello dell’home video. Questo avveniva in USA. In Europa si cercò di migliorare il sistema americano NTSC che venne messo da parte in favore del PAL(Germania) e del SECAM (Francia). Il risultato fu che si ebbero tre sistemi di colore tutti e tre incompatibili: essi non potevano essere recepiti da un televisore unico. Ma il caos non fu sono quello. Nei sistemi di registrazione televisiva si cercarono le soluzioni più disparate. In un primo tempo i registratori erano grandi come armadi e il nastro largo 2 pollici con sistema a bobina aperta. A mano a mano che l’elettronica si affinò e si miniaturizzò, diminuì il volume dei registratori e della larghezza del nastro ,che fu di un solo pollice. Con i registratori portatili si arrivò al nastro inscatolato da 3/4 di pollice che in seguito si restrinse ancora fino ad arrivare a 1/2 pollice e ad 8mm con caratteristiche ergonometriche tecnologiche quasi miracolose! ( Il tutto, sempre, com’è ovvio, nei sistemi NTSC, PAL e SECAM e con nastri di vario genere e con cassette incompatibili, tali cioè da non poter essere visionate con materiale dei vari sistemi di registrazione).
I sistemi meccano elettronici portatili di registrazione più comuni furono l’U-Matic (fascia professionale) e Betamax, Video2OOO, VHS e 8mm per l’utenza home video. A quel punto sorse l’esigenza di modificare il sistema colore e s’inventò un nuovo sistema con separazione dei messaggi cromatici da quelli b.n. Ciò rese tra l’altro più accettabile le copie della seconda generazione(copie delle copie) e in campo professionale si arrivò a poter avere copie in terza e quarta generazione perfette. Il nuovo sistema fu chiamato alta banda. Ancora una volta furono rivoluzionati tutti i sistemi di registrazione e di visione. IL 3/4 di pollice divenne alta banda, così come il VHS e l’8mm, rendendo incompatibili ancora un’altra serie di prodotti video con i precedenti!
Ma le diversificazioni non finirono qui. Il Giappone creò altri due tipi di alta banda diversi tra loro. Alla fine del terremoto si contarono i seguenti sistemi video alta banda,(oltre ai sistemi broadcasting da 2 e da 1 pollice,) l’U-Matic 3\4 nella versione BVU e SP, il sistema 1\2 pollice nelle versioni Betacam SP, l’MII, che hanno raggiunto qualità broadcasting e il Super VHS, il Super VHS-C e 8 Hi Band che sono a livello professionale, senza parlare poi del videodisco che adottando una tecnologia molto raffinata ha anche molti vantaggi rispetto al nastro magnetico.
Anche le telecamere hanno avuto un’evoluzione travolgente.
L’immagine che in un primo tempo era stata catturata per il b.n. da un solo tubo catodico, posto dietro l’obbiettivo della telecamera, in seguito venne elaborata per il colore da tre tubi ,per poi passare a sistemi elettronici sempre più precisi con sensori del tipo MOS e CCD FIP.Le telecamere che da principio pesavano decine di chili, divennero gioielli elettronici dal peso al di sotto del chilogrammo, e con possibilità di effettuare riprese quasi al buio!
Si sperò che dopo quella confusione, si potesse contare su un po’ di quiete tecnologica. Ma non fu così. Giappone ed Europa misero in moto i loro cervelli per dare al pubblico un’immagine video sempre più brillante, incisa e cromaticamente satura. L’era della televisione ad alta definizione era iniziata.
Ovviamente, ancora una volta nel completo disaccordo commerciale il che comportò che i vari concorrenti costruirono vari tipi assolutamente incompatibili di alta definizione! Quando sia i giapponesi che gli europei cercarono di piazzare nel mercato americano ciascuno per suo conto l’alta definizione, gli USA fecero un ragionamento molto semplice e dissero ad entrambi i concorrenti: perché impegnarci ancora una volta con un compromesso, l’HDTV giapponese o il MAC del progetto EUREKA europeo, che sono incompatibili e che creeranno problemi con i messaggi tv via satellite nel senso che alcuni televisori e alcune nazioni riceveranno un messaggio in codice PAL, altri in NTSC e altri in SECAM,e ancora una volta sarà impedito che qualsiasi programma televisivo possa essere visto in ogni parte del mondo?
Gli USA hanno chiesto dunque prima di scegliere il tipo di alta definizione che si rivoluzioni tutto il sistema televisivo e che non vi sia un’alta definizione analogica, ma solo quella digitale. Ciò porrebbe fine alle differenza del segnale colore NTSC, PAL, SECAM e renderebbe inutile la diversificazione oggi esistente e soprattutto consentirebbe copie a colori perfette e anche copie delle copie di qualsiasi generazione sempre eccellenti.
Questa richiesta USA rende vecchi, prima che abbia inizio la distribuzione, i due sistemi di alta definizione (i quali tra l’altro devono ancora essere del tutto perfezionati, anche se in Giappone attualmente le televisioni trasmettono già otto ore giornaliere in HDTV) e propone di rifare ancora una volta tutto daccapo.
Centinaia di milioni di dollari investiti nella ricerca andranno probabilmente perduti. Se, come è possibile, la proposta USA ,fatta da un paese che ha una grande ricezione di mercato sarà ascoltata, alle numerose industrie televisive che hanno già prodotto e ancora nemmeno immesso nel mercato milioni di televisori, di telecamere, di videoregistratori, di mixer e un enorme numero di varie attrezzature in alta definizione analogica, rimarranno nei magazzini prodotti quasi inutili che nessuno forse comprerà mai!
C’è poi il pericolo che se le industrie riusciranno a vendere il sistema tv ad alta definizione già tecnologicamente sorpassato, avranno tutto l’interesse a ritardare il progresso tecnologico in digitale e sarà ancora una volta un compromesso che verrà pagato dall’utenza alla quale verrà imposta a costi alti una tecnologia in pratica ormai obsoleta mentre verrà negato il prodotto d’avanguardia!
Oggi, la televisione digitale, e non solo quella professionale, ma anche quella consumer e amatoriale è diventata una realtà: è possibile avere qualità, manegevolezza, interattività anche a prezzi ragionevoli: il camcorder e le telecamere digitale sono in grado di fare delle fotografie che possono essere elaborate nel computer, le immagini digitali possono essere mandate via Internet etc etc. E, a proposito di sistema digitale, le macchine fotografiche digitali hanno orami del prodigioso, e invitano per sempre ad abbandonare le vecchie pellicole.
E bisogna anche tenere presente che sebbene la fotografia e le televisione digitale oggi sono il top della tecnologia, tuttavia è già in avanzato stadio di studio la televisione tridimensionale (3DTV) con un sistema altamente innovativo, che non comporta l’uso dei fastidiosissimi occhiali, come avveniva per il cinema in 3D,che segnò l’impossibilità a proseguire per quella strada, ma si avvale di uno schermo tv particolare e di una tecnologia di ripresa che necessita di una serie di telecamere(da 4 a 16 ) sincronizzate che riprendono contemporaneamente la stessa scena da angolature lievemente differenti e che quando le immagini vengono proiettate danno la sensazione di profondità. Per concludere, il mercato televisivo è nato per essere sempre in evoluzione! Da sempre, in materia di videoscienza, quello che compreremo domani, è già vecchio da ieri!
LA LIBERTÀ, È FORSE SOLO UN’OPZIONE?
Scriveva Karl Marx che l’uomo fa la storia sulla base di condizioni anteriori. Ciò perché la libertà dell’individuo è limitata, nel senso che l’uomo deve sempre fare i conti con il contesto nel quale si trova e con quello dal quale proviene.
Anche Sigmund Freud, con parole diverse, in fondo, ha espresso lo stesso concetto: l’individuo è condizionato dalla propria infanzia e la sua libertà dipende da ciò che apprese nel primo periodo della sua vita. L’adulto è dunque figlio del suo passato e le sue scelte dipendono soprattutto da come fu la sua educazione. Da un lato egli è il prodotto del suo passato (e per ciò è improbabile che sia libero) dall’altro, quando agisce crea una serie di conseguenze delle quali è responsabile.
Infatti la libertà dell’uomo coincide anche con la sua responsabilità, perché ogni atto di volontà del singolo può impegnare e condizionare una parte o tutta l’umanità. Dai grandi inventori, dai politici, dagli educatori, ma anche dai capi di stato, dipende la pace o la guerra, la morte o il benessere. Ma esiste responsabilità solo se c’è libertà: perché nessuno può essere considerato responsabile se ha agito senza possibilità di scelta.
A questo punto come valutare la libertà dell’uomo? Ogni azione è un atto di libertà, anche se la scelta è “guidata” da condizioni precedenti?
Come possiamo essere sicuri che sono stati veramente liberi di gestire la propria e l’altrui esistenza Hitler, Giulio Cesare, Chessman il mostro che uccideva nelle autostrade americane, Napoleone, Mozart, Einstein, Fellini e chiunque si mette in luce come protagonista e che s’impegna a fondo, nel bene o nel male, per modificare la storia?
Sebbene nessuno esclude a priori la libertà, tutti sono d’accordo che l’uomo, nell’affermare la propria volontà, può scegliere entro limiti ben precisi e determinati dalle condizioni storiche, sociali e psicologiche della propria esistenza. In un certo senso, al pari di qualsiasi giocatore, l’essere umano può scegliere liberamente le proprie mosse, ma “solo” nell’ambito delle regole imposte dal gioco.
In altri termini, una certa libertà è possibile, ma non è “vera” libertà. L’uomo prende costantemente delle decisioni, ma sono scelte che, in ogni caso, dipendono dagli imprinting ricevuti durante l’infanzia e che sono condizionati dalla società e dal periodo storico in cui vive il soggetto.
La libertà è dunque un’opzione tra alcune possibilità?
SICILIA: l’ISOLA DELLA CULTURA
La vivace attività intellettuale che da secoli pervade la Sicilia.
In tempi in cui la Sicilia viene talvolta in primo piano per aspetti sociali inquietanti, è opportuno ricordare come e quanto essa sia rappresentata nel mondo della cultura, delle scienze e dell’arte.
L’Isola ha dato i natali a umanisti, storici, artisti e scienziati di grande rilievo.
Vivace è dunque il fermento culturale nella storia della Sicilia. Federico II fu monarca “illuminato” e intelligente. In epoche successive le opere di studiosi come Nicola Spedalieri, Giuseppe Recupero, Domenico Tempio, di pittori come Antonello da Messina, Giuseppe Rapisardi e Sciuti, di musicisti come Bellini e Pacini,per citarne alcuni, mettono a fuoco l’impegno artistico e civile, che è il denominatore comune degli intellettuali siculi.
Verga, De Roberto, Capuana, Mario Rapisardi, Tomasi di Lampedusa, Brancati, hanno portato alla luce sentimenti e stati d’animo che affondano le loro radici nella “struttura psicologica” dell’Isola, e le loro opere sono diventate saggi sociali, indagini demoscopiche, analisi psicoanalitiche. Spesso, nella narrativa siciliana la “messa a fuoco” non si sofferma sul carattere prettamente “siculo”, ma si allarga in prospettiva universale, come accade in Pirandello.
L’humus dell’Isola diventa allora paradigma universale. Altra caratteristica dei siciliani è di non abbandonare mai la memoria della loro terra. Martoglio, Addamo, Patti, Joppolo, Bufalino, Bonaviri, Consolo, Lauretta con romanzi, saggi, ricordi e allusioni, anche metaforicamente, non perdono il legame con i luoghi dell’infanzia.
E se qualcuno, come D’Arrigo, Villaroel, Piccolo o Vittorini, narra vicende fuori dallo schema consueto, mostra sempre di ricordare la civiltà dalla quale proviene. Con Giuseppe Pitrè e S. Salomone Marino e oggi con Aurelio Rigoli, l’Isola è diventata fucina di studi antropologici ed etnostorici di alto livello.
Pantaleone e Sciascia hanno combattuto il malcostume politico, il crimine e la violenza e Fava, con coraggio e determinazione, si è esposto fino al sacrificio.
Generose e fiere, le siciliane non sono, come una certa tradizione vuole, delle Deodata o delle Lola, ma coraggiose protagoniste della storia isolana.
Costanza d’Altavilla governò saggiamente e difese il suo popolo dalla tirannide. Costanza d’Aragona riconquistò l’Isola strappandola a Carlo D’Angiò. Regine di rilievo furono Eleonora d’Angiò, Costanza di Svevia e Maria d’Aragona.
Nel periodo del Risorgimento le donne dell’Isola si distinsero per ardimento, e si può affermare che, da sempre, esse sono bene rappresentate in ogni campo.
Non potendo citarle tutte, ricordiamo Nina Siciliana la poetessa vissuta nel ‘200, le narratrici e saggiste Beatrice Calvo, Giuseppina Turrisi Colonna, Adelaide Bernardini (moglie di Luigi Capuana), Maria Campagna, Gemma Ferruggia, Maria Messina, Goliarda Sapienza.
Ad esse vanno aggiunte quelle che attualmente operano nel campo della cultura, dell’arte, della scienza e del sociale e che sono impegnate “sul campo” della pari opportunità, da Elvira Sellerio a Marinella Fiume da Anna Finocchiaro ad Anna Ruggieri da Annamaria Amitrano a Sarah Zappulla Muscarà,e a tante altre, impossibile da nominare tutte.
Come ignorare questo impegno che fa della Sicilia un grande serbatoio di idee, di riflessioni e di progresso civile?
Chi si adagia su sorpassati preconcetti e ravvisa il Sud solo come teatro di fatti di cronaca, fa torto alle figlie e ai figli dell’Isola. La Sicilia è una terra dal magma incandescente, soprattutto in quanto, storicamente, è una scintillante fucina di civiltà e di cultura.
Bisognerebbe ricordarlo e segnalarlo alle giovani generazioni.
L’ENIGMA DELLA MENTE UMANA:
CREDERSI AL CENTRO DEL MONDO
Si fatica a interpretare le motivazioni che hanno portato un avvocato di provincia ad uccidere ad uno ad uno i suoi due figli, a sopprimere la vecchia madre e il fratello disabile, e in fine a suicidarsi, “per punire” la moglie, ritenuta infedele, che lo aveva “abbandonato”.
“Era una persona schiva, riservata e tranquilla” afferma la gente che aveva conosciuto l’omicida. Ma definire l’improvvisa decisione che ha preso un uomo “riservato e tranquillo”, semplicemente un raptus, è un modo troppo sbrigativo e riduttivo per liquidare quella tragedia.
Si deve tentare di capire quale convinzione, pur distorta, ha originato quel gesto maturato sulla base di precise motivazioni. Il proposito di un uomo di sterminare la famiglia pone in primo piano una terribile realtà: vi sono persone che si ritengono al di sopra di qualunque giudice, di qualsiasi legge, di ogni morale.
Il gesto del “mite avvocato di provincia” restituisce alla comunità attonita la drammatica realtà di una vicenda simile a quella della mitica Medea che, abbandonata da Giasone, uccise con fredda determinazione i suoi figli “per punire” il marito.
C’è chi si costruisce nel proprio mondo immaginario, vincoli e dipendenze per cui, parenti, consanguinei e persone che più gli stanno a contatto, vengono ritenuti “oggetti” di sua proprietà.
Chi si crede centro del mondo, si sente legittimato da atavici riferimenti a compiere qualunque gesto e a schiacciare ogni valore. Nell’uomo che ha compiuto quella strage, rimbombava, in modo distorto, l’antico concetto di potestas.
Quell’avvocato di provincia ha utilizzato, nel contesto civile, un’usanza tribale. Mescolando miti e credenze, egli li ha coagulati in un pensiero impastato con brandelli di un primitivo inconscio collettivo. L’avvocato ha creduto di avere il diritto di adottare una “difesa” atavica, così come gli Incas che davanti al pericolo sacrificavano i loro figli. Nella mente di quel genitore assassino sono riaffiorati mezzi di punizione arcaici che lo hanno fatto ripiombare nell’abisso dell’umanità primordiale.
L’omicida riteneva che i figli fossero “oggetti”, un tempo concessi alla moglie, dei quali ora la privava ritenendola “indegna”.
Nella convinzione di essere depositari di un potere assoluto, autoconferito, alcuni tragici protagonisti della Storia e della cronaca, presumendo di incarnare la Giustizia, ritengono di avere facoltà di punire, di giustiziare e di autodistruggersi per non darsi in mano al “nemico”. Alle origini della storia dell’umanità i popoli tribali, davanti alla sconfitta, preferivano darsi la morte.
E anche oggi, i protagonisti di simili tragedie, calpestano diritti e libertà, convinti che tutto ruoti attorno a loro e che da essi dipenda la vita o la morte, e nel loro delirio di onnipotenza si sentono “abilitati” ad annullare chiunque sia loro d’impaccio. Giudicano, puniscono, eliminano, convinti che la loro potestà sia inappellabile. Non ammettono confronti, non accettano compromessi, non sentono ragioni fuorché le proprie.
Salomé pretese la testa di Giovanni Battista, reo di averle inflitto un ipotetico sgarro; Nerone impose che il filosofo Seneca si desse la morte ritenendolo colpevole di lesa maestà, lo sterminio degli ebrei fu stabilito da persone che secondo il loro furore immaginativo, ritenevano i “figli di Davide” un impiccio ai piani della Grande Germania.
Una vendetta atroce punire la moglie con spietata lucidità, rendendola orrendamente mutilata di tutti gli affetti. La mente dell’oscuro avvocato di provincia, da qualche anno anche “giudice di pace”, si è comportata più o meno come quella emotivamente immatura del Fuhrer il quale, di fronte al disastro della propria strategia, pose fine ai suoi giorni e spinse i suoi seguaci a darsi la morte.
Quell’avvocato ha adottato lo stesso comportamento primitivo col quale, migliaia di anni fa, presso alcuni popoli, il pater familias, poteva decidere se alzare con le proprie braccia il figlio appena nato e concedergli la vita o lasciare che fosse esposto nella strada e farlo morire.
Come diceva lo psichiatra Carl Gustav Jung, è possibile spiegare la follia umana, perché essa è uno dei tanti percorsi della mente e in qualche caso, a volte, è una di quelle scelte che, ci si accorge con orrore, in epoche passate, non venivano nemmeno considerate con raccapriccio.
PROGRESSO TECNOLOGICO E FALLIMENTO UMANO
L’uomo è interessato all’efficienza tecnologica, ma non è seriamente impegnato in una concreta autoeducazione psico-sociale.
C’è chi afferma che l’uomo è sempre più schiavo della tecnologia, convinto che è proprio il progresso che peggiora l’uomo e chi sostiene, invece, che senza il prezioso ausilio delle scoperte scientifiche l’uomo non potrebbe migliorare. La “Dichiarazione di Siviglia” elaborata nel 1989 da antropologi, psicologi, sociologi etc., sottoscritta anche dall’UNESCO, sostiene che le manifestazioni di violenza dell’umanità sono attivate dai modelli socio-educativi, e non da un incoercibile istinto aggressivo. Comunque sia, anche in quest’era tecnologica, il comportamento umano non ha evidenziato, sostanzialmente, concreti cambiamenti dall’età della pietra.
Se da un canto il Congresso di Siviglia, svoltosi in occasione dell’Anno della Pace, ha dato un significato “culturale”, piuttosto che “biologico” o “fisiologico” alla violenza, dall’altro si ha la sensazione, che l’uomo non sia educato seriamente al rispetto del prossimo perché, probabilmente “può essere conveniente”, per qualcuno, che l’umanità sia allo sfascio.
Così, la storia del progresso si identifica con lo sviluppo della tecnologia e non con l’evoluzione della razionalità sociale, della tolleranza e della “trasparenza”. Studiando la storia da Nerone al generale bosniaco Mladic, da Hitler al capo dei Kmer rossi Pol Pot, da Erode ai malfattori che utilizzano i bambini per fini infami, si evince che il comportamento umano non è affatto migliorato da migliaia di anni ad oggi.
Scoperte e prodotti sempre più perfetti, precisi ed efficienti come i computer, la telematica, le automobili, gli aerei, la medicina, la biochimica, la farmacologia, le tecnologie spaziali, etc., non hanno fatto progredire in nulla la condotta umana. Eliminate alcuni formalismi esteriori, se e quando ci sono, l’uomo, resta inaffidabile, come agli albori della civiltà e il suo inconscio non sembra affatto al passo con le sofisticate attrezzature e con le progredite conquiste scientifiche del 2000.
A chi sostiene che le cause della violenza dipendono dalla miseria, si può obbiettare che nel Secondo conflitto mondiale, le squadre responsabili dei territori occupati, le famigerate Ordnungpolizei, che compirono efferati soprusi e delitti, non erano formate da maniaci, pazzi, o criminali, bensì da gente comune, piccoli borghesi come quelli che incontriamo quotidianamente. Così come è stata una professoressa universitaria, insegnante di chimica, Bilijana Plasvic, che ha platealmente elogiato e spronato le truppe bosniache per la “pulizia etnica”.
Dobbiamo allora ammettere che il “cittadino” è rimasto spietato e grossolano proprio come era, alle origini, il “cavernicolo” e, malgrado gli sforzi tesi ad aumentare l’efficienza delle tecnologie, c’è un ipocrita impegno solamente formale e superficiale per migliorare la cultura del rispetto del prossimo. Anzi, sembra che tutto congiuri per peggiorare la condotta umana, per impedire lo sviluppo dei valori, per occultarne sempre più le qualità.
Un certo tipo di politica annientando qualsiasi entusiasmo creativo, insegna ad anteporre a tutto il potere e il denaro e indica nella furbizia e nello sgambetto gli strumenti più indispensabile per cavarsela; un certo tipo di scuola non si adopera per diventare maestra di vita e ciò che trasmette non lo fa in maniera funzionale. A volte insegna l’ipocrita retorica che annulla la capacità critica senza curarsi di assolvere al compito più nobile: l’educazione alla comprensione umana e alla ragionevolezza dei rapporti col prossimo.
L’uomo ha fatto e fa un uso improprio della tecnologia, utilizzandola spesso come macchina mortale. La scoperta dell’energia atomica, che avrebbe dovuto apportare enormi benefici all’umanità, è stata sfruttata anche dalla furia omicida di dittatori e di popoli spietati.
L’umanità utilizza per fini bellici non solo la scissione nucleare, ma si serve, in preda a un delirio di onnipotenza, dei progressi telematici, dell’aerodinamica e persino delle scoperte della chimica e della fisica per annientare il “nemico”, incurante del fatto che finirà col distruggere la natura.
Gli ordigni bellici telecomandati, le mine antiuomo, i mortali raggi laser, i gas asfissianti, le torture spietate dei prigionieri, etc, sottolineano che la malvagità umana non ha limiti. Essa si trova nei gruppi etnici che si combattono rifiutando qualsiasi soluzione razionale, nei sanguinosi conflitti sociali, nell’agone politico, subdolo e spietato, nelle faide della malavita, nelle farneticanti adunanze sportive e persino nei deliranti rapporti familiari e in quelli altrettanto crudeli tra partner.
Uomini e popoli accecati dall’odio, egocentrici ed empi utilizzano la tecnologia più avanzata per scopi sanguinari. Nulla è cambiato nella condotta umana, da quando i Borgia avvelenavano i loro nemici o da quando Attila sterminava chi si opponevano alla sua avanzata o dai tempi medioevali in cui venivano infilzati “gli Infedeli” o dagli anni del Seicento quando s’infiammava la caccia alle Streghe.
Ancora vige lo stesso tipo di corruzione che Cicerone denunziò ai tempi di Catilina, lo stesso nepotismo e gli stessi favoritismi in uso nei secoli XV e XVI, il medesimo clientelismo della Roma classica.
Il nazismo ideò l’annientamento delle razze non-ariane, così come, nel ‘500, i conquistatori al seguito di Hernan Cortés sterminarono gli indigeni; ai tempi di Omero, dopo la sconfitta, le donne divenivano preda del nemico vincitore, più o meno come è accaduto in Bosnia; ai giorni nostri si scatenano guerre tribali con modalità pari agli efferati eccidi del Medioevo. E ancora oggi gli intellettuali che la pensano diversamente dal regime vengono perseguitati esattamente come nell’antichità, quando Ovidio fu costretto da Augusto a fuggire da Roma, il filosofo Giordano Bruno venne messo al rogo e Galileo Galilei sottoposto a processo.
Oggi abbiamo esempi altrettanto eloquenti: Solzenicyn epurato durante gli anni della Russia stalinista, l’iraniano Salman Rushdie perseguitato da una sentenza di morte che chiunque può eseguire se s’imbatte nello scrittore tanto odiato dai potenti della sua patria. Contro la contestataria scrittrice Qazaleh Alizadeh, trovata impiccata, qualcuno sostiene che, invece, è stata probabilmente eseguita, senza far molto chiasso, una sentenza di morte. In molte parti del mondo, a minorenni e donne vengono imposti lavori in stato di schiavitù né più e né meno come nell’Egitto dei Faraoni. Le medesime ingiustizie sociali dei secoli passati si ritrovano in tutti i meridiani e i paralleli della Terra. Anche nelle moderne città dense di parchi e di grattacieli, servite da ascensori, dall’aria condizionata, da reti telematiche, da ospedali, da aeroporti avveniristici, da metropolitane efficienti si assiste alle medesime violenze, allo stesso disprezzo per il prossimo che si osservava, nei secoli passati, nelle zone più arretrate del Globo.
Un quotidiano riferisce che un mite e competente ragioniere, che lavorava ore ed ore al computer, era, nel tempo libero, uno spietato serial killer. “Chi poteva sospettarlo?” commenta l’articolista.
Un medico, professionista affermato e direttore di un ospedale, lo spietato Karadzic, arrivato al potere, ha fatto sterminare molte popolazioni nella guerra fraticida svoltasi nella ex Iugoslavia. Chi avrebbe mai previsto che uno scienziato, uno psichiatra, potesse arrivare a tanto?
Ma non sono solamente i grandi massacri, le grandi “purghe” e gli stupri collettivi che danno l’idea che la paura umana si trasforma quasi sempre in crudeltà quando è in preda a manie di persecuzione; ci sono anche violenze e raggiri truffaldini quotidiani da parte di singoli, di organizzazioni criminali e persino da parte di alcune autorità, che, con angherie, soprusi e prevaricazioni rendono invivibile il consorzio umano.
Lo sfascio dell’umanità appare più paradossale se si pensa all’enorme progresso legislativo, i cui princìpi e le cui normative sono particolareggiate, perfette e minuziose.
Il fatto è che, in molti casi, le leggi e persino le Costituzioni restano solamente una realtà tipografica. Tutto ciò rende più evidente il fallimento umano.
Ma non c’è da meravigliarsi: basta guardare l’uomo in filigrana. Analizzando la psicologia dell’individuo appare chiaro il male di cui egli è affetto: la stessa paura e la medesima crudeltà dell’uomo di Neandertal. Purtroppo continuerà ad essere una malattia inguaribile fin quando lo strumento fondamentale che potrebbe fermarla, l’educazione alla fiducia e al rispetto del prossimo, non diverrà una pratica diffusa e generale anche, e soprattutto, con l’esempio dei “potenti”.
Ma ai “potenti” giova che l’umanità sia ragionevole? Certamente è più semplice “manovrare” gente che non ha idee proprie.
A Socrate il Potere impose la cicuta proprio perché il filosofo greco insegnava ai giovani a ragionare.
IL CARATTERE E L’IMPROBABILE INFLUENZA DEGLI ASTRI
Anticamente, per “prevedere” il destino di un individuo, si cercava di stabilire la posizione degli astri al momento della sua nascita, con uno strumento detto oroscopo. L’oroscopo permetteva di osservare quali fossero le stelle emergenti in quel momento. In base a detta osservazione, i “dotti” determinavano le influenze degli astri sul neonato e “prevedevano” quali sarebbero stati i fatti salienti della sua vita.
Studiando la zona del cielo nella quale dalla terra si vedono muoversi il Sole, la Luna e i pianeti maggiori, tale parte dell’universo fu chiamata dai greci “Zodìon”. Lo Zodìon venne diviso in 12 parti che corrispondevano ai 12 mesi. Si ritenne che da questa zona del cielo, non solo si potessero desumere le stagioni, ma anche le influenze che lo Zodìon aveva sui caratteri umani.
Ad ogni punto equinoziale, così come si presentava a quel tempo, venne assegnato un segno zodiacale al quale, secondo gli astrologi del tempo, corrispondeva un particolare carattere psicologico. Ancora oggi le previsioni oroscopiche si basano su quelle fatte duemila anni addietro. Esse si trovano nelle apposite tavole dei libri III-V de Gli Astronomica del poeta latino Marco Manilio e nell’Opus Quadripartitum (o Tetrabiblon) dell’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo.
A quel tempo, ritenendo che l’influenza degli astri fosse determinante per capire non solo il destino ma anche i comportamenti umani, si cercò di stabilire quale fosse l’influsso astrale sulla genesi del carattere. Questo tipo di previsione fu considerata inappuntabile e persino ai giorni nostri, per prevedere quale sarà il destino di un individuo, si consultano le antiche tavole astrologiche. La cosa è ritenuta così certa che anche per “capire” il carattere di uomini noti come il tenace ammiraglio Nelson, o di grandi condottieri come Giulio Cesare, o di scrittori di talento come Ernst Hemingway, e individui crudeli come Al Capone e di tanti altri protagonisti, sono stati scomodati gli astri. Nella speranza di spiegare le personalità storiche e il loro destino e anche quelle di individui di più modesta quotidianità, si cerca di far quadrare l’oroscopo col nostro carattere e con gli eventi della vita.
E’ stato ascritto al destino astrale il carattere umorale di illustri personaggi, da Baudelaire a Verdi, da Alessandro Magno a Martin Lutero. E si trovano ovunque prontuari facili e comodi per capire il carattere di chiunque e per fare previsioni sul suo futuro.
Tuttavia, v’è un grosso equivoco nella credenza che la personalità ha origine dalle congiunzioni astrali. Difatti, quando furono fatti gli oroscopi non si tenne conto della precessione degli equinozi. La precessione è, nella meccanica celeste, il moto che un corpo compie ruotando su se stesso e contemporaneamente attorno ad un altro corpo celeste.
La Terra ha una precessione attorno al proprio asse e una attorno al Sole. Ma la posizione dell’asse terrestre, a causa dell’attrazione dei corpi e delle inevitabili oscillazioni durante il movimento di rivoluzione attorno al Sole, non rimane immutata. Cosicché avviene un lentissimo spostamento dell’eclittica, cioè del piano dell’orbita della terra. Questo evento ha determinare un anticipo degli equinozi, cioè delle due date dell’anno nelle quali il giorno e la notte sono di eguale durata sulla Terra.
A causa della precessione, la parità giorno-notte non avviene sempre alla stessa ora, ma 20 minuti e 23 secondi prima di quando avvenne nell’anno precedente.
Dopo duemila anni per ciò le corrispondenze osservate dagli astronomi greci tra i segni dello zodiaco e le costellazioni di cui portano il nome, e per le quali furono stilati gli oroscopi, oggi non coincidono più. Risultano, a causa della precessione, riferite a segni zodiacali errati.
Sarebbe come se in un poligono di tiro, dopo aver fissato la mira su di un bersaglio, esso viene continuamente spostato. E’ chiaro che non è possibile fare centro puntando dove era l’oggetto in precedenza, perché il bersaglio è andato a finire da tutt’altra parte.
Riferendoci all’oroscopo, il punto equinoziale e il segno zodiacale dell’Ariete, così come erano stati stabiliti molti secoli addietro, stanno nella costellazione precedente, cioè in quella dei Pesci! Poiché dunque, in pratica, ai nostri giorni, i nati a marzo, non ricadono nella costellazione dell’Ariete, bensì in quella dei Pesci, assegnare, a chi nasce nel mese di marzo le influenze caratteriali e psicologiche stabilite duemila anni addietro dalle tavole degli Astronomica di Marco Manilio e dall’Opus Quadripartitum di Claudio Tolomeo quali caratteristiche del segno zodiacale dell’Ariete è errato.
Infatti tutte le costellazioni da allora ad oggi si sono spostate di 32° e questo spostamento va continuamente aumentando.
Per essere più chiari: mettiamo che nell’anno 2000 a.C. siano stati fatti i rilevamenti delle corrispondenze tra gli astri e il carattere, per cui si è visto che chi è nato il primo gennaio del 2000 a.C., avendo un determinato tipo di volta celeste, che per comodità chiameremo Alfa, ha un determinato carattere. Si è instaurata così una corrispondenza, secondo la quale, chiunque sia nato il primo gennaio, essendo sotto il cielo Alfa, ha un determinato carattere, denominato “alfa”. Ma la corrispondenza tra primo gennaio e cielo Alfa, così come fu rilevata nel 2000 a.C., non è durata a lungo. Infatti, a causa della precessione degli equinozi, il primo gennaio dell’anno 1800 a.C., se si guarda il cielo sovrastante ci si accorge che non è più Alfa, ma Beta; e poiché chi è nato il primo gennaio, secondo i libri scritti nel 2000 a.C., ha un determinato carattere Alfa, dovuto alla particolare situazione del cielo Alfa, continuando ad affermare che chi è nato il 1800 a.C. ha un carattere alfa, si sbaglia di certo, perché chi èè nato il primo gennaio 1800 a.C., è invece nato sotto il cielo Beta, e dunque, per definizione dovrebbe avere il carattere Beta, e non Alfa. Continuando a rilevare chi è nato l’uno gennaio del 1000 a.C. , sempre per la processione degli equinozi, ci si accorgerà che è nato realmente sotto un cielo Epsilon, e non sotto quello di Alfa, come erroneamente l’Astrologia continua a sostenere per la corrispondenza stabilita nel 2000 a.C., e così, stando all’assicurazione degli astrologi, che è il cielo che comanda il carattere, chi è nato il primo gennaio dell’anno 1000 a.C., avrà dunque un carattere Epsilon e non Alfa, come invece affermano i libri per “coloro che sono nati il primo gennaio, cui corrispose, nel 2000 a.C. il cielo di Alfa”.
Sarà fra circa venticinque mila anni che i segni e le costellazioni torneranno a coincidere come al tempo in cui furono formulati gli oroscopi. Basta solo aspettare e tutto, per quella data, si rimetterà a posto.
Ma perché togliere le illusioni a chi ha fiducia nell’astrologia e non crede che alla base del carattere vi siano invece le influenze familiari, sociali, storiche e culturali?
Allora, avanti con l’oroscopo!
Gli interventi didattici e le dinamiche dell’inconscio
Premessa: la didattica non deve essere fredda tecnologia
Vorrei smitizzare alcuni preconcetti. Uno di questi è che le metodiche didattiche siano il toccasana per ogni problema di scolarizzazione, indipendentemente da chi le adotta e da chi le riceve.
Altro luogo comune è la convinzione che possano esistere formule didattiche tanto collaudate da essere efficaci in qualsiasi circostanza, per cui l’insegnante che le usa, è in grado di trasformare qualsiasi allievo e qualsiasi classe, come se avesse in mano una bacchetta magica.
In realtà, invece, malgrado la retorica di certe circolari ministeriali, che propaganda ideali didattici spesso inattuabili o conformistici, la vita scolastica quotidiana si presenta in maniera diversa da quella che le istruzioni ministeriali vorrebbero far intravedere.
Puntare sugli effetti degli “automatismi” didattici può dare una momentanea, fittizia sicurezza. Ma non bisogna illudersi che basti un manuale per guidare l’allievo in binari sicuri e perfetti .
Fino a qualche decennio addietro, la scuola ha trasmesso, più o meno passivamente, delle nozioni senza alcun tipo di verifica psicopedagogica. Ma è solo conoscendo le dinamiche interpersonali e quelle dell’apprendimento che è possibile individuare, caso per caso, le più efficaci tecniche didattiche. Perché le lezioni diventino piacevoli e affinché gli allievi possano superare le difficoltà del processo culturale con soddisfazione e profitto bisogna conoscere la psicologia dell’allievo e della classe. Senza ciò è impossibile un approccio efficace.
Le dinamiche interpersonali
La didattica non può dunque essere un semplice manuale di metodi che suggeriscono come insegnare una materia.
Tra chi insegna e chi apprende non vi è solo trasmissione di nozioni, ma è un rapporto umano. L’insegnamento è, prima di tutto, questo. Per trasmettere il sapere e risolvere le difficoltà dell’apprendimento, è necessario individuare le dinamiche interpersonali tra i due punti focali del processo educativo: docente e discente.
La funzione della scuola non è solo quella di scolarizzare gli allievi, ma di dare una formazione umana. L’insegnante è un educatore sui generis, al quale si chiede, oltre che la conoscenza della materia, una “missione educativa”. La trasmissione di idee e di valori deve essere condotta con maestria e competenza psicologica.
L’educazione rinnova l’uomo. E chi educa deve conoscere le dinamiche consce e inconsce della mente. Docenti ed educatori, per comprendere la personalità degli allievi, devono essere, pertanto, in grado di conoscere se in primo luogo se stessi.
È essenziale una competenza non solo dei processi di apprendimento ma anche dei fattori inconsci che li favoriscono o che si oppongono ad essi.
Non bisogna dimenticare che qualsiasi materia s’insegni è in ogni caso un atto educativo, per cui la maniera di contattare l’allievo è trasmissione di informazioni, ma è anche un intervento di livello psicologico.
Essendo impossibile insegnare senza suggerire ideologie, ne consegue che assieme alle nozioni si trasmettono anche valori, per cui l’intervento didattico non è un mero processo di tecnica dell’apprendimento: esso indirizza e plasma il discente.
L’inconscio dell’allievo e del docente
Non si deve ignorare che ogni alunno porta con sé, a scuola e nella vita quotidiana, le convinzioni, i preconcetti, le ubbie, e perché no?, anche le nevrosi che gli hanno trasmesso gli adulti.
Vista da questa angolatura la responsabilità dell’insegnante si moltiplica. L’approccio con la classe non può essere fredda tecnologia massificata e impersonale, ma un intervento psicometodologico da adattare, di volta in volta, alle necessità degli allievi.
La didattica è la sintassi della scuola, e serve a stabilire una procedura e una logica dell’insegnamento, ma la sua efficacia dipende soprattutto dalle dinamiche psicologiche del docente oltre che degli allievi. Nulla esclude che piccoli conflitti interni possano vivere anche nell’inconscio del docente il cui “Io” potrebbe essere afflitto da esperienze infantili non sempre felici.
Non si tratta di generalizzare l’esistenza di tormentati quadri sintomatici, tuttavia, è innegabile che la struttura del carattere del docente o qualche sfumatura emotiva fuori posto, possono influenzare il rapporto con la classe.
Può pertanto essere utile un’indagine delle forze pulsionali che potrebbero determinare un’eventuale ansietà o che sono alla base di tendenze emozionali più o meno nocive ai fini della conduzione del rapporto didattico.
Se insegnare è “trasformare” sia culturalmente che psicologicamente, chi insegna compie un’operazione pedagogica piena di responsabilità e di rischi. Egli “influisce” sulla personalità dell’allievo, lo spinge alla maturazione e lo induce ad accettare dei valori. Perché ciò avvenga senza nocivi inquinamenti, può essere utile una franca autoanalisi del modo come vengono affrontati in classe i problemi pedagogici, didattici e le relazioni interpersonali. Ciò può far prendere coscienza di eventuali situazioni conflittuali.
Non è un suggerimento umiliante: l’educatore è in primo luogo un pedagoterapeuta e qualsiasi terapeuta, per far bene il proprio lavoro, deve analizzare dinamiche e pulsioni del proprio Io.
Dagli insegnanti non si pretende, come nel caso dei terapeuti classici, un rigido perfezionismo, ma quanto basta per capire, quando le strategie didattiche non funzionano, per quale motivo la classe non “gira” come avrebbe dovuto.
L’insegnamento non è mai un atto “neutrale”. La conoscenza non arriva mai all’allievo in forma “asettica” e inevitabilmente l’insegnante nel fornire informazioni sulle materie di studio, trasmette anche coloriture ideologiche e, in certi casi, persino lievi psicopatologie.
Come rendere efficace una lezione
La lezione è efficace e ben accetta, quando stimola il sano sviluppo razionale e spinge gli alunni ad essere coerenti e logici. Quando sprona ad una mentalità scientifica e non superstiziosa e porta a saper discernere il vero dall’illusorio.
Quando invece le nozioni non vengono trasmesse in maniera appropriata, esse non suscitano interesse e si avranno scarsi miglioramenti. In questi casi l’allievo rimane passivo nella misura in cui è stato passivo l’insegnante, e l’oblio mnemonico cancellerà ciò che è stato inculcato senza vivacità alcuna.
L’insuccesso scolastico non è ascritto nei cromosomi, è il risultato di una serie di fattori ambientali, psicologici e sociali che determinano, sin dall’infanzia, il”destino” scolastico di un alunno.
L’educazione scolastica deve far sviluppare l’attitudine e l’amore per il sapere, sollecitando un apprendimento intelligente, vivace, interessante. Il docente deve graduare e proporzionare le difficoltà. Se per motivi contingenti si è rallentato lo svolgimento del programma, il chiedere in seguito un recuperare forzato può creare barriere insormonabili nella possibilità di apprendimento.
Si dice che sapere è la prima condizione per insegnare bene, ma può accadere che insegnanti di chiara fama siano poco seguiti anche se fanno lezioni dotte, perché non riescono a sintonizzarsi con le possibilità di ricezione della classe. Una lezione in forma discorsiva è più utile di una ampollosa e sterile trattazione ex cattedra.
L’accertamento del profitto, inoltre, non deve essere né fiscale né punitivo. L’interrogazione è dialogo e in certi casi è utile anche l’invito alla collaborazione di tutta la classe. Si evita così che sia un solo alunno “sotto torchio” mentre gli altri si disinteressano di ciò che accade nell’aula.
Il segreto è chiedersi: “Come posso rendere interessante quello che sto per dire? Come potrò coinvolgere l’uditorio facendolo partecipare attivamente?”.
Il modo come il docente “porge” alla classe i messaggi culturali è molto importante. La lezione non deve essere “fredda”, ripetuta con un cliché, ma deve soddisfare la curiosità, essere piacevole, contenere qualche aneddoto, essere suadente e spontanea, suscitare interesse e attrarre per qualche novità improvvisata.
Le forme dell’oratoria sono variegate: si può procedere senza interruzioni significative, oppure con pause per far meglio riflettere gli allievi, o con brusche svolte sull’argomento, in modo da stupire e da attrarre l’attenzione, creando un ordine crescente o decrescente di interessi, facendo intervenire anche gli allievi, o escludendo ogni loro intervento durante la spiegazione.
Colui che “parla” esercita un potere: le pause, le richieste d’attenzione col tono della voce, il dare o meno la parola all’allievo, sono metodologie che possono migliorare l’attenzione e far aumentare il carisma sulla scolaresca.
Una persona competente, sicura di sé, non altera la voce per farsi ascoltare. Il tono basso è più convincente. Parlare “al di sopra del rigo” è inutile; chi urla mostra una insicurezza di base che non giova al prestigio dell’insegnante.
All’Università dell’Ohio, il dott. Stanford Gregory ha calcolato di quanti decibel è fatta la “voce che convince”. Secondo questo studioso, per avere successo ed essere ascoltati il tono deve essere inferiore a 500 Hertz.
La competenza comunicativa è un complesso di regole per attrarre l’uditorio. Chi dosa il dialogo con l’interlocutore dimostra di saper comunicare in modo sciolto e convincente. Chi si esprime in modo incerto, con titubanza non ha autorevolezza.
La maniera di esprimersi del docente condiziona i poteri di apprendimento degli allievi e influenza la disciplina della classe.
Il modo come si conversa è un messaggio denso di significati. Anche l’atteggiamento del corpo talvolta può essere efficace e determina il rapporto con gli allievi.
Il contesto in cui avviene la comunicazione, l’identità e il ruolo dei partecipanti, l’evento comunicativo (una lezione, una conversazione, un’interrogazione) sono elementi da tenere presente per assumere il miglior comportamento comunicativo possibile.
Vi sono insegnanti che non badando ad essere chiari e dunque non possono essere compresi. Altri tendono a mostrare alla scolaresca che sono colti, ma nel trasmettere la loro cultura non utilizzano mezzi espressivi adeguati alla classe. Vi sono quelli che, invece, tengono soprattutto a farsi capire, utilizzando un linguaggio meno forbito, meno aulico, ma di facile presa sui govani.
Gli allievi dal canto loro tendono a modellare il comportamento dei professori con una sottile e fitta rete di richieste e di messaggi talvolta persino subliminali. Anche se in modo poco appariscente, la classe “controlla” gli insegnanti. Il docente che non riesce a percepire questi messaggi prima o poi può finire in contrasto con gli alunni.
Suscitare l’interesse
Le nozioni vengono meglio immagazzinate nella memoria se presentate come utili, interessanti e perché no? divertenti. L’insegnante deve mostrare che l’argomento non solo è un fatto di cultura, ma serve per la vita e per accrescere la propria umanità. Le nozione e le idee diventano materia di apprendimento se messe in relazione con gli interessi e con i bisogni dell’allievo e proposte come valido contributo alla sua maturazione psicologica e umana.
La l’argomento della lezione deve essere sempre presentato alla classe in modo tale che ogni allievo lo ritenga “una scoperta piacevole”. La routine dell’insegnamento può invece indurre talvolta a un’esposione monotona, svogliata. Bisogna invece rendersi conto che l’allievo, che s’imbatte per la prima volta nell’argomento, potrebbe ritenere l’argomento noioso se non gli viene presentato in modo stimolante.
Il sociologo Dale Carnegie sostiene, inoltre che per ottenere buoni risultati bisogna indurre l’interlocutore a desiderare la stessa cosa che vogliamo noi, dimostrargli che gli è utile.
Abramo Lincon, diceva che a tutti fanno piacere i complimenti. Si deve sempre tenere presente questa regola. Ma non con ipocrisia: nel caso della scolaresca, un sincero e buon apprezzamento può risolvere molti problemi.
Gli studenti, come qualsiasi essere umano, sono sensibili alle lodi mentre provano notevoli frustrazioni se non sono incoraggiati o valutati troppo spesso negativamente. Umiliare o schiacciare la personalità degli scolari comporta tensioni e malumori.
L’ipnopedia
Alcuni metodi di apprendimento si svolgono in maniera inconsueta, come quello adoperato da alcuni soprattutto per immagazzinare una lingua straniera. Si tratta della ipnopedia. La tecnica utilizza le prime ore del sonno e qualche ora prima del risveglio, mentre lascia integre le ore centrali perché si svolga un sonno ristoratore.
Questo tipo di apprendimento avviene soprattutto con una modificazione a livello neuro-cerebrale, senza passare, come in tutti gli altri casi, attraverso il vaglio della coscienza. Gli inventori sostengono che questo metodo velocizza l’apprendimento, abbassa le inibizioni a memorizzare, crea modificazione fisiologiche più stabili.
Non ho esperienza dei reali benefici di questo approccio, ma ritengo che qualsiasi apprendimento che non sia frutto di maturazione culturale non possa dare grandi risultati. In ogni caso, qualsiasi tipo di apprendimento se non è legato a una serie di interconnesioni tende e scemare. L’originaria fissazione dopo un certo periodo si deforma, si trasforma, crea errori se non è rinforzata.
La memoria: strumento indispensabile del sapere
L’intervento didattico deve promuovere nell’allievo l’autonomia della scoperta e della conoscenza, stimolando interesse e memoria. La memoria si coltiva impiegano alcune strategie operative: con l’esercizio, associando tra loro “gruppi” di ricordi, integrando “blocchi” mnestici con altri simili che fanno da rinforzo.
Elementi utili per migliorare l’apprendimento sono pure la concentrazione, l’attenzione, il contesto nel quale viene presentato un argomento, la padronanza del significato delle parole, una conoscenza di base dell’argomento.
La memoria, qualità della mente che condiziona l’acquisizione del sapere, si costituisce e si rinforza con l’attenzione. Senza curiosità, interesse ed attenzione non è possibile conservare ricordi. La memoria con una serie di sovrapposizioni e si rafforza con una fitta rete di informazioni interdipendenti. A mano a mano che si apprende si “percepisce” meglio e aumenta e matura la cultura.
Chi s’appassiona ad una materia la ricorda meglio di chi è indifferente ad essa. Chi non è motivato, non memorizza e, di conseguenza, perde in breve tempo tutto ciò che gli è stato trasmesso durante la lezione.
Col tempo, i ricordi si fanno imprecisi. Per evitare la loro cancellazione o la loro trasformazione, bisogna operare continui rinforzi, con ripetizioni.
Vari sono i metodi per memorizzare. I più significativi: mettere in relazione le varie parti da ricordare; costruire immagini visive di riferimento; utilizzare i ricordi di esperienze piacevoli ; localizzazione nello spazio e nel tempo le reminiscenze, ripetere per mezzo di cantilene, creare associazioni tra i ricordi più stabili e quelli nuovi da trattenere, etc.
L’utilizzo dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro
Secondo il tipo di memorizzazione, viene utilizzato l’emisfero cerebrale destro o quello sinistro. Il destro è utilizzato per memorizzare brani musicali, per il ragionamento spaziale e per tutti i tipi di memoria non verbale. L’emisfero sinistro soprattutto per l’elaborazione del linguaggio.
Ma questa diversificazione non è assoluta: i soggetti bilingui e i plurilingui, per esempio, utilizzano entrambi gli emisferi. Non potendo essere smaltito il sovraccarico linguistico dall’emisfero sinistro, il destro assume un ruolo importante per apprendere la seconda lingua.
Sebbene i due emisferi possono a volte adoperare strategie diverse per l’elaborazione delle informazioni, nel caso del linguaggio, l’emisfero destro si adatta a memorizzare e ad adoperare strategie simili all’altro emisfero per memorizzare una lingua e per poterla utilizzare, sopperendo così alle carenze di quello sinistro, troppo sovraccaricato.
Vari tipi di memoria
V’è una memoria a breve termine e una a lungo termine.
La prima ha una capacità limitata: può memorizzare qualche cifra, qualche frase, o semplici nozioni. Se ciò che viene immagazzinato ma non fa parte di una catena complessa di riferimenti, è soggetto a durare solo per un breve periodo.
La memoria a lungo termine richiede un’organizzazione neuro-psicologica più complessa e forma una grande rete di interconnessioni. Viene utilizzata per studiare una materia, per apprendere un mestiere, per imparare una lingua, insomma per tutte quelle occasioni in cui non si tratta solo di trattenere una o qualche informazione, ma una serie complessa di nozioni collegate in blocchi interdipendenti. Questo tipo di memoria si costituisce organizzando, classificando e accorpando per similitudine o per contrasto le informazioni da memorizzare. Si crea così una fitta struttura mnestica, una biblioteca mentale, con indicazioni e riferimenti. Tutto ciò rende più pronto e meno problematico il richiamo alla mente di una notizia, di un fatto, di una parola o di una frase che fanno parte di contesti più ampi.
La memoria a lungo termine utilizza dunque una consolidata serie di raccordi, laddove, quella a breve termine non ha elementi di collegamento.
Anche il ritmo dell’apprendimento è importante: la memoria funziona meglio se si apprende con regolarità, con metodo e con un certo anticipo, incamerando le nozioni a strati sovrapposti, il che migliora e perfeziona la qualità della memoria.
È da sconsigliare lo studio all’ultimo momento e in fretta . In questo caso non si ha tempo per maturare ciò che si è appreso e la “paura di non ricordare” fa diminuire la capacità di rintracciare i ricordi , come può accadere durante un esame.
La memoria è più pronta nei giovani, nelle persone che hanno interesse a ricordare, che sono stimolate da un argomento e in coloro che sono più attenti e motivati.
Negli anziani è più stabile la memoria del passato(retrograda), mentre quella a breve termine (anterograda) è labile. L’apprendimento sarà più proficuo quanto più il rapporto sociale e la dinamica del gruppo saranno piacevoli. Se gli allievi sono affiatati e spinti al lavoro d’équipe, producono al massimo. Lo stimolo ad approfondire è dato da parole appropriate del docente, da elogi calibrati. L’individuo assimila se non è in contrasto con l’ambiente.
La memoria non può funzionare senza la conservazione dei ricordi ma anche senza la reminiscenza, che è la capacità di far affiorare alla coscienza i ricordi. Può accadere che malgrado vi sia stato l’apprendimento, in seguito si presenti una difficoltà di reminiscenza o di riconoscimento dei ricordi. Può essere una difficoltà a far affiorare i ricordi (reminiscenza)e o a “riconoscerli”. Difficoltà della memoria si possono verificare nell’immagazzinamento, o al momento della reminiscenza(in questo caso può essere dovuto all’emozione). A volte, a causa di un trauma viene memorizzato un ricordo che perà in seguito non si riesce a far emergere, essendo altamente conturbante. Tecnicamente, questa incapacità di ricordare ciò che è nella memoria, si chiama “rimozione”
Disturbi e fattori inconsci dell’apprendimento
Qualunque sia la via che intraprendiamo per parlare dei processi di apprendimento, dobbiamo fare riferimento ai fattori inconsci che li favoriscono o che li limitano. Se l’allievo è distratto da problemi personali, familiari o di altro genere, il disagio scolastico è il primo sintomo. L’apprendimento può avvenire quando il soggetto è libero da processi emozionali e i suoi meccanismi dell’attenzione e della memoria sono integri.
Alcuni disturbi dell’apprendimento sono di carattere psicologico, come le amnesia da stress o da paura. Lo stress blocca il consolidarsi della memoria e impedisce che alcune esperienze vengano registrate. Le difficoltà emotive si riflettono anche nella ricerca dei ricordi, perché le emozioni paralizzano la reminiscenza.
Altri disturbi dipendono dal sistema neurologico come la dislessia, la disgrafia, i disturbi visuospaziali, le difficoltà nella matematica o nella musica.
Gli allievi che da giovanissimi furono bambini iperattivi, nell’adolescenza presentano disturbi dell’attenzione e di conseguenza di apprendimento.
A causa di gravi stress cronici dovuti a situazioni sociali o familiari, vengono secreti degli ormoni come l’ACTH, che agiscono sulle cellule nervose e impediscono il normale processo di apprendimento. Molti giovani che vivono situazioni sociali precarie non solo non sono nelle condizioni psichiche ma anche in condizioni neurologiche di poter apprendere.
Nei disturbi dell’apprendimento possono essere coinvolti il sistema sub-corticale, l’ipotalamo, la parte sinistra o destra dell’emisfero cerebrale. Il giovane con un disturbo di apprendimento visuospaziale potrebbe non saper incolonnare dei numeri, o non seguire alcune procedure di tipo matematico. La dislessia impedisce la normale lettura delle parole, e la disgrafia (trasposizione di lettere, ripetizione di sillabe etc) aumenta considerevolmente gli errori di scrittura.
E’ necessario capire almeno nelle grandi linee, il tipo, la portata e l’intensità delle forze che limitano in un allievo le capacità di apprendere.
Spesso l’allievo è coinvolto da un conflitto interno, per cui la sua resa scolastica è limitata. Il riconoscimento di una simile situazione di difficoltà può avvenire con un minimo di nozioni appropriate e senza con ciò avere la pretesa di psichiatrizzare l’aula scolastica.
L’osservazione del comportamento dell’allievo, la maniera con la quale interagisce con i compagni, la valutazione dei suoi atteggiamenti, possono far intravedere la portata dei suoi conflitti interni. A volte si tratta di una realtà che spesso il giovane cerca di occultare, o che persino ignora, ma che inevitabilmente impedisce lo svolgimento dei compiti scolastici.
L’inconscio e i paralizzanti conflitti di base
La speleologia della psiche è un esercizio utile e produttivo perché mette in risalto i fattori che concorrono al disordine dell’emotività e ai disturbi del comportamento. Affrontare la comprensione del “profondo” significa partire dalla constatazione, abbastanza ovvia, che la coscienza non è l’unico serbatoio dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e dei nostri ricordi.
Anche quando la nostra coscienza non è attiva, durante il sonno, il nostro “Io ” vivere situazioni e stati d’animo come nello stato di veglia. Il che ci fa supporre che esista un serbatoio di ricordi e di pensieri, di cui sappiamo ben poco, che contiene esperienze, stati d’animo, vicende, parallelamente a quelli della coscienza, e che influiscono in qualche modo sul nostro comportamento e sul nostro umore.
In effetti, capita di compiere qualche atto quasi senza sapere il perché, di avere antipatie o simpatie ingiustificate, gusti e disgusti di cui non conosciamo l’origine. Il fatto è che molti di questi stati d’animo e di queste scelte, sono comandati da quello che Freud definì “inconscio” e che altro non è se non la nostra “memoria” ancestrale, il nostro pensiero libero e primitivo, privo di quei condizionamenti volontari o obbligatori che ci imponiamo per potere stare in società.
L’inconscio è la parte più profonda e nascosta del nostro Io, quella più spontanea ma anche quella meno socialmente “educata”. Per questo, nei sogni, espressione massima della nostra libertà, facciamo accadere eventi, sviluppiamo pensieri, avvenimenti e sentimenti che non avremmo mai il coraggio di esternare, forse nemmeno a noi stessi.
Nell’inconscio si sviluppa la nostra protesta esistenziale più feroce, ed è proprio dal profondo del nostro Io che si sviluppano i conflitti con la società, con i luoghi comuni, con i tabù e con tutto ciò che limita e frustra il nostro esistere.
L’individuo ha bisogni essenziali e primitivi che la società in certi casi non permette siano esauditi perché li condanna come inopportuni. Per dar sfogo alla rabbia che consegue al divieto, nel soggetto si crea uno stato di conflittualità nell’inconscio.
Sono molti gli aspetti tipici di questo conflitto di base, che ha inizio nell’infanzia.
Osservati per quanto riguarda l’attività scolastica, essi si manifestano con la chiusura dell’allievo in se stesso, con un’eccessiva aggressività, con la fragilità psicologica nei rapporti con i compagni o al momento dell’interrogazione.
Il rifiuto della scuola, secondo il DSM III-R, manuale mondiale dell’associazione psichiatria per la diagnosi e la statistica dei disturbi mentali e del comportamento, viene classificato come disturbo di ansia e di separazione.
Questo genere di “problema” è inserito tra i disturbi di evitamento tipici della fanciullezza e dell’adolescenza.
Predisposizioni al rifiuto di scolarizzare, soprattutto nella prima infanzia, possono essere esperienze particolarmente stressanti. Più tardi, quando l’allievo è cresciuto, il rifiuto di inserirsi nelle classi delle scuole superiori, o di seguire regolarmente le lezioni può dipendere da diversi fattori, quali: protesta contro la famiglia, somatizzazioni (cefalea, disturbi della memoria ecc.), mancanza di autostima e paura di fallimento, problemi economici, o altri progetti di vita.
Il mancato inserimento scolastico può essere condizionato da “spinte” inconsce, acquisite nell’infanzia, e delle quali il soggetto stesso ignora l’esistenza, ma che determinano ciò che l’individuo è capace o che è incapace di fare e anche ciò che egli è persino “obbligato” a fare.
La mente umana è diretta da una fitto reticolo di pulsioni e di scelte inconsce. Lo stress che ha radici nelle esperienze infantili e che è dovuto a ricordi dolorosi del passato, si annida nel profondo, minando l’equilibrio nervoso e riducendo i poteri di apprendimento. Ma questo collegamento tra “inconscio” e capacità personali del soggetto non è sempre messo bene in luce.
Dovrebbe invece essere la prima analisi, soprattutto in campo scolastico, per capire quali solo ” i blocchi” ma anche le attitudini dell’allievo e per scoprire le motivazioni del suo comportamento scolare e sociale.
Vi è secondo J. Piaget, un “inconscio” cognitivo, che determina in qualche modo le scelte anche in materia di apprendimento. In altri termini, un soggetto può essere portato, per motivi che ignora, ad orientarsi verso la matematica, un altro verso la letteratura, un altro verso lo sport e così via.
Il soggetto non si rende conto della ragioni che lo “costringono” a pensare in questa o in quella maniera e ignora le ragioni profonde che orientano e dirigono il suo pensiero verso uno o l’altra direzione. Solo grazie ad una indagine più approfondita, è possibile risalire all’origine dei gusti e delle tendenze.
Biografie che aiutano a comprendere
e spiegare “le tendenze” culturali
Di molti personaggi grazie a biografie dal taglio psicoanalitico, si conoscono le vicende dell’infanzia. Pablo Picasso deve la passione per la pittura alla sollecitudine del padre. Insegnante di disegno e pittore mediocre, Josè Ruiz Blasco seppe infondere in Pablo sin da piccolo, l’amore per la pittura. Egli spinse il figlio a disegnare e lo incoraggiò tanto che Pablito iniziò a dipingere prima di saper scrivere. José Ruiz desiderava che il figlio arrivasse dove lui non era riuscito e Pablo s’impegnò fino allo spasimo per non deluderlo. Ancora piccolissimo, Pablito copiava i disegni del padre il quale prediligeva le colombe. In onore del padre, da grande Pablo ne disegnò una che divenne famosissima!
C’è da chiedersi se Picasso sarebbe potuto mai diventare quel che fu, senza gli stimoli necessari e tempestivi. La creatività, l’acume, la curiosità scientifica, le qualità artistiche sono molto spesso legati propria alle prime esperienze infantili.
La buona educazione musicale che Wolfgang Amadeus Mozart ricevette in precocissima età dal padre, Leopold, lo spinse alla musica quando ancora non sapeva nemmeno parlare bene. Sebbene Leopold Mozart fosse solo un dilettante, Wolfgang lo prese sin da piccolo come impareggiabile modello.
La conferma che i buoni addestramenti portano eccellenti risultati, la dà il fatto che la sorellina di Wolfgang, ben istruita dal padre, suscitò l’ammirazione di tutta Vienna per le doti di piccola concertista. I fratelli Mozart intorno agli otto anni già riscuotevano vasti consensi di critica e di pubblico!
Racconta il musicologo Adriano Bassi, nella biografia di Toscanini, che il nonno di Arturo, Angelo Toscanini, proprietario di un filatoio a Castelmaggiore, era amante della musica classica e aveva insegnato al figlio, il padre di Arturo, che poi divenne sarto, la passione musicale, facendolo cantare al Teatro Regio di Parma. Il piccolo Arturo fu dunque stimolato dal nonno, dal padre e anche da una giovane sarta (una certa Medea Massai) che lavorava presso la bottega di Claudio Toscanini,. Costei, nei momenti liberi, faceva giocare Arturo con uno strumento che lei stessa aveva costruito e che produceva i suoni di un violino.
Il piccolo Toscanini ne era entusiasta e mostrava grande interesse nel suonarlo. Fu così che Arturo, a nove anni poté, grazie anche all’opera della sua maestra elementare Camilla Veneroni, essere iscritto alla Regia Scuola Musicale.
J. P. Sartre nel suo libro autobiografico “Parole”, sottolinea il valore della buona educazione intellettuale. Il nonno di Sartre, figlio di un ex maestro elementare, insegnò al nipote l’amore per la cultura, spingendolo ad amare la lettura e a divenire scrittore. Narra Sartre che il vecchio un giorno lo portò davanti alla libreria e indicando alcuni volumi gli disse: “Quelli, piccolo mio, li ha fatti tuo nonno” da quel momento per il giovanetto i giocattoli preferiti divennero i libri.
Scriverà Jean Paul: “Il mestiere di scrivere mi apparve come un’attività di persone grandi”. Sartre arriva alla conclusione che probabilmente egli sia diventato scrittore “nella sola e folle speranza di piacere a mio nonno”. Un nonno che, quando gli fu lontano, gli inviò alcune poesie composte proprio per il nipote. E Jean Paul, che a quel tempo aveva più o meno otto anni, gli rispose anch’egli in rima!
Se ci fosse qualche dubbio che l’educazione possa “forgiare” la coscienza e la personalità del bambino, questi e altri esempi avvalorano la tesi che le prime acquisizioni creano strutture permanenti nella mente umana.
Gusti, tendenze e gradienti di sviluppo necessari per acquisire nuove conoscenze, dipendono dai primi insight e l’inconscio cognitivo che si forma durante l’infanzia e condiziona i poteri di apprendimento.
L’universo familiare è un’inesauribile fonte di condizionamenti. Jerome K. Jerome e Mark Twain, geni dell’umorismo, vissero un’infanzia serena. Nelle loro famiglie regnava l’allegria e i loro genitori erano dei buontemponi. I parenti di Twain erano simpatici e fantasiosi. Cresciuto in quell’atmosfera burlesca e vivace, Mark sosteneva che la serenità d’animo e la capacità di sapersi divertire sono una buona preparazione per lo studio, per il lavoro e per l’equilibrio psicologico.
La bonarietà e la tranquillità a casa di Jerome K. Jerome furono essenziali al sano modo di vedere la vita e allo humor del piccolo Jerome. Il giovinetto imparò a vedere le situazioni quotidiane sotto un aspetto divertente. Da grande divenne uno degli umoristi più noti di tutti i tempi.. Se la dinamica familiare è compromessa da tensioni e scontri, si notano nel giovane un impoverimento delle iniziative, una banalizzazione della vita e, nell’ambito scolastico, una incapacità ad apprendere. Non sempre lo stress è stimolante,come nel caso di di Kafka, le cui oppressioni psicologiche subite in famiglia, la cui eterna battaglia col padre, forgiarono in ben altra maniera il suo inconscio e di conseguenza il suo modo di fare letteratura. come nel caso di Kafka. In molte occasioni si trasforma in accidia o in frustrazione, come si può desumere dalle biologie di Toulouse-Lautrec, Vittoria e il principe di Galles, Edoardo, Beppe Fenoglio, A. Gide, Guglielmo II, figlio di Federico III e Vittoria Adelaide, Antonio Gramsci, Mario Vargas Llosa.
L’addestramento e l’apprendimento
devono essere precoci
Il cervello umano, raggiunge la migliore capacità se addestrato nei periodi più idonei. I comportamenti meglio memorizzati sono quelli appresi nel primo periodo della vita. Ricerche etologiche dimostrano che gli elefanti non dimenticano i traumi della loro infanzia e che i salmoni ricordano i luoghi della nascita, nei quali tornano dopo anni. I piccoli pinguini imprimono nella memoria, appena nati, il suono della voce della loro madre e non lo dimenticano più: se non lo facessero non saprebbero chi li deve allevare. Non riuscendo a riconoscere quei suoni rischierebbero di morire.
Per le attività più complesse, non bastano gli imprinting della nascita. Il giovane che è destinato a fare il trapezista, o la ragazza che fa la contorsionista, devono iniziare per tempo lunghi e faticosi allenamenti.
L’apprendimento è volontario ma può anche essere inconscio. Il modo di comportarci in società, come facciamo all’amore, come guidiamo l’automobile e come reagiamo alla paura, e persino i nostri gusti alimentari, il modo di camminare e la nostra inflessione della voce, dipendono dalle prime esperienze, alcune delle quali rimangono solo nel profondo e non affiorano più nella coscienza.
L’atteggiamento di fronte alla vita e il senso di realtà derivano dall’infanzia. In quel periodo si instaurano situazioni “di controlli invisibili” e il soggetto è spinto ad agire, a pensare, a vivere secondo i messaggi che riceve dagli adulti.
Il bambino impara atteggiamenti liberi, stereotipi ed emotivi. J. Piaget definì plastica la psiche infantile e notò che il periodo più fecondo per forgiare la mente è l’infanzia.
Talvolta, il modo in cui i bambini vedono la realtà è dissimile dal punto di vista degli adulti, in qualche caso è più autentico. Ma gli adulti insegnano abitudini, atteggiamenti e rituali “consolidati” dalla società e il bambino è costretto a soffocare la propria spontaneità e ad adeguarsi agli imprinting che gli forniscono gli adulti.
Il rifiuto scolastico
Il rifiuto della scuola e dell’apprendimento ha basi sociopsicologiche. Quando nelle classi superiori si procede ad una anamnesi di allievi in difficoltà, il più delle volte si scopre che si tratta di soggetti che nelle scuole primarie hanno avuto un approccio problematico con la scuola. Il più delle volte sono alunni che nelle elementari hanno avuto crisi di panico e d’ansia, dolori addominali e cefalee, o che, non avendo trovata comprensione né aiuto in classe, hanno sempre rifiutato la scolarizzazione.
Nell’adolescenza le modalità di evitamento sono più raffinate: non si tratta più di somatizzazioni “grossolane” come avvenivano nella scuola primaria. Gli alunni delle classi superiori si dichiarano stanchi, incapaci di concentrasi, o dicono di essere oberati da problemi affettivi e sociofamiliari.
In alcuni casi, hanno paura di cimentarsi con i problemi dell’apprendimento e di venire paragonati ai compagni più bravi. Per molti giovani è più semplice evitare il confronto, sfuggendo alle lezioni, mostrandosi superiori e spavaldi nei confronti dei compagni “più bravi”.
Rigettando l’approccio con la cultura, non rischiano di perdere la faccia cimentandosi in un campo che non gli è congeniale.
Del resto, è la famiglia stessa che a volte allontana l’allievo dalla vita scolastica, minacciando il giovane che la scuola sarà una dura palestra di vita, magari ingenerosa e ingiusta. Così facendo i genitori sperano che “finalmente” il figlio avrà paura di qualche insegnante, il quale così riuscirà a inquadrare e a imporre rispetto e disciplina ai loro figli, dal momento che essi, da genitori, non lo hanno saputo fare.
In alcuni casi, la mancanza di amore per lo studio del giovane dipende dal fatto che la classe dei docenti è disprezzata dalla sua famiglia.
I docenti sono rifiutati e criticati da quei genitori che hanno avuto a loro volta problemi di scolarizzazione. Spesso genitori ignoranti rigettano o criticano idee e concetti che il giovane apprende a scuola. Questi “cattivi” esempi familiari sono alla base di una difficile scolarizzazione e della incapacità cronica di apprendimento.
Inutili, in questi casi, i castighi scolastici e l’umiliazione di pagelle scadenti. Metodi che lungi dall’essere stimolanti fanno anzi regredire le capacità di apprendimento.
L’intervento della scuola
Certamente la scuola non può cambiare quello che la famiglia e la società hanno prodotto con anni di errori pedagogici. In qualche caso è possibile, quanto meno, creare un legame di fiducia con l’allievo e attenuare i conflitti interni di cui egli soffre, dandogli fiducia in se stesso.
Ogni individuo possiede orgoglio e desiderio di migliorare. Se si riesce a far leva su questi pilastri, stimolando il bisogno insito in ogni essere umano di essere ben valutato, allora il rapporto tra docente e discente prenderà la strada di un buon dialogo e di stima reciproca e l’allievo potrà andare verso la cultura e verso più proficue esperienze umane e sociali.
La scuola può tentare di raddrizzare una situazione compromessa, soprattutto sviluppando nell’allievo il senso della socializzazione e facendo scoprire il piacere di utilizzare il mezzo culturale e la capacità di seguire delle regole.
Caratterologia delle personalità
Nel dare una valutazione psicologico-culturale dell’allievo e nel formulare le strategie didattiche, l’insegnante deve, ove possibile, tenere presente qual è l’humus inconscio dell’allievo e la sua psicologia.
Forse è utile tratteggiare brevemente alcuni profili caratteriali che possono aiutare a comprendere l’allievo.
A parte la classificazione di carattere introverso ed estroverso, facilmente individuabili negli atteggiamenti degli allievi, si posso tracciare tre tipi fondamentali di carattere: il remissivo, lo spavaldo, il tenace.
Riferendoci alla dinamica scolastica, l’immagine del primo tipo, è l’allievo che sottostà all’autorità. Egli è remissivo, desideroso di cure, chiede di essere accudito, compreso, perdonato. Ha paura di sbagliare, non prende iniziative, mostra attenzione alla lezione ma è così timoroso che a volte sbaglia le risposte pur non essendo impreparato. In qualche caso, tuttavia, con una certa furbizia, questo tipo caratteriale “approfitta” della sua proverbiale e sbandierata debolezza per uscire indenne da situazioni scolastiche o disciplinari.
Un secondo tipo è l’allievo dal carattere spavaldo.
Superficiale, si mette in luce nella classe con comportamenti eclatanti, ed è sempre pronto a rischiare pur di farsi notare. Per dimostrare di essere in grado di fronteggiare anche l’insegnante, egli spinge la classe all’indisciplina e alla contestazione.
La struttura di questo carattere poggia su forti bisogni narcisistici. L’allievo spavaldo, se trattato con le dovute maniere s’impegna e da il meglio di sé, e in qualche caso, grazie al suo carisma, riesce anche a ricucire situazioni all’interno della classe che impongono una certa delicatezza. Ma se è contestato, soffocato o rimproverato, se il suo narcisismo è ferito, egli esplode con forti risentimenti e con ribellioni violente.
Il carattere narcisistico si costituisce a causa di gravi frustrazioni subite durante l’infanzia, e si mantiene tale a causa del fatto che tali ferite non sono mai rimarginate. Non è possibile trovare collaborazione in quest’allievo se l’insegnante riapre le sue piaghe. Sebbene appaia spavaldo, in realtà il giovane narcisista è fragilissimo se colpito nel suo tallone d’Achille. Ma può diventare vendicativo e commettere gesti inconsulti. Malgrado le apparenze, egli è fragile più del remissivo perché più facilmente vulnerabile a causa delle angosce narcisistiche inconsce.
Vi è in fine l’allievo “tenace” desideroso di farsi avanti con costanza. Egli è volitivo, puntiglioso ma a volte alquanto chiuso e in certi casi permaloso. Non ammette debolezze, né per sé né per gli altri. È studioso ma anche molto caparbio. Non perdona i passi falsi. Nei confronti dell’insegnante pretende che tutto avvenga senza sbavature né lassismi. Talmente rigido che si mette in cattiva luce anche con i compagni. Ma sulla sua costanza si può contare perché non cambia il “binario” sul quale viaggia.
Non esiste, in astratto, il carattere ideale. Ognuno ha pregi e difetti.
Un allievo abbastanza disciplinato, senza essere pietosamente sottomesso, simpatico e spavaldo, senza arrivare ad eccessi e a sbruffonate, vivace e costante nello studio ma non meticoloso fino all’esasperazione, assomma i pregi dei tre caratteri, senza estremizzarli.
Specularmente alla caratterologia degli allievi, si possono tracciare alcuni tipi di insegnanti.
Vi sono docenti remissivi e impacciati, preoccupati della disciplina e dell’impatto con la classe, i cui atteggiamenti tendono a chiedere “benevolenza” dagli allievi. In questa categoria vi sono anche quegli insegnanti che tengono in maniera infantile all’approvazione della classe. Vi sono poi quelli che lasciano troppo spesso l’iniziativa alla classe per paura di essere contestati.
Altri insegnanti, spavaldi, narcisisti ed egocetrici, tengono molto a mostrare con insistenza la loro (presunta) superiorità umana e culturale. Essi cercano di imporsi sulla personalità dei giovani, per primeggiare su tutti.
Questi insegnanti creano situazioni di grande tensione e scontri con la classe. Tuttavia, malgrado si vantino di avere ottime qualità, sono quelli che dedicano meno tempo alla classe e che non si curano dei risultati scolastici. A loro interessano solo “le apparenze”.
In fine il terzo tipo caratterologico di insegnanti è composto da docenti coriacei, tenaci e pervicaci, con solidi propositi lavorativi e non vengono mai meno ai programmi. Essi dedicano molto tempo alla classe, pretendono molto dagli alunni. In certi casi però alcuni di essi mancano di comprensione. Come essi non sono, caratterialmente, teneri con se stessi, non lo sono con la classe. Questa categoria psicologica di docenti in certi casi valuta freddamente, in maniera matematica il rapporto studio-disciplina, calcolando i risultati senza tenere conto delle reali possibilità dell’allievo.
Può accadere che la rigida pianificazione dei docenti tenaci determini i qualche caso frustrazioni negli allievi meno dotati e magani non conceda nemmeno molte soddisfazioni ai più bravi.
Ma questi sono esempi estremi di docenti. Solo una minima parte degli insegnanti è costituita da personalità con tratti così marcati. La maggioranza è duttile e sollecita nel prevenire e valutare i pericoli di una situazione stressante per la classe. Inoltre, molti docenti sanno intuire e interpretare il carattere dell’allievo, evitando di contrapporsi ad esso.
Cercare di prendere il meglio del discente, creare le condizioni di base perché l’alunno possa costruire serenamente la propria “personalità”. Sono questi i compiti di una scuola la cui indispensabile funzione sociale è compensatoria, soprattutto quando la famiglia presenta una povertà culturale sfavorevole all’apprendimento.
Non essere dogmatici e distinguere l’educazione
di tipo familiare da quella scolastica
I giovani hanno una grande capacità di distinguere le regole di tipo convenzionale da quelle elastiche, moderne e dinamiche, e per ciò utili per l’apprendimento e per la socializzazione: essi rigettano le prime e accettano le seconde. Una buona strategia didattica, e umana, non deve avere un atteggiamento dogmatico nel trasmettere idee, sentimenti valori ed ideali, perché altrimenti creerebbe ” resistenze” e sospetti negli allievi, soprattutto in quelli più svantaggiati a causa delle carenze socio-familiari.
In molti casi, l’origine sociale giuoca un ruolo significativo nell’orientamento e nel profitto scolastico.
Spesso i genitori sono impreparati culturalmente e anche incapaci di educare con ragionevolezza. Talvolta la famiglia è dogmatica e impone (o vorrebbero imporre) ai figli comportamenti stereotipi. I genitori per imporre i loro concetti educativi chiamando in causa a volte persino ideologie antiquate. Così descrive Cronin in Anni verdi il conformista: “Rimasi sopraffatto e senza parole. Sapevo che sarebbe stato inutile: con lui non si poteva discutere. Come la maggior parte delle persone deboli egli attribuiva la più grande importanza all’immutabilità delle idee e ai concetti convenzionali”.
Gli insegnanti, a differenza di altre categorie professionali, grazie alla interazione con l’ambiente scolastico e con le personalità degli studenti, sono più elastici e meno dogmatici. Essi offrono una apertura mentale migliore di quella che gli studenti trovano in famiglia e ciò li rende più facilmente simpatici agli studenti.
La scuola non deve essere fabbrica di consenso passivo e di conformismo, come in qualche caso è la famiglia, ma deve far lievitare la cultura critica, libertaria, raccordandola alle esigenze degli studenti. Solo in questo caso le dinamiche educative saranno produttive.
Purtroppo esistono ancora adulti che si comportano da satrapi, da despoti, da dittatori. Che umiliano e prendendo in giro. Ricordo un artigiano, un datore di lavoro che mortificava l’apprendista, probabilmente anche a causa dei propri problemi inconsci. L’apprendista peggiorava e combinava guai su guai, sentendosi maltrattato.
A scuola è difficile riscontrare simili interventi da “pedagogia da bottega”, tuttavia anche in un aula scolastica a volte possono accadere errori pedagogici.
Quando si trasmettono valori umani e sociali, chi insegna deve essere consapevole che le proprie dinamiche psicologiche possono essere determinanti non solo l’acquisizione culturale della classe ma anche condizionare la disponibilità psicologica degli allievi.
PSICOLOGIA DEL MISTICISMO E DELLA FUGA DALLA SESSUALITÀ
GENESI DEL FENOMENO- SGUARDO STORICO
Astinenza sessuale e avversione per le donne
Per capire quando e perché una certa parte della cultura occidentale abbia imboccato la strada dell’astinenza sessuale e abbia deciso che il mondo senza donne fosse naturale o quanto meno opportuno, bisogna risalire all’atteggiamento mentale in voga nelle prime comunità cristiane. Bisogna infatti rendersi conto che un tempo la religiosità fu soprattutto un faccenda di uomini, un’attività assolutamente virile, che faceva del credente che era quasi sempre maschio un individuo del tutto diverso dagli altri. “Religioso” era l’asceta, il filosofo del cristianesimo, era lo studioso dei problemi dell’aldilà, e tutti costoro si sentivano gli eletti, e ritenevano di essere distinti dai miscredenti e anche dalle donne, dal momento che la religiosità era una faccenda prettamente maschile. La religiosità era dunque un problema che aveva una dimensione quotidiana, ed era strettamente legata a tutti i comportamenti e a tutte le attività del singolo e della comunità.
Oggi non possiamo capire l’entità “maschile” di quel fenomeno, perché la religiosità spicciola, la frequenza nella parrocchia, per intenderci, è passata in mano alle donne ed è considerata, dalla popolazione maschile oggi meno interessata di un tempo, in molti casi, una faccenda da “femminucce” e di “vecchie donne”.
Ed allora bisogna anche considerare la religiosità anche sotto questo aspetto. Bisogna infatti attribuire alla religiosità femminile una specie di riscatto delle frustrazioni delle donne: essendo state nei secoli bistrattate, poste in secondo piano, e ritenute una specie di dependance del maschio, le donne si sono servite della religione perché, tramite il dialogo con Dio, si sono potute sentire importanti ed hanno riscattato il loro sentimento d’inferiorità. Sono state loro le “elette”, così come un tempo lo erano stati i primi cristiani maschi, ed hanno così trovato una dimensione ad una autostima fin troppo ridotto al lumicino.
Così la “professione religiosa” della donna è stata un’alternativa alla professione lavorativa del maschio: sia la donna che l’uomo hanno trovato in esse la ragione più alta della propria realizzazione come esseri umani. Ma bisogna anche precisare che come un tempo la religiosità non era stato qualcosa di distaccato da tutte le altre attività quotidiane dei maschi, ma ne era stata la base, in seguito, la vita delle donne, dopo che per secoli la religiosità è stata retaggio maschile, è stata diretta e guidata dalla religiosità, che è diventata il lite motive, l’appannaggio femminile più caratteristico.
Tuttavia si deve precisare anche che, come oggi, ovviamente, non esiste una totale separazione maschio-femmina nei confronti della pratica religiosa, ma è solo una questione di maggiore o minore percentuale di praticanti, anche alle origini non vi fu una totale divisione maschio-femmina nei confronti del problema religioso. Infatti, prima della “svolta ascetica”, che portò all’esclusione delle donne dalla maggior parte delle pratiche religiose, esse erano state le compagne infaticabili dei primi organizzatori cristiani, e le prestigiose creatrici di importanti cenobi religiosi femminili o misti.
Che a quel tempo la presenza delle donne nelle comunità religiose era consueta se non preminente, lo dimostra anche Plinio, che nel 70 d.C., anno in cui i romani distrussero Gerusalemme, notò la “stranezza” di una comunità di asceti Esseni che vivevano senza donne. Infatti a quel tempo era quasi la regola che mogli i preti, vedove, e donne non legate ai religiosi facessero da contorno al clero.
Molte di esse, inoltre, si davano da fare per essere, in prima persona, protagoniste dello sviluppo del cristianesimo. Melania l’Anziana, vissuta tra il IV e V secolo, esercitò un’influenza di rilevo nel movimento monastico nascente. Sposata in età giovanissima, forse a dodici anni, a Valerio Massimo, rimase vedova a ventidue, e dopo avere affidato il figlio ad un tutore, si raccolse in preghiera a Gerusalemme, ove fece costruire un monastero nel Monte degli Ulivi.
Un’altra giovane donna, Olimpia, nipote di un importante personaggio alla corte di Costantinopoli, sposata a tredici e vedova a venti anni, fu aiutata dalla sorella di un vescovo ad entrare nella comunità cristiana e divenne diaconessa di una chiesa della sua città. In seguito divenne compagna spirituale di Giovanni Crisostomo, patriarca di Costantinopoli, il quale si mise in urto con l’imperatrice Eudossia, che egli tacciò di dissolutezza e che paragonò ad Erodiade. Eudossia gli sobillò contro una coalizione di vescovi, monaci e sacerdoti che lo deposero e lo scomunicarono.
Malgrado qualche isolata critica, a quel tempo il clero era quasi tutto sposato e viveva con la famiglia. Il matrimonio dei preti era talmente diffuso da costituire una condizione consueta per gli ecclesiastici della parrocchia. Spesso le comunità cristiane erano dirette da coppie sposate come nel caso di Priscilla ed Aquila, e le mogli e le vedove dei chierici divenivano membri influenti della leadership ecclesiastica. E questo stato di cose durò per secoli fino a quando non si intensificarono, da parte di alcune autorità ecclesiastiche le richieste del celibato dei chierici. Ma prima che gli uomini di Chiesa accettassero lo stato di celibato, nelle comunità cristiane il matrimonio erano nell’orizzonte consueto dello stato clericale. Addirittura in uno delle prime collettività popolari della storia della Chiesa, quello dei Montanisti, le donne battezzavano e celebravano la messa.
Un altro di fattiva unione tra uomini e donne lo danno anche i seguaci del siriano Taziano, apologeta e scrittore cristiano, i quali nel II secolo d.C., vivevano assieme, in coppie, legati da casta comunione.
Insomma nel cristianesimo antico non c’era una sola provincia in cui non vi fossero “matrimoni spirituali e reali” nei religiosi, e in cui, uomini e donne, stavano assieme in “casta unione”.
Origine della misantropia
A poco a poco cominciò però a delinearsi una corrente che cominciò criticare la vita spirituale in comune tra uomini e donne, supponendo che di spirituale vi fosse ben poco in quello stare assieme. Questa filosofia rigorista tacciò di ipocrisia quanti affermavano di vivere, accanto alla loro compagna, in continenza sessuale, perché supponeva che fosse ben difficile stare in promiscuità senza provare il bisogno di soddisfare la sessualità.
A quel punto, visto l’attivismo femminile e il forte ascendente delle donne sul clero, subentrò, nei religiosi più rigoristi, un forte odio di classe che li spinse a volere che la donna fosse esclusa dalla cultura e dalla religiosità. Si può ipotizzare che l’uomo cominciando a temere il “sorpasso” femminile, si fosse messo sulla difensiva.
Per l’uomo, ricusare il piacere del sesso significava rigettare il proprio l’asservimento alla donna, e, in altri termini, il potersi sentire padrone di sé e non schiavo di “lei”. Il desiderio poneva l’uomo alla mercé della donna, lo faceva suo schiavo, suo dipendente;e chi si sentiva schiavo della donna, sentiva che aveva perso potere: da qui, a rigettare la schiavitù del sesso per salvaguardare il proprio primato sulla donna il passo fu breve. E così, la paura dell’uomo e il suo rigetto all’asservimento della donna, passò inevitabilmente attraverso la fuga dal sesso.
Quello che era stato il cameratismo spirituale che aveva segnato, gli inizi del monachesimo orientale, e, in parte, di quello occidentale, cominciò ad visto come una schiavitù insopportabile. A poco a poco si creò un irrigidimento sempre più ostile verso le donne; atteggiamento che dipese dal bisogno di consolidare la posizione maschile all’interno della società cristiana.
All’interno del rapporto “intellettuale” ed “esistenziale” tra uomo e donna, il primo volle mettere un freno all’invadenza femminile e ciò per salvaguardare il proprio primato.
Delineatosi così, sempre più, il concetto di una Chiesa caratterizzata dalla successione in linea maschile degli apostoli, le donne ne vennero escluse.
I vescovi presero a condannare gli ecclesiastici che avevano rapporti con donne e li considerarono sovvertitori.
Tertulliano, vissuto nel III secolo d.C., sebbene sia stato durante la sua giovinezza contro il Cristianesimo, per circostanze che non sono note, si convertì alla nuova religione, e, in seguito, divenne anche molto intransigente a proposito della presenza femminile attiva nelle pratiche di culto e le considerò prepotenti e votate alla scalata delle vette ecclesiastiche.
Tertulliano attaccò Marcione perché quello nella sua chiesa permetteva alla donne di diventare preti e persino vescovi e si scagliò. Per tale motivo, Tertulliano prescrisse che non fosse permesso alle donne predicare, battezzare e accedere a qualsiasi pratica ecclesiastica.
Come spiegazione della messa al bando delle donne, Tertulliano, nella sua Esortazione alla castità, spiegò che le donne erano inidonee al sacerdozio a causa del loro sesso, perché si identificavano inequivocabilmente «con la tentazione e con il peccato». Insomma, Tertulliano, forse perché in assoluta astinenza, con fantasia esacerbata, tacciò le donne come il male più grave dell’umanità.
Il passo successivo ed inevitabile che escludeva le donne dal sacerdozio e da qualsiasi pratica religiosa fu l’ascetismo maschile.La castità allontanava dalle donne ed era la condizione indispensabile per una vita cristiana.
Ma la castità, in un individuo sano, se protratta per tutta la vita, non poteva che condurre a uno stato di continuo disagio, di lotta col proprio corpo, di esaltazione parossisitica, tutte situazioni limite che e non potevano che far mutare la tensione erotica in visioni, allucinazioni e sofferenze di vario genere.
L’esclusione delle donne e l’ossessione della lussuria
Dal momento in cui furono rigettate le donne dall’orizzonte dei religiosi, a causa dell’astinenza forzata, scoppiò sempre più, nei chierici e nei pii uomini, la paura della tentazione sessuale e paradossalmente aumentò il richiamo della lussuria. Due tensioni che vennero identificate come il supposto adescamento femminile. Le donne vennero bandite dall’orizzonte degli ecclesiastici i quali combattevano giorno e notte contro le idee erotiche che li assillavano. L’esclusione delle donne era destinata ad avere una influenza profonda sull’ascetismo e anche sul tutta la concezione della Chiesa cristiana.
Un esempio di questa lotta all’ultimo sangue tra uomo e donna ce lo fornisce Origene. Vissuto nel III secolo, costui era figlio di un martire cristiano,e crebbe sotto la protezione di dame religiosissime e in particolare di una ricca signora. Convinto che fosse possibile prescindere dalla sessualità, a vent’anni, sentendosi “disturbato da idee lussuriose”, si evirò, rinunziando così a ciò che faceva di lui un uomo.
Nel IV secolo, la presenza femminile nelle pratiche di culto era ormai confinata, e Ambrogio propugnò il primato maschile nella Chiesa e invitò a scegliere come capi e guide morali soltanto quegli uomini “che avessero raggiunto il massimo controllo dei loro istinti sessuali e che avessero votato la loro vita al celibato”.Coerentemente Ambrogio attaccò Gioviniano che sosteneva pari dignità spirituale al celibato e al matrimonio.Tra parentesi bisogna dire che Gioviniano fu considerato un eretico oltre che per questa sua idea, anche perché ritenne che chi era battezzato non doveva più temere di peccare né di essere tentato dal demonio, negò inoltre la verginità di Maria.
Tormentosa ambivalenza nel rifiuto della donna
Tuttavia accanto alla convinzione che la donna fosse il veicolo sicuro per mandare l’uomo all’inferno, gli uomini ebbero una certa resistenza ad abbandonare del tutto la compagnia femminile. Una ambivalenza, questa, che perdurò nei secoli e che fece si sviluppare l’ossessione per il sesso, un tormento continuo che oscillava tra la necessità fisiologica di avvicinare la donna e la paura del peccato.
Un esempio di questa drammatica ambivalenza la dimostra, nel V secolo, Girolamo, il quale, dopo avere abbracciato la fede cristiana, per sua stessa ammissione, ammise che egli, in gioventù, aveva avuto una grande inclinazione verso le donne, e il suo riconoscimento della persistenza del desiderio si rifletté sul modo come egli trattò l’invito alla dura astinenza nei suoi scritti.
Girolamo approdò al cristianesimo dopo una lunga serie di viaggi, quando venne colpito da un grave malattia che lo costrinse a restare ad Antiochia ove prese a studiare il greco e poi la Bibbia. Quando passò a Roma, dopo essere stato ordinato sacerdote, fu attorniato da un gruppo di dame desiderose di conoscere i principi cattolici. E Gerolamo che probabilmente aveva seguito l’insegnamento di Origene, ormai che probabilmente era senza più affanni di carattere sessuale, viveva senza troppi drammi la presenza femminile nella sua stessa cerchia di religiosi. Ma poiché egli non aveva risparmiato critiche al clero romano sposato, si mise in modo una sollevazione popolare che lo fece cacciare da Roma sospettando che fosse facile preda della concupiscenza, dal momento che viveva con delle donne. Girolamo fuggito da Roma andò a Betlemme, ove visse con la vedova Paola e le due della donna, Eustochio e Blesilla. Questa compresenza femminile nella vita di Gerolamo non fu sempre accettata,anche, se, nel caso del nostro egli era orami, avendo forse seguito, come molti suppongono, l’esempio di Origene, “al di sopra di ogni sospetto”.
E si può capire l’insistente misoginia, e la fuga dalla sessualità, perché diventava sempre più consistente il numero dei chierici che accettavano il celibato e di conseguenza tutta la classe dominante della Chiesa era in preda alla “preoccupazione” di scacciare le quotidiane pulsioni sessuali e le donne che le sollecitavano. WWW
Tuttavia, questa ripulsa del femminile e della sessualità non fu unanime, se nel 362 il Concilio di Granga ebbe a condannare coloro che volevano cancellare il clero posato, appoggiando l’idea della virtù del sacro vincolo coniugale anche nei preti. Ma si trattò di uno degli ultimi conati al riguardo: dal V secolo in poi i concili appoggiarono sempre più l’idea delle continenza e del celibato del clero. Tanto che i sinodi del VII secolo obbligarono i chierici alla continenza e alla separazione dalle mogli. E tuttavia, malgrado questo, il clero, per secoli, continuò a sposarsi, ad aveva figli e trasmetteva i beni ecclesiastici in eredità alla prole.
Il secolo IX vide sempre più convergere verso il celibato dei preti e, di converso, il matrimonio venne sempre più visto come un vincolo indissolubile. Nell’ideale cristiano, l’unico rapporto legittimo tra i sessi, fu il matrimonio monogamico. Per le donne che non si sposavano l’unica possibilità che si presentava era entrare in convento. In questo modo gli ecclesiastici si liberavano della presenza ingombrante e tentatrice delle donne non sposate. Ma questa possibilità data alle donne fu però un arma a doppio taglio, perché le spinse a continuare l’opera iniziata agli albori del Cristianesimo, scatenando una campagna molto intensa per avere la potestà di erigere conventi. Ma non cessò del tutto la cooperazione tra maschi e femmine nelle pratiche del culto. In Irlanda, per esempio, sorsero monasteri doppi, senza pregiudizi antifemministi. Anzi i monaci ricercavano l’amicizia delle donne. L’esistenza di questi monasteri era dovuta anche al fatto che le monache avevano bisogno dei preti per celebrare messa. Una comunità monastica del genere la fondò Pacomio e sua sorella in Egitto, Esilio e Marcina in Cappadocia, Paola e Girolamo a Betlemme, Melania l’Anziana e Rufino a Gerusalemme. Nel VII secolo, Ebba, sorella di re Oswy, fondò un monastero a Coldingham. Il monastero di Wimbourne, nel Dorset, fu una delle ultime comunità fondate come monastero doppio.
Vittoria della mascolinizzazione
A poco a poco la creazione di monasteri doppi venne proibita per isolare delle donne dalla leadership clericale. E fu la rinascita carolingia che diede il colpo di grazia alla parità delle donne, perché ignorò la cultura femminile, e la promozione degli studi, ecclesiastici e laici venne solo indetta in favore dei maschi. Le scuole ospitate nelle chiese nei conventi erano dedicate agli ecclesiastici, per cui le donne, di fatto, furono estromesse sia dal culto che dal sapere. La mascolinizzazione della Chiesa e la relativa fuga degli uomini più pii dal contatto con le donne si andava compiendo.
Il risultato fu che la donna venne sempre più allontanata irreparabilmente dalla formazione intellettuale maschile e nei suoi confronti si venne ad instaurare il sospetto che fosse connivenza con forze negative fino ad arrivare ad essere tacciata di stregoneria. Ma l’ambiguità maschile nei confronti della donna, non cessò.
Essa venne drammaticamente vista, a causa dell’aspetto sfrenatamente sensualistico della mente e del corpo maschile, sotto le spoglie della provocatrice di lussuria.
Ma se era colei che sollecitava i desideri, era anche quella che poteva appagarli, e pertanto fu ritenuta subdola tentatrice, che a causa della sua perfida, poteva spingere l’uomo a perdersi per sempre.
La fine dell’era carolingia e il temporaneo ritorno al femminile
Ma l’era carolingia non mise definitivamente fine alla guerra “dei sessi” nel campo ecclesiastico, perché essa perdurò a lungo con alterne vicende. Infatti, con la morte di Ludovico il Pio, nel 840, finisce la dinastia carolingia, e i vescovi si distaccano dalla soggezione all’impero e passano sotto il potere laico, rappresentato dai signori dell’aristocrazia feudale. I vescovi, non più difesi dall’imperatore non furono in grado di imporre ancora il rispetto della disciplina, e i preti tornarono a vivere con mogli, concubine, e persino alcuni degli stessi vescovi finirono con lo sposarsi. Con il disfacimento della autorità ecclesiastica, anche le donne , sia quelle laiche e che le religiose ripresero il campo.Le monache ritornarono ad avere voce in capitolo soprattutto nell’ambito delle lettere e della cultura. Una tradizione intellettuale che ebbe, nel X secolo, come rappresentanti Hroswitha da Gandersheim ( piccolo principato retto da donne), Herrada di Heidenheim, e la mistica Ildegarda di Bingen.
Nel 970, in Inghilterra, a nord di Cambridge, nella cattedrale di Ely, Etelreda, fondò un convento, che sua figlia Sexburga e poi sua nipote Ermenhilda continuarono a dirigere.
La battaglia dei sessi si rinfocolò e vide una altra vittoria maschilista con l’avvento del monastero di Cluny, che segnò un’ascesa del maschilismo e la difesa della santità clericale contro il pericolo “femminile”. I vescovi tornarono a scacciare dai monasteri i monaci e i preti che avevano mogli e famiglia. Le abbazie che erano state sedi di monasteri doppi mandarono via badesse e monache e rimasero interamente abitate da monaci. Agli occhi dei riformatori le donne erano l’anticamera dell’inferno. Ma nel contempo, il clero sposato che si rifiutava di obbedire alla regola e che era costretto a separarsi dalle migli e dai figli prese a ribellarsi, impiegarlo mezzi altrettanto violenti di quelli che adoperavano i vescovi per piegarlo all’ascetismo. Ne risultò uno scisma: i riformatori si allearono con i normanni, i ribelli con i principi e la nobiltà. E così, quando i riformatori elessero Alessandro II, il clero sposato contrappose a quel papa Onorio II. Per un secolo divampò la querelle tra fautori del celibato e assertori del matrimonio degli ecclesiastici.Alla fine, però prevalsero i riformatori. Nel 1123 il I° Concilio Lateranense dichiarò nulli i matrimoni degli ecclesiastici. Nel 1139, il II° Concilio dichiarò che l’ordinazione a prete invalidava il precedente matrimonio. Ai chierici con moglie venne tolto ogni sostentamento e furono perseguitati e deposti, le loro donne caddero in miseria e assieme ai loro figli provarono l’orrore della fame.
Per “purificare” la Chiesa, l’azione dei pontefici fu durissima: Urbano II ridusse le donne dei chierici in schiavitù e le offrì ai nobili come serve in compenso dell’opera che essi prestavano per “ripulire” la Chiesa dai reprobi. Nel contempo, fiorì, la cultura omosessuale: in contrasto con l’orrore per la donna, nessuna condanna ufficiale invece per gli amori tra uomini. Anselmo ebbe una relazione amorosa col giovane discepolo Osbern, e né Leone IX, né Alessandro II /né tanto meno Urbano II condannarono mai i rapporti omoerotici. In più, fu proprio l’influenza dei preti omosessuali che rinvigorì le proibizioni dei matrimoni ecclesiastici. In quell’orizzonte maschilista e omosessuale, le donne non avevano più alcuna ragione di contatto.
Il sopravvento del maschilismo nella cultura
Il sorpasso finale del maschile sul femminile e il definitivo distacco tra uomo e donna si ebbe quando la Chiesa prese in mano la gestione della cultura e, in particolare, allorquando le università vennero gestite dall’autorità ecclesiastica. Innocenzo terzo per esempio, emanò lo statuto dell’Università di Parigi. Con esso il controllo accademico divenne uno strumento per il reclutamento esclusivamente maschile dei dotti. L’università divenne così non solo il bastione dell’ortodossia, ma anche la garante del primato assoluto del maschilismo.
L’ideale celibatario dell’università fa sì che persino il latino venga usato come strumento classista: essa infatti diventa la lingua dei maschi, ed assolve al ruolo psicologico di identificare l’ambiente maschile. L’ossessiva cacciata delle donne dall’orizzonte maschile, si esterna chiaramente, nel XII secolo con il trattato contro il matrimonio scritto dall’arcidiacono di Oxford, Walter Map. Costui era un ex studente dell’università parigina e aveva assorbito il rigore esclusivista e maschilista che in essa vigeva. Generazioni di predicatori utilizzarono il trattato di Map per dimostrare le ragioni della fuga dalla donne.
L’ossessione antifemminista e, di conseguenza, sessuofobica arrivò al punto che coloro che volevano insegnare nelle università dovevano giurare che non si sarebbero mai ammogliati, e quelli che erano ammogliati dovevano divorziare e giurare che non avrebbero mai più ripreso il legame con la moglie dalla quale si erano separati, pena la perdita dell’incarico. Il divieto fu così drastico e durevole che, per esempio, in Inghilterra, soilo nel 1882 fu concesso ai professori–fellows di poter prendere moglie!
Ma durante tutto il periodo della espulsione delle donne alla cultura universitaria la castità più rigorosa fu osservata solo nei confronti delle donne, perché in pratica, le università furono un crogiolo di omosessuali. Roberto Grottatesta, nemico inflessibile delle donne, che faceva strizzare dai suoi scagnozzi le mammelle femminili delle religiose per poter accertare sa avessero latte e se nascondessero dunque una sessualità occulta, era l’amante del suo collaboratore e segretario Adam March, del quale diceva che era «l’altra metà della sua anima » e « il dilettamente amato con tutto il suo essere». Per gli intellettuali e gli ecclesiastici di alto ragno la donna era solo un disturbo, ed essi la lasciavano ben volentieri ai campagnoli ignoranti, ritenuti potenzialmente delle bestie, gli unici che potevano «sporcarsi con le donne» senza poter avere più alcun danno. In quanto a loro se doveva essere, era amore omosessuale. Così fu Francesco Bacone, che, sposatosi per convenienza, era però un noto omosessuale che viveva in intimità con i suoi servitori. Di conseguenza Bacone fu anche un assertore della inutilità, anzi, della “pericolosità” del matrimonio, se ebbe a dire nel suo Marriage and the Single Life che «le opere migliori sono dovute a uomini celibi o senza figli». Anche un altro grande scienziato Robert Boyle, inventore della chimica moderna, non amò le donne, si votò al celibato e convisse con un “amico del cuore”. Un suo discepolo Robert Hocke fece voto, ancor giovane di rimanere casto e celibe, ed era tanta la convinzione che le donne fossero causa di vari disturbi, che il biografo e amico di Boyle, John Evelyn, pur essendo sposato e non del tutto scontento del suo stato, ammetteva che in realtà quella del celibato era la scelta più consona per uno scienziato. Del resto la Royal Society britannica rappresentava dunque, in quanto a misoginia e ad omosessualità, la continuazione dell’ascetismo clericale del Medio Evo. Isaac Newton evitò per tutta la vita le donne e alla fine si disse del tutto soddisfatto d’essere giunto a tarda età vergine. Da piccolo fu abbandonato dalla madre che, dopo che perse il marito, si risposò e lasciò il figlioletto a dei parenti, per riprenderlo solo quando Isaac aveva undici anni. Da studente il giovane Isaac fu influenzato dal teologo di Cambridge Henry More a non stare con le donne, e poiché probabilmente egli aveva già il dente avvelenato, non gli fu difficile crede al suo maestro che le donne sono infide. E il rinforzo alla misoginia Newton l’ebbe da Isac Barow, un ecclesiastico membro della Royal Society che lo istradò alla matematica e lo distolse dalla donne. A riprova della tensione che le donne creavano in Newton, lo scienziato, nel 1693, in piena crisi psicotica, accusò l’amico John Locke di volerlo coinvolgere a frequentare le donne. E quella crisi che durò circa un anno e mezzo, era anche frutto di una esplosione omosessuale che aveva coinvolto Newton il quale si rovò improvvisamente “innamorato” di un giovane scienziato svizzero, anch’egli celibe, Fatio de Duillier, un vero genio, che pare abbia procurato a Isaac non pochi desideri, tutti repressi, per la verità, ma tutti venefici per la sua salute mentale.
Insomma, la fuga dal sesso e dalle donne, in Newton, non fu che il prodotto di una crisi infantile e di una sociologia universitaria che imponeva che le donne fossero tenute lontane dalla cultura.
E quando, in seno alla cultura universitaria qualcuno scagliava una lancia in favore delle donne, subiva l’ostracismo più assoluto. E quando uomini di cultura, come Galileo o come Cartesio, ebbero una relazione, certo non si comportarono da gentiluomini nei riguardo delle loro compagne: Galileo abbandonò moglie e figlie «per darsi interamente alla scienza» e mise la bambine in collegio da dove non uscirono mai più; in quanto a Cartesio, che ebbe una figlia dall’amante Helena Jans, una serva che era la sua factotum, dopo che gli morì la bambina abbandonò la donna al suo destino, per dedicarsi, disse, alla «riconcettualizzazione dell’universo», impresa che, con una femmina accanto non avrebbe potuto compiere.
Ma il maschilismo nel campo del sapere ha avuto un peso considerevole non solo nei rapporti uomo-donna, ma anche in seno alla psicologia femminile. Un esempio del danno arrecato sia alla condizione di donna che all’animo femminile ce lo danno alcuni esempi emblematici. Tra questi la vicenda di una giovane donna di Cracovia, che entrò nell’università locale sotto sembianze maschili, e che, prima apprezzata per la sua sapienza ma dopo che, trascorsi alcuni anni, fu riconosciuta venne rudemente espulsa dalle lezioni e forzatamente rinchiusa in un convento di clausura.
E quella della francese Christine de Pisan, vissuta tra il XIV e il XV secolo, prima donna in Francia che poté possedere un esteso sapere, ma che purtroppo si convinse che la cultura era retaggio dell’uomo, l’unico essere degno di questa iniziazione, e così lei, essendo donna, finì col disprezzare se stessa e il genere femminile. Solo in seguitò Christine potè, a malapena, superare “la disperazione d’essere donna”.
Ma non tutte a quei tempi ebbero questa forza d’animo: molte donne di elevate virtù intellettuali, a causa del martellante disprezzo maschile della femminilità, finirono con l’odiare se stesse e col considerare il corpo femminile ricettacolo del peccato e della lussuria. Vedremo come Rita Lotti, detta poi Rita da Cascia, Angela da Foligno, Gemma Galgani, e tante altre hanno ripudiato se stesse e la loro corporalità femminile, secondo la tradizione maschilista preda e possesso del Maligno, impegnandosi in una ossessiva e devastante fuga dalla sessualità. Una tradizione questa, che, tranne qualche eccezione, come quella della monaca Lucrezia Buti, la quale, dopo aver fatto da modella per La Vergine del Gesù, di Filippo Lippi, si fece convincere ad abbandonare la tonaca e la vita del convento per assaporare le gioie del matrimonio, o come quella, ma molto tormentata, della Monaca di Monza, o come la vicenda della regina di Svezia, Cristina che essendo “sfrontatamente” atea, non volle né sacerdoti né mistici nel suo entourage, ha viaggiato sempre sul binario molto rigido della condanna del sesso. Si pensi ad esempio la vicenda di Benedetto da Norcia, vissuto intorno al V secolo d.C.
Benedetto era nato in una nobile famiglia; da ragazzo era vissuto da benestante, aveva studiato a Roma, ma poi, non si sa bene per qual motivo, l’agiografia afferma perché disgustato dall’ambiente lassista della città, abbandonati gli studi, condusse per oltre tre anni vita solitaria sui monti di Enfile, ove ebbe come maestro l’asceta Romano. Dopo qualche anno di ascetismo venne invitato a reggere un monastero presso Tivoli, ma poiché la sua regola era troppo rigida, i monaci addirittura tentarono di avvelenarlo. Passò a Subiaco, ma dovette abbandonare anche quella comunità dopo che venne invasa da uno stuolo di “donne svergognate”, inviate, ad arte, dal monaco subiachese Fiorenzo, il quale, geloso del grande carisma che stava conquistato Benedetto, e certamente conoscendo la manifesta riluttanza verso il sesso di Bendetto, lo indusse a fuggire. Recarsi sul Monte di Cassino, assieme alla sua sorella gemella Scolastica, alla quale era particolarmente affezionato e in sintonia spirituale, e a due fedelissimi e prediletti discepoli, Mauro e Placido, Benedetto costituì vari monasteri.
L’agiografia di Benedetto narro che egli si sentì perseguitato dal demone femminile, che per calmare le sue bramosie si gettava girandosi e rigirandosi sui rovi spinati, per dimenticare le pulsioni erotiche della carne. Dunque, non siamo fuori strada se pensiamo che il motore portante della fuga da Roma, e poi dal mondo, di Benedetto da Norcia sia stato il problema sessuale. Si può ipotizzare che abbia subito qualche shock durante gli studi intrapresi a Roma, come per esempio, l’essere avvicinato carnalmente da qualche suo maestro, oppure che fosse disturbato emotivamente dalla presenza della gemella Scolastica, verso la quale potrebbe avere avuto pulsioni non del tutto accettabili, pulsioni che poi, dopo un severo e lungo periodo di autopunizioni, si siano trasformate in una più accettabile e nobile sintonia spirituale.
La scienza retaggio maschile e della Chiesa
Non sfugge il fatto che la scienza occidentale, poiché le università erano dirette e frequentate da maschi che facevano parte di congreghe religiose, veniva prodotta proprio in quei luoghi in cui avevano accesso i religiosi, cioè chierici e monaci.
Essa dunque fu soprattutto uno strumento in mano al potere ecclesiastico e gli studiosi ragionavano impegnati con fervore ed entusiasmo cristiano. Questo comportò che la cultura occidentale, universitaria e scientifica, venne gestita da scienziati-frati ( Niccolò Copernico era canonico). Mentre durante il periodo greco e quello romano essa era retaggio delle accademie laiche, nel Medio Evo scienza e teologia ebbero, apertamente o meno, un legame molto stretto, sicché, lo scopo ultimo dello scienziato cristiano fu la glorificazione di Dio tramite la sapienza. Per Roberto Grossatesta, come per molti altri eruditi e scienziati , filosofia e scienza non era altro che il dispiegarsi della sapienza divina. Questo accadeva soprattutto in Europa, mentre in Italia, qualche università, come quella salernitana a quella padovana, rimase laica, e fu sotto l’egida delle signorie e dei comuni. Quella di Bologna invece fu sotto l’influenza del papato, tanto che venne chiamata università pontificia.
Di conseguenza i centri che accoglievano anche laici, ebbero persino docenti sposati, tanto che si ebbe l’uso (purtroppo poi mai più perso) di trasmettere la cattedra da padre in figlio. Essendo l’università italiana più secolarizzata, l’influenza laica che serpeggiava in alcune di esse fece sì che anche le donne vi potessero essere ammesse.
Nella scuola salernitana vi furono così medici donne, a Padova si laurearono molte donne in filosofia, così come nell’università di Firenze.
Ma, paradossalmente, questa liberalizzazione in favore delle donne venne meno proprio in un periodo che potremmo senz’altro chiamare “laico”, cioè il periodo umanistico, e ciò riprova che l’avversione verso il genere femminile non fu solo retaggio della cultura clericale, ma di quella maschilista in genere: nelle accademie laiche neoplatoniche degli umanisti si trova la stessa avversione verso le donne che si aveva avuto nei secoli precedenti nelle università cristiane. I nuovi dotti umanisti temendo, al apri dei monaci, la concorrenza femminile, esclusero ( almeno in un primo tempo) la partecipazione delle donne nei loro cenacoli. La misoginia dell’umanesimo laico si trasformò così in un crogiolo di omosessuali. Pico della Mirandola fu legato a Gerolamo Benivieni, Marsilio Fucino asseriva che le relazioni omosessuali sono superiori – fisicamente e spiritualmente – a quelle eterosessuali,
Leonardo da Vinci fu due volte denunziato e accusato di sodomia, e anche gli alchimisti propagandarono la formazione omosessuale come la più idonea alla cultura. Gli adepti si riunivano in cenacoli rigorosamente maschili, tanto che Paracelo poteva affermare che le donne don lo interessavano e che non aveva mai avuto rapporti sessuali con alcuna di esse. Secondo Paracelo all’origine l’uomo e la donna erano una sola cosa, e la divisione di uomo in donna fu all’origine del caos sociale. Infondo, l’ideale era l’ermafrodita. Paracelo cercò “le impronte divine” nella natura, espressione sicuramente consona che si risecava alla cristianizzazione della scienza nel Medio Evo. L’unica innovazione – e non fu di poco conto – Paracelo la attuò abbandonando il latino e facendo le sue lezioni in vernacolo. Una introduzione temeraria, che gli costò il prosieguo della carriere universitaria.
Ancora una volta però, le donne poterono ritornare, anche se alla spicciolata, e dalla porta di servizio, dopo l’invasione maschile nella scienza laica, quano prese sempre più consistenza l’arte della magia, tanto che Francesco Bacone poteva affermare che empiriste e vecchie maghe riuscivano a volte più efficaci degli stessi medici.
E coloro che esercitavano la magia popolare (e l’arte delle guarigioni) erano per la maggior parte donne. Ma nel contempo, la Riforma comportò anche l’immissione delle donne nelle pratiche del culto o quanto meno nell’area culturale della religione attiva, perché, essendo consentito ai ministri di Dio di sposarsi, anche le donne finirono col partecipare della rivoluzione luterana. Lollardi, Anabattisti, e altre confessioni ammisero la presenza delle donne nelle loro comunità religiose. Il protestantesimo offri anche alla donne la possibilità di leggere e commentare la Bibbia, e la possibilità di leggere le Sacre Scritture comportò anche il bisogno dell’alfabetizzazione delle donne. Ma l’attività femminile nel campo della magia e in quello dell’alchimia fu un’arma a doppio taglio, perché portò ad una sollevazione di scudi da parte dei chierici e degli ecclesiastici più intransigenti, custodi dell’ordine maschilista, i quali, anche nella scia della Controriforma, cominciarono a perseguitare le donne tacciandole di stregoneria. Le donne, identificate con coloro che apportavano l’eresia, tornarono ad essere escluse dalle attività culturali e scientifiche.
Un’altalena questa, che continuò per secoli e che a tutt’oggi ancora, in certi ambienti è presente. Il corollario di questa nuova ondata di ripulsa per “il femminile” fu la perdita di considerazione nei confronti della donna, che venne considerata un pericoloso oggetto conturbante sessuale, poco degno di spiritualità e dedito, in pratica, alle arti magiche del Maligno, perché l’uomo potesse perdersi negli inferi.
Ancora una volta la sessualità, che implicava il rapporto con la donna-peccatrice, diveniva motivo di persecuzione.
Ammettere la normalità e la naturalità dell’eros, era motivo di eresia e un peccato degno del rogo.
Anche nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento, a ancor più nel Seicento, l’avversione per la donna tornò in primo piano. Nulla era cambiato da quando, nel XII secolo d.C, il liberale Averroè , riportando l’idea di Platone, avendo affermato che le donne avessero pari dignità degli uomini, fu emarginato e poi perseguitato. Infatti, dopo quell’affermazione di carattere femminista, non passò troppo tempo e Averroè venne considerato un eretico, e ciò avvenne, forse soprattutto, a causa delle sue idee liberali sulle donne.
Con la condanna di Averroè, il maschilismo faceva piazza pulita di qualsiasi voce autorevole che cercasse di sollecitare “le pari opportunità”. Dante lo ricorda tra gli spiriti che furono estromessi dalla cristianità.
Anche in seguito l’idea laica dell’amore serpeggiò, soprattutto dopo il XIV secolo, nel pensiero di Jacques Gruet, di Giulio Cesare Vanini, di Noël Journet, di Giordano Bruno, di Erasmo, e di tanti altri che cercarono di far prevalere la ragione sulla fede. Tuttavia atei ed eterodossi, scienziati laici e liberi pensatori sono stati pur sempre in minoranza e perseguitati.
Infatti J.Gruet fu giustiziato a Ginevra nel 1547, Vanini venne condannato al rogo previo strangolamento, N. Journet, maestro laico, nel 1582 fu condannato ad essere arso vivo, Giordano Bruno venne arso nella pira eretta nel 1600, in Firenze a Campo dei Fiori. Erasmo sebbene alla fine della sua vita fosse stato molto più “morbido” nei confronti della religione si spense, nel 1535, abbandonato da tutti.
Fede, scienza e cultura è stata una situazione deflagrante anche ai nostri giorni, se si pensa che persino uno psicoanalista del calibro di Jacques Lacan, pur non abbandonando il proprio ateismo, per qualche tempo si mimetizzò dietro la maschera di una specie di conversione pur di avere clienti.
Le cose andarono in questo modo: Lacan s’era accorto che i cattolici osteggiavano la psicoanalisi freudiana perché non accettavano il materialismo ateo del fondatore, e, invece, intuì che i “praticanti” accettavano l’interpretazione lacaniana della psicoanalisi, ritenendola molto più vicina alla valorizzazione cristiana della persona umana. Inoltre la società psicoanalitica nella quale era iscritto Lacan, la SFP, era molto più possibilista sulla accettazione di praticanti analisti di mentalità cristiana, il che consentiva a Lacan di essere anche un insegnante analista. Il fa sta, dunque, che Jacques cominciò a far circolare la voce della sua “revisione” religiosa, annunziò il suo matrimonio con Sylvia, la donna con cui conviveva, e chiese un’udienza a Pio XII, per discutere con lui, dal momento che la Chiesa avversava la psicoanalisi, il futuro di quella scienza, «se si fosse ammorbidita» rispetto alla intransigente ateismo di un tempo. Fu così «sincero» Lacan, che persino suo fratello
Marc-François,sebbene in un primo tempo molto perplesso, finì col credere nel cambiamento di Jacques. Chi non gli credette fu il papa, che, aborrendo qualsiasi tipo di psicoanalisi, non gli accordò l’udienza desiderata, malgrado Lacan si fosse recato a Castel Gandolfo nella speranza di un ripensamento del pontefice.
Questo netto rifiuto indusse Lacan a ripensare alla sua “conversione” e cercò allora di stabilire un legame con la sinistra, certo molto più aperta alle istanze psicoanalitiche di quanto non fosse la cultura cattolica.
La fuga dalla donna e dalla sessualità
Possiamo, dopo questo breve sguardo storico, entrare nei particolari, e seguire per grandi line e grazie ad alcune biografie, come in pratica questa fuga dalla donna e dalla sessualità si articolò oltre che nelle grandi linee della storia culturale e sociale, nel vita del singolo. Riferisce L. Peroni, in Padre Pio da Pietrelcina che Francesco Forgiane, il futuro Padre Pio, per esempio, da ragazzino, fu sollecitato dalla madre, una pia donna che voleva fare di lui un santo, a non peccare mai e in nessun modo, e per non essere indotto a trasgredire l’insegnamento materno, ruppe irato un manico di scopa sulle spalle di un suo coetaneo che gli consigliava, come cura contro i suoi disturbi di ansia, di amoreggiare con qualche amichetta.
Se andiamo ad altri esempi illustri dell’antichità, dobbiamo allora parlare di Agostino, che visse tra il 354 e il 430 d.C.: egli nacque a Tagaste da tale Patrizio, un pagano benestante ed ambizioso, che mandò il figlio agli studi, nella speranza che diventasse uomo famoso e da Monica, anch’essa ambiziosa, che l’uomo aveva sposato giovanissima.
Agostino non amò il padre, che si divertiva quando sapeva che il maestro lo bastonava se non era attento alle lezioni. Un padre, quel Patrizio, inoltre dedito alle avventure extraconiugali, e che teneva molto anche alla virilità del figlio, tant’è che quando per la prima volta, ai bagni pubblici, si accorse di un’erezione del giovane Agostino, corse dalla moglie ad annunziarle l’avvenimento. All’orgoglio del proprio sesso, che gli aveva insegnato il padre, Agostino diede retta nella prima gioventù, salvo poi a distaccarsene in seguito, anzi a finire con l’odiare la sessualità (ma, inconsciamente la verità era che odiava il padre). Agostino, che dunque non aveva troppi motivi per amare il padre, perché l’aveva spesso deriso, in seguito sentì quelle passioni carnali che gli derivavano da Patrizio, e volle allontanarle proprio perché gli ricordavano la discendenza dal detestato genitore.
Agostino dunque, fu educato dal padre ad essere orgoglioso della propria sessualità oltre che ad amare gli studi classici. Dalla madre invece, egli ebbe tutt’altro messaggio soprattutto in quanto al sesso: la donna che l’irruenza, l’infedeltà e la violenza del marito le avevano fatta odiare la sessualità, nel constatare la somiglianza di Agostino al padre, per quanto riguardava le avventure sessuali, deve avere influito molto a imprimere una certa sessuofobia al figlio, tant’è che il figlio, in pratica ebbe una doppia eredità psicologica: quella lasciva del padre e quella pudibonda e sessuofobia della madre. E pertanto Agostino deve un radicale sdoppiamento del suo ego ai genitori: infatti fu un sensuale inquieto e un mistico asceta. Un inconscio dualismo che forse fu alla base della predisposizione ad accettare, in seguito, il manicheismo. Ma torniamo alla vita giovanile di Agostino: a dodici o tredici anni fu mandato a Medaura a studiare. E al giovane forse non parve vero di essersi sottratto alla brutalità del padre. Medaura era la patria di Apuleio, e il contatto con il pensiero e la lettura di un autore così interessante e quell’humus culturale che si viveva in quella città, deve avere risvegliato nel giovane i primi interessi per la filosofia, e quelli per “i misteri”. Il platonico Apuleio deve avere lasciato una traccia profonda in Agostino, per quell’odore di mistero e di magia che si respira nelle sue opere. In seguito, l’interesse per la filosofica si concretizza, verso i vent’anni, quando ad Agostino capitò per le mani l’Ortensio di Cicerone, opera che gli fece nascere anche la passione per la sapienza.
All’età di sedici anni Agostino, «che non aveva più nulla da imparare dei suo maestri di Madaura», torna a Tagaste, e vagabonda con amici scavezzacollo e intintivi, e si da’ alla voluttà e alla avventure erotiche. Vive qualche tempo a Cartagine, città cosmopolita, colta ma anche sede di vizi e certamente corrotta. Ma sebbene Agostino s’accompagnasse a giovani scapestrati, egli nella città studiava, e anche seriamente, retorica. Un anno dopo muore suo padre, il quale, pare, si sia convertito, prima di morire, al cristianesimo, fatto che crea una grande impressione in Agostino. Altro turbamento e altro momento di sconforto e di depressione fu la morte di un amico carissimo, del quale non si conosce il nome, ma che gli fu vicino durante gli anni della scuola. Il giovane venne battezzato prima di morire, cosa che fece sorridere Agostino, ma una volta che l’amico morì Agostino rimase folgorato da quell’evento, e “tutto ciò in cui posava lo sguardo gli parve parlasse di morte”.
Da qui, forse la sua adesione, alla setta dei Manichei. Il Manicheismo era una religione fondata nel III secolo d. C., e il cui dualismo spirito-corpo, regno della luce e delle tenebre e la lotta tra di essi è superato dalla redenzione con un processo di autocoscienza. Molto ci sarebbe da dire proprio a proposito della genesi delle idee che poi saranno accolte da Agostino nell’ambito del Cristianesimo, una per tutte, a chiarire il motivo e l’origine della sua adesione alla religione cattolica c’è la constatazione che nell’ambito del manicheismo la vita è considerata peccato di cui l’anima se pur non è responsabile, ne è pur tuttavia coinvolta e solo il disgusto dell’impurità potrà salvarla. Queste idee, apprese da giovane, devono essere state certamente per Agostino un canale preferenziale che gli fece accettare in seguito il Cristianesimo. Ma l’adesione al manicheismo creò ad Agostino un problema di carattere familiare: sua madre, indignata per quella scelta, lo gettò via da casa. Il carattere di Monica era stato forgiato dalla vecchia nutrice, che era stata anche l’educatrice del padre di Monica quand’era bambino. Questa serva curò in modo quasi nevrotico di tenere a freno ogni istinto infantile di Monica bambina, e, quando la bimba aveva sete, le impediva persino di bere, per abituarla alla continenza. Monica, però aveva cercato di svicolare da quella morsa rigida, e se non aveva potuto bere acqua, s’era messa a bere vino, fino a prendere, ancora bambina, l’abitudine di ubriacarsi. Rimprovera a dovere dalla nutrice, si pentì del suo peccato, e visse sempre molto sottomessa ai genitori e alla sua sorvegliante, fino a quando, ancor giovinetta, venne data sposa a Patrizio, che, per la verità era, come gli uomini del tempo, maschilista e manesco con le donne. Ma Monica sopportò le batoste del marito senza dolersene.
Tornando agli studi manichei di Agostino, il giovane, che in precedenza aveva vissuto, per qualche anno liberamente la sua sessualità, si unisce in concubinato con una donna, di cui non si è mai saputo il nome, e da lei ha un figlio, al quale, per la grande contentezza, da’ il nome di Adeodato, cioè a deo-dato, dato da Dio,
Se si confrontano i tempi del libertinaggio di Agostino, si può ben vedere che in realtà egli non fu poi tanto dedito alla bella vita come si vuol far credere e come egli tesso poi lamenterà. Infatti, Agostino fece il viveur solo per qualche anno, perché poi convisse con la donna amata e a diciotto anni egli era già padre affettuoso e compagno fedele della donna che gli aveva dato il figlio. E pur nell’ambito del concubinato, egli fu dunque un buon genitore e un compagno affezionato, almeno fino a quando sua madre lo convincerà ad abbandonare la donna che egli amava e a rimandarla in Africa, per poter in questo modo essere libero di sposarsi “in maniera regolare”.
Ma torniamo nel 383: a ventinove anni, Agostino va via da casa, di nascosto della madre, assieme alla donna con cui vive e al figlio, per recarsi a Roma. Sua madre, disperata – e forse anche indispettita dal tradimento del figlio – per quella fuga, quando si accorge delle fuga di Agostino piange e si tormenta.
A Roma il giovane retore si avvicina alla dottrina dei Neoaccademici. Un anno dopo Agostino passa a Milano, per insegnare retorica e qui viene raggiunto dalla madre, che essendo a corto di soldi, spera di essere mantenuta dal figlio. Agostino mette in luce la condizione di miseria dei suoi nei dialoghi Contro gli Accademici, di qui la necessità che egli ha di trovare molto danaro, anche perché a Milano, assieme alla madre lo ha raggiunto il fratello. La madre spinge Agostino cercare una sposa che sia ricca. Elevare la donna che stava con suo figlio da concubina a sposa non avrebbe risolto il problema, perché quella donna era una liberta e non era di famiglia ricca, e dunque – ragionava Monica – bisognava trovarne una che portasse “una aliqua penuria”, cioè una buona dote. Monica trovò una dodicenne che faceva al caso suo, perché era di famiglia ricca, ma, concluso il fidanzamento, bisognava che Agostino aspettasse almeno due anni per contrarre matrimonio, perché l’età minima era di quattordici anni. C’è da supporre che, una volta concluso il fidanzamento, la famiglia della ragazzina avesse posto come condizione l’allontanamento della concubina del fidanzato. E così a quel punto Monica ha tutti gli elementi in mano per imporr al figlio di abbandonare la donna con cui egli sta. Agostino, pressato da una madre insensibile ai sentimenti affettivi del figlio e fortemente suggestionato dal volere della genitrice, perché edipico, mandò via la compagna con quale da molti anni viveva in concubinato, e lo fece anche forse per cancellare i suoi trascorsi bagordi. Rimanda in Africa la donna, ma tiene con sé il figlio e si disinteresserà di lei per il resto dei suoi giorni. Agostino nelle sue confessioni così scrive a proposito della donna con cui stava da tanti anni, che lui amava teneramente e che gli fu «strappata dal mio fianco come un ostacolo al matrimonio, la donna che mi era stata compagna di vita, il mio cuore che le era stato legato rimase straziato come da una ferita e dava sangue. Ella era ritornata in Africa facendo voto a me di rinunziare per sempre all’uomo, e mi aveva lasciato il figlioletto naturale che io avevo avuto da lei». Nel mentre Monica pensato di fargli fare a Milano, un matrimonio confacente, cerca una donna da far prendere in sposa al figlio e ne trova una adatta a lui, ma essendo la ragazza ancora troppo giovane, Agostino avrebbe dovuto aspettare due anni per sposarla. Agostino, sacrificò la donna amata all’amore per la madre, ma nell’attesa del matrimonio, avendo perso la compagna con la quale conviveva e aveva rapporti e non potendo ancora avere la giovinetta da sposare, nell’attesa si mise con un’altra donna con la quale visse in concubinato. Una decisione questa che Agostino lo attribuiva alla sua natura “peccaminosa” e infatti confessò che, essendo “schiavo dei sensi”, aveva commesso anche quel peccato. Nella riflessione contro il sesso era stato spinto, più che dalla madre, dal suo giovane discepolo Alipio, che si era dato alla castità. Ma un’influenza determinante sul negativo giudizio della sessualità, Agostino la ebbe da un certo Ponticiano, il quale gli narrò la vita di Antonio, l’anacoreta egiziano morto nel 356, il quale rimasto orfano dei genitori a diciotto ani, distribuì i suoi beni ai poveri, rinchiuse la sorella in un convento, e si ritirò in solitudine, sostenendo una battaglia ossessiva contro la propria sessualità dirompente, che gli recava apparire fantasmi di femmine bellissime impudiche che lo seducevano e contro le quali lottava in tutti i modi. La storia di questo personaggio che visse settanta anni nel deserto, a tu per tu con i demoni, impressionò molto Agostino.
In quanto all’influenza di Monica che gli fece rinunziare alla donna che egli amava e che per dappiù era la madre di suo figlio, Agostino invece non ebbe da segnalare se non il proprio dolore, ma non disse mai nulla contro la madre. La vicenda sentimentale di Agostino non deve però meravigliare: non era inconsueta né per quei tempi, né per quelli che seguirono, se ritroviamo mille anni dopo una storia simile, raccontata in Medioevo, dicembre 2000, nella biografa di un mercante fiorentino vissuto nel XIV secolo, Paliano Falcucci. Costui era un giovane mercante che a Perugina commerciava in stoffe ed aveva come compagna una giovane vedova, Marcuccia, con la quale fondò una famiglia e fece tre figli. A porre un termine alla decennale unione furono le nozze che l’uomo celebrò con una ricca fanciulla di Firenze. Per coronare la sua ascesa nel businnes della seta, Paliano aveva avuto bisogno di entrare dalla porta principale nella Firenze “bene”, e chi meglio di una ricca e giovane fiorentina, con un’ottima dote, poteva introdurlo in quell’ambiente? Non certo Marcuccia, che era una popolana, e per di più sprovvista del capitale necessario per aiutare il suo compagno a sfondare con la concorrenza. A Marcuccia, così, sebbene ancora amata e madre dei suoi tre figli, Paliano, diede il “ben servito”, e però, il fiorentino, si comportò forse meglio dell’africano di Tagaste, perché dotò la donna che stava per abbandonare con una buona cifra, affinché si potesse accasare onorevolmente.
Ma torniamo ad Agostino: a Milano visse con i proventi, scarsi, del suo insegnamento di retorica ma dovette provvedere al sostentamento oltre che della madre, del fratello Navigio, della nuova concubina e del figlio Adeodato, e di tanto in tanto assistette anche i cugini Lastidiano e Rustico, i discepoli Alipio, Licenzio e Trigezio.
Agostino incontra Ambrogio, il cui pensiero è molto influenzato da quello di Plotino sicché molti autori ritengono che la conversone di Agostino al cattolicesimo non è che una evoluzione verso il neoplatonismo, e quindi l’adozione di un genere di vita ascetico del genere di quello dei neoplatonici. Insomma, Agostino avrebbe adottato il neoplatonismo prima di aderire al Cristianesimo, perché la dottrina di Plotino la ritenne più vicina alle sue esigenze spirituali, ed egli fu allora più vicino alla dottrina neoplatonica piuttosto che a quella cristiana, alla quale in seguito aderì perché simile a quella di Plotino, tant’è che il cristianesimo, in Agostino, sarebbe stato subordinato al neoplatonismo. La lettura a Milano dei Neoplatonici fu di capitale importanza dal punto di vista psicologico, pratico e religioso per Agostino, tanto che egli rimase per tutta la vita un ammiratore di Plotino, e le sue esperienze spirituali sono espresse in parte con parole prese in prestito a Plotino. Secondo qualche autore, l’influenza dei sermoni di Sant’Ambrogio su Agostino poté accadere perché essi erano di chiara ispirazione neoplatonica. Ed allora, sorge il problema: Agostino s’avvicinò al cristianesimo o al pensiero di Plotino? La domanda è pertinente dal momento che Agostino, dopo avere ascoltato i sermoni di Ambrogio, che tra l’altro si rifacevano anche ad Origene a Filone, studiò Plotino.
Il passaggio al cristianesimo di Agostino fu dunque in primo luogo un atto di ricerca esistenziale e filosofica oltre che religiosa. Agostino si sentiva attratto da una credenza che pretendesse l’assoluta sottomissione ai voleri divini, così come quella fenicia che egli aveva assimilata in Numidia. Il culto punico, cioè quello che era stato degli antenati di Agostino, predicava l’obbedienza e la rassegnazione alla volontà del Baal. Questa concezione, che Agostino volente o nolente “assorbì” nella sua prima infanzia, gli fece accettare l’assoluto primato della divinità e della grazia.
Il dio punico, come il dio cristiano possono tutto, mentre l’uomo non può nulla. Assieme al Manicheismo, dunque, anche il sentimento religioso punico fece da supporto all’accettazione del Cristianesimo da parte di Agostino. Un ulteriore problema – che del resto è quello trattato dai pelagiani – riguarda la libertà e la grazia. Agostino pensa che il peccato di Adamo ha corrotto la natura umana, e quindi la libertà dell’uomo, si sarebbe trasformata da facoltà di non peccare, qual era originariamente, in facoltà di scelta tra gradi diversi di peccare. E così, qualora non ci fosse stata la grazia, l’uomo sarebbe stato dannato in eterno.
Ma la grazia, Dio la concede a tutti, si chiese Agostino, o solo ai predestinati? Se fosse concessa a tutti, coloro ai quali è concessa vengono a perdere il loro libero arbitrio, si chiede Agostino, il quale non si rispose in maniera esauriente, oscillando tra soluzioni diverse. Libertà e grazia, fanno posto Agostino tra l’idea della libertà dell’individuo e la dottrina della predestinazione: coloro che sono segnati della grazia formano la Città di Dio, coloro che sono dannati la città terrena.
Guardando da un punto di vista storicistico il Cristianesimo, Agostino ha una concezione provvidenziale della storia, quella cioè poi ripresa dal Vico, e sostiene che l’Impero Romano fu preparato per accogliere il Cristianesimo. Ma il problema fondamentale di Agostino è quello intercorrente tra ragione e fede, che Agostino risolve attraverso una interdipendenza dei due termini: bisogna credere per intendere e intendere per credere. La Città di Dio è quella dei buoni, la città terrena è quella dei cattivi. Nel suo De Civitate Dei: Agostino afferma che Dio concede la salvazione a pochi, per gli altri vi è la dannazione. (Secondo San Tommaso invece la grazia verrà a tutti).
In tutta la ricerca filosofica di Agostino, si può notare l’intreccio con la sua vita e le istanze emotive che lo contraddistinsero. La sottomissione al volere superiore divino ( e inconsciamente materno), l’impossibilità di sfuggire al peccato, la impossibilità di far breccia con la ragione per battere l’emozionalità della madre, sono tutti tempi che troviamo “razionalizzati” nella sua filosofia. Agostino combatté la prima parte della sua esistenza sperando di poter seguire scelte di vita che più gli si confacevano, compresa quella della libertà sessuale appresa da suo padre, ma dovette invece sottostare ad una “volontà superiore”, quella della madre. E così, tutto ciò che Agostino aveva fatto contro il volere della madre e senza pensare alla tragicità della morte, lo aveva convinto che lo portasse alla dannazione. Insomma, ad Agostino, che aveva subito un così forte influsso materno, poiché non era riuscita la ribellione, cioè rigettare tutto, come dapprima tentò di fare, scappando da casa di nascosto alla madre, non rimase, per quietare la sua angoscia e per fare in modo che i suoi sacrifici avessero un senso, che razionalizzare la rigida morale materna, rendendola credibile col carisma di una autorità superiore: quella divina.
A quel punto, sottostare ai voleri divini – che erano in pratica, anche se inconsciamente, quelli materni – divenne per Agostino un ideale e non una evento che lo penalizzava e che forse gli aveva amareggiato la vita, e gli aveva fatto rinunziare, tra l’altro, alla donna che amava e che aveva fatto perdere, al piccolo Adeodato, l’affetto della madre che aveva dovuto abbandonare il bimbo in nome di “una moralità superiore”.
Agostino, cancellò tutti questi dubbi, sui quali non volle riflettere, e si “stordì” seguendo la strada della religione, compiacendosi d’avere abbandonato la via “del peccato” e di avere scelto la redenzione.
Nel 387, dopo quattro anni di permanenza in Italia, Agostino decide di ritornare in Africa. Si ferma ad Ostia, per riposarsi dal lungo viaggio da Milano, ma, in quella cittadina, dopo una breve malattia, muore, all’età di 56 anni, sua madre mentre assieme al figlio, attendevano di tornare in Numidia. Agostino si trattiene a Roma ancora un anno, conosce papa Silicio dal quale riceve l’incarico di scrivere sui Costumi dei Manichei e l’anno dopo, nel 388, ritorna a Tagaste assieme al figlio Adeodato.
A Tagaste trovò la casa paterna vuota: suo fratello Navigio aveva preso moglie, sua sorella era in un convento, gli amici della fanciullezza dispersi o morti.
In quanto alla donna che era stata per molti anni la sua compagna, e che era la madre di Adeodato, non c’era più traccia. Nel 389, l’anno dopo il suo rientro, un forte dolore coglie Agostino, per la morte, a diciassette anni, del figlio Adeodato.
Nove anni dopo, Agostino comincia a scrivere le confessioni.
Morirà nel 430, all’età di settantasei anni.
Giovanni detto Francesco ( cioè il francese) visse in questo clima di guerra dei sessi. Figlio di un ricco mercante di stoffe, tale Pietro di Bernardone, che fu cittadino molto influente in Assisi, e di madonna Pica, donna d’origine francese.
Giovanni nacque intorno al 1182, e poiché il padre andava spesso in Francia, questi, forse in onore della moglie, forse per i frequenti viaggi in terra gallica, finì col volere che il nome del figlio mutasse in «francese», cioè Francesco. La famiglia di Pietro Bernardone era una tipica espressione delle condizioni storiche del primo Duecento, in cui si veniva sviluppando l’agiata borghesia con una forte smania d’arricchire, e in cui il culto del denaro aveva un forte fascino.
Giovanni il francese, detto Francesco, di bassa statura e bruttino, vivendo in una famiglia benestante, aveva una volontà molto forte, ed essendo figlio di una classe sociale avanzata, sin da giovane aveva in animo di diventare qualcuno; per tal motivo voleva porsi in risalto in qualche modo, nell’arte delle armi, per esempio, piuttosto che seguire l’attività del padre, anche perché dimostrava uno scarso interesse per gli affari. Francesco abituato nel benessere, non disdegnava i piaceri materiali, e visse la prima gioventù allegramente, frequentando brigate giovanili e spensierate compagnie, dissipando il denaro del padre. Il figlio di Pietro di Bernardone era portato per l’eleganza e sarebbe voluto diventare un cavaliere, mentre invece era meno propenso per gli studi, tant’è che non s’impegnò molto né con il latino né in seguito col francese; egli infatti imparò a scrivere assai male, tanto che anche da grande preferiva firmare col segno di croce.
A ventidue anni, andò militare, sperando di diventare un cavaliere di fama, e prese parte allo scontro tra Assisi e Perugina. Ma nella battaglia di Colestrada (1204) venne fatto prigioniero. Dopo la sua liberazione, cadde gravemente malato, e quando si riprese tentò nuovamente la carriera militare al seguito di Gualtieri di Brienne (1205), ma, forse a causa dei postumi della malattia, forse per una crisi psicologica che si estese anche nei confronti della famiglia, Francesco, forse anche in parte un poco depresso a causa degli insuccessi che aveva avuto, abbandona improvvisamente l’avventura militare e ritorna ad Assisi.
A quel punto, Francesco, ancora incerto nella via da seguire, si ritira in meditazione, e viene colto da una visione, nella chiesa di San Damiano, ed ode una voce che così lo esorta : «Va’ e racconcia la mia chiesa». Quel messaggio che proveniva “dall’Alto”, era probabilmente una specie di risarcimento che Francesco attendeva, dopo tante sconfitte. Dopo questo avvenimento, il figlio di Pietro di Bernardone, che per un mese era scomparso dalla circolazione, senza che nessuno sapesse dove fosse finito -ant’è che suo padre lo aveva in tutto quel tempo cerca invano – torna a casa e sottrae dal fondaco del genitore alcuni rotoli di stoffa, per venderli e consegnare il ricavato al prete di San Damiano, perché riatti la chiesetta dove il giovane ha udito la voce d’esortazione.
Quando Francesco si presenta al cospetto di suo padre, costui è molto adirato per il denaro sottrattogli dal figlio e da costui consegnato al prete della chiesa, ed è oltremodo indispettito per la “diserzione” dall’esercito di Gualtiri di Brienne, una rinunzia, quella fatta dal figlio, alla carriera militare, che il padre non condivideva e che oltretutto lo offendeva in quanto intaccava, secondo Pietro, anche l’onore familiare, in quanto Francesco s’era macchiato di diserzione.
Da quel momento si scatena la rivolta di Francesco contro la filosofia materialistica e mondana del padre, e tra i due non cessano più gli alterchi. Pietro rinchiude con la forza a casa Francesco, e quando questi manifesta la volontà di spogliarsi di tutti suoi beni e di darli ai poveri, lo trascina in giudizio davanti ai consoli della città d’Assisi, accusandolo di cieca prodigalità e di avere dilapidato parte del denaro della famiglia.
Ma Francesco chiede e riesce ad essere giudicato non dai consoli della città, ma dal vescovo. E il ribelle Francesco, alla presenza del vescovo, udite le parole del padre che lo denunziava di essere un dissipatore, si sveste anche degli abiti che indossa, ripudia Pietro, e gli dice che da quel momento in poi, egli non è più suo padre ma sarà il Signore il suo ero padre. Un atto che lo scioglie da ogni diritto di sucessone, ma anche da ogni legame con la famiglia. Mas il vescovo, lungi dal condannare il giovane, parteggia per lui, dal momento che, narra l’agiografia, spogliandosi, Francesco mostrò il cilicio.
Da quel momento a causa di una forte crisi spirituale, il figlio di Pietro pratica l’ascetismo e la contemplazione. Siamo nel 1206, Francesco che ha venticinque anni, lascia Assisi e va a Gubbio per rendesi utile presso un lebbrosario, poi torna ad Assisi e si adopera a restaurare alcune chiese, chiedendo l’aiuto dei più umili. Nel 1209, mentre è nella chiesa della Porziuncola, ormai convinto che il mondo aveva bisogno di essere ricondotto a ritenere come meta unica il regno dei cieli, Francesco, ha netta la sensazione del grande compito che l’attendeva. Da quel momento in poi, con alcuni seguaci, tra cui Bernardo di Chiaravalle, Pietro Cattani, frate Egidio, Giovanni delle Cappella, Bernardo di Vigilante, frate Leone, Tommaso da Celano, frate Elia, Chiara – rampolla di una nobile famiglia con la quale, sin dal 1206, quando ancora la ragazza era dodicenne quando ancora la ragazza era dodicenne, egli aveva inizia un rapporto spirituale e con altre donne che erano accorse presso il luogo di riunione dei frati- Francesco detta la prima regola del suo ordine, che traccia le linee essenziali della nuova comunità religiosa (1210).
Francesco iniziò poi le sue predicazioni rivolgendosi agli umili, ai diseredati, ai poveri. Cioè a quelli che a quel tempo erano scherzosamente chiamati “ gli uccelli”, cioè la razza di animali che veniva considerata come la più cattiva, perché distruggeva il grano e altre coltivazioni ed era per ciò considerata, dai signori, al pari dei ipoveri, dei diseredati, dei contadini, cioè una razza di sfruttatori e di approfittatori.
La Chiesa di quel tempo censura le predicazioni di Francesco, rivolte proprio contro il potere temporale dei grossi prelati, e così stempera i discorsi di Francesco affermando che erano rivolti agli uccelli, categoria animale disprezzata al pari dei poveri. Gli uccelli, inoltre nella immaginazione popolare pagana antica, erano considerati anche dei demoni. Di qui, l’equivoco che Francesco “parlasse agli uccelli”: egli in realtà parlava con coloro che erano i paria del tempo.
Di qui anche il contrasto tra Francesco e Innocenzo III, al cospetto del quale il frate d’Assisi si presentò a Roma, assieme alla sua piccola congrega, tutti con vestiti da pezzenti. Un vento rivoluzionario e critico che non poteva non preoccupare il papa e la curia, che ritennero Francesco una spina nel fianco delle gerarchie ecclesiastiche.
Poiché rigettava la materia e le ricchezze della natura, il pensiero di Francesco venne accomunato a quello dei Catari, i quali desacralizzavano la materia, e affermavano che la creazione fosse il Male. Per cui, ne conseguiva, che anche il creatore si fosse comportato come un maligno, nel creare la materia.
Questa accusa portò Francesco ad essere sempre più dubbioso di fare la pace con le autorità ecclesiastiche, e, a sua volta, indusse Innocenzo III ad essere sempre più titubante sulle qualità religiose di Francesco. Questo il senso di quell’avvicinarsi ed allontanarsi dal giovane d’Assisi, secondo le circostanze e gli umori della curia.
Infatti Francesco risultava potenzialmente un grande eretico, come lo era Piero Valdo, che contestava l’autorità materiale della Chiesa, come lo furono gli ordini mendicanti (Albigesi, Catari) e come lo sarà in seguito Martin Lutero.
Intanto cresceva il peso di Francesco, che Bonaventura considererà un altro Cristo, un essere divino. Cresce nel contempo la grande amicizia tra Francesco e Chiara. Quando la giovane compie diciotto anni, nel 1212, fugge da casa con una parente e va a trovare l’amico e gli chiede di essere ammessa nella sua comunità. Francesco la colloca nel monastero delle Benedettine e quando, qualche tempo, dopo fuggì da casa anche la sorella minore di Chiara, Agnese, Francesco la sistema nel convento di San Damiano. Tra Chiara e Francesco inizia un rapporto complesso, che durerà fino alla morte del frate. Chiara, a soli ventuno anni, nel 1215, viene nominata dall’amico, badessa del convento delle Clarisse. Ella vivrà quasi tutti gli anni della sua esistenza sempre malata, e morirà, in povertà assoluta, com’era vissuta, nel 1253.
Poco dopo il suo decesso, nel 1255, fu canonizzata da Alessandro IV.
Intanto, Francesco vuole essere povero fino alle estreme conseguenze, e deve lottare anche contro il muro di disapprovazione non solo della Chiesa, ma anche dei suo compagni che ritengono le regole dettate dal frate troppo rigide e impossibili da attuare.
Il 1219 segna l’inizio della grandi predicazioni all’estero. Francesco va in Siria, ove resta per un anno, e poi torna in Italia.
Una serie di contrasti provano Francesco nell’animo e nel corpo. Questa conflittualità si manifesta in una somatizzatone accentuata e con l’ematidrosi, cioè con la produzione di sudore sanguigno, originato da una forte dilatazione dei capillari, eliminato col sudore. Il fenomeno è osservato particolarmente in tutti quei casi di somatizzazione del dolore. Francesco infatti salito sul monte Verna, nel 1224, afflitto da grave malattia e in preda alla costernazione morale, capisce che la sua fine è prossima, e in uno stato di profondo dolore psicologico, come affermano Tommaso da Celano, frate Elia e frate Leone, alla fine del processo psicologico, finì col esibire le stimmate.
Oggi sappiamo, come ha potuto constatare la medicina psichiatrica, che alcuni carcerati, condannati a morte, qualche ora prima dell’esecuzione, a causa del forte stress, arrivano a trasudare sangue. L’ematidrosi si riscontra a volte anche nelle persone altamente isteriche.
Secondo l’ageografia, in quello stesso periodo, e comunque negli ultimissimi anni della sua vita, Francesco avrebbe composto il Cantico delle creature, componimento in versetti assonanzati. La leggenda vuole che la composizione sarebbe stata inizialmente un’effusione lirica, che Francesco, ormai quasi cieco e malato, avrebbe avuto, a San Damiano, dopo quaranta giorni di sofferenze, in una notte di gradi dolori fisici e morali, mentre era in una cella infestata da topi, dopo che ebbe la visione che gli diede la certezza della sua beatitudine futura.
In seguito sarebbero stati aggiunti altri versi, come quelli della esaltazione della morte e questa interpretazione filologica serve a giustificare, con l’ipotesi di una composizione avvenuta in diversi tempi, il diverso andamento e tono degli ultimi versi del cantico. Una composizione, quella di Francesco, non immune da difetti, come affermò il Flora, ma che si riscatta per la sua intensità poetica.
Jacopo da Todi era spirito aristocratico, essendo nato da famiglia nobile, i conti di Coldimezzo. Sebbene si sappia poco della sua vita, pare che fosse molto legato alla madre, e confessa, in una laude che ha tratti autobiografici, d’avere avuto pensieri parricidi. Poiché a scuola non stava bene, Jacopo, per liberarsi di quell’impegno che il padre gli aveva imposto, sperò che morisse il genitore: «Stavo a pensare – mio pate moresse, ch’io più non staesse – a questa brigata »
Ma poiché suo padre non morì, lo costrinse a laurearsi il legge forse a Bologna e a fare il procuratore a Todi.
Gli impegni lavorativi non impedirono ad Jacopo di darsi alla bella vita fino ai quaranta anni, tant’è che al primo posto nei suoi desideri vi furono “le donne e gli amori carnali”. Un trasporto, quello per il gentil sesso, che, dopo la conversione, divenne – per contrapposizione – odio e paura. Infatti, Jacopo fu sempre turbato dalla bellezza muliebre, e gli acconciamenti e i vestiti delle donne avevano in lui, sebbene convertitosi alla castità e alla preghiera, un effetto dirompente. Insomma, la donna, come per tutto gli asceti, sarà per Jacopo, dopo essere stata l’oggetto perturbante di tutta la prima parte della sua vita, la sua grande nemica.
Ma come accadde questo cambiamento?
Verso i quarantenni, fugarti gli ardori giovanili, ma soprattutto, probabilmente, dopo che morì sua madre, Jacopo si guardò in giro e cercò una donna che sostituisse negli affetti colei che era stata da lui amata sin da bambino.
«Volea moglie bella che fosse sana
E non fosse vana – per mio piacere;
con grande dota, gentile e piana,
de gente non strana – con lengua a guarrire.»
Jacopo trovò la donna ideale in una sua lontana parente, la giovane ventenne Vanna, dei conti di Coldimezzo. Ma si trattò di una unione che era destinata a durare poco più di un anno: nel 1268, durante una festa , il palco in cui era sistemata la donna di Jacopo cedette, e la bella moglie dell’avvocato rimase uccisa sotto le macerie. La tragedia sconvolse talmente la vita di Jacopo, già provato per la morte, non lontana della propria madre, che non riuscì a vedere più nulla che fosse degno d’essere amato in terra. La tragedia che cole Jacopo fu duplice: romantica ed edipica, in quanto si trattava della morte della donna amata e nel contempo di colei che aveva sostituito la genitrice nell’animo di ser Jacopo de’ Benedetti. Travolto da “santa” pazzia, Jacopo de’ Benedetti, si convertì dopo avere subito lo choc della morte improvvisa della sua adorata sposa.
Da quel giorno l’esistenza di Jacopo fu del tutto diversa da com’era stata in precedenza, egli era tutto dedito alle mortificazioni della carne e all’ascetismo, e il suo umore e i suoi sentimenti divennero sempre più coinvolti dal pessimismo, dall’accidia, dall’odio. Iniziò a comporre versi cupi, volgari, rozzi. Spregiò qualsiasi cosa vi fosse al mondo, con una durezza, un’astiosità, un rancore, quasi che abbia voluto essere considerato pazzo. Solo il pensiero della Madonna gli ispirò versi dolci e amabili. La parola “figlio” è ribadita con dolcezza, e nessuna creatura commuove “l’edipico” Jacopo, come la Madonna: è la madre che ama il figlio, che lo piange quando è ammazzato, che commuove e che rinvigorisce il carole e l’impeto umano del poeta di Todi. Per il resto, tutto ciò che è attorno a lui è deprecabile.
Egli cambiò anche il suo nome in quello di Jacopone, perché a causa delle “sante” stranezze che mostrava, forse gli venne appioppato questo nomignolo dispregiativo, o forse fu egli stesso a darselo per maggiore punizione.
Da quando iniziò la sua vedovanza, e per quasi trent’anni, non si sa più nulla di Jacopone, il quale ritorna alla ribalta solo quando nel 1294 venne eletto Celestino V, che il nostro non riteneva all’altezza del compito, ma è 1297 che s’impone la parola del frate, quando inizia una crociata contro Bonifacio VIII, che l’asceta riteneva papa simoniaco ed illegittimo.
Probabilmente, il carattere certo non malleabile di Jacopo, e la vecchiaia influirono sulle scelte dell’ ultima parte della sua vita. Infatti se da un lato egli si scagliò, forse a ragione, contro Bonifacio VIII, dall’altro si legò ai Colonna, che erano altrettanto inaffidabili e arrivisti del Caetani, e con loro sottoscrisse un manifesto con cui si dichiarava decaduto quel pontefice. Ma forse si trattò di un ultimo sprazzo di “senilità” di un uomo che da giovane s’era goduta la vita e che, in età adulta, era stato colpito così profondamente negli affetti da aver perso letteralmente la tramontana, tanto che quel legame con i Colonna lo portò a doversi rinchiudere, per sfuggire alle ire papali, a Palestrina con i suoi amici e quando la città fu con conquistata dalle truppe papaline, venne catturato, processato, condannato e scomunicato dal papa e, in fine, incarcerato forse nel sotterraneo di qualche convento per cinque lunghi anni.
Liberato nel 1303 dal nuovo papa Benedetto XI, venne ricoverato presso il convento delle Clarisse di Collazzone, dove morì tre anni dopo, assistito pare dalla badessa, che era la Chiara, amica di Francesco.
Jacopone, dunque, come nei primi anni della sua vita, negli ultimi mesi fu assistito da una donna, che egli considerava sua dolce sorella, e che forse era Chiara. Si completava così un ciclo emblematico di una personaggio che aveva sempre avuto la donna al culmine d’ogni suo pensiero: da giovane, infatti egli aveva amata edipicamente la madre e, divenuto grande, aveva desiderate carnalmente molte delle donne che aveva incontrato nel suo cammino, poi, avendo perso l’appoggio della madre, aveva amata appassionatamente come sposa, un’altra donna “angelicata”, Vanna, e in fine aveva adorata la donna come Vergine e Madonna, con dolcezza e commossa meditazione.
Facendo un balzo nel tempo, possiamo osservare che la fuga dalla sessualità degli intellettuali non è affatto cambiata: François-René de Chateaubriand nacque, nel 1768, a Saint Malo, da una famiglia bretone.
Suo padre, René, un uomo rigido e taciturno s’era arricchito in America, e tornato in patria nel 1753, aveva sposato Apolline de Bédée dalla quale ebbe dieci figli. Nel 1777 la famiglia s’istalla nel castello di Combourg, presso Saint-Malo. François-René, ultimogenito, trascorse l’infanzia oziosa e mal sorvegliata, abbandonato alla cura dei domestici e dedito alle scorribande nelle viuzze del borgo e sulle dune vicino al mare.
Viene mandato a studiare in vari collegi, ma, pur mostrando grande intelligenza, non produsse grandi risultati. A quel punto, credendo di scoprire in sé una vocazione religiosa, François-René, ormai sedicenne, entrò nel seminario di Dinan, ma, a causa del suo carattere indomito, ne uscì qualche mese dopo, per fare ritorno a Combourg, ove ritrovò un padre sempre più burbero, una madre svagata e incostante, e la sorella, Lucilla, donna fin troppo sensibile, e dall’animo di fuoco.
A Combourg visse due anni di malinconiche esperienze, in preda all’emotività e in un continuo bisogno di solitudine e di sogni, inebrianti ed amari. Furono due anni che influirono molto sul carattere di Chateaubriand, la cui unica compagna in quel periodo fu la sorella Lucilla, che piena di esaltazioni e di natura nevrotica, aumentò la sensibilità e le fantasie e passionali del fratello. Il padre, preoccupato di come stavano andando le cose, cerca di svegliarlo e di ricondurlo alla realtà, tant’è che ottiene, nel 1876, per lui la nomina a sottotenente del Reggimento di Navarra. Dopo un breve periodo, Chateaubriand viene promosso capitano, ma poco dopo abbandonò la carriera militare. L’indimenticabile esperienza interiore con la sorella, C. la narrò nel racconto praticamente autobiografico che è René : «Ogni autunno ritornavo al castello di mio padre, posto in mezzo alla foresta (…) Timido e impacciato davanti a mio padre, non ritrovavo la scioltezza e l’allegria che accanto a mia sorella Amelia. Una dolce somiglianza d’umore e di gusti mi univa strettamente a quelle sorella, che era un po’ maggiore di me. Ci piaceva inerpicarci assieme nelle colline, remare sul lago, attraversare i boschi quando cadono le foglie: il ricordo di quelle passeggiate riempie ancora di delizie la mia anima. (…) a volte camminavamo in silenzio ( …) a volte ci capitava di sussurrare versi ispirati allo spettacolo della natura. (…) religione, famiglia, patria, la culla e la tomba il passato e l’avvenire (…) io e Amelia godevamo più di chiunque di quelle idee gravi e tenere, perché avevamo in fondo al cuore un po’ di tristezza. (…) Poi un giorno mio padre morì.(…) Imparai a conoscere la morte(…) Non riuscii a credere che quel corpo inanimato fosse l’autore del pensiero che era in me (…) l’espressione di mio padre nella bara aveva preso qualcosa di sublime. Perché questo stupefacente mistero non potrebbe essere il segno della nostra immortalità?( …) Perché nella tomba non dovrebbe esserci una grandiosa visione dell’eternità?(…) Amelia mi intratteneva sulla felicità della vita religiosa; mi diceva che ero il solo legame a trattenerla nel mondo, e i suoi occhi fissavano con tristezza. (…) con il cuore commosso per un momento ebbi anche la tentazione di nascondere la mia vita in un monastero »
Alla morte del padre C. va a Parigi ed è presentato a corte e frequenta la società letteraria parigina del suo tempo. Nel 1791 fa un viaggio nell’America del Nord, ma, avendo saputo dell’arresto del re, rientrò in patria l’anno dopo, per battersi nelle file dei monarchici. Tornato in Francia sposò la ricca Celeste Buisson de la Vigne, donna dalla personalità robusta e stoica, che seppe dimostrare una grande comprensione per il carattere del marito. Ma la loro unione durò pochissimo, perché poco dopo Chateaubriand raggiunse l’esercito degli emigranti del principe di Condé e combatté nell’assedio di Thionville. Ferito, fuggì prima a Bruxelles e poi passò in Inghilterra.
A Londra visse in miseria, facendo l’insegnante di francese e il garzone di libraio. Nel 1797 pubblicò L’Essai historique sur les Révolutions, opera maturata dopo aver letto Voltaire, Montesquieu, Rousseau, e impregnata di pessimismo anticristiano, come si evince dai capitoli dedicati alle obbiezioni contro il cristianesimo. Dopo aver dato per scontata la scomparsa di quella religione, l’autore si chiedeva infatti quale sarebbe stata quella che l’avrebbe sostituita. Durante gli otto anni del soggiorno londinese tristissime notizie giunsero a Chateaubriand: seppe che la sua famiglia fu imprigionata durante il Terrore, che un suo fratello, Jean-Baptiste, venne ghigliottinato assieme alla moglie e a numerosi congiunti.
Nel 1800 una lettera della sorella Julie du Farcy gli annunziò la morte della madre e lo mise a parte che essa era morta col di lui nome in bocca, perché addolorata dalla sorte del figlio. Rientrato in patria, lo scrittore trovò che anche sua sorella era nel frattempo deceduta. Quel doppio lutto fu una folgorazione per François-René, che aveva tanto amato la madre e che era stato anche affettuosamente legato a sua sorella. Ma egli era addolorato anche per la cruenta sorte che toccata al fratello, alla cognata e agli altri parenti – assassinio di cui, forse inconsciamente, François se ne fece indirettamente carico, essendo egli stato implicato tra coloro che difesero il re. Infatti, era probabile che la sua famiglia, rimasta in Francia, avesse fatto le spese della politica filoborbonica dello scrittore. Il perdere quasi in un sol momento anche altre due creature della sua famiglia, e soprattutto la madre, tanto amata, gli procurò un colpo dal quale non seppe più risollevarsi.
Quelle morti lo sconvolsero, e, abbandonato il pensiero settecentesco illuminista, passò, attraverso una crisi spirituale, alla fede religiosa cattolica; tant’è che, due anni dopo, nel 1802, François diede alle stampe Le génie du Christianisme, opera di lodi per la religione e di apologia cristiana. Con essa, egli cercò di provare che tra tutte le religioni, quella cristiana è la più poetica, più umana, più favorevole alla libertà, alle arti, e alle lettere, tant’è che, secondo l’autore, il mondo moderno le deve tutto: essa favorisce il genio, sviluppa le passioni virtuose, da’ vigore al pensiero, e propone moduli perfetti all’arte. Nell’opera, che uscì quattro giorni prima del concordato tra Napoleone e la Chiesa, l’autore si augurò inoltre il sorgere di un’arte cristiana che reggesse al confronto con quella classica. Con quest’opera Chateaubriand svaluta radicalmente la ragione, ed auspica il ritorno al sentimento, ai moti del cuore, alla spontaneità e alla natura.
Le génie du Christianisme ebbe una influenza immensa, che si propagò molto al di là della sua epoca. Infatti, la sua opera e la sua personalità tipicamente romantica, dominò il primo ventennio dell’Ottocento romantico francese. Chateaubriand fu personalità pessimista, individualista, disincantata dell’esistenza, tutta immaginazione ed emozione, e, di conseguenza, lontana dalla logica e dai ragionamenti razionali.
Com’era nel carattere del visconte, anche in politica il suo pensiero fu spesso pieno di voltafaccia: dopo un tentativo di carrierismo politico al seguito di Bonaparte, il quale aveva apprezzato il contributo dell’autore alla restaurazione religiosa, sentita dallo stesso Napoleone come atto politico, l’imperatore lo nominò ambasciatore a Roma e poi ministro nel Valais. Ma François abbandonò indignato l’icarico dopo la fucilazione del duca d’Enghien, e, in seguito, accolse con gioia la Restaurazione. Ma dopo alterne vicende politiche, e caduto ormai Carlo X, il nostro si ritirò definitivamente a vita privata.
Sebbene avesse un carattere scontroso e solitario, a causa del quale fu in qualche caso anche inviso soprattutto nell’ambiente politico, Chateaubriand ebbe, malgrado tutto, un destino favorevole che gli elargì l’ammirazione del prossimo, assieme ad onori, amicizie devote, tra cui quella di Madame Récamier. Costei gli rimase vicina nella vecchiaia, e lo protesse dalla invadenza della gente fino alla sua fine, avvenuta, nel 1848, a ottanta anni. Lo scrittore prima di morire chiese di essere inumato nello scoglio di Grand-Bé, vicino Saint Malo, ove ora riposa.
Le donne che furono amate e amanti, e che perso il partner, si sono date alla meditazione, diventando sante.
Una di queste è Rita Lotti nata nel 1381 a Roccaporena.(Medioevo Dossier- anno 3 n°4). A 12 anni andò sposa a Paolo Mancini, il quale, essendo un uomo di spada, un avventuriero e frequentatore di taverne, sicuramente le fece provare tutti i gusti della vita e del sesso. Quella sposa bambina dovette essere assoggettata psicologicamente dalla personalità di Paolo, il quale, però, legato alla fazione ghibellina, era entrato nel gioco delle faide, e venne ucciso.
La morte del marito e poi anche dei figli, significò per Rita la perdita violenta di tutto ciò che aveva al mondo, e l’inizio di una profonda crisi spirituale. L’uomo che era stato per lei come una vertigine mondana, le aveva fatto provare ciò che ella non avrebbe potuto provare se fosse entrata in un collegio da piccola, come era uso farsi a quel tempo. La traumatica ferita d’amore, la perdita degli affetti con la scomparsa anche dei figli, devono avere indotto Rita a ripensare al chiostro, al quale era prima sfuggita, ma che ora diventava, inevitabilmente, meta assolutamente da conquistare.
La crisi spirituale divenne sempre più manifesta, e passò a crisi mistica: infatti, perso l’amore profano, Rita si dedicò a quello spirituale.
Circa cento anni prima, più o meno, la stessa sorte era toccata a Margherita. Costei era nata a Laviano nel 1247 e s’era donata giovanissima, con tutto il fervore della sensualità di ragazza, al nobile Anselmo di Monepulciano. Ma dopo avergli dato un figlio, e dopo tanti anni di concubinato l’amate viene ucciso e con lui Margherita perdere tutto ciò che la agganciava al mondo. Persa, con Anselmo, anche ogni attrattiva per la frivolezza di una vita vissuta interamente nella sensualità, a quel punto, traumatizzata, Margherita abbandonato il figlio ( che, pare, sentendosi ripudiato forse si tolse la vita) ed entrò in un convento.
Quivi allacciò solida amicizia con frate Giunta Bevegnati, che fu pure suo confessore, e che fu anche il suo biografo. Costui, nel Legenda beatae Margaritae, raccontò delle visioni e dei fenomeni mistici che colpirono Margherita.
Più o meno nello stesso periodo, Angela, nata a Foligno nel 1248, ebbe una vita mondana abbastanza intensa. Ma quando, a quaranta anni, perse la madre, il marito e i figli, forse perché colpita profondamente da tante morti, esplose con un inconsueta e abbastanza strana manifestazione di gioia, affermando di essere contenta di aver perso tutti i suoi cari e per di più affermando di essere grata al Cielo che glieli aveva presi perché così ora avrebbe potuto dedicarsi a se stessa, alla preghiera e alla meditazione.
Una così sconcertate e sbalorditiva manifestazione di contentezza, non si può spiegare se non come risultato del forte shock subito da Angela per quelle improvvise perdite. E questo compiacimento di Angela lo afferma pure il frate francescano Arnaldo, suo confessore, che racconta l’allegria dimostrata da Angela per la morte di madre, marito e figli, che, affermava la donna, “le erano stati di impedimento” per la sua vita spirituale, e che la avevano troppo legata al mondo terreno. Ma a manifestare queste idee è Angela stessa, nel suo Memoriale, dettato ad Arnaldo da Foligno, e in cui ella racconta i suoi raptus mistici e le sue visioni estatiche.
Vissuta tra la fine dell’800 e i primi del Novecento, Gemma Galgani, nacque a Camigliano nel 1878. Il padre era farmacista e la ragazza, pare che fosse bellissima, fu educata sin da bambina presso le suore di Santa Zita, che le insegnarono la paura per tutto ciò che erano ideali terreni, e soprattutto le inculcarono l’orrore per il sesso. Sin da piccola ebbe salute gracile, e fu colpita da gravi malattie. Fino all’età di 19 anni visse in una famiglia benestante. Ma in seguito fu colpita, in breve tempo da varie sventure: la morte della madre, di un fratello e del padre, eventi che la depressero, le crearono gravi scompensi emotivi e la portarono, oltretutto, in grande miseria, tanto che, non avendo più come sostentarsi, venne accolta presso la famiglia Giannini, in cui vivevano già undici figli. Nulla si sa dei suoi rapporti con la prole, soprattutto con i maschi, della famiglia che l’ospitava, ma qualche tempo essere entrata a casa Giannini, Gemma cominciò ad avere visioni e stati di trance, perché, diceva lottava col Diavolo per non perdere la sua verginità. Nel suo diario scrisse che più volte nella notte si svegliava ed aveva le “tentazioni un po’ sudice” che il maligno “cercava di insinuare nella sua anima”. In lotta eterna per mantenere integra la propria castità, affermava che il diavolo le appariva sotto varie forme.
IMPORTANTISMO, MODESTISMO E PARTECIPAZIONISMO
L’importantismo è un atteggiamento che manifesta, accanto ad una sopravvalutazione personale di sé, una mitizzazione degli avvenimenti che accadono al soggetto o da lui osservati, e che serve a costruire una tridimensionalità e una epicità a fatti che, in concreto, non sono così straordinari, ma che, collocati in questa veste, colui che è affetto da importantismo pensa che gli diano lustro. L’importantismo nasconde un orgoglio smisurato, anche se non sempre si manifesta con alterigia e tracotanza, anzi, a volte, si nasconde dietro una contraddittoria umiltà.
L’importantismo può avere radici profonde che si originano in particolari messaggi ricevuto nell’infanzia, oppure essere prodotto da avvenimenti traumatici che hanno svilito una persona la quale, per recuperare stima di sé, “costruisce attorno a sé un’ epica importanza”.
La persona “affetta” da importantismo colloca la propria vita e gli avvenimenti che la toccano su un piano enfatico, magniloquente e strabiliante, e questo senza che nella realtà vi sia nulla di realmente così grandioso. Di grandioso c’è solo una costruzione fantasiosa, che talvolta può però anche ingannare gli altri.
Un’altra causa di importantismo si ha quando chi viene privato improvvisamente degli affetti e della vita mondana, dello status di benessere, e della sicurezza di sé, immagina di ricevere qualcos’altro in cambio “della perdita”. Egli allora s’immagina di non essere solo un perdente, ma di essere destinato anche a qualcosa senz’altro di superiore.
A causa di paure ancestrali , di malattie debilitanti o di eventi gravi e traumatici, che hanno demolito la loro personalità, alcuni soggetti, per sopravvivere psicologicamente hanno intrapreso la via mistica, dopo avere subito strazianti e irreparabili perdite. Si può anche ipotizzare che, se queste persone non fossero state così duramente colpite, non avrebbero scelto il chiostro e la meditazione. Gli eventi traumatici,( per esempio morti improvvise di persone care e di famiglia, violenze, soprusi), spingono i più impressionabili a chiedere risarcimenti psicologici altrettanto forti e così trovano ricompense e riparazioni di vario genere, tra cui, soprattutto in persone emotivamente fantasiose, quella più efficace è diventare “ persona toccata da eventi soprannaturali”.
Un esempio per tutti è l’infanzia di Francesco Forgiane, colui che in seguito fu chiamato Padre Pio. Francesco nacque da genitori contadini e credenti fino ad essere superstiziosi. Padre e madre di Francesco vivendo in un ambiente molto influenzato da credenze popolari. La levatrice annunziò alla madre che quel bambino appena nato «sarebbe stato grande e fortunato». Quella predizione impressionò molta la signora Maria Forgiane, che, essendo devota di San Francesco, volle mettere al figlio il nome del santo. Quando Francesco fu più grandicello, la madre lo portò da un mago interprete delle stelle per controllare la verità della profezia fattale dalla levatrice. L’indovino sentenziò: «Questo bambino sarà un uomo onorato in tutto il mondo». La madre fece notare la cosa a Francesco e gli disse che non avrebbe dovuto deluderla. Può darsi che il bambino abbia persino rassicurato la madre, ma di certo, quelle parole del mago devono essergli rimaste impresse. Affinché non gli capitasse nulla che poteva impedire la profezia, la madre portò Francesco da un esorcista che era capace di togliere il malocchio. Le sollecitazioni della madre ad essere un bambino particolare, e a non lasciarsi tentare dal demonio, devono avere avuto il loro effetto, perché a mano a mano che Francesco cresceva mostrava sempre più l’esigenza di mettersi in luce sotto l’aspetto della religiosità. A quattro anni cominciò «ad essere perseguitato dal demonio». Il diavolo, raccontava il bambino, gli si presentava in figure orribili. Al quinto anno, anche su pressione della madre, la quale voleva accorciare i tempi della santificazione del figlio, Francesco dice di volersi “consacrare al Signore”.
A nove anni Francesco comincia a flagellarsi. Il padre allora lo porta in pellegrinaggio al santuario di San Pellegrino. Al ritorno Francesco è colto da febbre improvvisa ed ha le visioni. Ciò creò in lui un misto, mal dissimulato, di fierezza. Un’enfasi che divenne a poco a poco sempre più fiera, fino a fagli intender di partecipare del soprannaturale mediante la comparizione delle stimmate.
Visitato dal Prof. Amico Bignami, per conto del Sant’Uffizio, secondo il clinico che procedette al controllo, Padre Pio formula alcune ipotesi: 1)che le lesioni siano volontarie e artificiali, 2)che siano manifestazioni di uno stato isterico morboso, 3)che siano il prodotto un po’ dell’una e dell’altra causa. Il Bignami, esprimendo forti dubbi sulle qualità soprannaturali del fenomeno, affermerà che le lesioni potrebbero essere state prodotte artificialmente, in maniera simmetrica e simbolica e mantenute “aperte” con tintura di iodio. In tribunale, nel 1963, Francesco Moncaldi, a proposito delle stimmate di Padre Pio, affermerà che il frate stesso se le era procurate, con acido nitrico e che le profumava con acqua di colonia.
Agostino Gemelli che visitò Padre Pio concluse che le stimmate erano un prodotto di origine isterica, e lo psichiatra Prof. Luigi Cancrini come riferisce la rivista Micro Mega n° 3 del 1999, affermerà molti anni dopo che per una perizia psichiatrica, Padre Pio doveva essere inquadrato, secondo il Dsm IV, in un quadro di disturbo istrionico di personalità, e di disturbo di trance dissociativa.
Tutto questo induce a pensare che le persone che sono affette da importantismo ritengono che la “sorte” loro toccata abbia una grande rilevanza, sicché questo “destino” concede loro uno spessore psico-sociale che le ripaga largamente delle umiliazioni e delle perdite subite.
La ricerca di risarcimento ha come terreno privilegiato l’ambito mistico, unico, forse, sia in passato, ma anche ai giorni d’oggi, che sia in grado di accogliere il dolore e di trasformarlo senza distruggere l’esistenza di colui che è provato dallo sconforto. I più afflitti e i più traumatizzati scivolano in uno status propagandato come il più elitario, sebbene chi vi entra mostra un grande modestismo. (Non una modestia, perché la modestia è coscienza del limite delle proprie possibilità: in questi casi si tratta di persone che pensano di essere addirittura al di là dei limiti umani, cioè coscienti di non avere alcun limite, perché toccate dal soprannaturale, e di essere in grado di fare cose mirabili, e tuttavia, proprio perché “consapevoli di un valore così immenso” non esternano che umiltà.
«Non faccio miracoli» si schermisce Natuzza Evolo, cosciente che la gente sa che ella ha un grande potere sovrannaturale « sono solo una mediatrice tra il Signore e la gente». Insomma un vero e proprio modestismo il suo, cioè, una manifestazione di falsa umiltà. Parole semplici, anzi umili, ma efficaci, capacità consolatorie e tranquillizzanti, apparente serenità d’animo, sono i biglietti di presentazione degli spiriti “eletti”. La persona dotata di poteri così vasti non ha troppo bisogno di vantarsi, le basta un gesto, un segno, una parola, un evento prodigioso che le viene attribuito. La modestia, l’affabilità sono la conseguenza di questo enorme carisma: non deve imporsi una persona del genere, trova già coloro che l’ammirano e la temono. Perché faticare ad imporsi con altri mezzi? Questa tradizione dei poteri ricevuti e copiati da una entità superiore si legge nella Bibbia. L’importanza di Dio sta nel dispensare malattie ed epidemie, ma anche di essere un guaritore,anzi, solo Dio è il guaritore, nella Bibbia. Ma molti secoli dopo ecco che qualcuno cominciò ad esercitare l’arte del guaritore, e con ciò si appropriava del sapere e del potere divino. In altri termini, il guaritore diventa simile a Dio. E sebbene il vero “medico” resta sempre Dio, l’uomo- guaritore dice di “curare”, ma lascia a Dio il compito di “guarire”. Ecco allora che Natuzza pur avendo poteri soprannaturali afferma “non faccio miracoli”. Ella è solo una “mediatrice”. Ma in questo contesto non c’è modestia, c’è modestismo.
Natuzza Evolo, di Paravati ( Mileto) è ritenuta donna di grande efficacia consolatoria. Eppure ella presenta – a detta del neurofisiologo Marco Margnelli – un sindrome isterica molto pronunziata, tanto che, volendo il neurofisiologo studiare i fenomeni di cui Natuzza è affetta, ivi comprese le stimmate, la stessa non si fece mai osservare con strumenti scientifici. Dice testualmente il prof Margnelli: «Ogni qualvolta avrei dovuto procedere scientificamente a rilevare con strumenti obbiettivi di ricerca le manifestazioni relative alle stimmate o a quant’altro, la Evolo entrava in forte tensione emotiva ed era preda di fortissime crisi isteriche che mi impedirono sempre di procedere a qualsiasi controllo, fino a che non rinunziai all’impresa».
Il prof Margnelli ha affermato invece di avere potuto studiare un’altra donna che aveva le stimmate, e di avere trovato che si trattasse di fenomeni isterici di imitazione della sofferenza della Croce. Se si pensa che circa 400 persone sono state scientificamente censite con queste manifestazioni ( 70 % donne e 20% uomini) si può ben vedere quanto “comune” sia questo genere di manifestazioni psicosomatiche.
Ma se la fuga dalla frustrazione induce all’importantismo e al modestismo, la molla che incentiva e che tiene in vita queste due estrinsecazioni psicologiche è il partecipazionismo.
Un esempio di partecipazionismo lo fornisce il popolo dei fedeli di Natuzza Evolo. La donna è sposata dal 1944,ed ha 5 figli e dodici nipoti. Dopo che nel 1944, a venti anni, sposò Pasquale Nicolacci, Natuzza, a pochi giorni dal matrimonio cominciò ad avere delle visioni. Da ragazzina Natuzza aveva sofferto la fame. Suo padre emigrò in America e di lui non se ne seppe più nulla. Anche la madre si curò poco della figlia, dovendo andare via da casa per sfamarsi. La ragazzina sin da piccolissima fu costretta per sopravvivere ad andare a servizio, per cui non è mai entrata in un a scuola, e non ha fatto nemmeno una classe delle elementari.
Ma si tratta di una donna che ha saputo reagire alle avversità: è energica, ipertesa, e certamente ambiziosa, malgrado il modestismo apparente. Raggiunto lo status matrimoniale, la Evolo ha chiesto qualcosa di più dalla vita: ha chiesto ciò che il suo importantismo le faceva reclamare: l’unica notorietà che in base alla sua cultura ella conosceva, vale a dire quella dei fatti soprannaturali. In questa strategia fu subito assecondata dalla gente, ben lieta di poter partecipare, grazie alla vicinanza di un essere che si dice in contatto col soprannaturale, ad eventi prodigiosi. Il partecipazionismo è dunque, in questo, come in tanti altri casi, il lievito che fa ingigantire la fama di chi si afferma segnato da fatti misteriosi e in grado di compiere imprese straordinarie.
La possibilità di partecipe in prima persona, la possibilità di “essere presenti” o di “credere” di essere presenti allo svolgimento di un avvenimento importante o di eventi mirabolanti fa sì che la gente che ritiene di avere assistito a queste mirabili occasioni, sostenga le persone che affermano di essere dotate di poteri paranormali.
HOMO FEROX
Anche i lupi, e gli altri animali cosiddetti feroci, sono migliori dell’uomo
Gennaio 1997
Alla fine del secondo millennio, nell’epoca delle grandi scoperte scientifiche, la condotta umana non sempre è al passo con la razionalità raggiunta nei settori delle più avanzate tecnologie. Non solo vi sono giovani sbandati, che si comportano in modo sconsiderato magari per la mancanza di strutture idonee, o per la disperazione a causa della carenza di posti lavorativi o perché assumono droga, ma vi sono anche adulti incapaci di badare persino a sé stessi, emotivamente inetti e maldestri.
Mascherati dietro una patina di “normalità”, esistono individui primitivi, veri e propri “mostri” psicolabili, la cui ferocia viene alla luce solo quando hanno compiuto il misfatto. E non sempre si tratta d’individui indigenti, molti di essi fanno “una vita normale”, e sebbene abitino appartamenti confortevoli nel retrobottega della loro mente si trova ancora l’individuo delle caverne, primordiale, privo di consapevolezza e di equilibrio, che non riesce a mascherare la propria barbarie.
Le cronache sono piene di efferatezze. Un gruppo di “nostalgici” ha fracassato lapidi e profanato tombe nel cimitero ebreo romano, firmando il loro gesto inqualificabile con svastiche e filo spinato un po’ ovunque. Dai cavalcavia delle autostrade i figli della follia gettano su ignari passati macigni al solo scopo di uccidere. All’estero i fondamentalisti sgozzano tutti coloro che non sono dalla loro parte, i kamikaze politici entrano nelle chiese pieni di tritolo e fanno esplodere la carica che portano al fianco, rimanendo dilaniati assieme alle loro vittime. In USA buste da lettere micidiali vengono recapitate a caso tra la popolazione, e quando vengono aperte uccidono e mutilano i destinatari. Genitori che sopprimono i figli, gente in preda a raptus di follia che compiono stragi impensabili, criminali e associazioni a delinquere la cui ferocia non ha pietà di nessuno .
Si dice comunemente homo homini lupus. Ma non è vero. L’uomo non è affatto simile al lupo, né è simile a nessun’altra bestia feroce. I lupi, spiegano gli etologi, hanno una intelligenza affettiva che li porta a vivere bene col gruppo, hanno sensibilità e senso del sociale. Lo stesso i leoni, i ghepardi, le tigri: nessuno di questi animali feroci uccide “per diletto”, nessuna “belva” animale sopprime il suo simile come fa l’uomo.
Solo l’uomo si comporta da animale ferox. Egli sopprime il suo simile per motivi abietti, per ignoranza, per trascuratezza, per rubargli un tozzo di pane, per ipocrisia, per nascondere le proprie trasgressioni.
Analizzando le cronache delle violenze e degli abusi sessuali sulle donne e sull’infanzia, ci si chiede se ciò di cui si viene a conoscenza tramite i mass media sottolinei che si sta vivendo un’epoca di imbarbarimento, pervasa da confusione di sentimenti e da mancanza di regole e di valori, oppure si tratta di una routine che si trascina da millenni, e dunque non è cambiato nulla nella mente dell’homo ferox, il quale è, purtroppo, rimasto ancora nella primitiva barbarie, di tanto in tanto mascherata da un fittizio progresso.
Bisogna sottolineare che non sempre le violenze sono il prodotto della miseria e dell’ignoranza, come si potrebbe supporre. Certe brutalità sottolineano come molta gente vive una primordiale storia ancestrale, anche se l’immagine del progresso sembrerebbe contraddire questa verità. Per cambiare, non bastano solo le buone intenzioni, c’è bisogno di un’opera educativa, di una crociata della ragionevolezza, di una responsabile educazione dei sentimenti. E per far ciò bisogna iniziare ad educare in modo intelligente sin dall’infanzia. Ma gli adulti, chi li educa?
(26.6.97)I
LE BARBARIE UMANE STUPRI E MASSACRI ALL’ORDINE DEL GIORNO
Ogni tanto, come per un triste risveglio, l’umanità si trova a fare i
conti con la propria coscienza. E immancabilmente, non si sa se per ipocrisia o per “dimenticanza”, emerge lo stupore di tutti nell’apprendere della ferocia che in certe circostanze l’essere umano è capace di sfoderare. Eppure, i libri di storia certe cose le ripetono da secoli, anche se restano inascoltati.
Chi non soffre di “amnesia storica” non avrà dimenticato gli eventi del passato: dal “ratto delle Sabine”, di latina memoria, agli stupri del “civilissimo” esercito spagnolo che nel ‘500 andò alla conquista dell’America del Sud, dalla tratta dei negri, da parte dei civilissimi bianchi, agli stupri collettivi del tempo delle crociate, alle violenze nell’Eritrea del 1891, quando 800 guerriglieri abissini furono fucilati perché “poco fedeli” all’esercito e quando il tenente Dario Livbraghi assegnava ad ogni soldato una o due giovani ragazze eritree , alle violenze sessuali dei giorni più vicini a noi, come quelle accadute durante le guerre fratricide dell’ex Jugoslavia o quelle che in Africa hanno visto coinvolte anche delle monache violentate nel dilagare delle guerre tribali. Meravigliarsi di ciò che è accaduto in Somalia può passare per retorica, tuttavia gli ultimi fatti dovrebbero far riflettere sulla “schizofrenia”umana. Proprio di questo si tratta.
Di fatti, se oggi da un lato c’è il progresso tecnologico e sociale che
“dovrebbe” avere il sopravvento sulla barbarie, dall’altro, quotidianamente, siamo costretti ad ammettere che “l’uomo delle caverne” è ancora dentro di noi e si esprime in molte, troppe circostanze.
Una “schizofrenia” che puntualmente si manifesta non solo in “campi sociali a rischio” come le forze armate, ma anche in “campi nobili”, come per esempio lo sport, ove la ferocia è anche presente. Patrick Kluivert, il calciatore dell’Ajax in questi giorni è stato denunciato per stupro. Nel 1982 il pugile Tony Ayala venne condannato per violenza sessuale. Nel 1992 tre giocatori di baseball del New York Nets sono stati condannati per aver stuprato una ragazza. Il pugile Mike Tyson qualche anno addietro è stato condannato per stupro. Anche la scuola è palestra di violenze. A parte quelle americane,quelle “nostrane” non sono immuni da barbari fatti criminali. In un istituto scientifico tre giovani studenti hanno stuprato in uno stanzino una loro compagna. Un allievo, rimproverato dall’insegnate privata di inglese, l’ha sgozzata con un temperino nel suo appartamento. A Bologna una ragazza è stata incappucciata e stuprata da due uomini. Un ladro che s’era inserito in un appartamento, dopo aver rubato, ha violentato la padrona di casa. Ma se questi sono esempi gravissimi, in Somalia la ferocia ha raggiunto l’inverosimile: una donna è stata stuprata, tra schiamazzi e risate, con una bomba cosparsa di marmellata, un uomo è stato sottoposto alla tortura dell’elettrochoc. E la violenza non è stata solamente diretta: ha causato, in seguito, altro dolore. Infatti, una ragazza negra di Mogadiscio, violentata da un soldato bianco, aveva nascosto lo stupro, ma non ha sopportato più la vergogna e ha ucciso il proprio bambino quando s’è accorta, dopo il parto, che il piccolo aveva gli occhi azzurri.
Agli orrori somali, come per una specie di liberazione della coscienza, si aggiungono i racconti e i “ricordi” di altre violenze dell’esercito: quelle accadute, nel 1993, in Mozambico durante lo svolgimento dell’Operazione Albatros. Anche a quel tempo vi furono stupri e violenze soprattutto su ragazzine negre minorenni e su prostitute. Le autorità svolsero un’inchiesta,ma tutto finì nell’oblio.
Speriamo che questa volta le denunzie choc della Somalia non diventino motivo “politico-elettorale” e soprattutto che, dopo la solita retorica levata di scudi, non finisca tutto nel dimenticatoio.
Oltre al fatto che è ingiusto ed illegale insabbiare eventi feroci come
questi, oltre al fatto che non è possibile “chiudere” la faccenda affermando che sono cose che accadono durante le guerre, è incivile e barbarico dimenticare qual è davvero il profondo insegnamento che dovremmo trarre da questi fatti. Dimenticare significa dimostrare di essere incapaci di educare e se manca questa importante spinta pedagogica, l’uomo non riuscirà a cancellare la barbarie che ha dentro di sé.
Allora, di “casi” simili a quelli accaduti in Somalia, in Mozambico, in
Jugoslavia etc. etc. ce ne saranno ancora tanti negli anni a venire.
La storia ce lo insegna.
LA STORIA: UN CALENDARIO DI EFFERATEZZE
(pubblicata 10.3.1996)
Alla fine del secondo millennio, i comportamenti umani non sono sempre al passo con la “razionalità” tecnologica. Alcuni “mostri” psicolabili, esercitano la potestà educativa con inaudita ferocia. Non sempre sono individui che vivono nell’indigenza:alcuni abitano case confortevoli, lavorano in ambienti lussuosi, usano auto di grossacilindrata. Ma nel retrobottega della loromente funziona ancora il pensiero primordiale incapace di evolversi. Le cronache sulle violenze e gli abusi sessuali farebbero supporre, che questi crimini sono frutto del tragico periodo in cui viviamo.
Purtroppo,invece, i bambini sono stati sempre oggetto di soprusi. Lo furono nell’antica Grecia, a Roma e nei secoli del Medio Evo. Un’idea del campionario di efferatezze del passato la ricorda il racconto di Medea che uccise i suoi piccoli perché abbandonata dal marito Giasone.
All’epoca di Luigi XIII i bambini erano trattati, con tutte le conseguenze del caso, dal punto di vista sessuale, come adulti. E non bisogna dimenticare la barbara usanza della castrazione dei bambini. I castrati venivano sfruttati dai genitori che ricavavano lauti guadagni dalle voci dei figli. Questi “cantori” per tre secoli calcarono i teatri d’Europa, nelle corti più rinomate e nelle
cappelle, senza che nessuno si opponesse a tanta barbarie.
Le biografie dell’infanzia di molti uomini illustri trasudano delle più subdole forme di soprusi. Il ministro di Napoleone, Talleyrand, di famiglia blasonata, venne umiliato e bistrattato dai genitori che si vergognavano che fosse zoppo sin da piccolo.
In USA nel 1995, una giovane donna del ceto medio ha annegato i figli per poter uscire con l’amante. In Italia un padre ha ucciso i tre figli perché la moglie lo aveva abbandonato.
Il regista Orson Welles ricordò i primi anni della sua vita come un periodo d’inferno, con una madre nevrotica, l’amante della madre che tentava di sedurlo, e un padre ubriacone,
incapace di evitare che il fratello più piccolo fosse maltrattato. Nell’epoca dei progressi della medicina, delle scienze e della tecnologia, l’umanità affonda ancora nell’età della pietra: decine di neonati vengono abbandonati nelle discariche, nei cassonetti, in sacchi di plastica e persino
nelle metropolitane, o vengono barbaramente soppressi.
E se l’uomo, invece, provasse a ragionare?
XX SECOLO: I CENTO ANNI PIU’ FEROCI DI TUTTA LA STORIA DELL’UMANITA’
Il dott. Mendele utilizzava come cavie umane, per esperimenti di biogenetica e di vivisezione, i prigionieri politici prelevati nei campi di sterminio. Il progetto nazista era di eliminare tutti i minorati psichici e fisici e lo sterminio dei malati di mente. Anche con film di propaganda, il nazismo cercava di indurre le masse ad accettare quella pulizia etnica. Per esempio nel film tedesco degli anni trenta “Io accuso”, si cerca di far capire la bontà della legalizzazione della eutanasia per i malati mentali e lo sterminio dei bambini e degli adulti mutolesi e neurolesi. Nel film, una madre chiede al medico di uccidere la propria figlia malata di mente. La donna viene processata, ma il difensore “accusa la società” di voler punire una donna che invece, con la sua decisione, secondo il credo nazista, avrebbe aperto gli animi verso una nuova concezione della razza pura, una concezione che considera i malati psichici e gli storpi vite indegne! Nel manicomio di Hadamar i nazisti fecero una strage di handicappati e seppellirono i morti in una fossa comune.
In questo secolo un primato di mortalità per cause belliche: ogni giorno, in media, e per tutto il secolo, sono morte circa 7000 persone in qualche parte del globo terrestre. Se si pensa che nell’Ottocento la media fu di circa 50/70 persone decedute giornalmente per causa di guerra, è chiaro il balzo che l’umanità ha fatto in breve tempo verso l’autodistruzione!
Durante l’ultima Guerra Mondiale, dei cinque milioni di prigionieri russi, oltre tre milioni e mezzo furono fatti morire di fame da Hitler.
Nell’assedio di Leningrado morirono di fame 800.000 persone tra la popolazione. e vennero sepolti in fosse comuni. Durante la battaglia di Leningrado, Skostakovik che abitava un bunker nella città assediata, compose la VII a Sinfonia!
PRO MEMORIA: altri dittatori del secolo:
Jaruseski (Polonia), Francisco Franco(Spagna), Mussolini, Mao Tze Dung (Cina), Gheddafi (Libia), Enver Hoxha, stalinista,(Albania) ;
Hailé Mariam Menghitsu (Etiopia)filosovietico(1974-1991) Hitler,
Stalin, Bokassa, Saddam Husseim(Iraq), Sese Seko Mobuto (Zaire),
Idi Amin Dada (Uganda), Karadzic,(Jugoslavia), Milosevic(Serbia),
Pol Pot (capo dei Kmer-rossi), Ceaucescu (Romania), Chun ,dittatore della Corea del Nord; Jean-Claude Duvalier , detto Baby Doc, dittatore di Haiti (Port-au-Prince) (sua moglie Michèle è divorziata ed ha con sé i figli). Gualtirei,Videla e Messara, i generali della Giunta argentina; Nel 1976 si sono avuti 30.000 Desaparesidos, giovani che “volevano pensare”, e i militari non volevano che pensassero. Ogni giovedì ne ammazzavano un gruppo e li gettavano dagli arerei in mare. E vi furono vescovi che dissero che quel bagno di sangue lavava i peccati degli argentini! Raoul Cedras, tiranno di Haiti; Alfredo Stroessner, per 45 anni dittatore di Panama; Suharto, dittatore dell’Indocina
Marcos Ferdinando, ex presidente Filippine,(morto) sposato con Imelda Marcos
GUERRE, CRIMINALITA’ E DROGA LE PESTI DEL XX SECOLO
Il XX secolo lascia alle sue spalle un lungo elenco di massacri inauditi. Due conflitti mondiali feroci, persecuzioni razziali, guerre etniche, madornali errori di strategia economica, come quello di Mao, che procurò la morte per fame di venti milioni di cinesi, persecuzioni politiche, come le purghe di Stalin, che secondo le stime fecero morire milioni di persone. Le stragi Cambogiane, i massacri in Africa, i desaparecidos di varie nazioni, etc.
Nessun secolo è stato più crudele e mai nessun periodo ha registrato tanti morti per guerre. Facendo i conti tra conflitti mondiali e guerre particolari, eccidi e persecuzioni, i morti nel XX secolo non sono inferiori ai duecentocinquanta milioni. Una cifra record, da quando l’homo sapiens ha iniziato il cammino umano. Se si confronta il secolo precedente, definito un periodo di grandi guerre (quelle napoleoniche, quelle coloniali e quelle etniche), non si arriva ai trenta milioni di morti.
Ma il XX secolo presenta un altro primato stragista. In questo secolo di civiltà tecnologica avanzata, se da un lato molte malattie un tempo ritenute mortali si possono fronteggiare salvando molte vite umane, c’è invece un’imprevista escalation l’umanità sembra scivolare sempre più verso la drammatica allerta della criminalità e della droga.
Secondo un rapporto dell’agenzia mondiale di controllo della droga (UNDCP) dell’ONU, alla fine del II millennio circa 250 milioni di persone ne fanno uso. Il giro annuo è di oltre 500 miliardi di dollari, che equivale all’8% del totale del commercio internazionale. Più della vendita di automobili, ferro e acciaio messi assieme: ed è più o meno eguale al traffico d’armi.
Dal 1990 al 1995, l’età media di chi inizia a drogarsi è scesa alla soglia di 13,4 anni, e l’uso di marijuana e coca è più che raddoppiato nello stesso periodo. La cannabis è la droga più diffusa: la consumano 140 milioni di persone. Mentre le droghe sintetiche, come l’ecstasy vengono assunte da 30 milioni di persone. Inoltre, il rapporto dell’ONU sottolinea che altre 225 milioni di persone utilizzano benzodiazepine, barbiturici, e varie droghe legali (tra cui metadone).
Le previsioni in proposito sottolineano che, continuando questi ritmi di “crescita”, senza un efficace freno, nei primi cinquanta anni del III° millennio la popolazione mondiale che si drogherà sarà di oltre 700 milioni di individui e il giro d’affari di quattromila miliardi di dollari annui. Inultile dire che un business del genere fa gola, e di conseguenza, la criminalità che lo gestisce avrà sempre più potere.
La scommessa dei governi civili del XXI secolo è riuscire a bloccare il dilagare di queste piaghe.
VIOLENZA, CRIMINALITA’ E TENSIONE EMOTIVA
La violenza è presente in ogni società e determina su alcuni individui una particolare forma mentis, una tradizione comportamentale.
Spesso, i giovani che stanno a contatto con l’ambiente della malavita hanno per “idoli” proprio i criminali: li vedono come protagonisti; ammirati e temuti. Per affermarsi copiano l’immagine che è più presente al loro fianco, quella del “boss” più temuto.
Ma anche i criminali non sono esenti da dubbi e angosce. Spesso somatizzano le ansie prodotte da una quotidianità impegnata in una continua guerriglia. La tensione emotiva procura anche a loro un notevole aumento di malattie, di insonnia, di incubi. E anche se “l’affiliato” cerca di ignorare tutto questo, è improbabile che esca fisicamente indenne dal suo “lavoro”. Da una ricerca medico-legale fatta qualche anno addietro all’Università di Messina, si è appurato che buona parte dei morti ammazzati erano già, dal punto di vista sanitari soggetti a rischio. Stati d’animo abnormi, disturbi psicologici e turbe mentali guidano il pensiero e la volontà del criminale.
Sebbene, in genere, l’educazione ricevuta, il tipo di vita vissuta, i modelli della cerchia sociale frequentata, e soprattutto l’ignoranza dei grandi temi dell’esistenza abbiano portato “i picciotti” a quel tipo di “attività”, tuttavia non è sempre, come vorrebbero far credere, che portano a termine a cuor leggero i “loro compiti”.
Forse è una caratteristica dell’essere umano quella di tormentare gli altri o di autoflaggellarsi. In ogni caso, la irrazionalità della violenza emerge nei disturbi emotivi e in modo emblematico anche nel suicidio, al quale in qualche caso approdano anche alcuni uomini della malavita.
Tanto per citare qualche esempio, ricordiamo che il vecchio boss Giuseppe Gambino si uccise alcuni anni addietro nell’infermeria di San Vittore, Vincenzo Prozio, il luogotenente di Reina si tolse la vita nel ’93, impiccandosi nel gabinetto della cella, e nello stesso anno il killer di Capaci, Antonio Gioè si è impiccato con i lacci delle sue scarpe nella cella di Rebibbia.
Nel 1996,per non andare molto indietro nel tempo, si è impiccato il presunto capo mafia di Caccamo, Francesco Intile e nello stesso semestre, nel carcere di Busto Arsizio, s’impiccò anche Giuseppe Terranova, esponente di spicco della mafia ragusana. Giuseppe Biondo, si è impiccato, nei primi del 1997, nel carcere di Pianosa. E in fine, l’ottantunenne Giuseppe Marsala, considerato dagli inquirenti personaggio di spicco della “famiglia” di Santa Maria di Gesù, si è gettato dal secondo piano della sua casa ove era agli arresti domiciliari.
Insomma, un male oscuro, più tragico della stessa crudele quotidianità fatta di omicidi, violenze, intimidazioni, sembra gravare come una spada sulle teste dei criminali. E ciò è spiegabile. Infatti, il boss pentito Totuccio Contorno ha confessato che per superare lo stress per la preparazione degli attentati, delle vendette e delle guerre tra cosche, spesso i picciotti si fanno preparare banchetti luculliani e si ubriacano.
E l’esempio più emblematico del disagio della criminalità ce lo dà il giovane “Paolo”, che a Napoli collabora con la giustizia e che ha raccontato al giudice che lo interrogava che fu punito e gambizzato dai capi della sua banda perché ebbe paura e all’ultimo momento non ha resistito alla “prova del fuoco” che gli era stata imposta. Invece di uccidere, egli scappò via, e poiché dunque non si era dimostrato “uomo d’onore”, i suoi “superiori” avevano addirittura deciso di sopprimerlo.
Da questo genere di “iniziazione” sono certamente passati gli adepti del crimine, e certamente tutti, chi più chi meno, hanno avuto qualche esitazione, qualche paura, qualche ripensamento, ma forse all’ultimo minuto, posti tra l’incudine e il martello, la maggior parte di essi ha scelto la via obbligata della sottomissione alle dure regole della mala.
Ma a quale prezzo?
LA PENA DI MORTE : DELITTO O CASTIGO?
Quando si discute della pena capitale, bisogna chiedersi se questo genere di punizione è un atto di giustizia oppure una semplice vendetta. Inoltre bisogna anche chiedersi se ha valore “educativo” e se è un deterrente contro il crimine. Insomma, bisognerebbe capire se essa regola meglio la convivenza civile.
Può sorgere inoltre il dubbio che il giustiziato possa essere incappato in un errore giudiziario, e dunque che sia stata punita con la morte una persona non colpevole.
Con queste premesse l’applicazione della pena capitale può essere considerata un palliativo ai fini della sicurezza sociale.
Del resto, l’opera “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, sin dal Settecento ha sollevato forti perplessità sull’utilità di questo genere di punizione. Il trattato del Beccaria, giurista ed economista milanese, gettò un grido d’allarme contro l’inutilità e la ferocia della pena capitale.
La pena di morte ha origini antichissime: si riscontra in quasi tutte le culture antiche e persino nella Bibbia. La pena capitale, nelle varie epoche e nelle varie etnie, è stata comminata non solo per l’omicidio, ma anche per i “delitti” di “stregoneria”, per i sacrifici sabbatici, per l’adulterio, per l’incesto, per eliminare i governanti che avevano “tradito” il popolo e persino, in qualche popolazione, per l’idolatria.
Che la pena di morte sia stata fino a poco tempo addietro un dilemma inestricabile e ambiguo lo dimostra il fatto che persino nello Stato Pontificio, fino al pontificato di Pio IX, era in piena funzione la pena di morte che veniva comminata per reati ritenuti gravi. Ancora oggi, nello Stato del Vaticano non è cancellata e dunque, teoricamente è ancora operante.
Il potere, sia civile che religioso, ha fatto della pena di morte un uso “repressivo”, tant’è che ancor oggi, in alcune nazioni, serve per dominare e sottomettere con l’arbitrio e la paura, le popolazioni. Purtroppo, ancora, nello scacchiere mondiale sono molti gli Stati che non hanno tolto dalla loro legislazione questo tipo di punizione: in Occidente è presente nella costituzione degli Usa, del Vaticano e di alcuni Paesi dell’Est europeo e dei Balcani. Presente anche in molte nazioni dell’Africa, dell’Estremo e Medio Oriente, oltre che in Cina, Kuwait, Cuba, Arabia Saudita etc. etc..
Che la pena di morte abbia un valore “propedeutico” e che sia un deterrente contro il crimine non è accertato: la criminalità non ha una flessione nemmeno dopo esemplari sentenze capitali. Infatti, l’efferatezza umana non si ferma nemmeno davanti alla minaccia della pena di morte, per cui è un tipo di punizione che non produce l’effetto sperato.
Così, se qualche volta, davanti a crudelissime stragi e a delitti spietati, l’animo dei giusti si ribella e si domanda se non possa essere la pena di morte l’unica punizione contro la ferocia e l’insensatezza umana, rileggendo Beccaria, bisogna convenire che non è la repressione violenta, ma un rinnovamento civile, un più acuto senso del dovere dei politici e dei cittadini, che potrebbero prevenire i delitti più gravi.
Un progetto di riforma, questo, che dovrebbe essere alla base di tutte le pedagogie, e di tutte le politiche di ogni Stato.
All’opposto della condanna a morte, sorge l’altro scottante problema, del “perdonismo” indiscriminato. La verità è che il mondo è fatto di eccessi, e così, in qualche caso, non solo propende – giustamente – per la eliminazione della pena di morte ma anche per la cancellazione delle pene detentive severe. E così, se è opportuno che la Giustizia sia garantista, tuttavia, non si dovrebbero cancellare, spinti da pietismo o da un frainteso umanitarismo, le pene più rigide per i delitti più gravi. Infatti, a questo punto, sorge impellente proteggere il diritto dei familiari delle vittime, comprendendo i loro sentimenti nei confronti di chi ha tolto brutalmente e ferocemente la vita a un loro congiunto.
Come valutare allora un sistema penale che ammette la condanna a morte? Dalle statistiche Usa, dal 1973 ad oggi, in quel Paese, sono state emesse ben 85 condanne a morte i cui condannati, riconosciuti innocenti in altro grado, sono stati liberati in extremis.
Poco o nulla si sa, invece, di quegli innocenti che hanno subito ingiustamente la pena di morte.
Purtroppo, del problema inerente la pena capitale se ne parla quando una vicenda diventa spettacolo da baraccone. Quando si spengono i riflettori, a cose fatte, tutto passa nel dimenticatoio.
C’è chi adopera il tema della pena capitale per risvegliare l’attenzione, magari morbosa, della popolazione, e che può diventare così un efficace mezzo per veicolare pubblicità come accadde col calendario di Oliviero Toscani che la utilizzò per scopi commerciali. Uno dei motivi per cui Buch non è troppo ben visto in Europa è perché è un convinto assertore della pena di morte (come Governatore del Texas ha ammesso 145 esecuzioni capitali), ed anche perché c’è chi afferma che, da Governatore, per decidere un ricorso a tal proposito, non ha mia perso più di un quarto d’ora.
In quanto all’Italia l’ultima esecuzione della pena di morte, avvenne oltre cinquanta anni addietro, nel poligono di tiro di Basse di Tura, in provincia di Torino, a seguito di una sentenza d’appello. Furono fucilati tre uomini che, dopo aver rapinato dieci persone in una cascina, avevano compiuto una efferata strage, gettando quei malcapitati, tramortiti, ma ancora vivi, in una cisterna.
La pena in Italia è soppressa per tutti i delitti previsti dalle leggi comuni e speciali.
Come si vede il problema della legittimità della pena, considerata dal punto di vista morale, sociale, religioso è molto controverso,e a tutt’ora è ben lontano dall’essere risolto con unico criterio in tutti gli stati del mondo
Le elezioni in India: “svolta” sempre più inquietate.
IL MEDIOEVO ALLE SOGLIE DEL DUEMILA
Lascia perplessi il massiccio ingresso dell’integralismo religioso nell’orizzonte politico di molte nazioni.
Nello Skri-Lanka, da anni, una guerra cruenta tra indù e mussulmani fa stragi massiccie nella popolazione. A Cipro, l’intolleranza religiosa ha scatenato una guerra spietata. E altrettanto dura è la diatriba tra protestanti e cattolici, nell’Irlanda, divisa dal credo religioso.
In un versetto del Corano c’è scritto: chi non si converte, bisogna ucciderlo. E gli Algerini che erano andati a combattere in Afganistan con i ribelli Mujaidin, tornati in Algeria, sono diventati la base del GIA, il partito integralista. E il braccio armato del GIA, il FIS, massacra i villaggi che non hanno votato per il partito mussulmano e che non si rivoltano contro il governo. Gli integralisti religiosi dell’Afganistan, i Taleban hanno imposto un regime “coranico” ferreo e intransigente che ha riportato quel popolo indietro nella Storia.
In Iran il regime degli Allaytollah, misogino, e repressivo, ha reintrodotto pene medievali come la lapidazione, la fustigazione e l’uso della forca in piazza.
L’ultima Nazione, in ordine di tempo, che ha rinunziato al governo laico, per un governo a sfondo religioso, è l’India, ove nelle ultime elezioni il partito che fu del mahatma Gandhi, del Pandit Nehru e di Indira Gandhi, ha ammainato la bandiera in favore del Bjp, il partito hindu.
La storia di questa sconfitta va ricercata nelle guerre religiose che da anni si combattono in Pakistan, nel Bangladesh e nel Kashmir. E soprattutto nella esaltazione che gli integralisti fanno della “indianità”, contro “l’invadenza” del mondo occidentale. L’hindu insomma vuole che la nazione indiana diventi terra santa e che trionfi la religione nazionale indiana.
E ancora più ad Oriente, il Giainismo, religione indonesiana che “in teoria” sostiene di praticare la non violenza, e i cui seguaci seguono i precetti di Vardhamãna, detto Jina o Giana, cioè vincitore delle passioni, va sempre più estendendo nell’Est Asiatico, in cerca di conquiste politiche. Ma tutto ciò, non è, come potrebbe sembrare, un problema che ha riguarda solo l’Oriente, o il mondo arabo-asiatico. In USA, ai giorni nostri, sono molte le sette religiose che cercano l’inserimento politico e la scalata al potere. In Giappone le sette religiose aggrediscono la società laica, seminando il panico nelle metropolitane e nelle strutture sociali delle grandi città del Sol Levante, nella speranza di arrivare alla conquista di una fetta di potere.
Insomma, dai tempi biblici dell’antico Egitto, alle guerre medievali per la conquista dei luoghi santi e per cacciare gli infedeli, ai conflitti che si svolsero nell’Europa rinascimentale e del Seicento, scatenati dalle confessioni contro altre fazioni, l’integralismo religioso è stato motivo di guerre e di conflitti di potere.
Ne sono esempi la guerra contro i Catari, la lotta delle Investiture, le Crociate, la strage degli Ugonotti, la guerra agli Ebrei, la guerra agli Albigesi, la strage della notte di San Bartolomeo, l’assedio de la Rochelle, l’insurrezione degli Anabattisti, la guerra ai Valdesi, la guerra di Luigi XIV contro i Giansenisti, la Battaglia navale di Lepanto, la Guerra dei Trent’anni, la battaglia dei protestanti di Lutero a Frankenhausen. Alcune di queste diatribe avvenivano tra contendenti che infondo, professavano le stesse idee. Il che finiva col creare situazioni assai delicate, se non imbarazzanti.
E questi non sono che alcuni degli esempi di guerre religiose, svolte nel “laico” continente europeo.
Con il passaggio di ottocento milioni di indiani da un governo laico ad uno confessionale, nella bilancia dello scacchiere della politica mondiale certamente qualcosa accadrà. E c’è solo da sperare che, alle soglie del Duemila, non ritorni il Medio Evo.
Nel vocabolario giornalistico, “Terzo Mondo”, atropologicamente parlando, è ogni sito della Terra in cui permangono usanze tribali, comportamenti crudeli e primitivi e riti cruenti. Cerchiamo allora di capire: l’Organizzazione Mondiale della Sanità denuncia l’esistenza di farmaci fasulli, in certi casi anche velenosi, prodotti da “civile gente occidentale” in fabbriche clandestine, che stanno inondando i paesi africani e vengono somministrati alle popolazioni meno abbienti. Migliaia di bambini e di adulti sono intossicati e molti sono anche i morti a causa di tali contraffazioni. I profitti sono elevati: e i falsari hanno guadagnato miliardi producendo farmaci che si presentano in tutto e per tutto come quelli normali, commercializzati in Occidente, ma che sono invece preparati con sostanze non medicinali, come l’antigelo, o con farmaci guasti e materiale alterato o inutile ai fini terapeutici. Queste medicine, che qualcuno chiama già “apocrife”, sono prodotte da tempo nel Mondo “civile” per essere vendute nel Terzo Mondo, con guadagni da capogiro.
Il caso non è nuovo: qualche anno addietro, mentre infuriava la guerra fratricida tra le tribù etiopiche, e quando in Somalia si compivano carneficine etniche, l’Europa si pose ampollosamente l’aureola in testa e inviò medicinali e viveri alle popolazioni più colpite del “Corno d’Africa” e dintorni. Qualche tempo dopo si scoprì che farmaci e derrate alimentari di prima necessità erano alterati e scaduti e che persino le coperte e il vestiario era materiale riciclato e quasi inutilizzabile.
Anche in quel caso, i guadagni delle ditte europee fornitrici (si trattava di holding non clandestine ma di nomi altisonanti) furono notevolissimi. I vantaggi delle popolazioni alle quali vennero inviati quei “beni” di prima necessità assolutamente nulli!
Persino nella “civilissima” Bruxelles, si scopre con orrore che un grosso e perverso giro di pedofili, con la copertura di polizia, politici e magistratura, sfruttava da tempo un considerevole numero di minori, in qualche caso persino commettendo efferati omicidi.
Le agenzie di viaggio occidentali forniscono combinazioni “turistiche” nei paesi “del Terzo Mondo” che comprendono oltre al consueto programma touring, anche incontri “particolari” con minori e ragazze del luogo, il tutto, spesso, a prezzi stracciati e nella più assoluta riservatezza. Uomini d’affari, magnati dell’industria, professionisti di chiara fama e “insospettabili”, sono i più assidui clienti di queste agenzie occidentali.
Gli interessi di grossi trust internazionali, senza badare ai danni ecologici e ambientali, spingono lo sfruttamento della foresta amazzonica e di altre aree che sono il “polmone” del mondo, creando non solo gravi problemi all’habitat e agli indigeni, ma anche, con l’andare del tempo, procurando guasti irreparabili a tutto l’equilibrio della Terra.
Nella guerra segreta per il petrolio le grandi Compagnie internazionali impongono svolte politiche utili solo ai propri interessi commerciali e, per impossessarsi dei diritti di sfruttamento dei giacimenti, fanno scatenare guerre che si concludono con l’inevitabile sterminio di intere etnie del Terzo Mondo, che vengono così immolate all’altare della speculazione. Notizie inquietanti arrivano ogni giorno a proposito di minori che sono utilizzati in paesi europei come schiavi dell’elemosina, come merce pornografica, o che sono sottoposti a efferati riti sacrificali. In tutta Europa, dall’Inghilterra al Sud della Francia, da Aosta alla Germania si scoprono killer che hanno ucciso prostitute, gay, vecchi e minori, dopo averli seviziati.
Assistenti, sorveglianti e personale sanitario di molti istituti di assistenza e di riposo sono denunciati per sevizie nei confronti di degenti affidati alle loro “cure”. A sentire tutte queste notizie, è lecito chiedersi: con quale improntitudine si può definire quello occidentale, “Mondo Civile”, e con quale arroganza soprannominare l’altro, “Terzo Mondo”?
LE MARGINALITA’ DI FINE MILLENNIO
Si potrebbe supporre che nel mondo odierno, alla fine del millennio, nel quale prevalgono la tecnologia, la medicina, le scoperte scientifiche e le conoscenze psico-sociologiche, le “marginalità” siano limitate e in ogni caso che vi siano condizioni migliori che nei tempi precedenti.
I mass media, purtroppo, fanno conoscere invece qual è l’attuale situazione della emarginazione nel mondo, facendo da cassa di risonanza degli efferati delitti che in merito avvengono quotidianamente.
Dallo spazio riservato nei mezzi di comunicazione di massa, il fenomeno della violenza, dello sfruttamento, della emarginazione e delle molestie sessuali appare un problema che affligge il nostro tempo così come affliggeva in passato l’umanità. Infatti, la marginalità è una piaga della nostra epoca così “socialmente” avanzata, come lo fu in passato quando l’impegno sociale era certamente minore.
Purtroppo bisogna constatare che la situazione di marginalità dei minori, delle donne, di coloro che hanno turbe emozionali, delle minoranze e della gente di colore, oggi come in passato è un male centrale della società umana.
In passato non si ebbe alcuna considerazione per l’infanzia. Nell’antichità non esisteva il concetto di “infanzia”: il bambino era visto come un adulto in miniatura, oppure un servo o, nel migliore dei casi, veniva considerato un compagno dell’adulto, col quale condivideva il lavoro e qualsiasi disagio.
In Grecia e a Roma i bambini erano in pratica proprietà degli adulti: ad Atene e a Sparta la pedofilia era un costume consueto, e presso i Latini il pater familias aveva nei confronti dei figli diritto di vita e di morte. Nel Medioevo e nelle epoche seguenti l’infanticidio è stata una pratica consueta. Le cronache raccontano che i fiumi, i boschi e i vicoli delle città erano disseminati di corpicini! Insomma, tranne rari casi, essere bambini non ha significato affatto usufruire di benevola attenzione, anzi, è spesso un rischio e un motivo per essere impunemente maltrattati dagli adulti.
Molte consuetudini mettevano a rischio l’infanzia: una di queste era che i bambini erano utilizzati al servizio delle truppe. Essi seguivano le armate come “scudieri” o come portatori di lance dei soldati. Sicché nelle battaglie i minori morivano al fianco dei combattenti. Partecipando alle guerre, non solo rischiavano la vita ma, se cadevano prigionieri, venivano giustiziati assieme ai loro padroni. I bambini accompagnarono in Terra Santa i conquistatori del Santo Sepolcro. Addirittura si ebbero due Crociate composte esclusivamente di minori i quali non arrivarono mai a Gerusalemme, perché vennero massacrati lungo il percorso o perché morirono di stenti e di malattie. Tuttavia, oggi le cose non sono molto migliorate: se si pensa ai bambini dell’INTIFADA che combattono a fianco degli adulti, e se si pensa all’addestramento dei minori che si svolge in molte parti del mondo. In angola, per esempio, circa 15.000 bambini, seondo la stima UNESCO, sono addestrati alla guerriglia e venduti come mercenari. Lo stesso è accaduto in Afganistan e in tutti quei paesi dove è viva la guerriglia. Più o meno avviene lo spesso in alcuni paesi dell’America Latina, ove i narcotrafficanti rihiedono manodopera minorile perché i minori sono meno soggetti a restrizioni di polizia.
Non si deve dimenticare che il lavoro infantile è stato largamente sfruttato in ogni secolo in condizioni davvero disumane. I bambini sono stati utilizzati nelle filande, nei campi e nelle miniere fino agli inizi di questo secolo e sono sfruttati per i lavori pericolosi anche ai nostri giorni.
Ma ora vediamo qual è la situazione alla fine del secondo millennio. Secondo statistiche UNESCO, ancora oggi in tutto il mondo oltre duecento milioni di bambini dall’alba al tramonto lavorano in condizioni precarie. Essi , tra l’altro, sono impiegati nelle foreste degli alberi della gomma della Malesia, nelle piantagioni di thé dell’Assam. In Indonesia i bambini impiegati nel lavoro nero sono oltre due milioni. In Thailandia il lavoro nelle fabbriche di fiammiferi è quasi tutto smaltito dai minori. E molti bambini lavorano ancora nella piantagioni delle Filippine. A Nuovo Amburgo, in Brasile, i bambini sono impiegati nelle fabbriche di scarpe. In molti paesi lavorano la canna da zucchero. In Iran sono impiegati nelle fabbriche di tappeti e nella coloritura delle lane. In Birmania i bambini sono utilizzati come manovalanza per i lavori più pericolosi, in alcune regioni dell’Africa e del Sud America sono assoldati da trafficanti senza scrupoli per la cernita di milioni di metri cubi di spazzatura, in altre nazioni dell’Africa e dell’estremo Oriente vengono istruiti alla guerriglia e venduti come mercenari, nel Centro America e in America del Sud i bambini sono in mano ai narcotrafficanti che li sfruttano sia per la raccolta che per la distribuzione della droga.
Le statistiche parlano chiaro: se un tempo la maggior parte dei minori, a causa della fame, delle malattie, e delle violenze che subiva, non arrivava alla pubertà, ancora oggi, in molte parti del mondo la situazione non è affatto cambiata. L’accattonaggio dei minori, lo sfruttamento e lavoro nero dei bambini, l’utilizzo come baby-killer o come mini-spacciatori, sono fatti che fanno parte ormai della cronaca quotidiana. Molti minori ancora oggi dunque sono sottoposti a lavori inadeguati, sfruttati e obbligati a ogni genere di fatica fisica senza alcun riguardo per il loro stato. Alcuni venduti come schiavi per chiedere l’elemosina o usati come agnelli sacrificali in riti satanici, altri uccisi per vendette trasversali.
Ma oltre alle violenze che dipendono dal degrado sociale, non possono essere ignorate quelle più subdole e crudeli, di tipo psicologico e persino di tipo “educativo”, altrettanto nocive e deleterie.
Che l’infanzia non abbia goduto di alcun riguardo lo si deduce da tante consuetudini. Dalla “fasciatura” dei neonati, al baliatico, all’utilizzo indiscriminato dei minori anche come oggetto di sollazzo e trastullo degli adulti, senza alcun rispetto per la personalità dei minori. Un tempo era anche consuetudine obbligare bambini e bambini a entrare nel chiostro anche in tenerisima età e di abbandonarli per sempre. Rouseau mise i cinque figli in vari ospizi senza mai più rivederli. Galileo Galilei quando passò da Firenze a Pisa, mise in un collegio le sue sue due bambine una di otto e una di dieci anni e non le rivide mai più. Anche Manzoni, prima di sposarsi con la seconda moglie mise in convento la figlia Matilde e non l’andò più a trovare nemmeno quando, costie, ormai morente per la tubercolosi, supplicò il padre di volerlo vedere per l’ultima volta. Einstein ebbe una figlia con Milena Marec, ma siccome non erano sposati, e la madre di Albert, Paoline era rigorosa, la lasciarono alla suocera in Jugoslavia e non la rividero più perché adottata da altri, in seguito, una volta sposati, Albert e Milena ebbero due figli, Albert(1904) e Edward (1909); la cantante Giuseppina Stepponi abbandonò i suoi figli negli ospizi, e Mazzini non si curò né rivide più il figlio che ebbe da Giuditta Sidoli. Anche D’Annunzio si disinteressò dei figli che ebbe da diverse donne. Da molti esempi si deduce che anche uomini illustri e di rango hanno ignorato l’educazione dei propri figli, creando loro gravi problemi psicologici. La regina Vittoria umiliò il principe di Galles, Edoardo, perché era storpio, il Conte Toulouse-Loutrec, non volle che il figlio si firmasse col nome di famiglia, perché si vergognava che un Toulouse-Loutrec fosse storpio. Si potrebbe continuale la lista dei genitori illustri che hanno maltrattato psicologicamente i figli.
Una scrittrice austriaca ha definito col termine di pedagogia nera la raccolta delle opere di molti scrittori di fine ottocento i quali esortavano i genitori a scacciare con la violenza ogni volontà autonoma dei loro figli, perché, sostenevano, così si rafforza il rispetto dei figli verso i genitori. Secondo questi autori, più si infliggono punizioni violente ai propri figli e più questi crescono sottomessi e moralmente sani. Essi sostenevano che i bambini, una volta divenuti adulti, avrebbero dimenticato qualsiasi violenza subita, mentre sarebbero rimasta in loro l’educazione impartita con quel genere di imposizione. Per fare un esempio del tipo di trattamento utilizzato per un’educazione dissenata, da una cronaca del XVIII secolo sappiamo che ad un bambino che bagnava il letto di notte, fu fatta bere a forza la sua urina, così, il piccolo, racconta l’autore dei quelle riflessioni “pedagogiche” dopo quelle punizioni esemplari, smise di inzuppare il letto di notte.
Ma se questo è il genere di tortura pedagogica di un tempo l’infanzia, soprusi psicologici nei confronti dei minori accadono ancora oggi anche nelle società più raffinate e colte. Sotto l’apparente “civiltà sociale”, i minori sono maltrattati anche negli ambienti più “insospettabili”, e ciò rende difficile intravedere gli abusi ed impossibile intervenire. Spesso, ancora oggi i mezzi di correzione sono violenti “per il loro bene”. Purtroppo le “crudeltà occulte” non fanno notizia perché non appaiono apertamente e non vengono registrate dalle cronache, sicché i mass media non le inquadrano come “violenze” sui minori. Eppure in queste circostanze l’infanzia può diventare un inferno mentre invece i bambini hanno diritto di maturare in un clima di rispetto per la loro personalità e di vivere in un ambiente che infonda loro sicurezza.
Il fatto è che non sempre gli adulti si comportano da buoni educatori, né tutti sanno essere genitori ragionevoli. Una cosa è mettere al mondo dei figli e allevarli materialmente, e un’altra è saperli educare. Spesso l’educazione è impartita con assurda crudeltà verbale. Alcuni minori sono schiacciati dall’autoritarismo, umiliati e sottoposti ad esperienze psicologiche traumatiche. Ai figli qualche volta sono imposti ricatti affettivi. Spesso i bambini sono costretti ad assistere a violenti litigi tra genitori e subiscono situazioni familiari traumatiche che non sono in grado di sopportare. L’abbandono di minori, non sono solo opera di genitori che mancano di cultura.
Ancora oggi, nel cosiddetto “mondo civile” i bambini sono bastonati e puniti orribilmente. Alcuni subiscono sevizie quotidiane in famiglie insospettabili. Un genitore dava dei sonniferi a un bambino di un anno perché dormisse e non lo disturbasse. Una madre americana ha annegato i suoi due figli per poter andare con l’amante, una coppia ha dimenticato la propria figlioletta in un’auto chiusa e rimasta al sole per delle ore, un’altra coppia di genitori è andata in ferie, abbandonando il figlio disabile e ritardato. Le cronache registrano inoltre storie di genitori che prima di suicidarsi compiono una strage in famiglia, uccidendo i figlioletti.
I bambini che hanno subito abusi psicologici a volte non sono in grado di esternare il loro problema. Si sentono umiliati, non hanno il coraggio di denunciare l’accaduto e non riescono ad esprimere il loro dolore. Ma i sentimenti di disperazione e di rabbia non si cancellano: vengono esternati in angosce o in conflittualità autodistruttive o si trasformano in odio e rancore verso il prossimo. In molti casi di crudeltà psicologica, il bambino non è in grado di accorgersi di ciò che gli capita, perché non ha esempi con i quali confrontare la propria condizione o perché esclude che i suoi familiari possano maltrattarlo, e ritiene “normali” rapporti tra educandi ed educatori le violenze che subisce dagli adulti.
In simili condizioni di vita i minori e gli adolescenti possono diventare nevrotici o delinquenti. La violenza giovanile, l’uso della droga, i comportamenti criminali derivano dal cattivo uso dei mezzi di correzione riservato ai minori. I giovani cosiddetti “asociali” sono il risultato di una formazione educativa inadeguata. La delinquenza minorile non dipende, come semplicisticamente si potrebbe pensare, solamente dalle cattive condizioni economiche, ma ha origine anche dai maltrattamenti subiti durante l’infanzia.
Forse uno dei problemi più della fine del secondo millennio oltre alla violenza sull’infanzia è la violenza dei minori. Proprio per le condizioni psicosociali patite durante la prima infanzia, assieme anche una violenza giovanile, che la si trova nelle scuole di nazioni anche all’avanguardia come gli USA, ove spesso i ragazzi sono ammessi a scuola dopo aver superato il metal detector per scovare se hanno armi addosso.
Passando a parlare dell’altra categoria a rischio, le donne non possiamo dimenticare che per secoli esse sono state considerate cittadine di seconda categoria, alle quali non era concessi che pochi diritti e limitate libertà. Gli stupri di cui abbiamo purtroppo notizia durante le guerre che accadono in questo scorcio di secolo, non sono nemmeno una novità: in passato ogni conquista militare comportava la violenza sulle donne della nazione conquistata. Gli esempi sono infiniti. Gioffredo di Buglione nel 1099 nel conquistare la città non si oppose che i Crociati stuprassero donne. Nel 1187 l’esercito del Sultano d’Egitto, il feroce Saladino lasciò che il suo esercito massacrasse i cristiani e che violentasse le loro donne. Riconquistata nel 1229 dalla cristianità, gli abitanti di Gerusalemme subirono uno dei più feroci stupri della storia dai soldati di Federico II; nel 1238 i mussulmani entrarono in Terra Santa e fecero strage dei cristiani, che furono tutti impalati. La soldataglia violentò e torturò tutte le donne. Le scellerataggini compiute a Gerusalemme non sono esempi isolati: Roma fu saccheggiata da Alarico nel 410, da Genserico nel 455, da Roberto il Guiscardo nel 1084 e tutte le volte le romane subirono efferatezze inaudite. Nel 1527, quello che passò alla storia per “il Sacco di Roma” per antonomasia, fece registrare le peggiori nefandezze che fino ad allora l’Urbe aveva subìto: per un mese le piazze e le strade echeggiarono delle urla dei suppliziati e delle grida delle donne brutalizzate. I soldati spagnoli e i lanzichenecchi luterani si comportarono da carnefici e da violentatori nei confronti soprattutto del sesso debole. Ovunque, i conquistatori di qualsiasi religione, credo, o cilviltà si sono comportati nella stessa maniera e ancora oggi si comportano in questo modo. Impossibile dimenticare la ferocia degli stupri accaduti nell’ultimo conflitto Iugoslavo. E tutti quelli commessi tra etnie rivali.
Un tempo le donne subivano soprusi d’ogni genere. Il delitto d’onore era fra questi. L’antropologo Aurelio Rigoli, in La Baronessa di Carini, Tradizione e poesia, e in Le Varianti della “Barunissa di Carini” raccolte da S. Salomone Marino, rifacendosi alla vicenda della leggenda della baronessa di Carini, uccisa nel 1503 per motivi d’onore dal barone Vincenzo La Grua Talamanca, traccia le coordinate della struttura sociale della sessualità meridionale; sessualità che, oltre a sollevare questioni di carattere sociale e morale, crea difficoltà relazionali.
Durante i processi alle streghe, in Europa vi furono molte esecuzioni settimanali. Novecento donne furono uccise in un solo anno a Würzburg e oltre mille nel Comasco. A Tolosa, vecchia roccaforte catara, in un solo giorno vennero assassinate quattrocento donne accusate di stregoneria. Sull’onda della caccia alle streghe, potenti e infami, per secoli, esternarono la loro paura verso la donna, risolsero le loro controversie personali mandando a morte donne e uomini di cui volevano disfarsi, tacciandoli di stregoneria. Anche nel Nuovo Mondo, nell’America delle molte libertà, si celebrarono sommari processi per stregoneria. Se ne tenne uno particolarmente famoso a Salem (Massachusetts), nei primi del’600, che portò all’impiccagione di 19 donne.
La scrittrice Oriana Fallaci, a causa della condizione delle donne definì Sesso inutile quello femminile e Simone de Beauvoir Secondo sesso.
E oggi, alla fine del secondo millennio, non solo nei paesi sottosviluppati, la donna è in condizioni di semischiavitù ma nell’area tecnologica, in nazioni molto progredite come per esempio il Giappone, tra uomo e donna, la “parità” sociale, manca del tutto.Le Giapponesi sono rassegnate a dare “la precedenza” all’uomo. Nella terra del Sol Levante da millenni è d’uso che la donna sia a disposizione del maschio. E il Giapponese abituato alla goliardia e alla compagnia degli amici, esclude dalla propria vita pubblica la donna. Durante la Seconda Guerra Mondiale, da un rapporto presentato all’ONU,migliaia di ragazze giapponesi furono reclutate al seguito delle truppe combattenti, creando una vera e propria guarnigione di “schiave sessuali per militari”. Ogni ragazza era costretta a subire centinaia di rapporti giornalieri e chi si ribellava o si ammalava veniva punita severamente .
Nel paese del Sol levante persino il suicidio era diversificato: le donne, non potevano fare karakiri: quel gesto “eroico” era concesso alla casta dei militari.
E se da un lato esistono esempi eclatanti di “pari opportunità” come la promozione a generale dei Marines americani di una donna o della ascesa alla carica di vice ammiraglio della U. S. Navy di un’altra signora c’è ancora molta strada da percorrere perché, alla fine del secondo millennio si possa parlare di totale parità. Se si osservano le cifre delle donne che ricoprono posti dirigenziali in politica e nelle amministrazioni, salta chiaro che ancora oggi al gentil sesso non toccano che le briciole. Anche nell’ambiente intellettuale, fino a qualche tempo addietro le donne, persino negli Stati Uniti, in condizioni di diseguaglianza con i maschi.
Mary Goeppert Mayer, che vinse il Nobel nel 1963, per trentanni prestò la sua opera in un centro universitario, ma poteva accedere alle attrezzature quando le équipe dei maschi abbandonava il campo!
Sempre negli anni Sessanta, in USA, Chien-Shiung Wu, esperta di fissione nucleare, aiutò Yang e Lee, a portare avanti, alcuni esperimenti. Tutti e tre scoprirono che le reazioni delle particelle sub-nucleari, non sono simmetriche ma asimmetriche. Tuttavia, ebbero il Nobel solo i due maschi.
Del resto, le cifra parlano chiaro: dal 1901 sono oltre quattrocento gli uomini e solo poco più di una decina le donne hanno ottenuta la massima onorificenza scientifica.
Ci sono inoltre forme di “violenza” subdole e sono le meno facile da eliminare perché dietro di esse si nascondono millenni di aberranti pregiudizi. Vi sono forme di violenze sessuali, che pur essendo accettate da vaste comunità, non sono affatto diverse dalle violenze criminali. Le cifre dell’UNESCO sono chiare: solo nel continente africano attualmente esistono oltre centomilioni di donne che hanno subito, quando erano bambine, l’infibulazione o la castrazione clitoridea. Soprattutto in Africa e in qualche altra parte dell’Oriente le donne vengono mutilate sessualmente perché restino fedeli ai loro compagni. In molte regioni della terra, chi non ha subito questo trattamento è guardata con sospetto e ha scarse possibilità di prendere marito.
Dal Congresso di Stoccolma dell’agosto 1996, dedicato proprio agli abusi sessuali, risulta che tali abusi non dipendono dalla povertà ma anche dai valori, dal modo in cui, in alcune parti del mondo, la gente vede il problema. In Thailandia, molte ragazzine vengono spinte alla prostituzione dalle famiglie e sono considerate benemerite perché portano del denaro per sfamare gli altri. In India, quando non si procede all’infanticidio, alle bambine viene data una dote pur di farla andare via da casa e sposarla al più presto. Qualche volta accade che la famiglia della ragazza non paga lo sposo, in questo caso la sposa-bambina viene o abbandonata o persino assassinata. La famiglia del marito può così cercare un’altra ragazza da far maritare “al vedovo” e ricevere un’altra dote. In India e come anche in qualche altra regione del mondo, si crede che avere un rapporto con una bambina vergine faccia passare molti tipi di malattia!
Anche per mezzo di Internet vi è uno scambio di sesso: vi navigano pedofili, pornografi, prostitute, procacciatori che offrono qualsiasi occasione. Ultimamente in Internet venivano venduti bambine e bambini pakistani vergini, per poche migliaia di dollari. Secondo stime milioni di minorenni entrano ogni anno nel giro della prostituzione.La prostituzione minorile, maschile e femminile è praticata in Thailandia, nelle Filippine, a Taiwan, in Cina, nello SriLanka, in India, in Brasile, in Colombia, in USA e in Angola, in Liberia. E in Nicaragua.A Parigi, in Olanda, a Praga, a Berlino Butapest,a Varsavia,a Bratislava ci sono prostitute e prostituti dai 6 ai 10 anni. Secondo stime ufficiali, la prostituzione minorile produce 50.000 miliardi l’anno ed è sfruttata anche dalle ”Triadi” Cinesi, dalle mafie giapponesi le Iacuza, da criminali jugoslavi e albanesi, dalla Mafia russa etc.
Il turismo sessuale è praticato per l’80% da individui bianchi, professionisti, ricchi, benestanti, persone che in patria hanno una reputazione da salvaguardare. Si fa turismo sessuale nei Caraibi, in Thailandia, in Brasile, ma anche nell’Europa dell’Est. Molte ragazzine che fanno parte del giro di questo turismo, restano incinte perché i “clienti” preferiscono il sesso senza contraccezione. In molti paesi in cui viene praticato il turismo sessuale, le bambine e anche i bambini, affermano che spesso per potersi “prostituire” senza rischio, devono prima, per essere protetti, concedersi ai poliziotti della zona. Molto spesso chi obbliga una donna o un minore alla prostituzione è un compaesano, un compatriota. Lo vediamo nelle vicende di albanesi, o ex iugoslavi, o altri immigrati che che fanno prostituire le donne del loro paese.
In questo, non è cambiato nulla nel mondo, alla fine del secondo millennio. Le storie di ordinaria violenza non hanno né principio né fine. Tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 un efferato crimine fu perpetrato dagli emigrati polacchi in Brasile: essi invitaro con un l’espediente di far trovare loro un ricco marito o un lavoro, alcune giovani compaesane in Brasile e poi le avviarono a forza alla prostituzione. Il traffico ebbe inizio nel 1870 e s’intensificò quando a Varsavia un’agenzia segreta, Zwi Midigal, reclutò giovani ebree e soprattutto povere ragazze senza lavoro facendo credere loro che alcuni ricchi uomini d’affari latino‑americani desideravano prenderle in moglie. Arrivate in Brasile con l’inganno, alle ignare ragazze non rimaneva che accettare di prostituirsi se volevano sopravvivere.
Ma non è solo storia di ieri, quando c’erano i baccanali feste nelle quali tutto era lecito, soprattutto gli stupri. E non è nemmeno storia da Terzo Mondo. Nella squallida realtà della domenica all’Olimpico, le ragazzine s’accompagnano ai tifosi nei gabinetti dello stadio e per pochi spiccioli si prostituiscono sotto l’attenta vigilanza dei loro protettori. Maria Corbi, narrando i fatti incresciosi che accadono all’Olimpico, dice che “Lo stadio la domenica, nonostante sia assediato dalle forze dell’Ordine, è terra di nessuno. Entrano le armi ed entra la droga…Tanto che qualcuno compra il biglietto della partita per fare rifornimento”.
Ancora oggi vi sono dunque episodi incredibili agghiaccianti di violenza sessuale. Un o di questi è accaduto in una casa di cura di Rochester (USA): una donna di ventinove anni, in coma da dieci anni, ricoverata in quella clinica dopo essere stata vittima di un incidente stradale, è stata stuprata. Quando l’équipe medica, che tiene sotto controllo la donna non del tutto paralizzata ma quasi sempre incosciente (ella solo a sprazzi da’ l’impressione di capire), si è resa conto di ciò che accadeva da mesi, la degente era ormai in avanzato stato di gravidanza. Secondo la direzione della clinica, lo stupratore potrebbe essere stato un inserviente licenziato qualche tempo prima proprio per aver abusato di un’altra paziente.
La violenza sulle donne si è estrinsecata anche nello stupro collettivo. In passato nel Medio Evo e nelle epoche seguenti, esso significava il rifiuto dell’ordine costituito e se commesso ai danni di donne di umili condizioni comportava persino pene minori e un minor biasimo sociale. Gli stupratori preferivano donne che vivevano da sole oppure quelle calunniate di comportamenti poco onesti, quelle a servizio dai preti, le vedove e le prostitute. Le vittime, di solito, non avevano a chi appellarsi e il più delle volte nessuna raccontava l’accaduto, perché lo scandalo, se la donna era nubile, le faceva perdere ogni possibilità matrimoniale e se era sposata, invogliava il coniuge ad abbandonarla. Se la donna stuprata era una lavoratrice, finiva persino per perdere il posto.
Oggi malgrado l’attenzione che la società sembra avere una maggiore attenzione per la parità sociale e per il rispetto del sesso femminile, ogni giorno le cronache riferisco di stupri, di violenze su donne e su ragazze minori.
Il terzo gruppo di marginalità, alla fine del secondo millennio lo possiamo individuare in quella fetta di popolazione che ha disturbi psicoemotivi. Anche in questo caso, malgrado i grandi progressi terapeutici e le indagini psico-sociologiche, l’individuo affetto da turbe psichiche resta l’emarginato per antonomasia, così come lo fu nei millenni passati.
Nelle società capitalistiche come nelle società sviluppate colui che viene chiamato “il folle” assume valenze emblematiche. Si danno per scontate divisioni nette in questo campo: da questa parte i normali, dall’altra quelli che non lo sono, supponendo che vi possa essere una norma generale chiara e valida che distingue la salute mentale normale dalla insensatezza.
Secondo l’antropologo Tullio Altan invece non esiste una distinzione scientifica netta in questo campo: lo sciamano può essere considerato un folle presso alcune culture, ma in altre invece è riverito come un taumaturgo. In altri termini follia e saggezza dipenderebbero in buona parte dal sistema sociale di appartenenza.
Nel Medio Evo era “normalità” ritenere che molti Re fossero guaritori. La gente “toccata” dalle mani delle loro maestà spesso pensava di guarire dalla scrofola e da tanti altri gravi mali. Luigi XIV fino i punto di morte esercitò questa sua qualità taumaturgica per molte ore al giorno.
La tarantolate, che ancora oggi appaiono nella scena secondo ritmi e ricorrenze, i “fachiri” del Sud America che attraversano bracieri ardenti a piedi nudi senza mai dimostrare alcun disagio non sono però considerati, nel loro contesto, dei matti. Un tempo i folli erano ritenuti “ diversi”, perché la follia era ritenuta un segno dell’ira di Dio. Oggi la situazione non è cambiata e nella cosiddetta società civile, il diverso è considerato al pari dell’untore. Che la follia in certi casi sia anche un punto di vista, si può desumere dall’emblematico documentario “Rosanna, le sue ragioni”, di M. Gandin, produzione CVE-Rai3, in cui una certa Rosanna raccontata la sua storia incredibile. “Rosanna” verso gli anni Trenta, viveva in una famiglia in cui il genitore era dedito all’alcool e la madre era sempre in perenne peregrinazione da un santuario all’altro. Figlia maggiore, Rosanna sin da piccolissima s’era abituata ad accudire i fratellini. Quando poteva correva nei campi a giocare con gli animali. Poiché la famiglia versava in grandi ristrettezze, fu mandata a servizio in città. Ma la ragazzina, alla quale nessuno mai aveva insegnato a sapere condurre a regola d’arte le faccende di casa, veniva regolarmente licenziata. Una volta dalla padrona fu trovata a giocare con le bambole della bambina che le era stata affidata e fu bastona e mandata via dalla casa dove era stata assunta come bambinaia.
I genitori della ragazzina allora, dal momento che la ritenevano una nullità, e stante il fatto che “Rosanna”, sia perché giocava spesso da sola per i campi, sia per i suoi atteggiamenti libertari e indipendenti, era vista dai compaesani come una persona “strana”, la fecero rinchiudere nel manicomio. Così dissero i suoi genitori poteva ricevere un buon pasto quotidiano. Quando “Rosanna” è uscita da quell’inferno, ha raccontato in un intervista che è rimasta “dimenticata” nella fossa dei serpenti per circa quarantanni. Solo grazie alla legge 180 venne tirata fuori. A sentir discutere “ Rosanna”, nessuno potrebbe affermare che si tratti di una matta e non lo è diventata nemmeno dopo tanti anni di degenza. Eppure essa fu considerata tale per quattro decenni.
Chi ha visto il film di Ken Loach, Family Life, non può non convenire che il concetto di folle spesso è un’etichetta insopportabile. Il film racconta di una madre autoritaria e ipocrita che impone alla figlia che è rimasta incinta l’aborto. La ragazza non vorrebbe abortire, ma la madre ha paura che la gente la faccia passare per una poco di buono. La ragazza chiede aiuto al padre ma questi è succubo della moglie e così la ragazza è costretta a perdere il figlio. Alla fine la giovane si rifugia nella solitudine, disperata per essere stata psichicamente violentata. Poiché il fidanzato continua a vederla, la madre per “liberarla da un altro guaio” la fa visitare da uno psichiatra il quale prende in cura la giovane, la quale, non volendo rimanere ospedalizzata, si ribella. Considerata schizoide, è curata con l’elettrochock e alla fine viene internata per sempre.
Se questo è un caso letterario, anni addietro un caso, accadde nella vita reale. Una ragazza, figlia di un facoltoso imprenditore andò sposa al giovane figlio del socio del padre. Si trattò di matrimonio di convenienza, al quale la donna consentì. Ma la ragazza era stata allevata quasi del tutto all’oscuro di qualsiasi malizia. Sin da piccola era rimasta a studiare da semi-interna presso un collegio di suore, e alla fine aveva pensato di prendere i voti. Ma quando dopo la licenza liceale le fu imposto il rientro a casa, il padre e la madre non le fecero frequentare mai nessuna compagnia”maschile” per non “guastarle la testa”. La ragazza crebbe nella più rigida e comprensiva sessuofobia. Quando la giovane, obbedendo all’imposizione genitoriale, andò sposa, rifiutò qualsiasi contatto col marito sin dalla prima notte di nozze. Le cose andarono per lo stesso verso fin quando, otto mesi dopo, il marito riportò al padre la giovane e chiese lo scioglimento del matrimonio. Il padre venuto a conoscenza del rifiuto della figlia la bastonò tanto che la donna dovette essere ricoverata in ospedale. Sottoposta a mille pressioni e a mille torture psicologiche affinché salvasse il proprio matrimonio, alla fine la ragazza precipitò nell’abisso della nevrosi e venne ricoverata in una clinica.
Ancora oggi , malgrado tutto, tante volte, l’abisso della disperazione e della malattia psichiatrica ha radici in una educazione sbagliata, nelle violenze ricevute, negli stress e nelle imposizioni che una civiltà estremamente competitiva impone, a volte, fino all’orlo della malattia psichica.
Spesso le persone violentate hanno reazioni emotive complesse che vanno dalla rabbia alla vergogna, dai sentimenti di umiliazioni alle idee di vendetta e di persecuzione, e che una variegata patologia psicofisica si evidenzia con sintomi che insorgono immediatamente dopo il fatto, e con altri che appaiono in periodi successivi. In ogni caso si assiste ad una perdita di autostima, e di fiducia in se stesso. In molti casi l’emarginazione che ne cconsegue può diventare un “sintomo di diversità mentale”. Che può piortare al ricovero o all’assunzione di droghe.
In fine, altre forme di emarginazioni molto gravi sono quelle nei confronti dei diversi, anche dal punto di vista sessuale, nei confronti della gente di colore, e nei confronti dei seguaci di “altre sette religiose”
Probabilmente la condizione dell’umanità migliorerà solo quando saremo in grado di riservare ai minori, alle donne, ai “diversi” un trattamento psico-pedagogico, fatto di comprensione, di dialogo, di rispetto, e quando si creeranno situazioni ottimali che potranno far crescere individui mentalmente ed emotivamente sani e immuni dalle frustrazioni di emarginazione che in un modo o nell’altro portano alla disperazione o ad atti criminosi.
Il rispetto della marginalità ha inizio con una buona educazione intellettuale e psichica. Non dimentichiamo che i dittatori più crudeli e i criminali più incalliti, storicamente provegono da situazioni gravi di “marginalità” subite durante la loro infanzia. Come nel caso di Hitler e di Himmler, se non fossero stati maltrattati il primo materialemnete e l’altro psicologicamente dai loro genitori, è probabile che molti eccidi dell’umanità si sarebbero potuti evitare.
A volte ci si chiede come siano venute in mente a un criminale o a un dittatore idee deliranti che hanno stravolto la società. Un esempio a portata di mano è la vita di Heinrich Himmler che fu spinto dalle sue orribili idee razziste a programmare e attuare la distruzione sistematica degli ebrei. Una spiegazione per i suoi crimini la si trova nel genere di insegnamento al quale fu sottoposto sin da piccolo. Il padre di Himmler, professore austero e meticoloso, apparteneva ad una famiglia agiata e insegnò al figlio ad identificarsi con una certa schiera di persone aristocratiche. Pare che il professor Himmler, prima di far frequentare un compagno a Heinrich, pretendesse di conoscere tutto della famiglia di quel ragazzo. Arrivava perfino a fare ricerche nell’albero genealogico dei giovani amici del figlio. Inoltre, badava che i ragazzi frequentati da Heinrich non avessero malattie ereditarie, congenite o contratte in seguito. Il professor Himmler insegnò dunque minuziosamente a Heinrich quali erano le persone da “scartare”. Come poteva il figlio non incamerare uno stato d’animo razzista?
Nel 1931, quegli esempi di razzismo appresi dal padre, Heinrich Himmler, ormai capo delle SS, li elaborò con una “Ordinanza sul fidanzamento e matrimonio delle SS”. L’ordinanza stabiliva che,”per la purezza della razza”, nessun membro di quel corpo speciale poteva sposarsi senza che fosse analizzato il suo albero genealogico e quello della futura moglie. Le fidanzate delle SS dovevano provare di non avere tare ereditare, di non essere affette da disturbi fisici e si dovevano sottoporre a un test di fertilità. In quanto ad Hitler, egli fu maltrattato sin da piccolissimo da suo padre il quale, spesso ubriaco, quando tornava a casa era sempre sul punto di ammazzare a botte il figlio per un nonnulla.
Le vicende di Hitler e di Heinrich Himmler chiariscono come si possa spingere a comportamenti perversi mediante un processo educativo che si può tramandare da una generazione all’altra. Dai modelli genitoriali si sviluppa la personalità dei figli. I genitori e gli adulti sono inizialmente l’unica autorità e la fonte di ogni fede per i minori, gli unici depositari della ragione. Non è solo dalle riserve mondiali di energia, né dalle possibilità lavorative che dipenderà il futuro del nuovo millennio Dall’educazione corretta o alla pedagogia nera dipenderà il rispetto per gli altri e l’amore per natura.
PROGRESSO TECNOLOGICO E FALLIMENTO UMANO
L’uomo è interessato all’efficienza tecnologica, ma non è seriamente impegnato in una concreta autoeducazione psico-sociale.
C’è chi afferma che l’uomo è sempre più schiavo della tecnologia, convinto che è proprio il progresso che peggiora l’uomo e chi sostiene, invece, che senza il prezioso ausilio delle scoperte scientifiche l’uomo non potrebbe migliorare. La “Dichiarazione di Siviglia” elaborata nell’89 da antropologi, psicologi, sociologi etc., sottoscritta anche dall’UNESCO, sostiene che le manifestazioni di violenza dell’umanità sono attivate dai modelli socio-educativi, e non da un incoercibile istinto aggressivo. Comunque sia, anche in quest’era tecnologica, il comportamento umano non ha evidenziato, sostanzialmente, concreti cambiamenti dall’età della pietra.
Se da un canto il Congresso di Siviglia,svoltosi in occasione dell’Anno della Pace, ha dato un significato “culturale”, piuttosto che “biologico” o “fisiologico” alla violenza, dall’altro si ha la sensazione, che l’uomo non sia educato seriamente al rispetto del prossimo perché, probabilmente “può essere conveniente”, per qualcuno, che l’umanità sia allo sfascio.
Così, la storia del progresso si identifica con lo sviluppo della tecnologia e non con l’evoluzione della razionalità sociale, della tolleranza e della “trasparenza”. Studiando la storia da Nerone al generale bosniaco Mladic, da Hitler al capo dei Kmer rossi Pol Pot, da Erode ai malfattori che utilizzano i bambini per fini infami, si evince che il comportamento umano non è affatto migliorato da migliaia di anni ad oggi.
Scoperte e prodotti sempre più perfetti, precisi ed efficienti come i computer, la telematica, le automobili, gli aerei, la medicina, la biochimica, la farmacologia, le tecnologie spaziali, etc., non hanno fatto progredire in nulla la condotta umana. Eliminate alcuni formalismi esteriori, se e quando ci sono, l’uomo, resta inaffidabile, come agli albori della civiltà e il suo inconscio non sembra affatto al passo con le sofisticate attrezzature e con le progredite conquiste scientifiche del 2000.
A chi sostiene che le cause della violenza dipendono dalla miseria, si può obbiettare che nel Secondo conflitto mondiale, le squadre responsabili dei territori occupati, le famigerate Ordnungpolizei, che compirono efferati soprusi e delitti, non erano formate da maniaci, pazzi, o criminali, bensì da gente comune, piccoli borghesi come quelli che incontriamo quotidianamente. Così come è stata una professoressa universitaria, insegnante di chimica, Bilijana Plasvic, che ha platealmente elogiato e spronato le truppe bosniache per la “pulizia etnica”.
Dobbiamo allora ammettere che il “cittadino” è rimasto spietato e grossolano proprio come era, alle origini, il “cavernicolo” e, malgrado gli sforzi tesi ad aumentare l’efficienza delle tecnologie, c’è un ipocrita impegno solamente formale e superficiale per migliorare la cultura del rispetto del prossimo. Anzi, sembra che tutto congiuri per peggiorare la condotta umana, per impedire lo sviluppo dei valori, per occultarne sempre più le qualità.
Un certo tipo di politica annientando qualsiasi entusiasmo creativo, insegna ad anteporre a tutto il potere e il denaro e indica nella furbizia e nello sgambetto gli strumenti più indispensabile per cavarsela; un certo tipo di scuola non si adopera per diventare maestra di vita e ciò che trasmette non lo fa in maniera funzionale. A volte insegna l’ipocrita retorica che annulla la capacità critica senza curarsi di assolvere al compito più nobile: l’educazione alla comprensione umana e alla ragionevolezza dei rapporti col prossimo.
L’uomo ha fatto e fa un uso improprio della tecnologia, utilizzandola spesso come macchina mortale. La scoperta dell’energia atomica, che avrebbe dovuto apportare enormi benefici all’umanità, è stata sfruttata anche dalla furia omicida di dittatori e di popoli spietati.
L’umanità utilizza per fini bellici non solo la scissione nucleare, ma si serve, in preda a un delirio di onnipotenza, dei progressi telematici, dell’aerodinamica e persino delle scoperte della chimica e della fisica per annientare il “nemico”, incurante del fatto che finirà col distruggere la natura.
Gli ordigni bellici telecomandati, le mine antiuomo, i mortali raggi laser, i gas asfissianti, le torture spietate dei prigionieri, etc, sottolineano che la malvagità umana non ha limiti. Essa si trova nei gruppi etnici che si combattono rifiutando qualsiasi soluzione razionale, nei sanguinosi conflitti sociali, nell’agone politico, subdolo e spietato, nelle faide della malavita, nelle farneticanti adunanze sportive e persino nei deliranti rapporti familiari e in quelli altrettanto crudeli tra partner.
Uomini e popoli accecati dall’odio, egocentrici ed empi utilizzano la tecnologia più avanzata per scopi sanguinari. Nulla è cambiato nella condotta umana, da quando i Borgia avvelenavano i loro nemici o da quando Attila sterminava chi si opponevano alla sua avanzata o dai tempi medioevali in cui venivano infilzati “gli Infedeli” o dagli anni del Seicento quando s’infiammava la caccia alle Streghe.
Ancora vige lo stesso tipo di corruzione che Cicerone denunziò ai tempi di Catilina, lo stesso nepotismo e gli stessi favoritismi in uso nei secoli XV e XVI, il medesimo clientelismo della Roma classica.
Il nazismo ideò l’annientamento delle razze non-ariane, così come, nel ‘500, i conquistatori al seguito di Hernan Cortés sterminarono gli indigeni; ai tempi di Omero, dopo la sconfitta, le donne divenivano preda del nemico vincitore, più o meno come è accaduto in Bosnia; ai giorni nostri si scatenano guerre tribali con modalità pari agli efferati eccidi del Medioevo. E ancora oggi gli intellettuali che la pensano diversamente dal regime vengono perseguitati esattamente come nell’antichità, quando Ovidio fu costretto da Augusto a fuggire da Roma, il filosofo Giordano Bruno venne messo al rogo e Galileo Galilei sottoposto a processo.
Oggi abbiamo esempi altrettanto eloquenti: Solzenicyn epurato durante gli anni della Russia stalinista, l’iraniano Salman Rushdie perseguitato da una sentenza di morte che chiunque può eseguire se s’imbatte nello scrittore tanto odiato dai potenti della sua patria. Contro la contestataria scrittrice Qazaleh Alizadeh, trovata impiccata, qualcuno sostiene che, invece, è stata probabilmente eseguita, senza far molto chiasso, una sentenza di morte. In molte parti del mondo, a minorenni e donne vengono imposti lavori in stato di schiavitù né più e né meno come nell’Egitto dei Faraoni. Le medesime ingiustizie sociali dei secoli passati si ritrovano in tutti i meridiani e i paralleli della Terra. Anche nelle moderne città dense di parchi e di grattacieli, servite da ascensori, dall’aria condizionata, da reti telematiche, da ospedali, da aeroporti avveniristici, da metropolitane efficienti si assiste alle medesime violenze, allo stesso disprezzo per il prossimo che si osservava, nei secoli passati, nelle zone più arretrate del Globo.
Un quotidiano riferisce che un mite e competente ragioniere, che lavorava ore ed ore al computer, era, nel tempo libero, uno spietato serial killer. “Chi poteva sospettarlo?” commenta l’articolista.
Un medico, professionista affermato e direttore di un ospedale, lo spietato Karadzic, arrivato al potere, ha fatto sterminare molte popolazioni nella guerra fraticida svoltasi nella ex Iugoslavia. Chi avrebbe mai previsto che uno scienziato, uno psichiatra, potesse arrivare a tanto?
Ma non sono solamente i grandi massacri, le grandi “purghe” e gli stupri collettivi che danno l’idea che la paura umana si trasforma quasi sempre in crudeltà quando è in preda a manie di persecuzione; ci sono anche violenze e raggiri truffaldini quotidiani da parte di singoli, di organizzazioni criminali e persino da parte di alcune autorità, che, con angherie, soprusi e prevaricazioni rendono invivibile il consorzio umano.
Lo sfascio dell’umanità appare più paradossale se si pensa all’enorme progresso legislativo, i cui princìpi e le cui normative sono particolareggiate, perfette e minuziose.
Il fatto è che, in molti casi, le leggi e persino le Costituzioni restano solamente una realtà tipografica. Tutto ciò rende più evidente il fallimento umano.
Ma non c’è da meravigliarsi: basta guardare l’uomo in filigrana. Analizzando la psicologia dell’individuo appare chiaro il male di cui egli è affetto: la stessa paura e la medesima crudeltà dell’uomo di Neandertal. Purtroppo continuerà ad essere una malattia inguaribile fin quando lo strumento fondamentale che potrebbe fermarla, l’educazione alla fiducia e al rispetto del prossimo, non diverrà una pratica diffusa e generale anche, e soprattutto, con l’esempio dei “potenti”.
Ma ai “potenti” giova che l’umanità sia ragionevole? Certamente è più semplice “manovrare” gente che non ha idee proprie.
A Socrate il Potere impose la cicuta proprio perché il filosofo greco insegnava ai giovani a ragionare.
XX SECOLO : quanti morti per conflitti bellici!
Ecco alcuni dati:
8.000.000 I Guerra Mondiale
42.000.000 II Guerra Mondiale
30.000.000 Fame in Cina al tempo di Mao e Guerra civile
6.000.000 Deportati e fucilati in URSS da Stalin
6.000.000 Ebrei uccisi dai nazisti
1.000.000 Genocidio Armeni
2.500.000 Guerra del Vietnam
500.000 Guerra di Spagna 1936
1.500.000 Guerra Corea 1950
4.000.000 Africa, (Congo-Zaire-Angola)
700.000 Cile di Pinochet
360.000 Argentina Desaparecitos
400.000 Indocina – Suharto
200.000 Guerra Turchia-Grecia
Se si confrontano questi morti con quelli del passato si ha:
Austerlitz, 1805: morti. Russi, 10.000;Austriaci, 6.000; Francesi 5.000
Stalingrado, 1942: morti. 80.000 tedeshi; 50.000 russi, 22 generali
Mosca giugno 1943 morti: russi 200.000; tedeschi 60.000
Mosca-Borodino 1812 morti: russi 35.000; Francesi 25.000
Nella Guerra dei 100 anni: Battaglia di Azincurt (Calais)(1415) morti: Francesi 10.000; inglesi 5.000
Battaglia di Normandia 1944(Avrances,Caen,Cherbourg) ; morti tedes.65.000; alleati 38.000
Battaglia Navale Capo Nord, 26.12.1943:Corazzata tedesca Scharnhorst, 1.800 uomini
Battaglia di Trafalgar 1805: francesi 3.300 ; Spagnoli 2.000;inglesi 500
Pearl Harbour dicembre 1940: Usa 2.400; Giapponesi 450.
Bombardamento di Hiroschima morti 100.000
Bombardamento di Nagasaki morti 80.000
I Guerra Mondiale:
Battaglia Isonzo: I, 1915; italiani 1.900; austriaci 6.000
“ “ II 1915; “ 10.000; austriaci 19.000
“ “ III 1915; “ 20.000; austriaci 15.000
“ Gorizia “ 15.000; “ 11.000
“ Oslava 3.000 2.500
V 1.800 1.900
Agosto 1916 6.000 7.000
VIII 8.000 17.000
IX 13.000 10.000
Bainsizza 1917 37.000 30.000
SADOWA luglio 1866 austriaci 20.000; prussiani 9.000
Vauchamps febbr 1814: Francesi 3.000; alleati 8.000
CONFLITTI AVVENUTI NEL 1800
Guerre napoleoniche
1819 repressione del Parlamento inglese contro manifestazione operaie
1825 il pascià Muhammad ‘Alì sbarca in Grecia per aiutare i Turchi contro il Peloponneso
1828 La Russia dichiara guerra all’Impero Ottomano, che è costretto ad abbandonare la Grecia
1840 guerra dell’Oppio tra Cina e Inghilterra
1841, i ribelli afgani massacrano 16.000 inglesi a Kabul
1846 Garibaldi in Uruguay per guerra d’Indipendenza
1848 Guerre d’Indipendenza Italiane
1854 la base inglese di Balalaika assalita dai russi che perdono 500 uomini
1861 Guerra tra Nord e Sud degli Usa, finirà nel 1865
1862, battaglia di Fredericksburg, 12000 morti
1863, la Francia conquista la Cocincina
1864 Prussia e Austria, contro Danimarca per Schelswig e Holstein
1866 Guerra Austro Prussiana, Sadowa 20.00 austraici;9.000 prussiani
1870 guerra Franco Prussiana, a Sedan tedeschi 3.000,francesi 17.000
1887 Italia conquista l’Abbissinia con 500 uomini all’ordine del tenete colonnello De Cristoforis, Massacrati a Dogali
1896, ad Adua, Menelik, massacra 4.000 italiani
1898, Usa e Spagna in guerra per conquistare Cuba; con pace di Parigi, gli spagnoli cedono Cuba, Portorico, Guam,Filippine
CONFLITTI, OMICIDI E STRAGI DEL XX SECOLO
1900 Bresci uccide Umberto i
1900 Guerra in Sudafrica tra inglesi e boeri
1900 in Cina, i Boxer massacrano 200 missionari e morte di 32.000 cinesi
1901 in Usa W.Mc Kinley assassina Theodore Roosvelt
1902 in Sebia, Alessandro I Obrenovic assassinato, succede Pietro I
1911 Italia in Libia, guerra alla Turchia, occup Cirenaica e Tripolitania
la Francia occupa Camerum e Germania il Togo
1914 Sarajevo ucciso Francesco Ferdinando- Inizio I guerra Mondiale
1916 Guerra civile in Iralanda fino al 1920
1917 Pietroburgo, rivoluzione
Lawrence d’Arabia rivoluzione contro Impero Turco
1922 Gandhi viene arrestato in India
1922 mexico, assassinato pancho Villa
1927 Guerra civile in Cina tra Chiang Kai Shek e Mao Tze Tung
1930 Stalin massacra i kulaki, proprietari terrieri
1935 l’Italia in Etiopia. Le truppe di Graziani fucilano 297 monaci copti e 120 diaconi perché il generale temeva che nel monastero copto di Abele Libonas si nascondessero i guerriglieri anti italiani
1936 Guerra di Spagna fino al 1939
1937, truppe giapponesi attaccano la Cina e occupano Pechino
1939-1945 II Guerra Mondiale
1940 Fosse di Katyn, (ritrovate nel 1943), eccidio dei Russi che fucilarono 21mila soldati polacchi e civili che tenevano progionieri (Stor.Ill.dic,1998,p66)
1941 eliminazione ebrei,stragi bambini down e malati mente nei campi tedeschi
1945-46 processo Norimberga
1945- Lager di Tito a Goli o Tok,4.000 morti e molti suicidi-Pulzia etnica titina
1945-Foiba di Pisino,di Portole (Istria); infoibati da 3.500 a 20.000
1949 Kiang kai Shek, va a Formosa e Mao vince guerra civile
1950 Ho Chi Min in Vietnam
1950-53 Guerra di Corea, Armistizio di Panmunjon
1954, Indocina, Dien-Bien Phu, la Francia va via
1956 rivolta in Polonia e Ungheria
1957 Fidel castro contro Batista
1958 Battaglia di Algeri, la Francia va via
1959 In Tibet rivolta anticinese nel sangue
1961 Tentativo Usa di entrare a Cuba, fallito Baia dei Porci
1961 Viene alzato il muro di Berlino
1961 Guerra in Angola
1963 Guerra del Congo
1963-67 Vietnam
1964 Nasce l’Olp
1964, guerra di Cipro
1965, Indonesia, 500.000 comunisti massacrati da Suharto
1967, in Grecia, i Militari al potere
1968 in Italy, brigatisti
1970 esplode conflitto Eta,baschi in Spagna
1976 Argentina, desaparesidos, giunta militare al potere
1978, guerra del Libano
1978-1993 Guerra Cambogia-Vietnam
1980-88, Guerra Iran Iraq
1982 Guerra Libano-Israele
1986 Gheddafi e Usa
1987, in Cina, rivolta Studentesca
1990, in Kuwait, invasione dell’Iraq, fine 1991
1992-1993, In Somalia, Guerra Civile
1992 in Algeria Fis
1993 in Columbia, Escobar e la droga
1994 Guerra in Bosnia
1997(?) Guerra Iraq-ONU
1999 Guerra Serbo-Kosovo
LE VICENDE DELLE DUE AMICHE ASSASSINE
E DELLE DONNE STRANGOLATE DA SERIAL KILLER
I fatti sono agghiaccianti: da un lato due ragazze, Anna Maria Botticelli e Maria Filomena (Mariena)Sica, che per eliminare l’amica Nadia Rocca, hanno preparano freddamente l’omicidio, dall’altro uno o più serial killer che uccidono donne che battono la strada o che sono semplici passeggere di treni.
Cosa ha potuto spingere le due ragazze e i serial killer a compiere quei delitti senza esitazione?
In quanto alle due ragazze assassine, si può ipotizzare che Anna Maria, bella, un po’ narcisista, che ha racconta di “aver sognato” che il defunto padre di Mariena le avrebbe chiesto di uccidere la figlia, è “fuori di testa”. Anna Maria, sostiene poi che essendosi “rifiutata” di uccidere l’amica, il “signor Sica” l’avrebbe invitata a scegliere come vittima un’altra ragazza da “sacrificare”, perché solo così le due amiche sarebbero vissute felici.
L’agnello sacrificale sarebbe Nadia Roccia, invidiata perché più brava, più brillante e più ammirata delle due amiche. Anna Maria e Mariena,, prima di quell’efferato omicidio non avevano mai dato segni di squilibrio. Anzi, dicono quelli che le conoscono, erano ritenute due ragazze allegre ed integrate.
Ed allora, se il cervello è integro, se l’intelligenza è sufficiente, forse sono stati perversi stereotipi, chimere o assurde convinzioni che hanno spinto le due ragazze a commetere un delitto ai confini tra “sogno” e realtà.
Quando la mente è inquinata da contesti “para-logici”, da categorie di pensiero che si nutrono di false convinzioni o di “moralità perversa e delirante”, le capacità di controllo s’indeboliscono e la differenza tra realtà e delirio diventa insignificante e crea “perverse determinazioni” che maturano nel crepuscolo della mente,tra conscio e inconscio.
Questo può essere accaduto, oltre che alle due ragazze assassine anche al serial killer, o ai serial killer che hanno “giustiziato” le donne che vivevano vendendo il loro corpo, e le altre che, forse, perchè viaggiavano da sole in un treno vuoto, l’assassino o gli assassini le avranno equiparate a donne “perdute”.
Il fantasma di una malintesa moralità, frammisto ad una misoginia patologica, in qualche caso è proprio la molla che spinge il serial killer ad agire, ergendosi maldestramente a fustigatore di costumi. La psicopatologia insegna che “disturbi” di questo tipo, in persone insicure e infantili, impediscono un obbiettivo processo di valutazione del reale.
La ragionevolezza di un individuo dipende dal buon funzionamento del suo sistema emozionale, e quando questo va in tilt, nelle personalità più deboli, l’orrore di essere messi sotto accusa, di “perdere la faccia”, o la necssità di “punire coloro che sono ritenuti peccatori”, causa stati di esaltazione che portano persino al delitto.
Il discorso vale per Anna Maria e Mariena, che si trovarono nella fase “critica” con le menti confuse, con i pensieri affollati da angosce e deliri che impedirono loro di valutare il crimine che stavano commettendo, un crimine che ha fatto delle loro giovani vite un deserto e che ha calato per sempre il sipario in quella della loro amica. Il discorso vale anche per il serial killer, che forse un’infanzia disastrata, ha trasformato da essere umano a belva.
E non resta che una grande pietà per tutte queste vittime, la cui tragedia irreparabile è stata probabilmente causata da condizioni sociali malsane e da una feroce educazione o da tabù che hanno trasformano le personalità in mostruosità psicopatologiche.
In questi casi la comunità giustamente condanna i crimini, ma non sempre riesce a vedere e ad ammettere che forse questi “tumori” sono anche il frutto della incapacità sociale di sviluppare condizioni di vita sane e idonee allo sviluppo di personalità serene e libere.
INCREDIBILE: STUPRO SHOW TRA MINORENNI!
Siamo abituati ormai a sentire ogni tipo di nefandezze e, attraverso le cronache dei quotidiani e della televisione, abbiamo imparato a conoscere l’animo umano nelle sue più remote bassezze, ma quanto è accaduto a Taranto ha dell’incredibile!
Che una banda di ragazzi abbia stuprato per mesi un dodicenne, è cosa che ormai fa parte delle cronache della microcriminalità, ma che inoltre, sia stato organizzato uno show a pagamento durante lo stupro, questo è davvero un evento che sbalordisce e che dà la misura dello stato selvaggio e primitivo in cui ancora versa l’essere umano.
Tre ragazzi: 15, 17 e 18 anni la loro età, sono stati accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di un loro compagno tredicenne. I tre inoltre invitavano altri “amici” ai quali “offrivano” a pagamento l’agnello sacrificale. Pare che siano stati coinvolti nello stupro anche altri due ragazzi di 10 e 13 anni, e altri ancora venivano invitati, previo pagamento di un “biglietto”, ad assistere alla tragica violenza.
Il tutto accadeva in una grotta in periferia della città, e forse, della vicenda molti erano al corrente, ma nessuno aveva mai osato parlarne, fino a quando, due compagni del povero ragazzino non hanno larvatamente denunciato il fatto in un loro tema in classe. L’insegnante che ha corretto il compito, intravedendo che qualcosa di grave fosse stato denunciato a leggere bene tra le righe del tema, ha racconta la cosa ad una suora che ha subito riferito l’avvenimento ai carabinieri.
La vittima, sottoposta ad accertamenti, presenta i segni inequivocabili della violenza che ha subito senza poter denunciare i fatti, in quanto, il violentatore maggiorenne, figlio di un noto criminale della zona, lo aveva minacciato di morte se avesse fatto cenno di ciò che accadeva.
Si è così saputo anche che la banda sarebbe stata coperta dalla omertà di insegnati e dai ragazzi che avevano intuito ciò che da tempo accadeva, ma che non avevano mai osato parlare.
E tuttavia, malgrado le reticenze, pare che la voce si fosse sparsa in paese, e che una vaga notizia era arrivata anche alla madre del ragazzino che veniva sistematicamente violentato, la quale, dopo essersi recata a scuola per saperne di più, era stata “rassicurata” che si trattava solo di malevoli dicerie e rassicurata che non doveva affatto preoccuparsi.
Dopo che i fatti sono stati appurati, il preside dell’Istituto frequentato dal tredicenne ha commentato con incredibile leggerezza : “Sono episodi avvenuti fuori della scuola, e dunque non ci riguardano come corpo docente”
Il signor preside in questione, dovrebbe invece rendersi conto che un episodio del genere non solo riguarda la classe docente del suo Istituto, ma anche tutta la classe docente in generale, tutte le famiglie, e tutta la nazione. Si tratta infatti di un episodio di inaudita gravità, la cui responsabilità non può essere disconosciuta da nessuno, perché deve essere fatta risalire alla società, una società che ancora non è riuscita a scrollarsi da dosso gli istinti primitivi e barbari dell’uomo delle caverne.
Inevitabilmente, malgrado la generale condanna, si torna a parlare di razzismo. Sembrava che, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, dopo l’Olocausto che comportò milioni di morti, il problema potesse non sorge più. Invece esso è rimasto ora sommerso, ora apparente e chiaro, in tante parti del Mondo. E non solo i naziskin lo hanno rivitalizzato. Nell’Irlanda del Nord l’intolleranza religiosa in pratica si manifesta come un vero e proprio razzismo.
Razzismo non è solo l’assurda idea di superiorità di una razza sull’altra, ma è anche il risultato di pregiudizi sociali, di discriminazioni religiose, di soffocamento delle minoranze, e persino di discriminazioni sessuali e individuali.
E in verità, nemmeno coloro che lo respingono sono, o sono stati, immuni dal praticarlo: infatti se si guarda bene, spesso i rapporti umani sono impregnati di razzismo, cioè di odio verso l’altro.
Nazioni che oggi proclamano il loro antirazzismo, spesso sono state razziste: i Paesi arabi, che pretendono la condanna di Israele, ad esempio, in passato, e alcuni anche al presente, sono stati razzisti e schiavisti. Si pensi alla continue persecuzione delle minoranze Kurde.
Il sionismo, lo schiavismo, le caste indiane, la discriminazione, ora occulta ora evidente tra maschio e femmina, e l’emarginazione omosessuale, per dirne alcune, sono tutte forme di razzismo.
In Africa perniciose forme di discriminazione si evidenziano anche tra varie etnie di negri, il che indica come non in tutti i casi il razzismo abbia a che fare col colore della pelle.
Allora ha ragione Nelson Mandela che ha definito il razzismo “una malattia che colpisce la mente e l’anima e che disumanizza chiunque ne sia toccato”.
Mandela ha sconfitto l’apartheid nel suo paese, ma si ritrova a doversi impegnare a combattere gli altri apartheid che proliferano in tutto il mondo.
A Durban la questione scottante della discriminazione e dell’intolleranza è esplosa in tutta la sua cruda realtà, ed è stata anche manovrata da interessi politici particolari, tanto che purtroppo fino ad ora si è assistito solo ad una serie di pretesti retorici, di accuse senza sbocco, che sono serviti solo ad impantanare i lavori dell’Assemblea.
Ed è davvero triste pensare che proprio in seno ad una Conferenza contro il razzismo vi siano stati episodi di grave estremismo.
È stato anche inopportuno non avere isolato le componenti più intransigenti e un errore avere privilegiato l’accusa contro Israele, con la conseguente bagarre che ne è venuta fuori, quando di questioni di cruciale importanza, che non sono state nemmeno affrontate, ce ne erano tante sul tappeto.
Dopo la partenza di Americani e Israeliti, fra i partner europei e americani si sono evidenziati notevoli problemi di comportamento, ma sembra che prevarrà il buon senso e si cercherà di salvare il salvabile, anche se, ovviamente, buona parte dei programmi “forti” di quella assise saranno accantonati.
Secondo osservatori obbiettivi, infatti, ci sono ancora margini di manovra che possono portare a dei compromessi, evitando così di considerare del tutto fallito il Summmit.
Così, i delegati rimasti, stanno lavorando per riuscire a salvare il salvabile. Ma è davvero triste dover constatare che in un’assise nella quale sarebbe dovuta essere bandita l’intolleranza, la violenza verbale e il razzismo, queste tre componenti hanno fatto parte della Conferenza paralizzandone i lavori.
Forse l’America di Clinton non avrebbe abbandonato la seduta, forse avrebbe mediato, avrebbe cercato di ricucire gli strappi, tuttavia non c’è dubbio che, se da Durban non si viene fuori con un programma accettabile, se a Durban dovremo assistere al fallimento delle convergenze umanitarie e della volontà di abbattere odii e discriminazioni, allora dobbiamo amaramente constatare che la Storia ha fatto un passo indietro, e siamo ripiombati, nel campo dei rapporti internazionali, in tempi molto bui.
Mancando il dialogo tra le parti più estremiste, ancora una volta si è costretti a constatare che l’essere umano, molto spesso intransigente e fanatico, cova nel suo stesso Dna quelle componenti negative che a volte, ipocritamente, dice di voler combattere.
STRAGI DOMESTICHE: quando esplode la follia, è davvero improvvisa e inevitabile?
Allo scoppio della follia, quando qualcuno stermina la famiglia o fa una strage dei vicini o uccide a caso in una metropolitana o in un supermercato, il più delle volte la gente che conosce l’assassino afferma che si tratta di persona ritenuta, fino a quel momento, “buona” e “tranquilla”.
Il fatto è che spesso chi, ad un certo punto, va fuori di testa, forse è stato “buono” fino a quel momento sol perché era frustrato ed è stato “tranquillo” semplicemente perché complessato.
Bisogna chiedersi perché chi si comportata in modo insensato, nove volte su dieci è frustrato e complessato. Bisogna capire perché esplodono rabbia, rancore, odio anche quando, in apparenza, tutto sembra, a prima vista, scorrere tranquillo. Bisogna
interpretare i motivi per i quali, in una persona “buona e tranquilla”, si scatena ad un tratto la furia omicida, con atti dei quali, nemmeno chi li compie sa dare alcuna giustificazione anche subito dopo che li ha commessi.
“Era un ragazzo buonissimo”, dicono i vicini di casa, gli amici, i parenti: “Mai una parola in più, non ha mai alzato la voce”. Nessuno, prima di quel gesto, lo aveva mai sentito protestare. Anzi, era come se accettasse di buon grado qualsiasi sorte gli capitasse.
Eppure, in un certo giorno e ad una certa ora, la corda “buona” della mente si spezza senza preavviso, e nel cervello prendono il sopravvento l’intolleranza, la collera,la violenza, l’impeto omicida. Che ne è stata della vecchia “corda buona”?
Perché si logora al punto da scomparire per qualche attimo o per qualche ora? Si può capire come ciò accade? Cosa scatena la valanga che travolge la vita di un individuo, dei suoi cari, dei parenti, di gente sconosciuta? Perché egli arriva al capolinea della ragione?
Spesso è proprio in coloro che da piccoli hanno subito troppe angherie psicologiche, che alla fine si registra il cedimento “strutturale” della loro mente. Essi mettono in pratica con fredda determinazione ciò che alla fine la rabbia “ordina” loro di fare. Analizzando storie di frenetica, improvvisa follia, si trovano nascosti anni di frustrazioni, di imposizioni, di violenze, di mala educazione. Il “mostro” da sbattere in prima pagina vien fuori dalle macerie di una personalità corrosa da “educatori” nevrotici, impreparati, fuori di testa o insensibili, dai soprusi di una società violenta, sfruttatrice, indifferente. Vittima più delle sue stesse vittime, il “malvagio”, è indotto, dalla sua corda pazza a scatenare il finimondo attorno a sé. Certo, non si possono giustificare questi gesti, ma è possibile comprenderne l’eziologia e, forse, talvolta, anche prevenirli.
Bisognerebbe che “la mala educazione” non diventi una camicia di forza psichica, che non si resti prigionieri di un’infanzia squallida, che la società sia meno ipocrita e che la volontà politica di migliorare la qualità della vita dei giovani non sia una subdola menzogna che serve solo ad attirare voti.
Attenzione alle interpretazioni di comodo che tendono, facendo ricadere tutto sul “mostro”, ad ignorare o ad assolvere i responsabili che hanno, direttamente o indirettamente, maltrattato chi, alla fine, è “esploso”. Nel mondo della natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. La stessa legge vale per il mondo psichico, ove le risposte emozionali forti sono il risultato di soprusi, di angherie, di incomprensioni che, dopo aver covato nel “retrobottega della mente”, alla fine si trasformano in ribellione cruenta. Più l’individuo ha subito, più efferata è la sua esplosione emotiva. Purtroppo, invece di prendere provvedimenti “educativi”, di concreto c’è solo, ogni volta che accade un fatto del genere, la scandalizzata conformistica “sorpresa” di chi, affermando di “conoscere bene” la personalità del “mostro”, si meraviglia di quanto sia “accaduto” e dice che “non avrebbe mai supposto” che sarebbe potuto accadere.
Poi, tutto torna nel dimenticatoio.
Il mondo occidentale s’interroga sul come debellare il fanatismo mediorentiale
TERRORISMO UN ESALTATO MODO DI RISOLVERE I PROBLEMI DEL MONDO
Anni addietro Golda Meir disse: «Il terrorismo finirà il giorno in cui i padri e le madri cominceranno ad amare i loro figli». Niente di più profetico poteva esser detto: infatti, è proprio un tipo di mentalità fanatica che fa da substrato al terrorismo. In un documentario sul terrorismo, il padre di un terrorista suicida ebbe a dire all’intervistatore: «Mi spiace che mio figlio più piccolo abbia solo sette anni, perché se fosse di poco più grande sarei felice che anche lui potesse morire per la “causa”».
Fanatismo, religiosità estremista, disperazione, e miseria, sono all’origine del movimento terrorista, fatto di esaltati che non hanno istinto di conservazione perché non hanno nulla da conservare; anzi, paradossalmente, hanno tutto da guadagnare, convinti che, dopo aver trovato la morte nelle azioni suicide, è riservato loro un posto in paradiso.
I primi fanatici di azioni suicide provengono dall’organizzazione Hezbollah, terroristi libanesi antiamericani che a partire dal 1983 iniziarono questo genere di attacchi contro l’odiato nemico americano. In seguito gli estremisti di Hammas iniziarono a mandare giovani in azioni suicide. In Egitto seguirono queste orme i giovani di Al Jama’a. Ma anche in Malaysia e in Indonesia sono sorte organizzazioni di questo genere.
Partendo da queste premesse ci si può rendere conto di quanto difficile sia prevedere e bloccare l’azione dei terroristi che intendono la loro opera come il modo più eclatante per far conoscere e far avanzare nel mondo il loro credo.
Una delle dichiarazioni più comuni dei terroristi è che la speranza possa trionfare la guerra santa in nome del Corano, che l’Occidente sia dunque messo in silenzio, il mondo sottomesso ai loro principi e sia sconfitto Satana, cioè il capitalismo.
Questo spiega perché, mentre il mondo occidentale era in lutto per gli attacchi a New York e al Pentagono, nelle strade di molti stati mediorientali la gente festeggiava in strada “la riuscita dell’operazione”
Mettere in piedi un servizio di Intelligence che possa fronteggiare il terrorismo non è cosa da poco, perché le infiltrazioni dei fanatici sono capillari, per cui potenziali terroristi non sono solo quelli che vengono addestrati in basi segrete, ma anche quegli “oriundi” che sono contattati in ogni nazione occidentale e i quali piano piano vengono suggestionati e spinti ad abbandonare i legami col mondo moderno e ad abbracciare la “causa degli estremisti”.
Ciò comporta che un immigrato, divenuto cittadino di una nazione occidentale, possa, di colpo, mutare in potenziale terrorista e sfuggire alle maglie di qualsiasi sorveglianza.
Facciamo un esempio: nella maggior parte degli aeroporti Usa il sistema di sicurezza e di controllo dei passeggeri è spesso affidato a ditte private, le quali assoldano personale “oriundo”, proveniente cioè dall’Asia, dall’Africa o dall’America latina, o dal Medio Oriente, che viene pagato a poco prezzo, per i normali controlli di routine del passaporto e del metal detector.
Chi può allora garantire che tra quel personale non vi sia qualche “convertito” alla causa del terrorismo, il quale magari chiuda un occhio quando passa un correligionario?
La vulnerabilità del sistema occidentale nei confronti del terrorismo è maggiormente acuito dal fatto che, oltre alle nazioni dichiaratamente a favore dei terroristi ( Afganistan, Iran, Iraq, Libia etc), vi sono nazioni, come Pakistan, Yemen e Arabia Saudita che, malgrado dicano di dissociasi dagli estremisti, tuttavia permettono che molti terroristi si nascondano nelle loro regioni.
Con una rete di copertura così vasta, è impossibile controllare le centrali del terrorismo. Secondo fonti bene informate l’organizzazione di Al Qaida, che fa capo a Bin Laden, ha molti adepti in Europa. E anche in Italia ci sarebbero basi che nascondono terroristi.
Il problema è dunque più complesso: per frenare tutti questi aspiranti martiri, di cui sono pieni i campi di addestramento dei terroristi, bisogna individuare e bloccare questi campi, ma si deve anche instaurare un dialogo che riesca a far capire, a poco a poco, a questa gente fanatica, che le ragioni dell’Occidente possono essere negoziate ed è possibile anche arrivare ad un compromesso che salvi anche i loro interessi e che le loro idee non sono infallibilmente migliori di quelle degli occidentali.
Certo, se da un lato personaggi come Bin Laden sono irriducibili e non si fermeranno mai, bisogna pur tuttavia instaurare, con quanti sono più ragionevoli, ove possibile, una nuova cultura della convivenza.
Solo con questa paziente opera diplomatica di alto livello si potrà un giorno isolare gli intransigenti e debellare il terrorismo: la sola forza non basta; perché si tratterebbe di combattere una guerra senza frontiere e contro un nemico spesso invisibile, con conseguenze ed errori disastrosi.
Infatti può accadere, che, inevitabilmente, vengano colpite anche popolazioni e genti che non è dimostrato siano sicuramente complici del terrorismo.
VENTI DI GUERRA DIETRO L’ANGOLO
MA SIAMO CERTI CHE L’UOMO CERCA DAVVERO LA PACE?
In Algeria esplode il conflitto tra governo “legittimo” e le fazioni in rivolta, Fis e Gia; e in Oriente sarebbe facile liquidare la faccenda Iran-USA catalogandola come uno scontro d’interessi economici e politico-militari.
Il problema, purtroppo, come ogni conflittualità umana, non riguarda solamente “la strategia politica”. Ha origini e motivazioni profonde. Nei caso in specie, per quanto riguarda l’Algeria, i massacri fanno parte di antiche vendette personali e tribali, e in quanto al nuovo riesplodere del contenzioso USA-Iran, c’è persino chi addirittura sostiene che Clinton ha messo il piede nell’acceleratore per far dimenticare ai suoi puritani elettori la vicenda pornoerotica che lo coinvolge.
Ma torniamo alla Storia: non si può ignorare che ogni popolo ha avuto un nobile cultura, e che ogni civiltà ha detto e fatto qualcosa di interessante ed è stata all’avanguardia. Eppure, se guardiamo ciò che accade in Algeria o se poniamo l’accento sulle condizioni sociali delle popolazioni iraniane, non troviamo più nessun segno di antica cultura.
Infatti è come se qualcosa abbia fatto scattare tanta barbarie; è come un corto circuito che ha azzerato anni di civiltà.
La mentalità occidentale preferisce etichettare, e criminalizzare come comportamenti “abnormi” quelli degli algerini e degli iraniani. Ma sono questi popoli proprio fuori dalla consuetudine?
Purtroppo, se si analizzano le cronache, la storia, le occasioni che hanno portato trasformazioni politiche, e i comportamenti cosiddetti civili, si possono riconoscere come “insiti” nell’umanità le ferocie, le pulizie etniche, e le strategie della violenza che giustamente condanniamo.
Roma distrusse la città di Veio e ne sterminò gli abitanti perché faceva “concorrenza”. La “grande Roma” si comportò nello stesso modo contro i Volsci, i Sanniti e contro Cartagine. Gerusalemme fu messa a ferro e fuoco dai Crociati che praticarono una vera e propria “pulizia etnica”. Nel secondo secolo prima di Cristo, la dinastia Qin “azzerò” tutti gli staterelli cinesi e divenne un “Grande” impero. Gli spagnoli del civilissimo re Filippo trucidarono tutti i “moriscos” di Spagna, perdendo così, tra l’altro, una stirpe civile e molto utile per le sorti della nazione. Come non parlare dell’odio verso gli ebrei e del loro sterminio? In ogni frontiera, come in ogni condominio e in ogni famiglia si potrebbero trovare ragioni sufficienti per commettere stragi.
Bisogna allora rassegnarsi? Certamente no. Ma la strada da percorrere non è ritenere che le nefandezze accadano solo a causa del sottosviluppo. Nella Storia e nella cronaca, uomini feroci ce ne sono stati tanti. Chi ha avuto a disposizione una forza su cui contare, “miliziani” o killer al proprio servizio, quasi sempre si è comportato in modo da distruggere definitivamente il proprio “nemico”.
E una volta persino il delitto d’onore, non santificava anche la “pulizia etnica”? E non ci sono scrittori “condannati a morte” da coloro che non accettano le loro idee?
L’unica possibilità che ha la fetta di umanità che è più ragionevole per frenare questa follia è educare meglio i giovani. Il bandolo della matassa è comprendere che alla fine del secondo millennio sebbene l’uomo utilizza i computer, non ha ancora estirpato dalla sua anima l’ignoranza e la barbarie. Solo una educazione intelligente e civile potrà renderlo consapevole, non-nevrotico, e ragionevole.
Purtroppo c’è ancora una grande carenza in campo pedagogico e non sempre si riesce ad eliminare l’odio per il condomino, per lo straniero e per “il diverso”.
LE DONNE HANNO RAGGIUNTO LA PARITA’?
Si potrebbe supporre che nel mondo moderno, grazie alle conoscenze psico-sociologiche, la marginalità femminile sia stata debellata. Tuttavia, sebbene in parte l’opinione sulla donna è cambiata, giungono notizie che dimostrano come, sotto l’apparente civiltà sociale, si tende ancora a porre le donne in secondo piano anche negli ambienti più insospettabili. La misoginia che ha prodotto la marginalità della donna, è una forma mentis che ha radici profonde. Perché muti il costume c’è bisogno di un’opera educativa a tutti i livelli, di una crociata della ragionevolezza e del buon senso che cancelli la indecorosa, millenaria posizione femminile.
Una notizia inquietante, che non rassicura di certo che la condizione della donna sia davvero mutata, giunge in questi giorni da Vienna. Si tratta di un messaggio “forte” e indicativo, perché viene non da una fonte poco acculturata, ma addirittura dai musicisti della Wiener Philarmoniker. I “professori” di quella che è considerata una delle orchestre più note al mondo, rifiutano decisamente di accogliere le professioniste del gentil sesso.
Il veto, è vero, viene soprattutto dai “maestri più anziani”, ma da un sondaggio rilevato dalla televisione di Stato sulla questione delle musiciste nel Wiener, ha rilevato che solo il 48 per cento dei cittadini è favorevole all’immissione delle donne nella più famosa orchestra dell’Austria. Intervistati alcuni di quei componenti dell’Orchestra che negano decisamente l’ingresso delle donne,alla domanda dei motivi per i quali sono così accanitamente antifemministi, hanno risposto che, secondo loro, le donne sarebbero un elemento conturbante nell’attuale armonia del complesso.
C’è da chiedersi: se la misoginia è così palese anche in un paese tanto evoluto come l’Austria, come sarà in Africa, in India, nel Sud America?
Insomma, bisogna dire che i tempi non sono del tutto cambiati da quando molti era convinti che la diversità tra uomo e donna non fosse solo fisica, ma anche psico-intellettiva e sociale. Essi supponevano infatti che le donne, avendo il cervello più piccolo dei
maschi, dovevano essere intellettualmente inferiori!
Eppure, non è possibile ignorare che nel campo culturale le donne, sin dal Medio Evo, hanno contribuito al recupero di testi antichi e a rendere la letteratura un bene di consumo indispensabile. Nei secoli bui, l’arte dello scrivere e quella del leggere, ritenute attività di seconda categoria furono demandate ai monaci e alle donne, le quali furono custodi e depositarie, assieme ai religiosi, della cultura. Nel XVII secolo in Francia le donne organizzarono quei salotti che dettavano legge in qualsiasi campo della cultura e stabilivano il linguaggio e il gusto non solo letterario, ma anche mondano. Ma dobbiamo chiederci se i costumi siano davvero radicalmente cambiati. I premi Nobel, per esempio, sono assegnati alle donne in misura del dieci per cento rispetto ai maschi. Non dimentichiamo che la ricercatrice Mary Goeppert, che ottenne il Nobel nel 1963, per trent’anni prestò la sua opera in un centro universitario americano, dove le era consentito accedere alle attrezzature solo di
sera dopo che la équipe dei maschi abbandonava il campo!
E sempre negli anni Sessanta, in USA, Chien-Shiung Wu, esperta di fissione nucleare, aiutò due giovani ricercatori Yang e Lee, a portare avanti, alcuni esperimenti. Tutti e tre scoprirono che le reazioni delle particelle sub-nucleari, non sono simmetriche ma asimmetriche. Tuttavia, sebbene la scienziata avesse lavorato per anni con i due ricercatori, solo i due colleghi maschi, raccomandati da Oppenheimer, notoriamente maschilista, ebbero in Nobel.
È dunque sperabile che agli inizi del terzo millennio non si debba più affrontare il problema della condizione subalterna femminile e che l’avvento di una nuova era sociale risolva felicemente le tensioni e le incomprensioni tra maschi e femmine.
È questo l’augurio e la speranza: che l’8 Marzo non resti solo un giorno emblematico del femminismo.
Alla fine del millennio la gente ha bisogno di spiritualità alternative alla scienza.
Molte persone sperano che la “filosofia” del New Age, che è un miscuglio di magia, superstizione e pratiche esoteriche, possa frenare la paura della solitudine e dare conforto all’umanità.
Malgrado l’era tecnologica, è ancora difficile espellere l’irrazionalità dall’inconscio collettivo. Infatti, anche in Occidente cresce il bisogno di verità alternative alla scienza, di pari passo con lo sviluppo di credenze medianiche. Veggenti, maghi e astrologi guidano la classifica dei guadagni professionali, precedendo, assurdamente, avvocati, ingegneri, medici e tecnici informatici. Il New Age, cocktail di esoterismo, di occultismo, di musiche psichedeliche, di dottrine orientali vicine al buddismo e allo zen, è una controcultura in opposizione alla razionalità scientifica.
Esploso negli ultimi decenni, col proliferare di sette pseudoreligiose e con l’accettazione acritica del paranormale, il New Age, è stato codificato da La profezia di Celestino di James Redfield, libro venduto in milioni di copie, che promette di svelare, attraverso vari livelli di illuminazione, il senso della vita.
La filosofia del New Age tende a ridefinire spirito e corpo, a diffondere l’esoterismo salvifico, e da credibilità a molte stranezze anche nel campo dell’ortodossia religiosa. In Israele, per esempio, il rabbino David Yossef Elboin, in nome del New Age, ha costituito una comunità di giovanissimi sacerdoti (molti addirittura minorenni) i quali, per non essere contaminati e per poter vivere nella purezza più assoluta, in attesa della fine del mondo, restano in completa ascesi e segregazione. Ciò li renderebbe pronti, una volta cresciuti, ad adoperarsi per salvare l’umanità.
Oggi più che mai sono molte le persone che si aggregano attorno ai grandi comunicatori di massa, illudendosi di avere un rapporto “privilegiato” con Entità metafisiche.
Eppure, basterebbe che l’uomo utilizzasse in modo appropriato i mezzi scientifici di cui dispone e volgesse ad opere di pace le tecnologie più raffinate, per potere avere un’era di serenità e di benessere.
Invece, proprio per lo scarso uso della ragionevolezza e per la inadeguata fiducia nella razionalità, nel mondo continuano guerre e tensioni politico-sociali. Così non v’è da stupirsi se nell’era della TAC, della streptomicina, del computer e dei voli spaziali, l’umanità, ritenendo insufficienti le scoperte scientifiche, è in cerca di soluzioni esoteriche per fronteggiare la paura dell’esistenza e il terrore della morte.
L’illusione-bisogno di potere “entrare” e dominare la dimensione dell’Eternità, di ingabbiare e vincere il Tempo e la Morte, spinge l’uomo a ricorre alle alchimie mentali del New Age. Artifici che vanno dall’astrologia alla magia, dal sacro storico all’occultismo, rimodellati in chiave profetica.
E così, molte persone si aggrappano alle fantasie liberatorie del New Age, che promette cambiamenti radicali in campo religioso, politico, astrologico, propagandando un percorso mistico che porta alla salvezza. E pertanto, proprio nel momento in cui il mondo ha più bisogno di razionalità, la gente, incapace di valorizzare le conquiste scientifiche, si rifugia nell’occulto, nell’esoterismo, nella credenza della reincarnazione e del paranormale.
Forse, l’uomo è davvero impreparato alla scienza, e per questo non riesce ad accettare le conclusioni, meno illusorie, ma più concrete e stabili, che essa suggerisce.
Anoressia: tra medicina e ascesi mistica
PER QUALCHE CHILO IN MENO,
L’anoressia è una psicopatologia tipica nell’adolescenza. Colpisce le ragazze dai dodici ai diciotto anni, e da qualche tempo
anche i maschi. Attualmente in Italia sono quattrocentomila i casi accertati di anoressia e due milioni di giovani sono ad alto rischio.
Di anoressia sono affetti gli adolescenti la cui personalità non è strutturata in modo maturo, che hanno disturbi “di identità” e conflitti familiari e sociali.
Gli anoressici mostrano una attenzione esasperata per il proprio corpo, ma in realtà il problema è più complesso: in essi l’incapacità a superare le difficoltà della vita porta alla autoflagellazione. Gli adolescenti rifiutano i modelli “familiari” e l’immagine corporea genitoriale, pingue e debordante. Questa contestazione “giovanile” si manifesta col rifiuto di alimentarsi, risposta questa alla preoccupazione di quei genitori che si prendono cura dei figli solo per nutrirli e senza interessarsi dei loro problemi esistenziali.
I disturbi nutrizionali sono anche legati ad angosce “filosofiche” connesse alla sfera etico-religiosa. La ripulsa del cibo è una autopunizione, ma rappresenta anche l’“abiura” del“corpo”, ritenuto immondo. Per chi ritiene la vitalità sessuale vergognosa e peccaminosa, la denutrizione è un deterrente che blocca i “fastidiosi” stimoli erotici. Inoltre, l’anoressia, facendo venire meno il flusso mestruale, rappresenta, simbolicamente, una castrazione.
Nei secoli passati però l’anoressia aveva motivazioni esclusivamente spirituali e trascendenti. A causa della carenza di cibo le ragazzine non avevano “problemi di linea” e comunque, essere grasse, era uno status symbol.
Oggi l’anoressia è presente nelle nazioni industrializzate. Nei paesi ricchi, i messaggi dei media inducono a dimagrire e gli stilisti di moda spingono a tenere “la linea”. Ma l’anoressia è, simbolicamente,un rifiuto della distinzione cartesiana di spirito e materia, di corpo e pensiero. Il nutrimento spirituale, secondo gli anoressici, basta al sostentamento del corpo. Il disagio esistenziale si manifesta nel non “accettare” il corpo, vissuto come qualcosa di “estraneo”. La donna anoressica rifiuta la maturazione fisiologica e in particolare la crescita del seno, l’arrotondarsi dei fianchi e, negando desideri e voglie, respinge la maternità per non apparire “grossa”. Sebbene non sempre si renda conto della sua malattia, l’anoressica intuisce la propria situazione come precaria ma, abituandosi a convivere “con la morte vicina”, giustifica la ripulsa del corpo col desiderio di essere pura spiritualità.
In nessun caso come nell’anoressia è manifesto l’intreccio tra spiritualità e carenza di nutrizione che enfatizza la spinta mistica. Tra l’800 e il 900, la francese Marthe Robin, guida spirituale di alcuni filosofi francesi fu anoressica. Afflitta da “angoscia esistenziale” non mangiò quasi del tutto per anni. La Robin, a causa del suo totale stato di denutrizione, riceveva a letto la gente che andava a visitarla in pellegrinaggio. A tutti dava una parola di conforto e mostrava le sue stimmate.
Ma il fenomeno che lega l’anoressia ad una enfatizzazione della spiritualità non è recente. Nel Medioevo, la perugina Margherita da Cortona dopo che le trucidarono l’amante, meditando inorridita sulla fragile sorte umana, divenne anoressica, si ritirò a vita penitenziale. Visse tra estasi e rivelazioni, fu terziaria francescana e venne fatta santa. La sassone Gertrude di Helfta, all’età di cinque anni venne rinchiusa in un monastero. Dapprima si disperò ma in seguitò seppe mitigare il suo disagio. A ventisei anni ebbe una prima visione e da quel momento iniziò la sua anoressia. La sua esperienza mistica influenzò Santa Teresa di Avila la quale volle entrare in un monastero carmelitano e visse in anoressia mistica.
Anche la scrittrice medievale Elisabetta di Schönau venne rinchiusa, sin da piccola, in un monastero della Renania. Dopo una malattia cominciò ad avere visioni, divenne anoressica e arrivò quasi al digiuno assoluto.
La genovese Caterina, vissuta nel secolo XV, sposò un guerriero che ella convertì. Anch’essa dopo grave malattia ebbe delle visioni, rifiutò i piaceri della vita, divenne anoressica e si diede alla cura degli infermi. Salì agli onori degli altari con il nome di Santa Caterina da Genova. La vita dell’anoressica Santa Veronica Giuliani,si svolse nella preghiera e nella rinunzia di tutto. Alla fine del XIX secolo Gemma Galgani Camigliano,allevata dall’infanzia in un clima di rigida religiosità, ebbe estasi e visioni. Divenuta anoressica dopo gravi sventure familiari, Gemma “rivisse” l’agonia di Gesù, con una partecipazione simbolica e cruenta della passione di Cristo, con sudorazione di sangue, con l’esperienza della crocifissione e delle stimmate. Fu fatta santa così come Teresa Newman, morta nel 1923, che per tutta la sua esistenza si privò del cibo. Non è ancora chiaro come alcune persone possano vivere senza nutrirsi.
Non ci sono certezze scientifiche. Dal punto di vista “fisico”, una persona anoressica non è differente da una sana, ma le persone anoressiche vivono tutto ciò che è fisiologico ridotto all’essenziale. Un gruppo di ricercatori inglesi ha riscontrato, in qualche persona anoressica, carenza di potassio e calcio e la disfunzione nel lobo temporale anteriore, regione del cervello che regola la sazietà, e l’emozione. Purtroppo l’inquietudine può indurre la persona anoressica ad atteggiamenti niente affatto mistici. Infatti, chi non accetta la realtà quotidiana e non valorizza la propria esistenza può essere spinto a gesti inconsulti. Se la tredicenne che si è lanciata dal quinto piano perché ingrassata di un chilo, avesse elaborato la propria anoressia per un fine spirituale, con ogni probabilità avrebbe avuto ben altre ricompense.
LA “FEBBRE” DELLA CREATIVITÀ
Diceva Darwin che la perdita del gusto artistico è la perdita della felicità. E che non c’è cosa più dannosa per l’intelletto e per il carattere che l’atrofizzarsi delle attività umane in monotoni schemi senza fantasia e senza creatività.
Nella mentalità corrente, invece, la gente considera talvolta la ricerca del bello come un’attività del tutto secondaria perché, non avrebbe un utile concreto. Ma questo è un ingiusto deprezzamento dell’attività creativa, che la relega al semplice concetto del superfluo.
Anche molte attività hobbystiche hanno grande rilevanza culturale e artistica. C’è chi, con tecnica geniale e senso artistico che nulla hanno da invidiare all’attività dei professionisti si dedica, “per hobby” alla scultura con la ceramica, C’è chi, per hobby costruisce mobili di foggia pregevole, chi scatta, sviluppa e stampa foto bellissime, chi, al pari dei maestri d’alta, scuola dipinge ad olio, a tempera o ad acquarello quadri che sembrano usciti dalle mani di grandi artisti. C’è chi scrive poesie pregevoli e romanzi che sarebbero degni d’essere prelevati dai polverosi cassetti dove giacciono, a volte, per sempre.
Anche la creazione “non professionale”, in certi casi, dunque è molto simile all’arte, con la A maiuscola. Ma si, sa, l’arte è forse il più spirituale, ma anche il più misterioso dei fenomeni umani. Per questo forse, non sempre tutte le opere meritevoli riesco ad emergere e non tutte hanno fortuna. In qualche caso, per uno scherzo del destino, creazioni di pregio vengono sono state valutate ottimamente solo dopo che i loro autori non ci sono stati più.
La creatività, come tendenza al bello, non è spiegabile se non la si osserva come prodotto di teremoti inconsci, di esigenze emozionali e intellettuali di grande rilievo. La tendenza a creare non ha una sola spiegazione: le motivazioni che chiariscono il significato di questo impulso creativo sono variegate. Finché vi sarà qualcuno che avrà bisogno di evadere dalla piatta quotidianità e avvertirà che l’ideazione è un valore alternativo alla noia e al grigiore della vita, e che rappresenta una soddisfaziione esistenziale, è lecito supporre che la “fisiologia” della creatività non verrà meno nell’uomo.
L’operosità artistica, è una benefica impennata frebbrile, che si esprime attraverso mille canali: i pennelli, gli strumenti musicali, il marmo, la creta, la penna, la macchina fotografica, le grandi opere dell’architettura, etc.
Non ricordo chi diceva che l’arte è la più indispensabile delle cose inutili, ma certamente è la più importante e perfino la più terapeutica di qualsisi altra attività. Il valore della creatività è in quel senso di completezza, di bellezza che da la stesura dell’opera .
Le forme più universali d’arte sono la musica e l’immagine. Entrambe possono essere gustare da chiunque, da qualsiasi cittadino del mondo, a prescindere dalla lingua che parla e della cultura nella quale si è formato. I graffiti e i suoni musicali precedettero di gran la scrittura. Non si deve essere esperti di lingue straniere, né conoscere la matematica o le scienze per gustare un quadro, un brano musicale, una fotografia o una statua.
La creazione artistica utilizza tutta la ricchezza espressiva che scaturisce dalla diversità dei temperamenti, delle culture e delle storie personali e la trasforma in messaggio universale il cui valore è inestimabile, perché fa parte della vita, della storia e dei sentimenti dell’umanità .
Purtroppo, a causa del quotidiano arrembaggio per la sopravvivenza, della continua ed incalzante corsa al denaro, della furia egoistica ed egocentrica per scalzare “i concorrenti”, poco spazio è lasciato alla creazione artistica, e ancora meno se ne trova a livello di educazione della gioventù.
I giovani, giustamente, sognano la sicurezza economica, ma l’ansia del futuro lavorativo troppo spesso annienta anche nei più dotati l’ineffabile amore per la creazione.
Ma una società che appiattisce i propri interessi alla sola sopravvivenza biologica è certamente destinata, più o meno, a vegetare e ad essere infelice.
CREAZIONE ARTISTICA E DESIDERIO DI ONNIPOTENZA
L’animo umano ha bisogno di affermare la propria potenza,ed essa si manifesta sotto diversi aspetti, con espressioni iperboliche ed enfatiche, a volte persino violente o subdole, ma rappresenta sempre la necessità di superare la limitatezza della condizione umana.
Costruire Piramidi, mettere su imperi commerciali, conquistare nazioni, scoprire il rimedio contro una malattia, è spesso un modo di sublimare, o di mettere in atto, la necessità di onnipotenza. Anche avere dei figli è fondare una specie di immortalità “genetica”, come anche produrre un’opera d’arte è costituire un’immortalità intellettuale. L’artista non solo proietta nel futuro la propria “idea”, ma crea una realtà virtuale che esprime la sua “vigoria”, infatti egli manipola il reale, i personaggi, le immagini, tutto a suo piacimento e fissa “eternamente” qualcosa di singolare, una “creazione”.
La pittura, la scultura, la fotografia, per esempio, sono espressioni di una “creazione”: fermare l’attimo fuggente, mutare la prospettiva di un’architettura, cambiare i colori della natura, evidenziare un particolare che altrimenti sarebbe sfuggito ai più, è come imporre la propria capacità di dominio sulla materia.
La limitatezza dell’uomo viene superata quando l’autore,che diventa protagonista dell’Essere, “manipola” la realtà, anche se si tratta di una oggettività a volte solo virtuale, come l’arte.
Imperatori e re edificano architetture smisurate per dimostrare le loro capacità e la loro forza; il fotografo, il pittore, il regista cinematografico costruiscono immagini singolari frutto della possibilità (anche se virtuale) di manipolare il reale.
Più l’opera è sofisticata, più adultera il reale, più il desiderio di onnipotenza è soddisfatto.
In un certo senso,l’artista è come il bambino,che nella sua ingenuità ludica immagina di essere in grado di fare qualsiasi cosa. Il gioco è un’espressione sintomatica di onnipotenza: grazie all’immaginazione il bambino può essere chiunque e determinare “nella realtà fantastica” qualsiasi cambiamento. Esattamente ciò che fa chi crea un’opera. L’artista, in fondo, è un adulto rimasto bambino.
Ma se pensiamo all’orribile bisogno di chi,per dimostrare la propria forza, distrugge nazioni, annienta esseri umani e mette a soqquadro i luoghi della natura, ci sembra utile questa infanzia dell’anima nell’artista, la cui “onnipotenza” crea, mentre le altre forme di “onnipotenza” distruggono.
Sigmund Freud, l’uomo e lo scienziato
Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di Freud (6-05-1856), inventore della Psicoanalisi. In Europa, e soprattutto negli Stati Uniti, la psicoanalisi ha avuto un boom tra la seconda metà del ‘900, e la fine del Secolo. Consultare lo psicoanalista è divenuta una pratica abbastanza comune. Tuttavia si tratta di una terapia per elite: lo psicoanalista non può, per ragioni di tempo, seguire molte persone, in quanto la cura si prolunga mesi o anni. La psicoanalisi è presente nella letteratura (La coscienza di Zeno di Italo Svevo, Il male oscuro, di G. Berto), il teatro (Ionesco, Pirandello Ibsen, Beckett, O.Wilde,) l cinema, nel quale si trovano ben tre filoni: quello serio (Io ti salverò, di Hitchcock,-Giulietta degli spiriti, Fellini), quello imperniato sulla commedia, (Caruso Paskoski di padre polacco) di F. Nuti, (Un divano a New York) di C. Akermann, (la produzione di Woody Allen)e quello in cui lo psicoanalista è ritenuto più matto dei suoi pazienti (Il testamento del dottor Mabuse).di F. Lang, Il lenzuolo viola, di Roeg (psicoanalista necrofilo)
In Italia introdotta da Weiss, Benussi, Servadio, Musatti, Fornari, Perrotti, Napolitano, Ancona, Corrao, Carotenuto, per citare alcuni tra i più noti, la teoria freudiana fu osteggiata sia come terapia che come concezione del mondo. La psicoanalisi non piacque al fascismo, al nazismo, al comunismo e nemmeno alla Chiesa. Eppure ancora ora congressi in tutto il mondo, a Londra, Vienna, New York, Copenaghen, Parigi, Lòs Angeles, Caracas, S. Paolo, Giappone, testimoniano la vitalità e l’interesse per questa disciplina. La psicoanalisi è però fortemente criticata da vari settori. Dell’inventore della psicoanalisi si parla a proposito e a sproposito riferendosi alle sue scoperte psicoanalitiche; i seguaci lo hanno ammirato fanaticamente, i detrattori lo hanno criticato ostinatamente. Molti ne parlano senza aver mai conosciuto le sue opere, rifacendosi a giudizi riportati, di seconda mano.
Una bacchettata forte a Freud è pervenuta dalle femministe. Essendo culturalmente figlio del suo tempo, Freud non seppe scrollarsi l’imprinting maschilista; e la donna rimase per lui un territorio misterioso ed inaccessibile, come gli hanno rimproverato le femministe. L’asserzione freudiana dell’invidia del pene da parte della donna creò sconcerto, imbarazzo, scetticismo, e anche ilarità. Tuttavia, a quell’epoca, nemmeno gli scienziati erano al corrente del meccanismo della sessualità e in particolare di quella femminile.
Sigmund Freud si rese conto di non essere in grado di penetrare in pieno il segreto della femminilità e rimandò alle donne questa indagine, alle psicoanaliste formate alla sua scuola: dalla figlia Anna fino a Marie Bonaparte, a Lou-Andreas Salomè, a Melania Klein, a Helene Deutsch a Karen Horney, a Francoise Dolto a Luce Irigary e altre.
Ma in realtà, chi era Freud?
L’inventore della psicoanalisi è presentato con la sua figura seriosa, meditativa, professionale. Le foto che conosciamo di Freud sono quasi tutte mediatiche, rappresentative cioè di un personaggio ravvisato come carismatico: barba da scienziato, posa altera, sguardo profondo.
I suoi genitori era ebrei. La famiglia abitò prima in Galizia poi a Vienna. Abraham Siskind Hoffman, un mercante ebreo che vendeva merce i tutto il circondario, essendo ormai vecchio (69 anni) aveva deciso di prendere come aiutante il nipote ventinovenne Jacob Kelemen (Kallamon) Freud. Jacob Freud, figlio di Salomon, era dunque venditore ambulante di lana, pelletteria, e generi vari.
Jacob sposò a 16 anni, Saly Kanner, dalla quale ebbe due figli, Emanuel e Philips. Quando la moglie morì, Jacob sposò Rebecca che andò ad abitare con lui a Freiberg con i due figli della prima moglie: Emanuel, di 21 anni e Philpp, di sedici. cui la sua seconda moglie Rebecca andò ad abitare con lui a Freiberg con i due figli della prima moglie: Emanuel, di 21 anni e Philpp, di sedici. Emanuel era già sposato. Ma anche la seconda moglie di Jacob, morì giovane e Jacob si sposò per la terza volta, con Amalia Nathanson. Jacob aveva quaranta anni, Amalia ne aveva 19, era figlia di un agente commerciale ebreo, aveva trascorso parte dell’infanzia a Odessa, nel sud della Russia, poi la famiglia si era trasferita nella capitale dell’Impero Asburgico. Di lei sappiamo soprattutto che era bella, aveva un carattere autoritario, e stravedeva per il figlio primogenito Sigmund. Amalia era coetanea dei primi figli del marito, Emanuel e Philipp. Emanuel aveva già due figli. Da Jacob e Amalia nacquero otto figli. Sigmund, Julius( morto prima di arrivare ad un anno), Anna, Rosa, Marie, Adolfine, Paula e Alexander). Gli affari di Jacob non andavano granché bene e la famiglia viveva con gli aiuti provenienti dalla famiglia della moglie. ( Il padre di Amalia era un commerciante). In età anziana Jacob visse triste e solitario; non lavorando più, trascorreva il tempo leggendo il Talmud e libri ebraici e tedeschi, in un caffè o passeggiando per i parchi. Viveva appartato dal resto della famiglia e non prendeva parte attiva alle conversazioni nemmeno durante i pasti. Amalia viene descritta come tirannica, egoista, soggetta a sbalzi d’umore e a sfoghi emotivi.
Sigmund fu coetaneo dei figlio dello zio Emanuel, i cugini John e Pauline con i quali crebbe assieme, ed erano inseparabili. Erano accuditi da una vecchia bambinaia di casa di Emanuel, Monika Zajic, che fu quella che aiutò Sigmund a superare la crisi della nascita del primo fratellino, il secondogenito Julius. Quando a 8 mesi morì, e Sigmund, che l’aveva odiato, si sentì in colpa, come se la scomparsa del fratellino fosse dovuta a lui. Questa sua “preistoria” personale, infantile, Sigmund la scoprì da grande, durante la propria autoanalisi.
Il bambino Sigmund, beniamino della madre, rimase sempre legatissimo ad essa e anche da grande verso di lei nutrì tanta ammirazione. Quando lei, anziana, morì, e ciò accadde appena nove anni prima della fine di Sigmund, egli disse all’amico Fliess: «Fin’ora non potevo morire, ora che lei è morta, posso andarmene».
Jacob, il padre, per la famiglia Freud rappresentò l’autorità e Sigmund, come tutti i componenti, ne era affascinato e impaurito.
Sigmund era un ragazzino studiosissimo: da piccolo restava chiuso nella sua stanza a leggere. La storia antica, il latino, la mitologia, i classici erano per lui un vero e proprio godimento dell’anima. Era così studioso che a casa tutti si fermavano per dargli tranquillità. Le sue sorelle dovevano smettere di suonare il piano. Mentre la maggioranza degli studenti vedevano gli studi classici come una costrizione, le conoscenze delle civiltà tramontate davano invece a Freud una grande eccitazione, come se già sapesse che attraverso quegli studi potesse scoprire il percorso dell’animo umano.
Sigmund conosceva varie lingue, leggeva e rileggeva i classici latini e greci, e gli autori inglesi e francesi.
Tutte queste letture lo avrebbero aiutato a decifrare l’animo umano. Infatti Freud in seguito tradusse in pratica il connubio letteratura filosofia medicina, grazie ai classici dell’antichità: Edipo gli fece comprendere il rapporto madre-figlio. Elettra il rapporto tra padre e figlia. La letteratura gli consentì la possibilità di passare dalla medicina alla speculazione filosofica. Il suo modo di scavare nell’animo umano era simile all’indagine filosofica.
Il piccolo Sigmund prese presto coscienza di essere ebreo, e divenne consapevole degli svantaggi sociali che questo status comportava. Suo padre gli raccontò le umiliazioni che dovette subire in quanto ebreo. Per tutta la vita il dottor Freud cercò un riscatto, Egli ammirò Annibale che aveva odiato e combattuto i Romani, che avevano umiliato suo padre, così come lui avrebbe voluto combattere coloro che perseguitavano gli Ebrei e umiliarono suo padre.
Freud dovette conciliare i due mondi opposti, per restare in equilibrio tra ebraismo e scienza e cultura occidentale. Suo padre Jacob studiò Bibbia e Talmud, ma poi si avvicinò ad un movimento ebraico illuminista che invitava gli Ebrei ad approfondire le materie secolari. Sigmund Freud crebbe in questo clima culturale che riteneva la religione sempre meno importante, anche se egli aveva saldo il senso di appartenenza al popolo ebraico. Il problema dell’ebraismo fu presente in Freud quando mise su la Società Psicoanalitica, ed elesse Jung suo alunno prediletto proprio perché essendo Jung un cristiano, voleva che si sapesse che la psicoanalisi non fosse sono una faccenda ebraica, ma anche i cattolici partecipassero attivamente a questa ricerca. Per inciso, quando Jung si staccò da Freud, e volle nel contempo prendere le distanze dall’ebraismo, arrivando a teorizzare un inconscio ariano e un inconscio ebraico!
Ma torniamo a Freud giovane. Sigmund si iscrisse in medicina perché era l’unica possibilità, per un ebreo, oltre alla laurea in legge o fare il giornalista, di lavorare in un campo importante. Pur aborrendo il sangue, la pratica chirurgica e le malattie fisiche, fare il medico era una professione che lo avrebbe affrancato – almeno così credeva – dal complesso di emarginazione che gli procurava l’essere ebreo.
Da medico, avrebbe assunto importanza. Agli Ebrei era proibito entrare nella burocrazia e nell’esercito. Freud pensò che a lui sarebbero ricorsi anche ariani. Dopo la laurea Freud lavorò col dottor Brücke in un laboratorio di fisiologia, e poi passò in clinica psichiatrica diretta dal prof Meynert.
Con una borsa di studio andò in Francia a seguire le lezioni di Charcot, il più eminente psichiatra del tempo, il quale aveva rivoluzionato il trattamento dei mali psichici, curando i pazienti con la suggestione della parola e l’ipnosi. Freud ne fu molto colpito.
Qui bisogna fare una piccola parentesi: prima di Charcot la malattia mentale era stata considerata un composito di punizione divina e di bizzarria comportamentale. La follia, nei secoli passati, era stata ritenuta un segno divino, e per scacciarla si erano utilizzati rituali di purificazione. Nel Medioevo i matti giravano per strada e assillavano la popolazione.
Il problema della follia assunse una rilevanza insopportabile e i malati mentali vennero rinchiusi nei lebbrosari, oppure, in alternativa, sistemati nelle navi, scaricati in isole deserte e lasciati morire. Il matto era ritenuto insensato, delirante oppure addirittura più saggio della gente normale. Colui cioè che, con il suo stato mentale “in libertà”, senza né regole né nessi, era capace di “vedere” ciò che gli altri non riuscivano. Il matto diventò così protagonista della letteratura popolare dedicata alla insensatezza umana.
In ogni caso, però nessuno aveva dato come Charcot dignità di malattia alla pazzia. Nessuno, come Charcot aveva tentato di comprendere realmente cosa si nascondesse dietro questo male. Charcot aveva individuato l’etiologia di alcune nevrosi, ponendo così uno spartiacque tra le varie malattia mentali.
Freud che non amava troppo la medicina, ma amava la archeologia, la filosofia, la psicologia e la sociologia, trovò nella psichiatria di Charcot il terreno di studi che gli era più congeniale: far combaciare filosofia, psicologia e medicina.
In concomitanza con la sua esperienza parigina, scopriamo Sigmund innamorato romantico. A ventisei anni Freud non aveva avuto nessuna storia con donne. Prima di partire per la capitale francese si era fidanzato con Martha Bernays, “giovane e dolce principessa”, come la chiamava e amava con tenerezza, trepidazione, e austera devozione. Freud fu un fidanzato tanto ardente ma platonico. Intrecciò con Martha una fitta corrispondenza, (sono rimaste novecento lunghissime lettere) dalla quale è possibile anche conoscere l’intenso lavoro di Freud in quel periodo di studi con Charcot, le sue aspirazioni, i suoi progetti, il suo amore per la fidanzata, il suo programma di castità per mantenersi illibato per la sposa. Sebbene assolutamente carente di sostegni economici, Freud, che fino allora aveva scambiato solo qualche abbraccio con la fidanzata, al ritorno da Parigi, volle sposarsi e in nove anni ebbe da Martha sei figli.
Tra parentesi bisogna dire che Freud aveva una tendenza ad assegnare ai nomi una rilevanza evocativa, magica. Così mise il nome di Oliver a un figlio, in ricordo del grande Oliver Cromwell; quello di Martin per devozione a Jean-Martin Charcot, ed Ernest in ricordo del maestro fisiologo Ernst Wilhelm von Brücke che dirigeva il laboratorio dove Freud lavorò. Freud scoprì che il problema dell’ebraismo, consciamente o inconsciamente, lo aveva condizionato malgrado si dichiarasse ateo. Infatti gli aveva suggerito di chiamare i suoi figli Mathilde, Martin, Oliver, Sophie, Hanna (Anna) e Ernest e con quei nomi aveva composto le iniziali di Mosé!
Nei confronti della prole, Freud tenne sempre un atteggiamento formale. La governante di casa Freud, Paula Fichtl, in un’intervista rilasciata quando Freud era già morto, osservò che non vide mai il professore abbracciare o baciare uno di loro.
Pur qualificandosi libero pensatore Freud ebbe un conto in sospeso con la fede; sebbene ateo, fu sempre in tensione conflittuale con l’argomento fede. Il suo dissenso con la religione, che riteneva un’illusione dalla quale la gente doveva guarire per non angosciarsi, gli tirò addosso critiche da ogni parte. La religione, secondo Freud, offre una posizione ambigua, aiuta ma allo stesso tempo produce consolazioni illusorie e così l’uomo se vuole davvero guardare scientificamente la vita se ne deve sbarazzare. La religione offrendo verità trascendenti indimostrabili, può essere illusoria. Ma forse proprio lui s’illuse quando ebbe fiducia che la laicità culturale potesse realizzarsi. Freud non considerò che l’individuo non giudica solamente con freddezza e distacco, ma con passionalità, e anche in certi casi con angoscia. Traumi, indecisioni, e paure restituiscono l’individuo, anche quando cerca di laicizzarsi, nelle braccia della religione.
Al ritorno da Parigi Freud aprì uno studio di psicoterapia, e iniziò una intensa meditazione su tutto ciò che aveva visto e sperimentato con Charcot. A mano a mano che comprendeva meglio i meccanismi della mente cominciò a costruire ipotesi e teorie riguardanti la psiche umana. Individuò un sottofondo mentale dietro la coscienza, che ritenne altrettanto importante e significativo. In questo retrobottega della mente, scoprì condizionamenti, pensieri, pulsioni che influivano nella vita quotidiana.
Freud annotò di sé: «Per un medico che deve occuparsi tutto il giorno di nevrosi è seccante non sapere se la depressione di cui soffre è giustificata oppure ipocondriaca». Per approfondire ciò che egli stesso riteneva di avere “dentro la propria mente” e che conosceva poco, cercò di guarire dalla sua nevrosi con un’impresa audace facendo cioè l’autoanalisi della propria intimità psichica, e indagando i significati reconditi dei sogni che faceva. A tal proposito scrisse un libro sulla tecnica da seguire per la comprensione e l’interpretazione dei sogni. Riempì pagine e pagine raccontando i propri sogni e a mano a mano che li analizzava, diceva, “andava guarendo”.
Egli affrontando il romanzo della propria vita scoprì punti di riferimento che furono la base delle sue teorie. Agli inizi della carriera disse: “Ho tre pazienti, e uno di essi sono io”.
Freud iniziò dunque l’autoanalisi, perché soffriva di umore ipomaniacale, fobie, attacchi di panico durante i quali temeva di morire. Esteriormente si vede molto poco – scriveva di se stesso – ma interiormente c’è tutto un turbinio in me. Freud trovò che la sua sviscerata rabbia e gelosia vero il padre e l’amore verso la madre avevano creato in lui una ambiguità trasformata col tempo in stato isteriforme.
Scoprì pure che per dominare la propria rabbia, durante la sua vita aveva raccolto vasi, vetri, terracotte, statuette, prezzi di collezione fragilissimi, la cui cura, a livello inconscio, rappresentava l’impegno custodire il tutto con avvedutezza, cioè l’impegno di non lasciarsi andare a istinti distruttivi.
Per mantenere intatta la collezione, egli doveva controllare la propria ira. Solo poche volte fu “disattento”: una volta ruppe una piccola Venere di marmo, ma in seguito Freud scoprì che non si era trattato di una sventatezza, bensì di un atto “inconsciamente voluto”. Aveva sacrificato quel pezzo da collezione per ringraziamento quasi scaramantico per la guarigione della figlia Mathilde.
Un’altra volta ruppe il coperchio del proprio calamaio per “protesta inconscia” nei confronti della sorella che gli aveva promesso, ma non aveva mantenuto, di regalargli un calamaio nuovo e più bello. Una terza volta, Freud descrisse la rottura di una statuetta egizia, come rabbia e protesta inconscia per la rottura dell’amicizia con un amico.
Queste osservazioni sulla propria vita inconscia servirono a Freud per studiare in seguito i propri pazienti.
Il primo trattato “La interpretazione dei sogni” Freud lo costruì analizzando i propri sogni e ricavando suggerimenti e guide anche dai sogni dei suoi clienti. Il sogno, specificava Freud, è un ponte tra l’esperienza infantile e il presente, esso “risuscita” l’infanzia e la incastona nell’attualità. L’analisi dei sogni è suggestiva e pregnante, e si ricavano messaggi guida per comprendere il retroscena del sogno, i drammi e i desideri di chi lo fa. Lo psichiatra viennese instancabilmente passava dall’analisi dei suoi pazienti e di sé medesimo, alla scrivania dove annotava e scriveva tutto ciò che riusciva a sapere dai colloqui con i clienti e dalle meditazioni su se stesso. Il dottor Freud fu un attento lettore di ciò che esprimevano per iscritto i suoi assistiti e rifacendosi ai contenuti di quegli scritti egli poté meglio comprendere i problemi che affliggevano i malati. Faceva ipotesi e traeva conclusioni.
Freud e i sogni
Con “L’interpretazione dei sogni” del 1898, Freud ha compiuto una rivoluzione copernicana: egli si convinse che il sogno non è il risultato di un messaggio celeste come si credeva prima di lui, né un intervento in ogni caso esterno all’io, bensì un prodotto profondo e recondito della mente, provocato dall’inconscio.
Prima della psicoanalisi, ai sogni veniva data una valenza differente: erano ritenuti una preveggenza. Erano considerati messaggi premonitori. Nelle popolazioni antiche il sogno divulgava verità superiori e serviva a stabilire persino il corretto comportamento sociale.
A Babilonia un veggente individuava le profezie contenute nei sogni. Nell’Attica e nella Beozia “un funzionario governativo”, purificato, attendeva, dormendo, che un sogno gli desse indicazioni sulle scelte politiche che doveva fare la comunità. In Grecia i sogni erano considerati messaggi divini e venivano esaminati nei templi. Nel famoso santuario greco di Delfi, le Pizie interpretavano i sogni e li spiegavano al loro autore. Il popolo riteneva che i sogni fossero suggerimenti divini e ad essi si riferiva prima di prendere qualsiasi decisione.
Artemidoro di Daldi, greco del II secolo d. C., scrisse un’opera in cinque volumi sull’interpretazione dei sogni, attingendo, com’egli stesso affermava, alla letteratura precedente sull’argomento e avendo ascoltato per anni, nelle piazze di molte città, gli indovini che discutevano sulla spiegazione dei sogni. Il trattato ha notevole valore e testimonia le tradizioni e le credenze degli antichi su una materia tanto interessante. Sigmund Freud si rese conto che il sogno era intimamente legato alla storia personale di chi lo fa. Egli analizzò i propri sogni, scoprendo che la produzione notturna ha come scopo principale il conseguimento dell’oggetto del desiderio, e che i desideri infantili rimossi (cioè dimenticati dalla coscienza) originano quasi tutta l’attività onirica, e rappresentano un sintomo nevrotico.
Carl Gustav Jung affermò addirittura che i simboli onirici appartengono ad un inconscio collettivo, e Anatole France ritenne che i sogni rappresentano le colpe di cui ci rimproveriamo, che abbiamo cercato di soffocare da svegli e che ritornano durante la notte.
Gli psicanalisti analizzando i sogni dei pazienti, portano alla luce i drammi occulti che affliggono gli individui. La produzione onirica, in definitiva, è la “comunicazione diretta” per capire i desideri, i problemi psicologici, le angosce, e i traumi del sognatore, e questa scoperta freudiana nemmeno i detrattori della psicoanalisi l’hanno mai contestato.
Il padre della psicoanalisi andò molto fiero della sua scoperta, ma quando seppe che del suo libro sui sogni, stampato in 600 esemplari, dopo mesi ne erano state acquistate solo duecento copie, se ne addolorò e scrisse all’amico Fliess: «decisamente il mondo non vuol far luce sulle proprie angosce». A volte è più comoda la politica dello struzzo e si preferisce “chiudere gli occhi”, ignorando i “nodi” che soffocano la nostra psiche, piuttosto che prendere coscienza dei motivi che li originano.
Malgrado la concezione psicoanalitica dei sogni abbia accertato l’origine mentale e non celeste della produzione onirica, ancora oggi i sogni sono ritenuti la via maestra per le vincite al lotto! Probabilmente aveva ragione Freud, i libri della “smorfia” sono più consultati di quelli dello psicoanalista.
Un borghese rivoluzionario
Sebbene avesse idee rivoluzionarie, Freud era, tutto sommato, un borghese. Il sabato sera giocava a tarocchi con gli amici; la domenica la riservava ai parenti: a mezzo giorno immancabilmente era a pranzo a casa della madre dove c’erano anche i fratelli di Sigmund con i loro figli. Il pomeriggio della domenica Martha riceveva le amiche e offriva loro il te. Freud invece si ritirava nella biblioteca e si intratteneva con qualche amico. La sera, dopo cena scriveva. Vastissima è la sua produzione scientifica e letteraria.
Una vita apparentemente tranquilla, fatta di lavoro e di studio, interrotta di tanto in tanto, d’estate da qualche sortita sui monti che Sigmund amava, e dove si recava in compagnia di Minna, sorella più giovane della moglie. Freud aveva come piacevole passatempo la raccolta di funghi, che conosceva benissimo secondo le varie specie. Quando poteva faceva escursioni in montagna e passeggiate nei boschi, in cerca dei funghi preferiti. Un altro cibo per il quale il professore andava pazzo era il caviale.
Da Paula Fichtl , la domestica per decenni a servizio a casa Freud, abbiamo notizie sulla vita quotidiana in quella famiglia. Informazioni dettate a un giornalista e non “purgate”, come quelle riportate dagli psicoanalisti amici del maestro, i quali vollero evitare di riferire fatti che avrebbero potuto compromettere l’immagine seriosa del maestro. Dalla Fichtl abbiamo saputo che Freud odiava il telefono, ritenendolo un infernale aggeggio che quando suonava lo distraeva dall’analisi. Paula riferì pure che Freud fumava un’Avana dopo l’altro (forse 20 al giorno) e che quando stava in una stanza, era difficile respirare perché si formava quasi una cortina fumogena. La mattina Paula entrava nello studio del professore, e trovava la stanza avvolta dal fumo, e inoltre notava nella scrivania tantissimi fogli scritti la notte precedente.
A causa di tutti quei sigari, Freud soffriva spesso di mal di testa e per la vita sedentaria che conduceva soffriva di forte stitichezza – racconta la governante – e aveva anche una noiosa infiammazione intestinale, il che gli comportava una certa difficoltà nella digestione. Il professore, tuttavia, malgrado questo era un gran mangiatore di funghi.
Freud era un lettore accanito di romanzi gialli. Di solito, egli, per distrarsi, leggeva un giallo in una serata. Paula li trovava ovunque quei libri, sul comodino del professore, nella sua scrivania, sulla tavola da pranzo. La cameriera affermò che sia Martha che Minna accudivano Freud come un bambino e che il matrimonio del professore era tranquillo ma non felice. Paula riferì che dietro una maschera di tranquilla convivenza, tra Martha e Minna scoppiavano, soffocati appena, forti contrasti, tensioni e gelosie.
L’uomo che enunciava al mondo teorie sovversive e non convenzionali, era, in privato, una persona convenzionale e borghese. Alla moglie Martha, Freud non confidava le sue scoperte. La signora Freud aveva un’istruzione appena sufficiente e nessuna passione per la ricerca psicologica. Sigmund illustrava invece alla cognata Minna le sue ricerche. Tra i due s’era formato quel feeling intellettuale che Freud non aveva con la moglie, la quale preferiva restare una casalinga. si ritiene che l’intesa, tra Sigmund e la cognata, sia rimasta di carattere affettivo e culturale, e non sia andata oltre. Tuttavia, secondo la governate Paula Fichtl la sintonia che esisteva tra i due cognati infastidiva la signora Freud, anche perché Minna, diceva Paula aveva nei confronti della sorella un atteggiamento sprezzante, brusco e permaloso.
Martha confessò a Marie Bonaparte di essere sorpresa nel conoscere quali fossero gli studi intrapresi da suo marito, in particolare modo era meravigliata di quelli sulla sessualità, sul complesso d’Edipo, sulle pulsioni dell’infanzia, che le sembravano discorsi quasi pornografici piuttosto che disquisizioni scientifiche. L’argomento della sessualità, nella prima parte del Novecento, scandalizzava la gente comune. A causa del moralismo bigotto, si impediva la libera ricerca in materia sessuale. L’opinione di Martha era quella comune della borghesia. Il Procuratore Generale di Vienna mise sotto accusa un redattore di una rivista viennese perché pubblicò una articolo di Wilhelm Reich sull’educazione sessuale. Anche Darwin scandalizzò tutti, fu beffeggiato e dileggiato, soprattutto dalla Curia. Solo la scoperta della genetica e del Dna ha dato credito alle sue teorie. In quanto a Freud, forse sarà difficile che le sue teorie possano avere una riprova neurofisiologica. Ma ciò non significa che siano infondate.
Freud ebbe una vita densa di soddisfazioni, ma anche cosparsa di critiche. Molti neurologi biasimarono i suoi riferimenti alla sessualità, in particolare quella infantile, e non accettarono la “leggerezza” con la quale egli affermava che il suo metodo andava bene per tutti i disturbi.
Quello che andava scoprendo Freud contrastava con il pensiero, il costume e la morale dei suoi tempi: egli infatti aveva percepito che molti dei sintomi nevrotici avevano origine dalla sessualità repressa e ciò disturbava “il perbenismo” della sua epoca.
Le persone che lo circondavano, i suoi amici, Martha e lui stesso erano stati allevati con i criteri rigidi e severi della borghesia e Freud si impegnò per opporsi alla mentalità nella quale era cresciuto, e lo fece però senza assumere atteggiamenti ribelli. Egli era solito affermare che contro i pregiudizi non c’è nulla da fare e che la cosa più saggia è lasciare che il tempo li sgretoli.
Infatti – diceva – un giorno la gente, sulle medesime cose che ora ritiene riprovevoli avrà un’opinione diversa da quella attuale, più confacente e più ragionevole; ma perché non l’abbia avuta prima è un mistero.
Freud era tuttavia scettico sulla possibilità che le persone fossero desiderose di conoscersi, essere più consapevoli del proprio stato psichico e sentissero la necessità di migliorare il proprio modo di pensare. Paradossalmente, però, dietro questo pessimismo, c’era l’audacia del ricercatore convinto che le sue “scoperte” potessero aiutare il mondo. Freud ebbe il coraggio di manifestare le proprie idee senza tentennamenti, avversando le credenze della borghesia, le affermazioni della religione, le moraleggianti e ipocrite convinzioni dei bigotti. Le sue enunciazioni lo misero in conflitto non solo con la gente comune ma anche col mondo accademico.
Ma al di là dei giudizi negativi, con i quali è stata valutata o osteggiata l’opera freudiana, al medico viennese sia pur “borghese” non si può negare il coraggio e la determinazione nel formulare tesi che misero a soqquadro gli ambienti medici e culturali d’Europa.
Freud aveva un carattere complesso e contraddittorio: da un lato subiva come quelli del suo tempo la bigotta pressione sociale, dall’altro cercava di invalidarla e sbarazzarsene. Ma pur essendo convinto della necessità di una vita sessuale libera, egli – come scrisse all’amico Putman, – fece poco o niente uso per sé di tale libertà. Non solo, ma, arrivato a quaranta anni, confessò che la sua vita sessuale era bella e finita.
Avvio della terapia psicoanalitica
Tappa importante sulla nascita del metodo analitico fu la conoscenza con Josef Breuer. Il dottor Breuer aveva 14 anni più di Freud e maggiore esperienza terapeutica. La storia della paziente di Breuer, Anna O. aveva interessato Freud. Breuer aveva scoperto che i sintomi della sua assistita scomparivano se la spingeva a parlare dei propri problemi. Questa esperienza aveva portato Breuer e Freud a distinguere gli atti consci da quelli inconsci e a intuire che dietro i sintomi isterici si nascondessero problemi di carattere sessuale. Un giorno Anna O. dichiarò a Breuer di essere invaghita di lui, udendo quella confessione, il terapeuta inorridì spaventato per le conseguenze andò via da Vienna, incaricando Freud di continuare la terapia alla signora. Lo studio della sessualità e le scoperte di Freud ricavate durante le analisi dei suoi pazienti, scuoterono le coscienze, perché portavano alla luce verità “scomode”.
Freud propagandava idee che la gente riteneva improbabili, ma che, secondo lui avrebbero dovuto “rendere migliore l’uomo”.
Freud si rese conto, facendo parlare i pazienti ed ascoltandoli empaticamente che quella prassi terapeutica era utile. Gnoti seauton, era stato l’insegnamento di Socrate: cioè conosci te stesso, se vuoi migliorare. E così Freud facendo parlare i suoi clienti li “portava” a capirsi e, di conseguenza, a migliorare il proprio stato mentale.
Egli prese l’abitudine di riceverle il malato per 5O minuti, poi si prendeva una pausa tra un cliente e l’altro. Freud incontrava i pazienti cinque o sei volte la settimana; li seguiva per alcune settimane, per qualche mese o per un anno.
I primi pazienti che lo conoscevano da poco tempo, poiché Freud stava seduto alle loro spalle zitto ad ascoltare, si chiedevano se talvolta egli non s’addormentasse! Freud aveva teorizzato la proceduta dell’analisi, ma lui aveva un suo modo di condurre l’analisi, a volte diverso da quello da egli stesso formulato. Sebbene esortasse i suoi discepoli a non avere alcun contatto con i pazienti, se non quello strettamente professionale (sconsigliava persino il saluto con la stretta di mano, per non mandare messaggi subliminali al paziente e non riceverne) egli manteneva a volte rapporti d’amicizia con i suoi assistiti, e alcuni li invitava persino a pranzo. Nonostante avesse prescritto che la terapia doveva svolgersi in un ambiente al di fuori delle distrazioni, con il paziente nel sofà e il terapeuta dietro di lui, per non renderlo disattento o influenzarlo, egli invece era solito tenere accanto a sé il suo affezionatissimo cane, che stava accucciato ai suoi piedi durante le sedute e talvolta abbaiava. Freud così contraddiceva le esortazioni che egli aveva fatto ai suoi allievi di non far interferire nulla durante l’analisi.
Altra violazione Freud l’attuava, quando, stanco di stare seduto, proponeva all’ultimo cliente della giornata di fare analisi, passeggiando con lui lungo il Ring, la strada principale di Vienna. E violava le regole concedendo sedute terapeutiche a parenti e amici. Per quanto avesse escluso che fosse possibile curare persone con le quali si è in intimità, Freud prese in cura amici, ed ebbe persino come paziente sua figlia Anna. Anche Anna seguendo le violazioni paterne, analizzò amici e parenti, e in particolare i figli della prediletta amica Dorothy Burlingham.
Lungi dall’essere ”neutrale” come prescriveva che doveva essere lo psicoanalista, Freud non esitava a mettersi in causa personalmente, a fare riflessioni personalizzate, a indirizzare il paziente a fare o non fare qualcosa, a dare incoraggiamenti e a fare piccoli doni ai suoi analizzati. A volte, per spiegare un sogno o una frase, utilizzava anche qualche motto di spirito.
Anche gli allievi di Freud trasgredirono le regole della psicoanalisi. Reich sposò una sua ex paziente, Annie Pinck, ma il loro matrimonio che finì presto. Rado sposò Emmy, una sua paziente e il mar8monio riuscì bene. Ferenczi intratteneva rapporti molto affettuosi con i suoi pazienti, e quando Freud lo seppe andò su tutte le furie.
La Scuola viennese
A Vienna Freud realizzò una scuola di psicologia attiva culturalmente e intellettualmente vivace. Ebbe molti allievi: psichiatri, medici, o semplicemente spontanei cultori della psicologia, scrittori e scrittrici, come Mary Bonaparte e Lou Salomè. Agli inizi Freud non pensò di prescrivere una analisi didattica agli allievi che si sarebbero dedicati alla psicoanalisi terapeutica. Solo anni dopo fu messa in uso questa prassi, ritenendola necessaria per un migliore svolgimento della terapia. Molti dei suoi allievi non erano medici, alcuni nemmeno laureati, tuttavia erano intellettuali di ampia sensibilità, di grande cultura e desiderosi di studiare la psiche umana.
Lou Salomè nel libro I miei anni con Freud, racconta di avere assistito alle lezioni di Freud nell’aula di psichiatria di Vienna, in un clima di rispetto e di grande interesse culturale. La Salomè ricorda che c’era grande collaborazione tra gli studenti i quali, spesso, dopo le lezioni andavano in una trattoria, l’Alte Ester, a discutere animatamente delle novità apprese da Freud. Altre riunioni interessanti le serate di dibattito a casa Freud, alle quali partecipavano i più fedeli discepoli del maestro.
Il carisma del maestro era forte, tanto che egli a poco a poco non accettò più critiche dai suoi allievi. Con alcuni, Ferenczi, Jung, Adler, Rado, Reich, Rank litigò e li allontanò dalla sua associazione. Stekel diede le dimissioni.
Tra gli allievi sorsero odi, gelosie, inimicizie. Jung e Abraham non avevano alcuna simpatia l’uno per l’altro. Reich, fu osteggiato non solo dagli psichiatri e dai neurologi ma anche dai suoi colleghi psicoanalisti per le sue teorie sulla sessualità. Contro costoro Reich scrisse che avversavano le sue idee sia perché ipocriti, sia perché disturbati nel campo della sessualità. Reich accusò i suoi detrattori di non poter sopportare la naturalità della sessualità, perché le loro strutture psichiche erano distorte dal moralismo borghese. Tuttavia, sosteneva Reich, essi inconsciamente subivano il fascino della sessualità. Per avvalorare la sua testi raccontò che durante un contesso di psicoanalisti a Lucerna, quando in sale comparve la sua seconda moglie, Elsa Lindenberg, tutti gli analisti corsero verso di lei “come maschi affamati” cercando di conquistarla. Solo quando seppero che era la moglie di un loro collega, Wilhelm Reich essi “batterono in ritirata”.
Adler iniziò per conto suo una serie di riunioni fuori dalla cerchia degli allievi di Freud. Saputolo, Freud mandò una lettera ai suoi allievi e simpatizzanti,chiedendo di sceglie tra le sue lezioni e quelle di Adler. Freud non vedendo Lou Salomé ad una sua lezione, le scrisse un biglietto, rammaricandosi di non averla avuta tra l’uditorio quella sera, e chiedendole se per caso non fosse andata da Adler.
La Società Psicoanalitica avrebbe dovuto essere una tranquilla scuola di psicologi invece fu traversata da tensioni, gelosie, defezioni e critiche, e persino da gravi disturbi personali dei suoi membri. Si suicidarono Honegger, Otto Gross, Victor Tausk, Ernst Feischl. Otto Rank divenne pazzo, e Ferenczi ebbe gravi defaillance psichiche.
Tutto ciò, assieme ai contrasti con i suoi allievi, addolorò profondamente il professor Freud il quale, per due volte, a causa di atroci arrabbiature, svenne dopo scontri con Jung.
La prima volta accadde nel 1909, a Brema: i due erano a pranzo, e Jung si dilungo a raccontare storie di cadaveri e di mummie, argomento che diede ai nervi a Freud, il quale si arrabbiò esageratamente e svenne. Quando si riprese, il professore giustificò il suo mancamento affermando che aveva ritenuto l’insistente parlare di cadaveri di Jung,come se l’espressione di un desiderio inconscio di morte formulato indirettamente dal suo allievo per lui.
Il secondo svenimento avvenne tre anni dopo, ancora a causa di Jung,il quale senza tatto, aveva evidenziato, in una lettera al maestro, di avere osservato in lui alcuni tratti nevrotici di cui era portatore.
Quando i due, qualche tempo dopo, si rividero a Monaco, per un meeting, mentre Abraham, Jones, Riklin, e altri psicoanalisti del circolo freudiano, si attardarono nella sala da pranzo, Freud e Jung si appartarono per dirimere la querelle sorta quando Sigmund era andato a Zurigo, per incontrare Ludwig Binswanger, senza avere visitato anche l’allievo prediletto, C. G. Jung, il quale, risentito per essere stato trascurato dal maestro, lo aveva apostrofato pieno di rancore.
Freud. cercò di spiegare a Jung che non era andato a trovarlo non per scortesia, ma perché aveva fretta di tornare a Vienna. Sorse un battibecco tra i due. Quando Freud tornò assieme a Jung tra gli altri apparve molto nervoso. Poco dopo riprese il simposio. Freud, ancora su di giri per l’episodio precedente, entrò in contrasto con Jung e Riklin e li rimproverò di avere divulgato alcuni articoli senza avere accennato al suo nome.
Jung replicò dicendo che non gli era sembrato necessario apporre il suo nome, considerato quanto egli fosse conosciuto. A quel punto, Freud, tra l’imbarazzo e lo sbigottimento generale, svenne.
Questi due episodi non mettono in dubbio le qualità del grande scienziato e sottolineano che qualsiasi individuo è esposto a forti emozioni, e che i danni dello stress non possono essere evitati, nemmeno se si è un personaggio della levatura di Sigmund Freud.
Freud sapeva comprendere l’animo umano, sapeva riconoscere i propri limiti e non era “al di sopra delle emozioni”.
Avvertendo la propria fragilità emotiva, non solo, come s’è detto, fece autoanalisi, ma fece psicoterapia col suo amico Fliess, al quale inviava lettere nelle quali – col metodo delle libere associazioni – confessava debolezze, ingorghi psichici e angosce. Con Fliess di tanto in tanto s’incontravano ( Fliess viveva in Germania e lui in Austria) e discutevano “il caso Sigmund Freud”.
Freud non affermò mai di essere immune da turbe dell’emotività; e del resto come avrebbe potuto? I suoi discepoli conoscevano tra l’altro la paura del maestro di fare lunghi viaggi in treno. La visita a Roma e quella ad Atene Freud le rimandò per decenni, angosciato al pensiero di salire su un vagone ferroviario.
Quando a quarantacinque anni realizzò il sogno di vedere Roma, l’”escursione” assunse per lui il significato di una liberazione dalle inibizioni interiori. Tre anni dopo, ad Atene Freud, forse ancora non del tutto rasserenato, ebbe un disturbo della memoria prodotto da una violenta reazione emotiva.
Queste defaillance non tolgono a Freud il merito di essere stato un grande “lettore” dell’animo umano, nei cui interstizi egli scoprì ingorghi e trame che risalgono all’infanzia.
A parte questi scossoni dovuti agli inevitabili contrasti all’interno della Associazione psicoanalitica, la vita di Freud a Vienna scorse serenamente fin quando la Germania non invase l’Austria. A quel punto Freud dovette fuggire a Londra, prima che venisse arrestato dalle SS. Ma si sentiva colpevole perché era fuggito in Inghilterra lasciando a Vienna le sue sorelle, Marie, Dolfi, Rosa e Pauline. E non era immotivata la sua apprensione. Quelle poverette lasciate in Austria nel presupposto che nessuno le avrebbe toccato data la loro età avanzata. Invece furono deportate e uccise nei campi di sterminio. Questo Freud non lo seppe: era già morto da qualche anno quando giunse la ferale notizia dell’eccidio delle sue sorelle.
Nel periodo londinese, il cancro alla mascella, che da anni angustiava lo psichiatra, peggiorò, e grande dolore per Freud fu sapere che le sue opere erano state messe al bando dai nazisti e bruciate, e non solo perché era ebreo, ma perché contrastavano con la filosofia hitleriana. Ormai lo psichiatra viennese era vecchio e stanco. Nell’anno trascorso nella capitale inglese prima della morte, fu amorevolmente aiutato dalla figlia Anna affiancata dalla sua compagna, la signora newyorkese Dorothy Tiffany Burlingham, ex paziente di Sigmund Freud, ormai in pianta stabile a casa Freud. Dell’intima amicizia tra le due donne restano centinaia di lettere.
Dopo la morte di Sigmund, Martha, Minna e la fedele domestica Paula Fichtl assieme ad Anna rimasero nella casa londinese. Il dolore di Martha fu tale che la signora non uscì più dalla stanza, e nemmeno Minna si fece più vedere in giro per casa. Morto Freud, Dorothy spinse Anna a fare assieme un viaggio in macchina nell’Inghilterra, per scaricare la tensione accumulata in quel triste periodo. Dopo il viaggio, Anna riprese le analisi reagendo al grave lutto che “aveva distrutto la sua vita”. Dopo la morte del padre, Anna si identificò sempre più in lui, e ne copiò persino la calligrafia e il modo di firmare! Nel 1952 morì Martha, ma Anna non provò il dolore che ebbe per il padre.
Paula raccontò che dopo la morte della madre Anna sembrava meno austera, meno ascetica e persino “più frivola”. Si dedicava al passatempo preferito, la tessitura, e faceva scialli, pullover, tovaglie, corredati dall’etichetta “Hand- made by Anna Freud” .
Anna aveva fama di grande psicanalista. Nel 1956 Marilyn Monroe le chiese delle sedute terapeutiche. L’attrice era in Inghilterra per le riprese del film “Il principe e la ballerina” e come le accadeva spesso era sull’orlo di un collasso di nervi.
La sua psichiatra, Marianne Kris, le aveva consigliato di fare delle sedute con la figlia di Freud. E così, per qualche settimana Marilyn disertò il set cinematografico per dedicarsi alla cura psicoanalitica.
La terapia di Anna ebbe un certo successo, anche se temporaneo, e l’attrice tornò a recitare. Quando rientrò in America, Marilyn, seguendo l’esortazione di Anna, riprese l’analisi con Greenson, psicoanalista formatosi alla scuola di Freud.
Dei figli di Freud, Martin, Mathilde, Oliver ed Ernst morirono negli anni settanta del ‘900. Sophie era morta nel 1920 stroncata dall’influenza detta la Spagnola. Anna invece morì dopo un attacco apoplettico alla fine del 1982, durante il sonno.
CIÒ CHE È RIMASTO VALIDO DEL PENSIERO DI FREUD
La psicoterapia ha origini remote.
Non fu Freud ad inventare la psicoterapia. La psicoterapia ha origini antiche. Duemila e cinquecento anni addietro Socrate, spingeva la gente a conoscere se stessa. Il sofista Antifonte intuì che la decifrazione dei sogni poteva chiarire i motivi e le preoccupazioni dell’animo. Platone, per scaricare la tensione sollecitava la catarsi psichica mediante la parola.
È difficile giudicare se la psicoterapia è un’arte medica o un procedimento filosofico – culturale. Ad ogni buon conto quando il trattamento psicoterapeutico riesce, la mente e il corpo ricevono un profondo benessere. Il malato vedrà attenuare i propri disturbi emotivi e le sofferenze psicofisiche.
Ansie, paure, frustrazioni, ostilità, autorimproveri fanno parte del bagaglio quotidiano della persona “normale”. Per distinguere questi disagi dalla vera e propria patologia psichica si deve procedere ad una diagnosi differenziata che distingua il disagio temporaneo dalle turbe psichiche la cui gravità rendere angosciosa la vita.
C’è differenza di livello tra lo sgomento di chi si trova in un aereo in difficoltà e un individuo colto dal terrore quando entra in ascensore. La paura di trovarsi davanti a un leone è ben diversa dal terrore per un ragnetto o uno scarafaggio.
Purtroppo però il disagio psichico è frainteso e sottovalutato persino da chi ne è portatore.
Freud ebbe l’intuito di capire che anche qualità sociali apprezzabili a volte nascondono psicopatologie
Una meticolosità ossessionante, una esagerata cura del corpo, la smodata pulizia, l’apprensione sproporzionata, la bontà che si avvicina alla sottomissione, l’accondiscendenza senza riserve, l’accentuato bisogno di contenere la propria aggressività, la pudicizia strabocchevole possono essere anche generate da angosce e ostacoli emotivi E non sono da considerate prerogative meritevoli, ma patologie vere e proprie. La meticolosità può derivare dalla paura di decidere, il bisogno esagerato di pulizia e la pudicizia accentuata nascondono paure inconfessate come il “sentirsi sporco moralmente”. In quanto all’accondiscendenza supina, essa può nascondere un complesso d’inferiorità, e dietro la bontà senza distinzioni si può celare il timore degli altri, l’eccessivo bisogno di compagnia può essere angoscia di solitudine, o necessità di farsi perdonare.
Non riuscire a fronteggiare la vita, sentirsi isolato, indeciso, non riuscire ad amare e a farsi amare, angustiarsi più del giusto, sentire la necessità ossessiva di affermare il proprio Io, sperare sempre di “fare bella figura”; essere cavillosi e perfezionisti, la continua preoccupazione di sbagliare, l’incapacità di adattamento, il non rendersi conto che idee e comportamenti formano un corazza di manie, il ripetere ossessivo di rituali, sono tratti di personalità che rendono la quotidianità sgradevole e impediscono una migliore qualità della vita.
Chiunque può aver paura di cambiare consuetudini e convinzioni. Freud comprese che il malato puntella l’instabile struttura del propria personalità rimanendo aggrappato a tabù e luoghi comuni, sebbene gli producano emotività e angoscia perché non è semplice mutare la propria prospettiva mentale, sociale e culturale.
Questa difficoltà a cambiare “registro mentale” impedisce di modificare le prospettive, i comportamenti e le vecchie convinzioni che sbarrano il passo alla guarigione.
Freud trovò che nei comportamenti quotidiani vi si nasconde una strisciante psicopatologia e che vi sono verità nascoste nel profondo della psiche che non vengono a galla.
Decifrare la psicopatologia della vita quotidiana porta a comprendere meglio l’individuo. Anche la sbadataggine, afferma Freud, può essere utilizzata per mettere in opera una quantità di atti inconsci. Egli scrisse: «Qualche ora prima mia sorella era entrata nel mio studio per vedere alcuni nuovi acquisti che avevo fatti. Li aveva trovati di ottimo gusto e aveva detto: “Ora il tuo studio è proprio bene arredato, solo il calamaio non si accorda con il resto. Te ne occorre uno più bello”». Qualche ora dopo Freud, con un movimento brusco ruppe “senza volerlo” il calamaio. In realtà egli afferma: «il mio movimento era maldestro solo in apparenza: il realtà era molto abile, e ben indirizzato al suo fine: infatti avevo risparmiato tutti gli oggetti che si trovavano lì intorno e avevo giustiziato il mio modesto calamaio…»
Vi è qualche somiglianza o evidente contrasto tra una parola della frase che non si vuol pronunziare con un’altra parola che di fatto si pronunzia perché è quella che “realmente” si vuole dire e che è di segno opposto. Nell’agosto del 1900, alla Camera dei Deputati austriaca, racconta Freud, il presidente Meringer fu costretto, senza che ne avesse voglia, a indire un’ultima seduta prima delle ferie, e aprì il consesso in questo modo: «Signori constato la presenza di tanti deputati, per ciò dichiaro la seduta “chiusa”». L’ilarità generale l’avverti di quell’errore ed egli si corresse prontamente.
In “Psicopatologia della vita quotidiana”, Freud riferisce un lapsus di suo zio che ce l’aveva con i nipoti perché da alcuni mesi non andavano a trovarlo. “Veniamo a sapere che ha cambiato appartamento ed approfittiamo dell’occasione per fargli una visita. Egli sembra contento di vederci, e quando ci congediamo da lui ci dice in modo affettuoso: “D’ora in poi spero di vedervi più raramente che in precedenza…».
Anche lo smarrimento, la distruzione o la dimenticanza di un oggetto sono espressione di una controvolontà repressa» «così come certi atti in apparenza non-intenzionali si rivelano ad una analisi più profonda, perfettamente motivati e determinati da elementi che sfuggono alla coscienza.
Sovvertendo le convinzioni di una società pigra ,convenzionale e a misura di adulti, constatò che proprio l’adulto, con le sue insicurezze, le sue manie, le sue titubanze e le sue paure “dipende” dal bambino che è in lui. Quanti adulti, infatti, sono portatori di aberrazioni infantili!
Freud ha scoperto che molti comportamenti nascono da ragioni del tutto diverse da quelle apparenti e che dietro i malanni dell’animo, e gli intoppi della psiche, sono attivi antichi nodi irrisolti nell’infanzia, grovigli che emergono sotto altre sembianze, senza che il soggetto se ne renda conto, ma che gli rendono la vita pervasa da angosce e contraddizioni.
Se la vita adulta è in stretta conseguenza con quella vissuta nell’infanzia e nell’adolescenza, i problemi psichici che si presentano in età adulta dipendono proprio dai primi periodi della vita. Le nevrosi pertanto hanno come presupposto una adolescenza densa di problemi irrisolti. Nel retrobottega della mente, nella preistoria personale, si possono trovare i veri motivi che determinano la condotta dell’adulto, le sue convinzioni, i suoi umori e malumori.
Freud cambiò l’intervento del medico verso il malato psichico. Egli non s’avventurava più, come facevano un tempo gli psichiatri, precorrendo la diagnosi e presumendo a priori le cause dei malesseri; egli si predisponeva a capire ciò che “l’altro rimuginava dentro di sé“ aiutandolo ad individuare le motivazioni alla base dei propri malesseri psichici ed esistenziali. Mediante l’ascolto delle “confessioni del paziente” il medico partecipa attivamente con esso, a tale ricerca. Ma a mano a mano che s’addentrava nella terapia psicoanalitica si rendeva conto che l’approfondimento delle motivazioni inconsce che producono i malesseri psichici è reso difficile proprio dall’atteggiamento del malato, il quale sfuggendo al principio di realtà, formula ipotesi non pertinenti, ritenendole assolutamente valide, per non guardare realisticamente dentro di sé.
In passato il terapeuta si comportava in accordo col paziente, invitandolo a “nascondere” e a “dimenticare” problemi e angosce: “Non ci pensi” “Si distragga” “Si vada a divertire” erano i suggerimenti del medico. Ma erano esortazioni inutili, chi sta male non cerca di divertirsi; chi si diverte vuol dire che sta bene!
Freud cambiò strategia: “Lei sta male? Vediamo perché, cerchiamo i motivi di questo suo disagio, approfondiamo il retroscena della sua nevrosi…”
Freud riuscì a individuare i meccanismi della psiche dimostrando che non sempre ciò che si nasconde dietro il pensiero “cosciente” è facilmente decifrabile, e non sempre quello che pensiamo ha il significato che gli attribuiamo. Il pensiero cosciente deve essere interpretato decodificando motivazioni e intenzioni,. Freud ha insegnato che bisogna mettere in discussione tutto della propria vita, delle proprie convinzioni, e rivedere atteggiamenti, gesti, idee perché dietro una frase, un comportamento, un modo di fare si nascondono disegni inconsci. Partendo da questa convinzione egli affermò che dietro la coscienza “lavora” un’altra facoltà mentale di cui non ci rendiamo conto, e che chiamò inconscio.
Questa attività mentale è celata alla coscienza e tuttavia influisce sui nostri comportamenti, impone stati d’animo di cui ignoriamo le ragioni. L’inconscio è un sistema autonomo con regole e parametri diversi da quelli della coscienza: non si attiene alla sequenza temporale, non sottostà alle leggi della causalità, tollera contraddizioni logiche, scambia il desiderio ipotetico con la realtà. Questa “facoltà psichica nascosta” è difficile da comprendere, e tiene in serbo pensieri, emozioni, verità poco piacevoli.
Quali mali Freud e cercò di guarire? L’isteria fu la malattia sociale dell’800. Venne studiata nel teatro della Salpietriere di Charcot. Fu una patologia culturale prodotta dalla borghesia ottocentesca, così come l’anoressia e la depressione sono malattie culturali dell’Occidente attuale. Ai tempi di Freud come ora l’espressione del disagio esistenziale e dell’angoscia ha preso le forme esteriori della corporalità. Il malato isterico somatizzava l’ansia, oggi la sofferenza psichica si manifesta tramite l’anoressia la bulimia o la afflizione fisico-culturale che appare come mancanza di forza fisica e morale: la de-PRESSIONE.
Altre manifestazioni patologiche affrontate della psicoanalisi: stati d’ansia e d’angoscia, perturbazioni del carattere e deI comportamento, impotenza a carattere psicologico, disturbi gastro-intestinali di origine nervosa, fobie, turbamenti del tono dell’umorale e dell’affettività, disagi e tensioni che rendono la vita infernale. L’intervento psicoanalitico – diceva Freud – ha lo scopo principale di dare una visione realistica della vita e dei disturbi.
In uno scritto “modi tipici di ammalarsi nervosamente” Freud ipotizza alcune cause della malattia psichica, tra esse le più importanti : la frustrazione dovuta alle limitazioni imposte dalla società. In questo caso dice Freud l’individuo si ammala a causa dell’esperienza negativa di vita e della incapacità ad adattarsi e a fronteggiare i disagi.
L’altro caso è dovuto ad uno smottamento inconscio, causato da problemi iniziati nell’infanzia e mai risolti. L’accumulo della libido non esternata crea un conflitto interiore, angosce e si muta in nevrosi.
In un primo periodo Freud utilizzò, come Charcot e come Breuer l’ipnosi per guarire i mali psichici.
Egli era convinto della prodigiosa influenza della parola e poiché l’ipnotizzato era reso arrendevole, l’ipnotizzatore aveva quasi una illimitata possibilità di trasmettergli suggerimenti e convincimenti che gli facevano abbandonare i sintomi del male che lo angustiava.
Il caso della signora Emmy von N. è riportato da Freud come esempio di guarigione sotto ipnosi: egli si era servito di questo metodo per impartirle suggestioni “benefiche” e terapeutiche e per indagare sull’origine dei suoi sintomi.
Fino al 1892 Freud utilizzò questo metodo, contestato però da altri studiosi. In seguito dovette constatare che c’erano pazienti refrattari all’ipnosi, o del tutto indisponibili a farsi ipnotizzare. Si rese conto inoltre che i pazienti, dopo avere espresso i propri problemi in stato di trance non ricordavano nulla e non potevano prendere coscienza di ciò che li assillava; di conseguenza non potevano eliminare in maniera consapevole le proprie ferite psicologiche.
Essi erano “liberati” dalle angosce fino a che durava l’effetto dell’ipnosi. Lo psichiatra viennese doveva costatare erano facili le ricadute, perché non erano state eliminati “con un dialogo consapevole “ le cause dei malesseri psichici.
A quel punto Freud “inventò” un metodo che ritenne idoneo a penetrare l’animo umano, anche quando il paziente per paura di capire i propri problemi, “difende”la propria privacy. Il metodo era far parlare il paziente in assoluta e libera associazione di idee.
Lo psichiatra viennese invitava i pazienti a distendersi in un sofà, e a parlare a ruota libera, senza un progetto, senza filo conduttore, senza una disegno preciso. Parlare senza inibizioni, senza reticenze. L’analisi è una sorta di labirinto. Il paziente si dispone a percorrere gli anfratti della propria mente assieme al terapeuta, finendo a volte in vicoli ciechi, a volte scoprendo cose importanti, a volte perdendo l’orientamento, a volte risolvendo definitivamente qualche problema.
A tale procedura Freud affiancò l’analisi dei sogni. L’analista si accomodava alle spalle del paziente, perché l’altro fosse più libero di parlare e non inibirsi. In realtà Freud confessò all’amico Fliess che aveva scelto quella prassi perché non sopportava per otto ore al giorno
( quelle che dedicava alle sedute) che ci fosse qualcuno che lo guardava intensamente.
Il metodo delle libere associazioni, “letto” con astuzia dal terapeuta, gli consente di trovare tra le righe i messaggi inconsci del paziente. L’analisi dei significati reconditi della narrazione del paziente, assieme all’analisi dei sogni, si rivelò proficua. La cura di Freud, nella Vienna di quel periodo, città perbenista, bigotta, e sessuofobia, fu l’ideale per il genere di malattie psichiche più comuni a quel tempo. Si trattava di pazienti che soffrivano a causa delle strettoie di un mondo asfittico, sessuofobico, incapace di libertà.
Freud era uomo di perspicacia psicologica e riusciva a intuire ciò che accadeva nel “profondo” dei suoi pazienti, analizzando le loro parole, i loro gesti, i loro comportamenti ciò che di ansiogeno, angoscioso e perturbante c’era in loro. Un materiale dannosamente radicato nell’inconscio, che i pazienti non volevano portare alla luce. Questa riluttanza Freud chiamò resistenze.
Freud analizzò quei procedimenti della mente che falsificano la realtà. Tra questi individuò la proiezione con la quale il soggetto attribuisce agli altri sentimenti che invece gli sono propri; la razionalizzazione che convalida un’opinione non obbiettiva ma frutto di desiderio, di una paura. Il soggetto in altri termini ritiene vero ciò che è solo da lui desiderato come vero. La identificazione è una forma di alienazione-compensazione che si può verificare in soggetti particolarmente fragili psicologicamente: spesso ha origine da un’attrazione esercitata da persone famose o da persone che il soggetto ammira. Identificandosi con la persona che si apprezza, aumenta l’autostima di chi si identifica con essa, perché si convince di avere le stesse capacità che riscontra nel modello ammirato. C’è la ragazza si identifica con la diva; c’è l’individuo che si identifica con un personaggio sociale e copiandone i tratti, crede di “diventare” il personaggio sociale. C’è chi si identifica in un ruolo psicologico o sociale e lo vive come se fosse calato realmente nel ruolo desiderato. Entrare in un ruolo può essere una compensazione. (Un signore si mostra serioso perché ha paura di essere preso poco sul serio, o per timore di lasciarsi andare a scherzi e lazzi e rendersi ridicolo).
Con l’idealizzazione una persona viene trasfigurata, elevata ed esaltata, indipendentemente dal fatto che sia obbiettivamente così ammirevole.
La sublimazione è una risorsa della mente che sposta l’interesse da un campo “vietato” a uno che è accettato comunemente dalla società. L’essere umano abbandona, traspone o tacita un istinto ritenuto rozzo dalla società, dirigendolo e trasformandolo verso un fine sostitutivo. Può accadere però che una ossessiva cultura di rinunzia agli istinti finisca col “paralizzare” la spontaneità dell’individuo.
La terapia psicoanalitica non tenta di convincere il paziente ad agire o a pensare in determinati modi, quando nel togliere le resistenze e suggerire il metodo da utilizzare per pensare, ma non deve indicare cosa pensare. I grandi problemi della vita – ha scritto Jung – non si possono mai risolvere definitivamente. Ma si possono amministrare rendendoli il più possibile innocui.
Il terapeuta deve indurre il paziente a comprende il perché dei problemi esistenziali che lo affliggono, a imparare a capirsi. L’analisi evita la “paralisi” . lo stato d’animo negativo, rimuove gli impedimenti più gravi, facendo tornare il desiderio di vivere. L’analisi deve far pensare in modo nuovo e insegnare a non essere infelici per partito preso. Insegna ad imparare a godere delle piccole cose, a imparare ad amarsi e ad evitare di flagellarsi con inutili e dannosi sensi di colpa.
Lo psichiatra viennese riteneva che il malessere psicologico non ha solo radici nella personalità del singolo, ma dipende dalle relazioni con l’ambiente. Ciò fa sì che non è possibile guarire isolatamente i disturbi senza prendere in esame il contesto nel quale sono sorti.
La psicoanalisi non elimina i disagi psichici soffocando le idee ansiogene, né ritiene debba essere ignorato il substrato che provoca il disturbo. L’analisi deve aiutare a scoprire gli errori di comportamento e le idee inesatte che rendono invivibile la vita quotidiana.
La cura freudiana è incentrata sull’interpretazione della eziologia dei sintomi psichici, sulla valutazione degli effetti che le relazioni interpersonali hanno sul paziente, sull’esame dei tratti patogeni della società che hanno sviluppato nel paziente la nevrosi, e sugli errori pedagogici che hanno reso nevrotico il paziente.
L’intervento freudiano cerca inoltre di sviluppare un insight che faccia luce sui meccanismi che impediscono la guarigione. E ciò perché Freud rilevò che il paziente, contrariamente ai propri interessi, cerca di sviare le tracce sull’etiologia dei disturbi dei quali è afflitto.
Infatti, assieme al bisogno di guarire, il paziente tende più o meno consapevole a mascherare, per vergogna, per autolesionismo, per narcisismo i motivi patogeni che tormentano la sua psiche.
Non solo il silenzio in analisi ma l’eccessiva loquacità, sono strategie adottate dal paziente per evitare che siano decifrati i temi più angosciosi della sua vita. Messo di fronte ai motivi profondi delle proprie angosce, il paziente cerca di svicolare: troppo crudeli e orribili gli appaiono tali cause e crede più “comodo” non “cambiare” .
Vanificare questa strategia del malato è compito del terapeuta.
Freud, diceva Sartre, è una tappa obbligatoria nella meditazione umanistica moderna. Egli non solo ha rimesso in discussione le nozioni di normalità e di patologia indagando nei meandri della psiche umana senza veli e senza ipocrisie, ma ha cercato ragioni dove sembrava non ce ne fossero e ha scoperto che spesso ciò che si ritiene sano è invece patologico e viceversa.
Passando al vaglio i problemi i socio culturali della civiltà, Freud deprecò la guerra, e analizzò gli aspetti peculiari della nostra epoca e di quelle passate.
Insegnò che l’indagine psicoanalitica non serve solo ad affrontare lo studio delle “malattie del pensiero”, ma ad decifrare i significati inconsci della mitologia e della letteratura, colmando così la frattura tra psicopatologia e cultura, che è stata la lacuna intellettuale più insopportabile dei secoli precedenti .
Freud rilevò che le condizioni mentali che la psicoanalisi ritiene all’origine delle sofferenze dei pazienti, sono analoghi a quelli riportati nel teatro e nella letteratura e che, descritti nella dimensione artistica dagli autori, creano uno spettacolo che produce una interazione catartica.
L’idea di cambiamento che prova il paziente raccontando la sua vita, è simile alla catarsi avvertita dallo spettatore seguendo l’opera teatrale.
Il metodo di indagine psicoanalitico ha scosso consensi ed è applicato alla comprensione delle culture umane. La psicoanalisi, anche per vie indirette, è penetrata in misura notevole nella vita quotidiana, e anche chi la rifiuta, in qualche modo la utilizza senza rendersene conto.
I critici letterari prima di Freud avevano ritenuto i confini dei due mondi, quello letterario-filosofico e quello psichiatrico, separati, e non avevano considerato l’ipotesi di una sinergia tra psichiatrica e letteratura. Quando la psicoanalisi entrò a far parte della cultura occidentale, molti studiosi affrontarono la storia e la creazione artistica pure sotto l’aspetto psicoanalitico.
Alle riunioni della società psicoanalitica si discuteva anche di arte e di letteratura. Freud era convinto che non si potesse studiare la patologia mentale senza coinvolgere, per comprenderla meglio, la letteratura. Secondo lui l’acume nella ricerca dei disturbi dei malati, era pari alla finezza d’interpretazione e di critica delle opere della letteratura.
Capire le forze pulsionali della psiche – diceva – è un impegno alquanto simile alla comprensione della struttura e delle motivazioni consce e inconsce di un’opera letteraria. Freud cercò di decifrare la personalità di grandi artisti, e di scoprire i messaggi inconsci che emanano dalle loro opere. Poté così sottolineare il significato recondito che si trova in molte opere d’arte nonché le inquietudini dei loro autori.
Nel saggio Dostoevskij e il parricidio Freud trovò che la personalità dell’autore russo ha varie sfaccettature. Dostoevskij è scrittore, nevrotico, moralista e peccatore. Freud si chiese che rapporto ci fosse stato tra gli istinti criminosi dei suoi personaggi e l’autore stesso. Dovstoevskij era masochista, intollerante verso le persone amate, aveva tratti sadici, e questo quadro dell’uomo-autore si evinceva nelle e attraverso le sue opere.
A proposito del Mosé di Michelangelo, Freud, rifiutando le interpretazioni fatte dai critici, che vedevano nell’espressione di Mosé l’ira del condottiero che notava con orrore che la sua gente adorava il Vitello d’Oro, vide piuttosto l’uomo che domina le avversità, l’eroe che è in equilibrio tra il fuoco interiore e la colma esteriore.
In quanto alla passione troppo accentuata per il teatro, Freud afferma ne “I personaggi psicopatici sulla scena” che tanto più lo spettatore vive poco intensamente la propria vita, tanto più nulla accade d’interessante nella propria esistenza reale, tanto più affida alla letteratura i propri sogni e sposta l’aspirazione a vivere una vita intensa negli avvenimenti del palcoscenico.
L’autore e gli attori, facendo vivere allo spettatore una vicenda interessante gli permettono di trovare un riferimento col protagonista, e la sofferenza spirituale o la gioia eclatante prodotte dal racconto offrono un piacere catartico allo spettatore, il quale diventa un immaginario protagonista di fatti che nella vita reale non gli potrebbero mai accadere. Ma, dice Freud, ci sono dei limiti entro i quali l’autore deve giostrare per non turbare eccessivamente lo spettatore.
Ne L’uomo della sabbia di T. A Hoffmann, Freud decifrò l’angoscia infantile d’evirazione. Il ripugnante avvocato Coppelius altro non sarebbe, secondo Freud, che il padre castrante. Il “rimosso” di Hoffmann si espliciterebbe in quella narrazione.
Freud trovò Leonardo da Vinci un personaggio enigmatico, in lotta tra il desiderio di sapere e le inibizioni sociali di quel tempo. Leonardo sezionava di nascosto cadaveri per conoscere l’anatomia, ma inibito da pulsioni interiori e da divieti esterni, rifiutava la sessualità per placare i suoi contrasti. Egli era un osservatore poco propenso ad agire. Forse per questo anche non ebbe mai una donna, preferiva ritrarle, o forse egli non era portato verso la donna.
La indagine e l’interpretazione psicoanalitica, sviluppano la capacità di intendimento concreta della psicologia umana.
Freud vedeva nella narrazione che l’analizzato faceva all’analista, durante la seduta terapeutica, “un romanzo” da capire e decifrare, per mettere in luce gli interstizi più scuri della mente. In un certo senso – affermava Freud – l’analisi è una produzione letteraria, in quando procede per narrazioni, per riflessioni, e si svolge ora in forma di monologo, ora in forma di dialogo.
Se l’arte è, come è, in parte anche autobiografica, allora dalle opere non si possono leggere le motivazioni inconsce che hanno fatto l’opera, e anche la psicologia dell’autore.
La psicoanalisi ha anche stimolato opere che fanno esplicitamente riferimento alla follia, al suo modo di essere, di nascondersi, di propagandarsi. Il freudismo è ben visibile anche nei film, nel teatro, e persino nel giornalismo.
Otto Rank, riteneva la creazione artistica spunto di conflitti irrisolti dell’inconscio. L’arte egli diceva è recepita come godimento e piacere estetico, ma è anche proiezione di tensioni e affanni che riflettono quelli del mondo reale. Questa interpretazione si rifà a quella aristotelica della catarsi delle emozioni e dei sentimenti.
Catarsi significa, in greco, ‘ purificazione ‘, espulsione di umori patogeni o malsani. In passato vi era quella magica, dei riti sacrificali, delle iniziazioni misteriche o orfiche che permetterebbero all’uomo di uscire dalle sue ambasce ricorrenti.
A questo tipo di catarsi si rifà Platone quando, nel Fedone, auspica di per poter raggiungere ciò che più ardentemente l’uomo desidera e cioè la verità. La catarsi estetica di Aristotele è purificazione e può realizzarsi nell’arte. Nella tragedia greca lo spettatore vede obbiettivare fuori di sé le torbide passioni che confusamente si agitano nel profondo del suo animo e se ne libera con la catarsi.
Accade qualcosa di simile dalle “confessioni” provocate dagli psicanalisti. Però mentre nella tragedia classica è il fato protagonista nella concezione terapeutica sono la condizione umana e la società le cause dei problemi esistenziali.
Freud e il disagio della civilta’
Freud ha messo in luce il groviglio che è presente nella mente umana, con le contraddizioni tra l’apparire e l’essere, col miscuglio di autenticità e di menzogne che nascondono psicopatologie anche in ciò che può manifestarsi come “normalità”. Molta gente sembra aggressiva, ma perché è pavida. Chi vive immerso nel frastuono sociale, spesso lo fa per sfuggire alla solitudine, per paura di stare con se stesso. Stordendosi nella confusione evita la paura di “incontrarsi”. La persona sfrontata potrebbe nascondere (inconsciamente) la propria timidezza. Persino lavorare molto e nevroticamente può essere un motivo per stordirsi, per non pensare, per fuggire dal contatto con se stesso.
Nell’opera di Robert Stevenson, Lo strano caso del dr Jekyll e Mr Hyde, Hyde è rappresentata la parte oscura della natura umana, l’alter ego della coscienza; la metafora del “selvaggio in noi”. Il dottor Jekyll, rigetta la banale vita che conduce, e cerca di infrangere le regole, cerca la libertà entrando nei panni di Hyde.
Stevenson fa confessare a Jekyll : «Giorno dopo giorno mi avvicinai alla verità la cui scoperta doveva portarmi a un così spaventoso naufragio: che l’uomo non è uno, ma duplice, un agglomerato di svariate entità, incoerenti e indipendenti l’una dall’altra».
Questo proprio scoprì Freud: la natura umana contraddittoria, duplice. L’Io privato che non sempre va d’accordo con quello sociale e pubblico.
Si tratta dell’ambiguità dell’animo, della “doppia” verità, del contrasto tra l’essere e l’apparire. A volte, la persona non sa di avere “dentro” di sé un Mr Hyde.
Alcune forme di nevrosi, spiegò Freud, sono una ribellione all’oppressione sociale, all’ipocrisia che impone i tabù. Esse arrecano danno alla persona, facendo insorgere l’alienazione che è il dramma più sconvolgente dell’individuo. Per Sigmund Freud l’alienazione esiste perché la società impone una maschera comportamentale e filosofica che l’individuo è costretto ad accettare. Ciò può produrre la follia.
Certi comportamenti sono motivati da stimoli inconsci; ed è difficile essere obiettivi nel valutarli, soprattutto se riferiti a noi stessi: essi acquistano ai nostri occhi una normalità per noi assoluta, ma in realtà non è normalità ma patologia, affermò Freud.
L’alienazione – afferma Freud – c’è anche nell’infliggersi sofferenze come se avessimo delle colpe da espiare. Si tratta di fenomeni di autolesionismo volontario che rivelano il concorso di una intenzione inconscia di farsi male.
Molte azioni sono messaggi inconsci e non atti casuali: giocare con la catena dell’orologio, tormentarsi la barba, roteare il bastone che si ha in mano, scarabocchiare un pezzo di carta, impastare molliche di pane, tintinnare le monetine nelle tasche, tormentarsi gli abiti, tutti movimenti che hanno l’apparenza di giochi innocui e che con il trattamento psicoanalitico assumono un senso e un significato preciso.
Racconta lo psicoanalista Sandor Ferenczi che alla prima classe del liceo dovette recitare in pubblico una poesia. Una poesia che gli piaceva moltissimo e che avrebbe voluto aver scritto lui, ma quel giorno, in pubblico, dopo aver detto correttamente il titolo dell’opera, anziché pronunziare il nome dell’autore disse, aimé il suo, facendo ridere tutti.
Il disturbo è inattaccabile, se chi ce l’ha è restio a mettersi in discussione. Quando il disturbo rappresenta una reazione compensatoria, appagante, dalla quale trarre soddisfazione, il soggetto tende a “difenderlo”. Infatti tenta di allontanare l’idea della patologia psicologica e preferisce parlare di fatalità.
Bisogna poi accettare che esiste una aggressività, crudeltà, brutalità “naturale”. Il cervello dell’uomo, risultato dell’evoluzione di milioni di anni, è condizionato dagli elementi arcaici primitivi di cui l’umanità non si è liberata del tutto. Questo spiegherebbe la aggressività, la violenza, la prepotenza, l’egoismo che affiorano e che non fanno parte della civiltà, ma della preistoria dell’umanità.
Secondo P. D. McLean il cervello umano sarebbe formato da cervelli soprapposti, dei quali i primi sono retaggio dei rettili e dei mammiferi. L’ultima parte, la corteccia la più fine è quella dell’homus civilis.
Rita Levi Montalcini studiando l’architettura e la configurazione dei centri nervosi ha posto in rilievo nel cervello dell’uomo, l’esistenza di costellazioni nucleari interconnesse da circuiti nervosi non dissimili da quelle del cervello dei rettili. Certi comportamenti avrebbero origine nella zona più ancestrale del cervello, che resta la parte selvaggia fissata nel nostro patrimonio fisiologico. Una pulsione ancestrale incontrollabile a volte provoca la ferocia che si riscontra nell’essere umano.
Critiche alla psicoanalisi come terapia e le terapie recenti
All’inizio del Novecento, Charcot, Breuer e Freud curarono le nevrosi di conversione col metodo catartico. Mediante lo spontaneo richiamo alla mente del fatto penoso, precedentemente obliato, che aveva dato vita alla nevrosi, facendo rivivere questo ricordo nell’ambito di una relazione di transfert con l’analista, si libera il grumo psicologico con una specie di purificazione che espelle quel qualcosa di molesto che covava dentro. Il problema psichico affrontato da svegli nella seduta psicoterapeutica e non nella situazione ipnotica, sposta l’asse terapeutico alla comprensione del significato del trauma e alla sua eliminazione cosciente.
Questo metodo andò bene in un periodo in cui, a causa dell’educazione soffocante, si svilupparono nevrosi isteriche e di conversione. In questi casi, l’analisi ebbe successo.
Poi a mano a mano che cambiava la società, le convinzioni, il tipo d’educazione e che si approfondivano gli studi psichiatrici furono individuati e selezionati altri tipi di disturbi psichici, affatto dissimili dalla isteria, e si dovettero affrontare con metodi alquanto diversi dalla psicoanalisi che si dimostrava sempre meno efficace e in ogni caso lunga e dagli esiti incerti.
Freud chiamava analisi “interminabile” quando la terapia – per effetto delle resistenze del cliente – egli diceva – non andava a buon fine, e si prolungava oltre un ragionevole periodo.
Probabilmente in questi casi, non si trattava di una “colpa” del paziente, ma di una incapacità della cura a tamponare tutti i malanni della mente.
Ha detto scherzosamente Woody Allen: “Sono in analisi da undici anni e non sono guarito. Il mio analista mi ha data ancora un anno di tempo, e se non guarisco nemmeno allora, mi manderà a Lourdes”
La critica fondamentale nei confronti della psicoanalisi è che il metodo psicoanalitico è impossibile valutare con i parametri scientifici che caratterizzano le scienze naturali. Partendo da queste considerazioni, la psichiatria ha percorso altre strade per la cura dei disturbi psichici adottando anche tecniche miste, farmacologiche e psicoterapeutiche.
Secondo il positivismo, i prototipi della scienza sono la fisica e la matematica, perché gli eventi fisici e matematici sono verificabili, ripetibili quando si vuole e per ciò prevedibili.
Se lo si misura con questo tipo di approccio il metodo psicoanalitico è assolutamente a-scientifico. Lo stesso Freud tentò di far beneficiare alla psicoanalisi il prestigio scientifico, cercando di costruire una biopsicologia, ma alla fine egli commentò con delusione: non vedo alcuna possibilità di capire neurologicamente la differenza fondamentale tra processi coscienti e inconsci, che è ciò su cui ruota la psicoanalisi. Infatti è ben difficile che le tre istanze Es, Io, e Super-Io ipotizzate da Freud possono essere individuate neurologicamente come funzioni cerebrali. Alla luce della attuali ricerche neurologiche, oggi sappiamo che nel cervello non esiste una simile centrale operativa nella struttura della rete neuronale.
Tutto ciò che oggi si può dire, col processo della ricerca bioneurologica, che è verosimile che quando manca la coscienza, il cervello continui a funzionare. Con la perdita di coscienza prima del sonno non è fine dell’attività cerebrale, ma impossibilità di comunicazioni all’interno del cervello, tra le varie aree, e questa perdita di interconnessione tra le aree cerebrali, impedisce di attivare la coscienza.
Il cervello al momento che si isola nelle varie sue componenti perde “la visione generale”. Questo non significa che ogni area per conto suo non continui a “lavorare”. Si riacquista la coscienza al risveglio quando ritorna il contatto tra le varie aree.
Tuttavia, se si abbandona la aspettativa di trovare una base neurologica alle premesse psicoanalitiche, se si guarda la psicoanalisi come modello ermeneutico, (interpretativo) multifunzionale, se si utilizza la psicoanalisi come “scienza umanistica” o meglio come comprensione dell’umano, per analizza motivazioni e intenzionalità umane, allora non si deve rispondere nella maniera positivista “perché è stato causato un evento”, ma alla maniera psicologico-umanistica: “qual è la ragione per la quale la tale persona ha fatto la tal cosa”.
In questo caso interpretare la intenzione, la motivazione e la finalità di un pensiero o di atto di un soggetto o di una intera comunità, può dare un orientamento e chiarire punti di riferimento precisi.
Anche se Il procedimento psicoanalitico non ha la stessa garanzia scientifica della interpretazione di eventi fisici, esso presenta una funzionalità utile per instradarsi nella comprensione di fatti psichici. Se pur la lettura psicoanalitica della realtà, non ha il rigore scientifico della definizione positivista delle scienze fisiche, poiché si riferisce nell’ambito delle culture umane riesce a rendere leggibile, nella maggior parte dei casi, quella parte della psicologia umana ciò che prima di Freud non era comprensibile.
Fermo restando dunque le potenzialità teoriche della interpretazione delle sfaccettature della psiche umana, contrariamente a quello che pensava Freud, non tutti i malanni psichici possono essere risolti col metodo terapeutico psicoanalitico. Essi possono essere “capiti” dalla psicoanalisi, ma se il danno è neurofisiologico, la psicoanalisi è inefficace a gestire la terapia di questo genere di disturbi della mente.
La psichiatria moderna affronta il disturbo psichico come complesso polifunzionale, composto da elementi differenziati, non solo psicologici e storico-sociali, come formulato da Freud, ma neuro-fisiologici- genetici. La svolta della psichiatria contemporanea è considerare la malattia mentale non più solo espressione di un malessere spirituale-mentale, ma anche, e soprattutto, un disturbo neurofisiologico.
Le neuroscienze e la psichiatria ritengono che i processi psichici siano atti fisici e biochimici che avvengono nel cervello umano.
Inoltre, non si può ignorare che nel “contenitore” cervello esistono, latenti, comportamenti mentali ancestrali che provengono dall’essere primitivo. Modalità di reazione che possono restare inattive ed essere rimesse in funzione con una causa scatenante.
Per la comprensione della mente e del cervello però alle neuroscienze non guasta affiancare la visione esistenziale della psicoanalisi. Se la relazione mente-corpo non può essere affrontata prescindendo dalla neurofisiologia, non si possono ignorare le ‘spiegazioni psicoanalitiche sul significato di comportamenti, idee, sogni che sviluppano la comprensione dei comportamenti umani.
Se la parola non sempre riesce a guarire è la farmacologia che riduce l’angoscia. Ma il rimedio farmacologico non sempre può sostituisce in toto la terapia freudiana. Tuttavia la psicoanalisi è lunga, costosa e non è efficace – come pensava Freud – per ogni forma di morbosità psichica.
Abbinare alla cura farmacologia la psicoterapia aiuta il paziente a riflettere sul proprio disagio esistenziale, sull’origine delle proprie angosce, attenua la depressione e insegna a cambiare stile di vita.
La cura farmacologia prescinde dai motivi psicologici della sofferenza mentale, la psicoterapia analitica affronta l’aspetto esistenziale del malessere. L’interscambio di riflessioni tra terapeuta e paziente aiuta chi è in crisi a “crescere” e a risolvere i problemi.
Dove ha fallito la filosofia freudiana
Freud, figlio del suo tempo e della sua cultura stracittadina, fu prigioniero delle esperienze della sua epoca, e della società in cui viveva, azzardando ipotesi e conclusioni che si riferivano alla psicologia del suo tempo ma che non potevano essere sempre scientificamente valide per ogni tempo.
Lo psichiatra viennese aveva eccessiva fiducia che le procedure e le tecniche terapeutiche della psicoanalisi potessero avere solide consistenze scientifiche, ma non è così, perché ogni esperienza nel set analitico è irripetibile e dunque non è possibile provare la scientificità di quella cura.
Solo la scienza matematica e fisica può essere fondata realisticamente su verità verificabili e dimostrabili: pertanto osservazione e deduzione sono le uniche fonti di conoscenza. La psicoanalisi,terapia umanistica, nell’intento del suo ideatore, avrebbe dovuto avere il ruolo di sollecitare l’uomo alla libertà interiore, a rompere le catene che imbrigliano la sua personalità, grazie all’autoriflessione e all’analisi del proprio passato, per comprendere le parti più nascoste e più patogene del proprio sé.
Tuttavia se è vero che alcune ipotesi che il professore difese a spada tratta, credendole certezze, non hanno avuto riscontri scientifici sicuri, ciò non toglie che egli è stato il protagonista della sfida alla conoscenza della psiche umana nel periodo a cavallo tra l’800 e il ‘900.
La sua più valida intuizione fu la analisi e la comprensione dei meccanismi della mente. La sua ingenuità più evidente essersi ingannato che utilizzando il principio di realtà, correggendo la mentalità e facendo chiarezza nei pensieri, potessero guarire tutti i disturbi psichici. L’errore di Freud in altri termini, spiegandolo con un esempio più chiaro, fu di una ingenuità bella e buona: egli aiutò a saper guidare l’auto ( cioè a capirsi, ad approfondire i motivi delle proprie angosce, e di conseguenza a pensare correttamente), ma saper guidare l’auto non significa che tutte le imperfezioni dell’auto possano essere “riparate”. Sono aggiustate solo quelle che dipendono dalla guida inesatta (cioè dall’educazione, dalla abitudine etc.), ma non vengono eliminati i danni strutturali dell’auto ( nell’esempio cioè i danne neuro-cerebrali strutturali).
Dunque furono le potenzialità teoriche e l’interpretazione delle sfaccettature della psiche umana le più solide ed efficaci scoperte del pensiero freudiano, mentre le supposizione terapeutiche, hanno invece in molti casi fallito; e non poteva esser che così.
In ogni caso, tuttavia, l’esperienza psicoanalitica è utile e affascinante. L’individuo che la sperimenta fa luce nei suoi sentimenti più profondi, sulle motivazioni inconsce dei suoi comportamenti e grazie alla tecnica freudiana, arriva a comprendere le problematiche che affliggono la sua vita e che sarebbero state incomprensibili senza l’intervento psicoanalitico.
Albert Einstein scrisse a Freud che ammirava il modo col qual affrontava l’indagine psicologica della mente umana e che in particolare riteneva i suoi scritti condotti in maniera magistrale dal punto di vista letterario; si riconosceva invece incompetente a dare un giudizio definitivo sul loro valore scientifico.
Probabilmente gli elogi di Einstein infastidirono e non gratificarono Freud, perché non era la buona riuscita letteraria quella cui ambiva lo psichiatra viennese. In verità la rivoluzione psicoanalitica è andata oltre la buona qualità letteraria, essa ha in parte cambiato il modo di vedere e di comprendere il disturbo psichico e con esso il modo di interpretare il mondo. Infatti oggi non è possibile fare sociologia, psicologia, critica letteraria, non è possibile comprendere i dietroscena psicologici dell’Io e delle masse, senza il filtro freudiano
Che poi non sempre Freud sia riuscito a “guarire il mondo” questa è un’altra faccenda. Tuttavia, se non ha potuto curare, ha individuato i mali della società e quelli che affliggono l’individuo. E non è poco
“Il malato di nervi che fa analisi – diceva Freud – diventa un’altra persona”
Cos’è rimasto del pensiero di Freud?
La psicoterapia origini remote Socrate, Antifone,Platone. Psicotera: arte pedica o filosofia? Differenza tra paure normali e nevrosi di paura.Nella vita quotidiana alcune qualità sono psicopatologiche. Leggere meccanismi psichici,studio personaggi letteratura, autori. E le opere di Dostojevski,Leonardo, Michelangelo, Hoffman. Lettura e interpretazione della vita e delle opere d’arte. Mettere in discussioni credenze, atteggiamenti, prendere coscienza di sé. La mente lavora su 2 piani: coscienza e inconscio
QUALI MALI CURA LA PSICOANALISI? Ansia,angoscia, isteria di conversione, ossessività- La . Psicoanalisi e cultura: la psicoanalisi è penetrata nella cultura e nella vita quotidiana Sinergia tra psichiatria e letteratura:il cinema, la narrativa, il teatro. FREUD ha messo in luce il groviglio che è presente nella mente umana, con le contraddizioni tra l’apparire e l’essere, col miscuglio di autenticità e di menzogne che nascondono psicopatologie anche in ciò che è ritenuto “normalità”.
Alcune nevrosi non sono che ribellione ai tabù, alle ipocrisie poiché la società impone delle maschere. I Lapsus sono fughe di libertà.
CRITICA ALLA TERAPIA FREUDIANA:impossibile criterio scientifico (ripetivilità,prevedibilità.) L’intervento e la spiegazione non hanno valore universale. Scienza dell’umano, imprevedibile. Einstein disse della psicoanalisi: SE NON CURA-ALMENO CAPISCE MALI della societa’ e dell’individuo!
L’assassinio ripetitivo: IDENTIKIT DEL SERIAL KILLER
Cosa possa indurre un individuo a commettere con freddezza tanti delitti, ripetendo ogni volta con determinazione più o meno il medesimo rituale, è un problema inquietante.
In questi casi, gli “omicidi senza movente” sono difficili da prevedere e da prevenire, perché chi li compie segue un suo filo “logico” che ha valenze e ragionamenti del tutto diversi dal senso comune. Così, bisogna in primo luogo individuare “la chiave di lettura” che induce l’assassino a compiere dei delitti che appaiono del tutto assurdi se non sono decifrati secondo le regole mentali che ha adottato il criminale.
Per questo motivo molto spesso questo tipo di crimine resta impunito, a meno ché sia proprio l’assassino che “rischiando per narcisismo”, non metta, e per sua stessa volontà, le forze dell’ordine sulle proprie tracce.
Il mostro di Foligno, Luigi Chiatti, poté essere preso solo dopo che egli stesso lasciò una scia di sangue che portò gli investigatori a poterlo inequivocabilmente riconoscere.
Invece, per altri delitti, nei quali gli esecutori non sono stati né troppo narcisisti né troppo spacconi, e dunque hanno evitato di farsi riconoscere, è rimasto un ragionevole dubbio sulla colpevolezza delle persone indagate, come nel caso di Pacciani, morto portando forse con sé la verità su tanti efferati delitti, o nel caso del mostro di Merano, rimasto irrisolto dopo che alcuni indagati sono stati prosciolti con formule più o meno dubitative.
Spesso l’unica trappola psicologica nella quale cadono i serial-killer è quella della pubblicità. Infatti con i loro delitti essi manifestano pubblicamente certe convinzioni o certe angosce, espresse con quell’efferato metodo distorto e abominevole. I serial-killer il più delle volte si eccitano col “rumore” suscitato dai mass media e con la risonanza pubblica delle loro gesta. Essi infatti sentono il bisogno di “essere in primo piano” e questo fatto li induce a rischiare sempre più. Così è possibile che, involontariamente, diventando sempre più temerari, una volta o l’altra si facciano riconoscere.
In altri termini, il più delle volte il mostro può essere catturato solo quando cambia o sbaglia una mossa o quando si decide a “firmare” chiaramente e inequivocabilmente il delitto.
In tutti gli altri casi si possono fare delle ipotesi sulla sua psicologia e immaginare che egli odi le donne, che sia impotente, che sia siero positivo, che abbia avuto un’infanzia nella quale ha subito violenze, che sia in preda a un raptus morale, ma sono tutti identikit irrilevanti: infatti, quanti uomini odiano le donne, quanti sono impotenti, quanti hanno avuto un’infanzia orribile e quanti sono travolti da un moralismo aberrante, ma non per questo sono dei serial-killer.
Ciò che distingue dunque questi omicidi, che insistono in efferatezze alle quali essi attribuiscono un senso e che, secondo loro, dovrebbero diffondere le loro convinzioni, è l’estrema stima che hanno delle proprie idee, il ché li porta a confondere realtà e immaginazione, e li induce, con feroce determinazione, a portare avanti un progetto pazzesco e allucinante.
Il loro delirio è lucido, “razionale” e conseguenziale, così come lo è quello di coloro che hanno, per ragioni allucinatorie alle quali essi soli aderiscono, commesso crimini mostruosi come “le pulizie etniche”, le guerre totali, lo sterminio di intere popolazioni e la soppressione dei “nemici” politici.
Insomma, il serial-killer è tale per una concomitanza di fattori aberranti, tra cui, da non trascurare, una forte super-valutazione delle proprie ragioni, la carenza del senso critico che guidi e faccia ponderare sulla giustezza delle proprie idee, mancanza che quasi sempre comporta un “salto” nel mondo maniacale e feticista.
Quando il pensiero è ormai senza più argini, esso va alla deriva e può far compiere azioni nefande e crimini mostruosi. Chi li mette in atto non si rende più conto della disumana malvagità e dell’orrenda anormalità del suo operato, anzi è convinto della sua giustezza.
Questa mancanza di dubbi, questa rigidità e determinazione nell’operare, fa del serial-killer un maniaco irriducibile alla ragione.
Così, perché un simile mostro possa essere preso, è sperabile che una volta o l’altra un barlume di esitazione lo colga o che, nel suo cuore di pietra, un attimo di insicurezza lo porti a commettere qualche errore.
Le altre “trappole” potrebbero essere solo dei palliativi, perché si tratta di individui molto attenti a non “scivolare” nei tranelli che le forze dell’ordine tendono loro.
Per il resto, purtroppo, avendo questi serial-killer in mano il gioco, fanno la prima mossa solo quando sono sicurissimi che riesca.
Se l’essere umano non avesse avuto un cervello predisposto per l’acquisizione dei colori la vita sarebbe stata molto triste. E difatti il colore è
uno degli aspetti più suggestivi della percezione visiva. Ma i colori non sono una “proprietà” stabile degli oggetti, come è la forma, ma è il risultato di una serie di elaborazioni ottiche e mentali. Miliardi di cellule del cervello, siti in una particolare area, detta appunto del colore, aiutate dalla struttura dell’occhio, reagendo alle varie lunghezze d’onda percepite dai coni della retina, “creano” i colori.
L’uomo non è l’unico essere a captare i colori, infatti esistono animali che hanno addirittura quattro tipi di ricettori, e non tre come l’uomo, il che conferisce loro una visione cromatica più ricca di quella umana.
Cosa sarebbe il mondo senza il “piacere” dei colori?
Gli uomini hanno elaborato il colore anche dal punto di vista culturale, il ché ha consentito di dare un “ruolo” e un “significato psicosociale” alle varie forme cromatiche. Il rosso, per esempio, è un colore caldo, sensuale: viene usato nelle situazioni hard e nelle discoteche, ma è anche il colore dell’élite: i cardinali vestono di rosso; il verde è il colore più “rassicurante” per l’essere
umano, perché è ricorda le “origini”, cioè la jungla, ove è vissuto l’ominide primordiale. E infatti, il verde è considerato un colore che calma e riappacifica. Il blu e il giallo sono i colori dell’avventura: rappresentano il mare e i deserti, attraverso i quali l’uomo è giunto “ai confini del mondo”. Per questo giallo e blu sono considerati colori che stimolano l’intelligenza. Nelle funzioni religiose, secondo il carattere del giorno si usano paramenti sacri di vario cromatismo. I colori furono introdotti nelle feste religiose cattoliche e la loro simbologia concordata per le varie ricorrenze, solo dopo il Concilio di Trento. Il bianco è simbolo di purezza, e si usa nelle feste della Vergine, il violaceo in Quaresima, il rosso nelle ricorrenze dei martiri,
il verde nelle feste non specifiche.
E se il nero è segno di lutto per gli occidentali, il lutto, gli orientali, lo esprimono col bianco. E paradossalmente il nero esprime anche una straripante sensualità: la donna che indossa calze nere a rete e reggiseno dello stesso colore, è un simbolo assai “coinvolgente” dal punto di vista sessuale.
Ma è nell’opera d’arte che il colore esprime tutta la gamma dei suoi simboli e che sottolinea gli stati d’animo più raffinati. Il colore ha anche funzioni sociali, scientifiche e persino gastronomiche: serve per la circolazione stradale (al semaforo, il verde il rosso e il giallo hanno funzioni specifiche), in astronomia i colori rilevati negli oggetti celesti stabiliscono le distanze, la qualità, le grandezze, e persino la storia degli astri; nell’urbanistica il colore serve a creare sensazioni e spazi particolari. Un ambiente con pareti bianche è squallido, anonimo, e ricorda gli ospedali e i luoghi tristi, un ambiente grigio o molto scuro è funereo, pauroso, mentre un “interno” dai colori ben dosati è festoso, gioioso o sussiegoso, a seconda del tipo di cromatismo prevalente. Le stanze dei bambini, per esempio hanno colori pastello, tenui e vivaci, quelle di “rappresentanza” e gli studi professionali hanno colori più seriosi; nei prodotti di vendita, una merce arricchita con “bei colori” si piazza meglio di un prodotto dal croma “smorto e triste”; i colori servono anche a segnalare ostacoli e pericoli.
I grandi chef dei ristoranti sanno che una gastronomia monocromatica è poco appetitosa, mentre un piatto dai colori vivaci, facendo venire l’acquolina in bocca, migliora addirittura il gusto della pietanza.
Ma il colore, in qualche caso, è anche motivo di dissidio e di emarginazione: negli esseri umani, la pelle nera, bianca, gialla e olivastra ha segnato barriere sociali insormontabili, contribuendo a creare conflittualità sfociate in guerre senza quartiere. E per difendere “i colori della propria bandiera”, in tante occasioni, sia nello sport che in politica si accendono diatribe a volte furibonde.
La Bibbia ricorda che l’arcobaleno annunziò la fine del diluvio universale. Insomma, il colore, croce e delizia dell’umanità, è una componente simbolica indispensabile della vita quotidiana.
PRIVILEGI E RICCHEZZE NON CAMBIANO LA VITA
La notizia che la tragica roulette della vita ha impedito al delfino degli Agnelli d’ereditare l’impero al quale era destinato, ha creato una profonda commozione. Il cordoglio della gente per questo giovane, stimato, amato e ben visto da tutti, è stato quello che si riserva all’erede di una dinastia. La perdita non ha riguardato solo gli Agnelli o l’azienda “Fiat” ma ha assunto un significato più ampio, come se, con la morte di Giovanni Alberto Agnelli, fosse venuto meno un punto di riferimento nel futuro, non solo per la sua famiglia, non solo per i dipendenti della grande impresa, ma anche per molti italiani, che vedevano in quel manager innovativo e affabile, un “delfino” che già aveva in mente di cambiare molte cose.
La morte è spietata. Non si lascia corrompere né dai privilegi né dalla ricchezza, né dal potere, così come non si commuove davanti alla povertà e all’indigenza. Quando suona l’ora del destino, viene trascinato via sia il ricco che il povero, sia il bello che il brutto, il giovane e il vecchio, senza nessuna pietà, senza nessuna logica.
Davanti a questo orribile spettro, l’umanità adotta due atteggiamenti diversi: o ignora che la “comare secca” possa arrivare all’improvviso, e vive come se “la cosa” non dovesse mai accadere; o ritiene si tratti solo di un passaggio obbligato, una tappa inevitabile in vista di un cammino più lungo.
L’atteggiamento quotidiano più comune è pur sempre quello di privilegiare il presente ritenendolo eterno. E ciò, se da un lato allontana l’angoscia dell’attesa, dall’altro deforma la filosofia dell’esistenza, dilatando illusoriamente il tempo.
Nei secoli passati, a causa della brevità della vita umana dovuta alla scarsa igiene, alla malnutrizione, e alla insufficienza di cure, si viveva con la fatalistica idea dell’imminenza del trapasso. Oggi invece la morte si tende ad ignorarla e a “rimuoverla”. Ma tanto più è radicata l’illusione che il presente non debba mai “mutare in passato” tanto più, davanti ad una fine prematura, si è attoniti e storditi.
Se si concepisse l’esistenza come un dono meraviglioso e irripetibile, ma temporaneo e fuggevole e dunque fragilissimo, si potrebbe forse evitare che l’affannosa e spietata corsa al potere e alla ricchezza assuma toni crudeli. Se si prendesse in seria considerazione l’idea che privilegi e ricchezze non allontanano il destino sfavorevole, si potrebbero evitare guerre, violenze, persecuzioni razziali, stragi etniche, massacri di innocenti.
Riflettere seriamente sullo “spettro” della gracilità della vita, senza con ciò creare una visione apocalittica dell’esistenza, potrebbe educare a cancellare vacue illusioni di grandezza ed evitare inutili conflitti.
Il che favorirebbe il rispetto verso il prossimo, e non soltanto verso coloro che non sono più.
LE DITTATURE E LA SOTTOMISSIONE DELLE MASSE
La storia è disseminata di dittatori, dall’Impero Romano, all’Impero Mongolo, dal Medio Evo all’Età Moderna e Contemporanea. Ma cosa spinge le masse a subire un capo dispotico? Forse è il desiderio dell’affermazione della propria identità nazionale, forse il dittatore interpreta enfaticamente taluni sentimenti inconsci: infatti spesso le violenze vengono in parte ignorate dalla popolazione sottomessa alla dittatura e sono rimosse e “accantonate”, come accadde nella Germania nazista durante il periodo hitleriano.
In qualche caso, per le masse il capo assume l’immagine straordinaria dell’esaltazione della forza e della capacità di potenza. Inoltre, come è successo in passato, ma come accade ancora oggi, alcune popolazioni esaltano il dittatore quale il simbolo della volontà di sterminare chi è considerato “nemico” della nazione perché, magari, fa parte di un’altra razza, di un’altra fede religiosa o di un’altra struttura economica.
Si crea così il mito del nemico da schiacciare.
Creando miti deliranti, le dittature plasmano le masse con retorico spirito di setta e affermano, mediante forti ideali propagandistici, il nazionalismo e il razzismo. Diceva il filosofo B. Russell: “Che cos’è un eroe di guerra se non un assassino con l’uniforme?”
Sebbene il pensiero democratico assegni ad ogni testa un voto, indipendentemente dal valore e dalla competenza di chi esprime quel giudizio, tuttavia alcuni popoli, educati a sottovalutare le proprie opinioni, sovrastimano quelle di chi è al potere, e danno così inevitabilmente vita alle dittature.
E poiché i manipolatori delle coscienze conoscono bene l’arte d’imbottire i cervelli, disponibili ad essere “guidati” e plasmati, le masse diventano conniventi con i dittatori e si sintonizzano col loro pensiero, manifestando i risvolti più crudeli e osceni dell’animo umano.
Nessuno fiatò quando Stalin fece uccidere un numero impressionante di “nemici interni”. Eppure, nel giugno del 1937 egli fece fucilare quasi tutti i migliori generali dell’esercito sospettando che essi gli tramassero contro; e di conseguenza, quando scoppiò la guerra contro la Germania, la Russia si trovò senza generali. Addirittura, Nicolaj Ezhon, che imbastì i processi di Stalin fu un uomo elogiato, temuto e reverito.
Mao Tze Dung, volendo dare una svolta all’economia cinese, per passare dalla coltivazione della terra all’industrializzazione, creò una così vasta crisi economica che, secondo stime accreditate, mandò a morte, a causa della fame e degli stenti che dovette sopportare la popolazione, circa trenta milioni di cinesi in pochi anni, senza con ciò ricevere forti contestazioni.
Agghiaccianti furono i bagni di sangue contro “i dissidenti” e la popolazione che si ribellava, perpetrati da Pol Pot, capo dei Khmer Rossi, e grande è stato anche il numero dei desaparecidos argentini, così come furono molti i processi e le esecuzioni contro i contestatori del regime, soppressi da Pinochet; e anche inusitate sono le violenze e le sopraffazioni di Saddam Hussein, persino nei confronti delle persone del propria clan familiare.
Proverbiale, malgrado le apparenze, è ancora l’intransigenza e il pugno duro di Gheddafi nei confronti della popolazione, e crudelissimi, come tutti ricorderanno, sono stati i massacri etnici iugoslavi guidati dal presidente Karadzik, e le sopraffazioni e le violenze sulla popolazione imposte dal dittatore rumeno, Ceaucescu, che tra l’altro falcidiò le finanze dello Stato, lasciando marcire nella miseria la popolazione.
Insomma, “leggendo” la Storia si può osservare che spesso le popolazioni non si oppongono alle dittature, o per ignoranza o, forse, per un certo “masochismo” rinunciatario. In molti casi esse si lasciano schiacciare da chi, con folle e assurda determinazione, li porta verso l’abisso, e prima di potersi “risvegliare” dal sonno ipnotico in cui sono state indotte dai loro dittatori e riuscire a raccogliere le forze per ribellarsi, a volte, è già arrivata la catastrofe.
L’ENIGMA DELLA MENTE UMANA:CREDERSI AL CENTRO DEL MONDO
La tragica decisione del professionista di Barcellona che ha massacrato la famiglia per punire la moglie.
Si fatica a interpretare le motivazioni che hanno portato un avvocato di provincia ad uccidere ad uno ad uno i suoi due figli, a sopprimere la vecchia madre e il fratello disabile, e in fine a suicidarsi, “per punire” la moglie, ritenuta infedele, che lo aveva “abbandonato”.
“Era una persona schiva, riservata e tranquilla” afferma la gente che aveva conosciuto l’omicida. Ma definire l’improvvisa decisione che ha preso un uomo “riservato e tranquillo”, semplicemente un raptus, è un modo troppo sbrigativo e riduttivo per liquidare quella tragedia.
Si deve tentare di capire quale convinzione, pur distorta, ha originato quel gesto maturato sulla base di precise motivazioni. Il proposito di un uomo di sterminare la famiglia pone in primo piano una terribile realtà: vi sono persone che si ritengono al di sopra di qualunque giudice, di qualsiasi legge, di ogni morale.
Il gesto del “mite avvocato di provincia” restituisce alla comunità attonita la drammatica realtà di una vicenda simile a quella della mitica Medea che, abbandonata da Giasone, uccise con fredda determinazione i suoi figli “per punire” il marito.
C’è chi si costruisce nel proprio mondo immaginario, vincoli e dipendenze per cui, parenti, consanguinei e persone che più gli stanno a contatto, vengono ritenuti “oggetti” di sua proprietà.
Chi si crede centro del mondo, si sente legittimato da atavici riferimenti a compiere qualunque gesto e a schiacciare ogni valore. Nell’uomo che ha compiuto quella strage, rimbombava, in modo distorto, l’antico concetto di potestas.
Quell’avvocato di provincia ha utilizzato, nel contesto civile, un’usanza tribale. Mescolando miti e credenze, egli li ha coagulati in un pensiero impastato con brandelli di un primitivo inconscio collettivo. L’avvocato ha creduto di avere il diritto di adottare una “difesa” atavica, così come gli Incas che davanti al pericolo sacrificavano i loro figli. Nella mente di quel genitore assassino sono riaffiorati mezzi di punizione arcaici che lo hanno fatto ripiombare nell’abisso dell’umanità primordiale.
L’omicida riteneva che i figli fossero “oggetti”, un tempo concessi alla moglie, dei quali ora la privava ritenendola “indegna”. Nella convinzione di essere depositari di un potere assoluto, autoconferito, alcuni tragici protagonisti della Storia e della cronaca, presumendo di incarnare la Giustizia, ritengono di avere facoltà di punire, di giustiziare e di autodistruggersi per non darsi in mano al “nemico”. Alle origini della storia dell’umanità i popoli tribali, davanti alla sconfitta, preferivano darsi la morte.
E anche oggi, i protagonisti di simili tragedie, calpestano diritti e libertà, convinti che tutto ruoti attorno a loro e che da essi dipenda la vita o la morte, e nel loro delirio di onnipotenza si sentono “abilitati” ad annullare chiunque sia loro d’impaccio. Giudicano, puniscono, eliminano, convinti che la loro potestà sia inappellabile. Non ammettono confronti, non accettano compromessi, non sentono ragioni fuorché le proprie.
Salomé pretese la testa di Giovanni Battista, reo di averle inflitto un ipotetico sgarro; Nerone impose che il filosofo Seneca si desse la morte ritenendolo colpevole di lesa maestà, lo sterminio degli ebrei fu stabilito da persone che secondo il loro furore immaginativo, ritenevano i “figli di Davide” un impiccio ai piani della Grande Germania.
Una vendetta atroce punire la moglie con spietata lucidità, rendendola orrendamente mutilata di tutti gli affetti. La mente dell’oscuro avvocato di provincia, da qualche anno anche “giudice di pace”, si è comportata più o meno come quella emotivamente immatura del Fuhrer il quale, di fronte al disastro della propria strategia, pose fine ai suoi giorni e spinse i suoi seguaci a darsi la morte. Quell’avvocato ha adottato lo stesso comportamento primitivo col quale, migliaia di anni fa, presso alcuni popoli, il pater familias, poteva decidere se alzare con le proprie braccia il figlio appena nato e concedergli la vita o lasciare che fosse esposto nella strada e farlo morire.
Come diceva lo psichiatra Carl Gustav Jung, è possibile spiegare la follia umana, perché essa è uno dei tanti percorsi della mente e in qualche caso, a volte, è una di quelle scelte che, ci si accorge con orrore, in epoche passate, non venivano nemmeno considerate con raccapriccio.
I popoli primitivi non distinguevano ciò che accadeva in sogno dagli avvenimenti osservati nella veglia. In passato il sogno era soprattutto interpretato come una preveggenza: le cose più importanti venivano fate seguendo le avvertenze oniriche e persino alcune battaglie vennero differite a causa di nefasti sogni premonitori. A Babilonia c’era addirittura un veggente, il bârû, che individuava le profezie contenute nei sogni. Nei templi dell’Attica e della Beozia “un funzionario governativo” attendeva, addormentato, che un sogno gli desse indicazioni sulle scelte politiche che doveva fare la comunità.
I sogni, in Grecia, erano considerati messaggi degli dei e venivano esaminati nei templi. Ippocrate, invece, riteneva che il sogno fosse sintomo di una incombente malattia. Il popolo, molto più semplicemente, pensava che i sogni erano suggerimenti, premonizioni e ad essi si atteneva prima di prendere qualsiasi decisione. Artemidoro di Daldi, scrittore greco del II secolo d. C., scrisse un’opera in cinque volumi sull’interpretazione dei sogni, attingendo, com’egli stesso affermava, alla letteratura precedente sull’argomento e avendo ascoltato per anni, nelle piazze di molte città, gli indovini che discutevano sulla spiegazione dei sogni. Il trattato è ancora oggi un documento notevole perché testimonia le tradizioni e le credenze degli antichi su una materia tanto interessante. Secondo Anatole France, invece, i sogni rappresentano le colpe di cui ci rimproveriamo, che abbiamo cercato di soffocare da svegli e che ritornano durante la notte.
I sogni sono ritenuti la via maestra per le vincite al lotto e, sotto questo aspetto, c’è chi giura che, a saperli bene interpretare, si diventa sicuramente ricchi. Prima della teoria freudiana, dunque, ai sogni veniva data una valenza differente da quella individuata dal padre della psicoanalisi. Freud si rese conto che il sogno era intimamente legato alla storia personale più di quanto fino ad allora si fosse supposto. Lo psichiatra viennese indicò nel contenuto onirico la rappresentazione più schietta del nostro pensiero. Infatti, secondo l’inventore della psicoanalisi, i sogni mettono in luce drammi, sentimenti e desideri occulti che l’individuo nasconde anche a se stesso da sveglio. Freud cominciò l’analisi dei suoi stessi sogni, scoprendo che la produzione notturna tende al conseguimento dell’oggetto del desiderio, e si convinse che i desideri infantili rimossi (dimenticati) sono all’origine dell’attività onirica. Per Carl Gustav Jung addirittura che i simboli onirici appartengono ad un inconscio collettivo.
Analizzando i sogni dei pazienti, gli psicanalisti portano alla luce quei drammi occulti che sono la causa remota dei problemi quotidiani e delle amarezze degli individui.
E che la produzione onirica, sia la comunicazione più diretta per capire l’inconscio, lo attesta l’immenso rilievo che ha avuto la scoperta freudiana. Freud andò molto fiero della sua intuizione, ma quando seppe che del suo libro sui sogni, stampato in 600 esemplari, ne erano state acquistate solo duecento copie, se ne addolorò e disse all’amico Fliess: “decisamente il mondo non vuol far luce sulle proprie angosce”. È probabile che avesse ragione, infatti i libri della “smorfia” sono più consultati di quelli dello psicoanalista.
Ma si sa, si preferisce ignorare gli stress della nostra psiche, piuttosto che prendere coscienza dei motivi che li originano
malattia contagiosa e incurabile;
Quando l’essere umano è colpito da un malanno, solitamente si rivolge con sollecitudine ad un terapeuta per ricevere le cure necessarie alla guarigione. Chi ha problemi agli occhi consulta l’oculista, chi ha un malanno al muscolo cardiaco va dal cardiologo, chi ha una frattura si fa visitare dall’ortopedico, chi soffre di stomaco va dal gastroenterologo e così via discorrendo. Purtroppo, la sollecitudine con cui si opera per questo genere di malanni, non ha il medesimo riscontro quando si tratta di curare le scempiaggini prodotte dalla mente.
Nella maggior parte dei casi, l’umanità si comporta come se la mente non fosse soggetta anch’essa a disturbi variegati e pericolosi. Qualche attenzione, per la verità, viene dedicata alle vere e proprie malattie del cervello, cioè ai danni neurologici materiali. Ma quando si tratta di rimettere a posto capacità come il buon senso, l’opportunità, la comprensione per gli altri, il realismo e la logicità, a molti sembra che il controllo di queste attitudini sia del tutto inutile e irrilevante. Così, la stupidità, grave malattia di cui spesso è affetta una parte dell’umanità, non è oggetto di preoccupazione né di particolare attenzione, e dunque non viene mai curata.
Diceva quell’impareggiabile fustigatore che era Pitigrilli: “Capisco il bacio al lebbroso, ma non la stretta di mano allo sciocco”
Per lo scrittore torinese, il cretino praticante è una vera e propria calamità. Difatti, a tutto c’è rimedio, e persino il delinquente, a volte, può redimersi e correggersi, mentre lo stupido è inattaccabile, perché non ha dubbi né tentennamenti.
Sciocco, è l’individuo che manca di prudenza e di avvedutezza e che si comporta in modo banale, impulsivo e irriflessivo; egli è pericoloso perché, non avendo controllo critico, è incosciente e, di conseguenza, anche quando a causa della sua incoscienza mette in pratica gravi episodi di teppismo, si sente in pace con se stesso e nulla lo può scalfire né può indurlo a meditare.
Sciocco può essere un giovane, ma anche un adulto, una persona laureata o un barbone, un padre di famiglia o uno studente. Lo sciocco in apparenza non sembra diverso dagli altri, non presenta particolari segni di riconoscimento, e sono solo le sue improvvisazioni balorde che lo squalificano; per tutto il resto, egli passa per individuo normale. E tuttavia, non può che essere considerato molto pericoloso, anche perché, purtroppo, la stupidità è contagiosa e si trasmette velocemente: i comportamenti irresponsabili, spesso vengano emulati da chi è vulnerabile alla balordaggine. E c’è chi addirittura inventa nuove, pericolose emulazioni, come colui che, qualche settimana addietro, da un cavalcavia a pochi chilometri da Chivasso, ha calato con una corda una piattaforma colma di mattoni, lasciandola penzolare sulla linea ferrata, all’altezza di un metro e mezzo, in attesa del passaggio di un treno!
La stupidità, è più antica e più crudele della barbarie.
LUIGI PIRANDELLO SEMPRE ATTUALE.
A sessant’anni dalla sua scomparsa
Scriveva Freud all’amico Fliess che da giovane non aveva conosciuto gioia più intensa dell’accostarsi al sapere filosofico e che divenuto medico era contento, di avere intrapreso la via della psicoanalisi,che gli consentiva di unificare la medicina alla psicologia e alla filosofica.
A sua volta Pirandello adeguò e amplificò la letteratura a un campo più vasto, quello della psicopatologia medica. La sua non fu nemmeno una novità, dal momento che già alcuni secoli prima Molière, nel Malato immaginario, aveva affrontato, dal punto di vista teatrale, l’indagine dei nevrotici, realizzato un interessante personaggio ipocondriaco.
Ma Pirandello ebbe il merito di descrivere un più vasto campionario umano, illustrando la situazione nevrotica anche dal punto di vista esistenziale. La letteratura ai tempi di Pirandello aveva incamerato la problematica medico-psicologica nel romanzo. Flaubert, Balzac, Zola, Proust, Svevo e altri avevano introdotto nelle loro opere una ventata di psicologismo.
Però le opere del drammaturgo siciliano sono una inesauribile miniera di situazioni e notazioni freudiane tanto che, quando il pensiero di Freud entrò nella cultura occidentale, i critici furono indotti ad affrontare l’opera pirandelliana guardandola anche dal punto di vista psicoanalitico.
Qualche critico (E. Morpurgo,E.Gioanola) ha ipotizzato che la presenza massiccia del pensiero freudiano nelle opere di Pirandello sia dipesa dalla conoscenza diretta del pensiero freudiano. Tuttavia, non è possibile indicare con precisione se e quando ciò sia avvenuto. Non si sa nemmeno quali opere dello psichiatra viennese il drammaturgo siciliano abbia letto.
Benché la letteratura critica su Pirandello sia molto vasta in essa non si trova materiale sufficiente, se non quello semplicemente deduttivo, o ipotizzato, perché si possa affermare con certezza se sia avvenuto un reale contatto di Pirandello con l’opera freudiana.
Forse dunque le intuizioni pirandelliane non sono frutto di una suggestione più o meno diretta del pensiero freudiano ma si sono sviluppate per coincidenza casuale, parallelamente ad esso.
Confrontando le date delle stesure delle opere freudiane con quelle pirandelliane, ed osservando la quasi contemporaneità di entrambe le produzioni, è da pensare che, procedendo le due produzioni quasi parallelamente, mancò allo scrittore siciliano, la possibilità di immagazzinare ed elaborare il pensiero freudiano tanto da farlo riemergere nelle proprie opere.
Il pensiero pirandelliano s’era già formato prima del 1920, anno in cui cominciarono a circolare concretamente le idee freudiane in Italia.
Ipotizzare una eventuale paternità freudiana delle tematiche di fondo del pensiero pirandelliano è forse azzardato, sicché, tranne l’interesse del commediografo agrigentino per lo psicologo Alfred Binet, è da ritenere che Pirandello abbia proceduto in modo autonomo. In ogni caso, sia che ci sia stata un’influenza diretta o indiretta oppure che si tratti di una semplice empatìa casuale tra lo scrittore siciliano e il pensiero dello psichiatra di Vienna, il pensiero pirandelliano è singolare e si è svolto in un clima culturale del tutto differente di quello viennese.
È questa la singolarità e il grande pregio dell’opera pirandelliana che non può essere assolutamente ritenuta una filiazione di quella freudiana: semmai, gemella di quella dello psichiatra viennese.
Quando i giorni di riposo diventano faticosi
Lo psicoanalista ungherese, Sandor Ferenczi, amico personale di Freud, scrisse, molti anni addietro, un prezioso libro del quale purtroppo s’è persa la memoria. Il saggio s’intitola: La nevosi della domenica. Si tratta di una ricerca psicologica azzeccata quella condotta dallo psicoanalista ungherese. Egli si rese conto che nei giorni “fatidici” del riposo aumentano i mal di testa, cresce l’irritabilità e soffre d’insonnia persino chi, negli altri giorno dell’anno, dorme placidamente.
Gli Americani la chiamano holiday stress, e secondo recenti sondaggi ne soffre, sotto le feste, più del 30% della popolazione, soprattutto quella impiegatizia che vive prevalentemente nel territorio urbano.
In questo “pericoloso periodo dell’anno”, i medici statunitensi consigliano ai colitici, ai depressi, a coloro che soffrono di gastrite e di tachicardia di stare molto attenti, e ai coniugi e agli innamorati di controllare le loro reazioni. Secondo statistiche accreditate è quello il periodo dell’anno in cui più si litiga.
Anche i bambini, durante le feste, diventano irrequieti e sono soggetti con più frequenza alle malattie. Il problema è che spesso si tratta di disturbi psicosomatici derivanti dall’accumulo di nervosismo durante gli intensi giorni festivi.
Le feste, killer dell’umore e della sanità, si accaniscono nel molestare anche chi viaggia per diporto. In molti casi, raggiunta la località di soggiorno, o poco prima di partire, insorgono strani e fastidiosi “disturbi”, che svaniscono al rientro nella sede di lavoro. A quel punto, come dicono gli Americani subentra la post holiday letdown, la depressione e il disagio tipico che insorgono dopo il periodo di ferie.
Su questa falsariga, un docente di letteratura italiana, Paolo Messina, ha dato una intrigante interpretazione della poesia di Giacomo Leopardi, Il Sabato del villaggio, affermando che la frase “diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno il suo pensier farà ritorno” non deve essere interpretata nel senso consueto di “domani le ore liete verranno turbate dall’oppressivo pensiero del lavoro”.
Facendo ricorso alla interpretazione psicoanalitica del disagio che creano le festività e tenendo presente che molta gente ripone eccessive aspettative di felicità in quei fatidici giorni, viene proposta una lettura più aderente della poesia: “tutto è attesa, durante il sabato, nel villaggio, attesa che non trova appagamento nella domenica. Anzi sorge un forte senso d’insoddisfazione che può essere alleviato solo dalla “nostalgia” del lavoro”(al travaglio usato ciascuno il suo pensier farà ritorno).
I cenoni, le grandi abbuffate, le ore sottratte al sonno, le spese pazze per regali e addobbi completano l’opera di demolizione della salute psicologica dei festaioli. Il disagio delle festività si fa sentire maggiormente in coloro che come Giacomo Leopardi, hanno una sensibilità accentuata e sperano di risolvere i “nodi” del loro animo col sopraggiungere del periodo di ferie.
Alla fine, la gente si sente “distrutta” e spera solo che il “periodo di svaghi” finisca al più presto e che si ritorni alla normale, confortevole routine di tutti i giorni.
GENIALITA’ E NEVROSI, ESISTE UN NESSO?
Gli atteggiamenti degli artisti hanno sempre incuriosito e
sollecitato la fantasia della gente, stimolando inquietanti interrogativi. Esaminando le biografie di uomini illustri, da Nietzsche, a Verlaine, da van Goog, a Chiaikovski, da Shelley a Ezra Pound e così via, c’è chi ha assimilato il genio alla “diversità” e in qualche caso, addirittura, alla follia. Moreau, Lombroso, Lange-Eichbaum, ritennero che la genialità “sfiorasse” la psicopatologia. Questi studiosi valutarono la personalità creativa con la stessa diffidenza che ha l’uomo della strada verso di essa.
Infatti, dal momento che l’artista non si adegua ai luoghi comuni e rigetta il conformismo della massa, egli è ritenuto dalla gente non solo trasgressivo ma anche un po’ matto. Secondo lo psichiatra Ernest Kris, alcuni pazienti, ad un certo punto della loro malattia si dedicano ad attività creative. Kris ha potuto appurare che nella maggior parte dei casi le fantasie dei pazienti sono pensieri celati di cui essi vogliono liberarsi. La concezione romantica utilizzò la “contrapposizione” tra gente comune, pacifica e piatta e l’artista, che venne considerato persona effervescente, creativa, ma anche bislacca. Ciò mise in luce una connessione tra nevrosi e genialità.
Tuttavia, da quando la psicoanalisi ha indagato, con i nuovi metodi di ricerca, sia le espressioni dell’arte che le personalità dei grandi uomini, si è arrivati alla conclusione che l’individuo creativo “esalta e testimonia” con l’arte la propria nevrosi, mentre invece l’uomo comune “cerca di nascondere” il proprio disagio nevrotico nella banale quotidianità.
Approfondendo i meccanismi della nevrosi, si sono assottigliate le distanze tra patologia e normalità, tra quotidiano ed eccezionale, tra uomo della strada e genio. Le differenze, infatti, non sono così grandi e si è guardato al “fenomeno” della genialità con minori preconcetti. Sigmund Freud analizzando le biografie di Goethe, Leonardo da Vinci, Shakespeare, Dostoevskij, dette ampio spazio ad interpretazioni meno “inquietanti” di quelle di Cesare Lombroso. Dopo Freud, altri studiosi, da Abraham, a Boehm, da H.Deutsch, a Erikson, da Bychowski, a Lévi-Strauss, a Fromm a Musatti, e altri, hanno “analizzato” la vita di artisti, di politici, di capi di Stato, di fondatori di religioni, etc., arrivando alla conclusione che i “percorsi mentali” che dividono il genio dall’uomo comune, la normalità dalla follia, sono meno netti di quanto si supponesse.
Il risultato delle indagini di alcuni psicobiografi, è che il genio presenta una condizione nevrotica non dissimile da quella dell’uomo comune. Quest’ultimo però vive la propria ansietà meno “creativamente” dell’artista. In altri termini, l’artista è stimolato dalla nevrosi a raggiungere mete culturali “elevate”, e mette a disposizione degli altri, sotto forma di elaborazione artistica, la propria dimensione nevrotica, mentre nell’uomo della strada la nevrosi rende greve l’esistenza e non produce nulla di intellettualmente valido. Spesso il genio usa l’arte anche come “difesa”. Johann Hölderlin scrisse vorticosamente le sue ultime poesie, nella speranza di sfuggire alla minaccia della propria incombente psicosi.
Ogni artista esprime il proprio mondo interiore. Proust “dovette” scrivere La Recherche, per un bisogno di “riappropriarsi” del passato perduto. La “creazione” lo aiutò a sanare le “perdite”. L’arte diventa dunque il termometro della realtà interna dell’artista, l’esternazione dell’inconscio represso. Da questo punto di vista, l’arte è una particolare forma di confessione, la proiezione di fatti psichici, o meglio, una catarsi simile alla stessa psicoterapia.
Ma l’arte è anche un mezzo di “diagnosi” della psiche dell’artista: il
romanzo La metamorfosi di Kafka la dice lunga sulle angosce dell’Autore e sul suo nevrotico rapporto col padre.
Non tutti gli artisti, o i grandi geni, ovviamente, hanno nella loro mente tanti fantasmi da costituire un mondo conturbante, come nel caso di Gogol, la cui salute mentale compromessa si manifestò con assillanti dubbi, penosi rimorsi e continue allucinazioni.
Tuttavia, forse, senza un pizzico di “nevroticità” nessun uomo riesce a salire nell’Olimpo.
Woody Allen lo insegna.
IMMAGINI SALATE E COLORI RUMOROSI
Si chiama sinestesia e fa parte di una delle tante anomalie della nostra mente. Tra i più vistosi tratti di questo disturbo è la fusione dei sensi. In altri termini, in chi è affetto da sinestesia, il collegamento tra forme, colori, sapori, rumori, percezioni è così stretto e senza soluzione, che quando percepisce un suono vede contemporaneamente un determinato colore e magari prova nel palato un sapore particolare.
La prima volta che m’imbattei in un ‘sinestesico’ fu in aereo. Il mio compagno di viaggio era seduto vicino l’oblò e ad un tratto, guardando fuori un banco di nubi esclamo’: “Queste nuvole hanno un suono sgradevole”.
Sulle prime pensai che stesse scherzando, poi, il passeggero mi spiegò il suo problema. Mi disse che per lui il colore rosso era di sapore aspro e di suono stridulo, mentre il colore verde era pari alla nota la bemolle ecc. ecc.
Una particolare forma del disturbo è la sinopsia, detta anche audizione colorata,in cui le sensazioni visive vengono associate a sensazioni auditive. A chi è affetto da sinopsia può capitare di associare ad un colore un suono di frequenza determinata, oppure ad una parola particolari tonalità di colore! Un altro disturbo che mescola ‘colori’ con altre sensazioni è la sinalgia: con essa, un dolore può essere accostato a una sensazione particolare di colore.
Famosa è la descrizione di Ernst Hoffman, scrittore, musicista e pittore tedesco, che scrisse in un libro quasi autobiografico, che il maestro di cappella di Kreisler indossava un abito che sfumava verso il do diesis minore,ornato da un colletto color mi maggiore. Un altro “fenomeno” fu il pittore Vasilij Kandinskij, iniziatore dell’astrattismo pittorico forse proprio a causa del suo disturbo. Egli sosteneva di leggere i colori in funzione di un rapporto diretto tra forme, suoni e movimenti.
Il famoso pittore russo affermava di aver realizzato con il suo modo di colorare un “libero gioco di suoni”. Il colore è una percezione sensoriale dovuta ai raggi luminosi riflessi o tramessi dagli oggetti. Questa percezione, assimilata in un primo tempo chimicamente dalla retina, viene poi elaborata dal cervello. Secondo lo scienziato russo A. R. Luria, nell’apparato nervoso centrale non vi sono formazioni neuronali che posseggono una sola funzione ben determinata.
Da qui la possibilità di associazione di fenomeni percettivi di varia qualità. Questa polivalenza funzionale fa sì che stimoli di diversa polarità ma reciprocamente connessi, possono produrre “coppie” di sensazioni.
Forse anche il poeta Baudelaire intuì questa mescolanza sensoriale. Nella lirica Corrispondenze affermò che i profumi e i colori e i suoni si rispondono come echi che si confondono in una unità profonda. Baudelaire descrisse di profumi “verdi come praterie, dolci come gli òboi,e di altri “corrotti,ricchi e trionfanti””.
L’ipotesi di alcuni ricercatori è che probabilmente si nasca sinestesici e che poi la fusione dei sensi si perda, mentre in alcuni soggetti resta valida e radicata nel cervello fino all’età adulta.
L’esperienza di molti neurologi ci dice che sarebbero le donne ad avere questa caratteristica più degli uomini. In ogni caso, a volte, questo “disturbo” può essere anche utile. Sempre il famoso neurofisiologo russo A.R. Luria ricorda di aver avuto un paziente che aveva una memoria formidabile, soprattutto di carattere matematico. L’uomo riusciva a ricordare una serie di cifre anche a distanza di tempo, grazie al fatto che ad ogni numero associava un colore o un sapore. Al posto delle tabelle numeriche, in mente gli restava così un quadro policromo che quell’uomo “assaporava” con gusto.
C’è chi, con imprudenza e sprezzo del pericolo si crea in modo artificiale questo genere di sensazioni: è noto che chi assume mescalina quando percepisce un suono contemporaneamente vede anche un determinato colore.
Mi chiedo come si comporterebbe un pittore o un fotografo se i suoi legami associativi tra i vari stimoli sensoriali fossero così mescolati da fargli percepire al posto dei colori i suoni e al posto delle forme i sapori! Si dice che le qualità pittoriche di Leonardo da Vinci siano dipese dal suo mancinismo. Allora, come si regola un pittore e come fotografa reporter se sono sinestesici? Immagino già il dialogo tra il professionista e la cliente che va a farsi ritrarre: “Signora si tolga quel pullover rosso perché è troppo salato, e non va bene con la camicetta gialla che è dolce e per dippiù è in do diesis maggiore”.
Scherzi a parte, la sinestesia è un altro degli argomenti a sfavore di coloro che credono si possa conoscere con esattezza il reale. C’è infatti chi, forse con un po’ di superficialità, sostiene che “la realtà è quella che è e non la si può cambiare”.
Ma quale realtà ?
Aveva ragione Pirandello quando diceva:“ Così è se vi pare”.
LA RAGIONE ? E’ SOLO UNA FAVOLA!
Il Mondo è sempre più in preda alla insensatezza. Scorrendo i giornali, ascoltando la televisione, meditando sulle efferatezze dell’umanità, da quelle attuali a quelle perpetrate nei secoli passati, ci si convince che Eistein aveva ragione quando affermava che l’essere umano utilizza soltanto al 10 °/o le proprie capacità cerebrali Non si potrebbero spiegare altrimenti crudeltà e assurdità millenarie come le guerre mondiali e fraticide, i campi di sterminio, gli eccidi delle “pulizie etniche”, le subdole Inquisizioni, quella vecchia, che impedì a grandi geni come Telesio e Galileo di “fare scienza” e quella nuova che, pur non palesandosi chiaramente come la prima, criminalizza il dissenso e il libero pensiero.
Osservando l’insipienza umana, si spiegano anche la pedofilia, la violenza sui minori e gli stupri sulle donne, il razzismo, la tratta degli schiavi, gli sfasci e la prevaricazione della giustizia, la totale inesistenza della moralità politica, i disastri ambientali che rendono invivibile la Terra, gli omicidi per vendetta, per motivi abietti perfino per noia, il flagello della droga, il massacro degli animali in estinzione, il reclutamento di baby-killer, il perdurare, in Africa e in Asia, dell’infibulazione e della castrazione su oltre duecento milioni di bambine, con la stessa indifferenza come in passato, per
oltre due secoli, è avvenuta la castrazione di bambini perché cantassero nei cori, le diseguaglianze sociali causate dalla corruzione e alla prevaricazione dei potenti,la criminalità mafiosa e così via discorrendo.
Fatti che dimostrano quanto sia grande l’insensatezza umana. Sebbene non sia stata l’intelligenza la prima tappa dell’evoluzione dell’ominide il quale, quando scese dall’albero, dovette imparare prima a deambulare e poi ad usare le dita, c’era da sperare che, passando il cervello dai 400 grammi iniziali alla dotazione attuale di circa 1450 grammi, l’uomo avrebbe adoperato questo meraviglioso strumento che la natura gli ha fornito nel migliore dei modi.
Invece, all’evoluzione della materia cerebrale non è seguito un buon uso della ragione, e così troppo spesso l’uomo si comporta da stolto, trascinato dall’impulsività, dalla irrazionalità e, spinto dall’egoismo smodato, agisce crudelmente. Forse sono davvero beati i poveri di spirito, la cui preghiera potrebbe essere questa: “Signore Ti ringrazio per non avermi donato la razionalità che, facendomi vedere come stanno realmente le cose, mi avrebbe reso infelice” Osservando ciò che accade ogni giorno nel Mondo, viene da concludere che è solo una favola che l’uomo sappia utilizzare la ragione. Quanti veli dinanzi agli occhi della ragione?
Se la ragione non fosse offuscata da una molteplice serie di “veli”, il suo sguardo potrebbe spaziare senza intoppi con grande vantaggio per i singoli e per la collettività.
Purtroppo non sempre è possibile prendere consapevolezza del mondo che ci circonda, perché l’uso della ragione è impedito da fisime, ubbie e fissazioni che formano come una fitta nebbia che ostacola l’effettiva visione di ciò che ci circonda.
Platone chiamò idòla i tabù, del tutto falsi e “gratuiti”, che inducono a errori nel ragionamento; Russell, più semplicemente, sostenne che preferiamo illuderci piuttosto che sapere, e questa illusione, secondo il filosofo inglese, consiste nel vedere il mondo non com’è, ma come vorremmo che fosse, o come temiamo che sia. E così, a causa dell’una o dell’altra congettura viviamo con una visione limitata dal velo ingannatore, il ché ci impedisce d’essere saggi e ci spinge a gravi errori.
Ma quali sono i più pericolosi “veli” che impediscono alla ragione di guardare senza preconcetti la realtà?
I “veli” più fitti sono quelli della paura, del sospetto, e del inganno della mente spingono ad assumere atteggiamenti inadeguati e scarsamente realistici.
CREDULITÀ UMANA :OCCULTISMO VIA TV
Il bisogno di “sperare” nella buona sorte, spinge la gente a credere anche l’assurdo .La conversazione che viene qui riportata si è svolta in diretta televisiva. Il “mago” è apparso in un canale TV mentre la voce di una donna chiedeva consigli e aiuto in diretta. Il mago ha l’aria saccente e sorniona di chi la sa lunga: “Da dove chiama, signora?”
Si sente la voce della donna che indica la località dove abita(Un paesino sul mar Tirreno)
Il mago insiste:“Che età ha ?”. Dopo una pausa, la voce dice:“Trentanove anni”. Il mago fa una smorfia e continua a chiedere:“Di che segno è lei signora?” “Del segno dei pesci – dice pronta la donna- Sono nata il 27 febbraio.”
Il mago ammiccando “Bene! Cosa vuol sapere da me, signora?” “Vorrei conoscere la situazione del mio cuore” risponde quasi d’un fiato la donna. “E’ per caso malata signora?” chiede l’altro, il quale haa invece capito benissimo.
La donna ha la voce imbarazzata:“No, desidero sapere ciò che mi riserva il futuro riguardo le mie possibilità di incontrare un amore.”, spiega Il mago sorride e senza scomporsi chiede:“ Lei è sposata ?” La donna è sorpresa:“No”
“Allora vuol sapere se “conoscerà” un uomo?” chiede il mago con un sorriso melenso.
“Proprio così,- dice la donna – perché le cose in questo campo non mi vanno bene”.
C’è un momento di silenzio. Il mago mescola le carte con sussiego, ne sceglie una e la mostra in primo piano. Nella carta c’è l’effige di una donna e una parola scritta: tristezza.
L’uomo con aria saccente esclama:“Certamente che le cose non le vanno bene. Lo dicono anche le carte!” La donna che ha visto nel televisore la carta incriminata, annuisce “Me ne rendo conto!”
“Secondo me,- continua il mago – lei attraversa un brutto periodo!” “Verissimo!” ammette la donna
“Dunque non mi sbaglio!” dice trionfante il mago.
Il mago resta con un sorriso ebete a gustarsi la battuta,e la donna gli chiede “Cosa mi consiglia di fare per cambiare la fortuna?”
Il mago, fa una smorfia. Resta sovrappensiero per qualche secondo, poi come se avesse avuto finalmente la giusta ispirazione chiede:“ Lei a volte si sente strana? Sente che qualcosa non gira?” “Proprio così!” risponde precipitosamente la donna. Il mago torna ad ammiccare agli spettatori, con l’aria di chi la sa lunga. La donna allarmata, replica“Supererò questa situazione ?”
L’uomo scuote la testa: “Per ora è impossibile; ma in seguito tutto si aggiusterà” “ E perché non subito ?” chiede trepidante la voce femminile. L’uomo schiaccia l’occhio ai telespettatori, e ammicca come per dire, “la signora non si rende conto di certe cose”.Poi con calma risponde alla donna: “ “Su di lei” c’è qualcosa che non va”. “Di che si tratta ?” chiede con voce impaurita la donna.
L’uomo assume l’aria di un luminare della scienza, uno di quelli che hanno l’ultima parola sui casi più gravi:“Una forza…” comincia dire “ Ho il malocchio ?” lo interrompe trepidante la donna. Il mago,sempre più pieno di sé, dice: “Forse. Oppure si tratta di qualcos’altro. Ma stia tranquilla, alla fine tutto si aggiusterà.” La donna si mostra molto allarmata:“ Mi aiuti dunque!”
Inizia un dialogo serrato:
Mago: “Le spiego: noi maghi a volte “asportiamo” cose negative da una persona e le buttiamo a mare, oppure in una discarica. Purtroppo chi passa vicino ai luoghi dove abbiamo abbandonato le cose negative tolte ad altri, a volte le attira su di sé.”
“Questo è successo a me?”chiede la voce di donna. Il mago le fa un’altra domanda“Ricorda se è stata vicino al mare ultimamente?”
Voce di donna: “La mia abitazione è vicino il mare”.
Mago:“ Dunque,forse è anche passata qualche volta vicino ad una discarica di spazzatura!?”
La voce della donna è sempre più allarmata: “Certamente!Ce n’è una nei pressi di casa mia!”
“Che le dicevo ?!” dice trionfate il mago
“Non sapevo che tutto questo avesse influenza sul destino!” piagnucola la donna
Il mago scuote la testa, come dire”poveretta, non sai proprio nulla”. E poi afferma con aria paterna: “Cara signora, non si può prevedere quello che accade. Però le consiglio di non guardare mai né i riflessi del sole sul mare, né di passare vicino ad una discarica, perché lei è particolarmente sensibile, e nell’uno e nell’altro caso, attira molte forze negative” La donna resta ammutolita, poi quasi implorante chiede:“ A cos’altro devo stare attenta ?”
Il mago alza il sopracciglio sinistro e sentenzia:“Tutto è affidato al caso. Con i morti ammazzati che ci sono oggi, può essere che uno s’imbatte senza volerlo nell’anima di un morto. L’anima, resta dai cinquanta agli ottanta anni vagante in giro per le strade. Può essere che lei abbia “ingoiato” l’anima di qualcuno e le cose negative sono proprio cominciate a causa di ciò”.
“Che posso fare per salvare la mia situazione?” implora la voce femminile
Prima di rispondere alla domanda, il mago consulta le carte. Poi suggerisce alcuni rituali propiziatori in fine conclude: “Se seguirà i miei consigli, tutto si aggiusterà. In ogni caso, per capire meglio il suo futuro, venga a trovarmi nello studio. Le fornirò un amuleto che l’aiuterà definitivamente a superare qualsiasi malocchio”. La voce della donna sempre più trepidante chiede:“In quanto tempo migliorerà la mia situazione?”
“Con l’oggetto che le fornirò, il quale emana una forte carica “positiva”, dopo qualche settimana potrà notare gli effetti” la rassicura il mago. Dopo questa rassicurazione, la donna appare più sollevata. La sua voce è rinfrancata: “La ringrazio. Mi sento già meglio al pensiero di avere l’oggetto che lei mi darà!”
Difficile dire se si è trattato di dialogo spontaneo o una “promozione” pubblicitaria, mandata in onda come se si trattasse di un’intervista in tempo reale. In ogni caso, è uno dei tipici approcci tra occultista e cliente.
Che sia o meno una trasmissione autogestita, il problema è che c’è gente tanto infantile e superstiziosa che aspetta d’essere“rassicurata e consolata” da questo genere di individui.
C’è gente credulona e così convinta dell’efficacia dell’occultismo, dell’astrologia e della magia che si fa destabilizzare, quanto meno psicologicamente, ma anche economicamente da insensibili cialtroni. Ci sono persone che anche se vengono raggirate, continuano a sperare che magari “la prossima volta” l’amuleto o l’intervento magico, che sono stati inefficaci, potranno essere di aiuto.
Come diceva Voltaire, “Raggirare la gente con la magia non è difficile. Quello che è impossibile è far capire alla gente quando è stata turlupinata nelle cose in cui più crede”
L’INVIDIA, E’ SOLO UN SENTIMENTO SPREGEVOLE?
La condanna dell’invidia, sentimento biasimato perché “spregevole e vile”, è spesso connessa con motivazioni religiose e morali. Ma questo “vizio” deve essere analizzato al di là dell’interpretazione moralistica: esso è un atteggiamento che ha radici profonde le quali devono essere vagliate senza preconcetti per poterne meglio capire il meccanismo. Il comportamento dell’invidioso non può essere liquidato con una semplice riprovazione: esso è
infatti in stretta correlazione con l’insicurezza e con angosce da frustrazione. La persona
invidiosa vive una situazione sociale di pericolo, vera o presunta. L’invidioso “avverte”
l’approssimarsi di una sconfitta, e si sente destabilizzato da colui che egli ritiene “meglio
piazzato”. La paura di perdere la propria “posizione” sprona l’invidioso. L’invidia, dunque, in qualche caso può essere anche un’utile molla. L’ideazione del castello di Schönbrunn, la bellissima dimora imperiale estiva nei pressi di Vienna, è dovuta all’invidia dell’architetto austriaco Ficher von Erlach, nei confronti dell’opera dei suoi due colleghi francesi, gli architetti J. Levau e J. Hardouin-Mansart, che erano stati molto ammirati per il progetto di trasformazione di Versailles. Von Erlach ricostruì Schönbrunn tra la fine del ‘600 e i primi del’700 con l’intenzione di superare lo sfarzo e la magnificenza regale della dimora francese. Fu l’invidia che spinse Napoleone Bonaparte, che si sentiva messo da parte dal Direttorio, a trasformare la campagna d’Italia, che doveva essere un semplice diversivo contro l’Austria, nella principale azione bellica del conflitto franco-austriaco. Napoleone, invidiando gli altri capi dell’esercito ai quali era stato affidato l’incarico di stilare le manovre strategiche più importanti, mise a punto un tipo d’attacco all’Austria molto intelligente ed accurato. Il piano napoleonico ebbe il sopravvento su quello degli altri generali francesi e fece della campagna d’Italia il punto più saliente della guerra. Fu proprio grazie a ciò che la Francia mise in ginocchio il secolare nemico austriaco. Di Hegel fu invidioso l’altro grande filosofo tedesco, Schelling il quale arrivò persino a stabilire le ore della sue lezioni universitarie in concomitanza con quelle che aveva indicato il collega Hegel. Salvo poi a diventare furente se nelle ore che aveva stabilito, l’aula nella quale doveva tenere le proprie lezioni veniva disertata dagli allievi che preferivano agli insegnamenti di Schelling il corso di Hegel. Tuttavia fu grazie all’invidia nei confronti di Hegel, suo compagno di studi di Teologia a Tubinga, che Schelling, solitamente afflitto da un carattere passivo, s’impegnò a fondo nel suo lavoro di ricerca per “superare il suo vecchio compagno” e fu, tra l’altro, nominato dottore in medicina honoris causa. Un altro grande “invidioso” fu il compositore Antonio Salieri, maestro di cappella di Corte a Vienna, e geloso fino allo spasimo del successo di Mozart. Tuttavia la rivalità con Wolfgang portò un gran beneficio all’estro del Salieri, il quale, in aperta competizione col collega, scrisse moltissima musica, per non essere da meno di Wolfgang. Salieri, grazie all’invidia che provava per Mozart, arrivò a firmare una quarantina di opere teatrali, molte sinfonie e musica da camera, musica sacra,sei Messe solenni,una Messa da Requiem e vari pezzi per pianoforte e altri strumenti. Senza l’invidia, avremmo mai avute tante opere del Salieri? L’invidia per l’amico e scrittore Pitigrilli fece da impellente stimolo alla poetessa Amalia Guglielminetti, la quale scrisse buona parte delle sue opere dopo essere entrata in competizione con lo scrittore che ella tanto invidiava. La fisica nucleare Maria Goeppert Mayer, fu invidiosa del Nobel assegnato a Leon Lederman, che ella riteneva un “immeritato riconoscimento” al confronto della mole di lavoro e di risultati che ella aveva raggiunti. E così la Goepper Mayer s’impegnò con tanta alacrità fino ad arrivare a conseguire
anch’ella quell’ambizioso traguardo. Insomma, è duro doverlo ammettere, ma in molti casi l’invidia è stata un forte propellente per l’arte, per le scienze, e per la storia. E non sempre con risultati negativi.
Sempre più l’invasione nei posti chiave di gente meschina
I mediocri puntano quasi sempre al potere. Il mediocre è disposto a qualsiasi compromesso, pur di stare “un gradino più in alto”. Paradossalmente, alcuni di essi riescono ad avere in mano il comando. Disposto a tutto pur di avere un brandello di potere, il mediocre si avvale di qualsiasi mezzo per farsi avanti: dalla maldicenza, alla sopraffazione, dalla delazione al raggiro. I mediocri tentano di arraffare denaro e di scalare le cariche sociali. Essi scalzando chiunque tenta di traversare il loro cammino. Il mediocre ricorre, se necessario, alla violenza, spesso magari subdola, mascherata, per farsi strada. Temendo di restare indietro, il mediocre non ha remore. Il suo parassitismo, il suo vischioso egoismo, il suo tornacontismo non si fermano davanti a nessuno ostacolo. Con l’intrigo, la truffa, lo spergiuro, la prepotenza, l’impostura, il mediocre tenta sempre di conquistare qualche vetta. Se ci riesce se ne vanta e si compiace fino a diventare nauseante, se non ci riesce non demorde, poiché non è in grado di misurare le proprie capacità.
Il mediocre sta alla larga dalla persone valide e concede spazio solo alla mediocrità e temendo la concorrenza, cerca di affossare chiunque mostri all’orizzonte qualche qualità. Il mediocre non è mai un innovatore, non va mai contro corrente, non ha eroismi: vuole soltanto ottenere un posto autorevole per fruire dei vantaggi della carica.
Il mediocre si mostra serioso, ampolloso, enfatico. E’ alquanto barocco nel modo d’esprimersi, utilizzando spesso frasi fatte, con espressioni e luoghi comuni banali e obsoleti.
Poiché sono proprio i mediocri che si danno più da fare per arrivare in alto, essi costituiscono una specie di scadentocrazia, che in qualche caso finisce col prevalere e sostituirsi alla meritocrazia. Molti mediocri dominano nell’impiego pubblico, nelle forze armate, nell’Università, nel lavoro privato, in politica e nei mass media. Tuttavia essi restano sempre incapaci, conformisti, non-creativi. Per ottenere il potere, anche il più becero e insignificante, i mediocri supplicano, si sottomettono a qualsiasi tipo di mortificazione. In qualche caso si umiliano per arrivare allo scopo, ma non sanno essere umili e appena arrivano allo scopo mostrano il lato narcisistico del loro carattere, diventano egocentrici, esaltano se stessi e impongono il loro tornaconto.
I mediocri dirigono con iattanza e spocchia, facendo pesare la loro autorità. Non essendo competenti, delegano gli altri al lavoro serio, ma quanto si tratta di questioni che riguardano interessi che li coinvolgono, sbrigano da sé, per ottenere il massimo vantaggio personale. I mediocri sono solidali tra loro, come se si riconoscessero in una categoria “elitaria” di furbastri. Tralasciano i valori da difendere “gratuitamente” e senza utile personale. Tutti i mediocri si trovano spontaneamente d’accordo nel lavorare esclusivamente per sé stessi, anche se molti di essi hanno l’improntitudine di vantarsi di essere altruisti.
Non hanno competenze, né capacità particolari, ma si comportano come se fossero i primi della classe. Non hanno un colore politico particolare (si nascondono sotto tutte le bandiere), né una collocazione culturale, nelle loro fila ci sono analfabeti e laureati, professionisti ed operai. Li accomuna l’arroganza e l’ignoranza, tipiche dei parvenu.
Chi non ha mai esclamato, alludendo a un mediocre: “È mai possibile che un tipo come “lui” sia arrivato a quel posto di comando?…”
Eppure…
La politica è l’arte di amministrare lo Stato, seguendo alcune idee e certe direttive. Per essere eletti, i candidati promettono anche l’impossibile, anzi, più lo promettono e più entrano nel meccanismo fantasioso dei desideri dell’elettorato.
Chi ricerca il potere di solito adotta alcune strategie che sono il presupposto per una buona riuscita dell’operazione, e cioè: galleggiare con gli argomenti in superficie, e non affrontarli mai in profondità, per non dovere in seguito avere delle smentite, fornire ricette e suggerimenti “sicuri” e assolutamente incontrovertibili, essere ottimista ed esortativo, eludere le domande che non hanno risposte che piacciono al pubblico, saper mentire subdolamente, con aria ingenua e disarmante.
Il gioco è mostrarsi come il migliore, come colui che possiede la verità, come colui che è senza macchia e paura. Insomma, nella corsa all’elezione, il candidato cerca di mostrarsi senza alcun difetto, senza ombre, senza lati nascosti. Patria, famiglia, religiosità, amore per il prossimo, sono gli stereotipi ai quali fanno ricorso anche quelli che, in privato, sono ben lontani dal condividere queste istanze. Spesso, per ricevere più voti possibili, il candidato si spoglia di ogni sua particolarità caratteriale, perché deve “piacere a tutti” e non può sottolineare troppo qualche caratteristica specifica che lo contraddistingue in privato, ma che gli farebbe perdere delle preferenze: egli invece offre slogan e luoghi comuni ottimistici e condivisi dalla maggior parte degli elettori. Il candidato inoltre cerca il più possibile di nascondere i malesseri che sorgono nel gruppo di cui fa parte, e anche nelle peggiori situazioni possibili, ha il sorriso aperto e l’ottimismo pronto. Per rispondere alle esigenze dell’elettorato, il candidato spesso si adegua ad esse, a volte magari non condividendole, ma questa sua accondiscendenza ai voleri della massa, e lo scarto di quella che invece ritiene la decisione più giusta, è il prezzo che deve pagare per avere il maggior numero di consensi.
Sotto questo aspetto, la corsa al potere è, malgrado le apparenze, ineluttabilmente problematica. Il vero profondo motivo che porta ad essere al centro della scena pubblica, è quello di essere additati a modelli, ad essere leader di un gruppo, ad avere una immagine esteriore di onnipotenza, al desiderio di essere considerato “il migliore”. Tutto ciò viene, ovviamente, mascherato dalla pretesa di volere cercare solo l’adempimento di un dovere e di un servizio pubblico. Ma la verità è che una volta raggiunto il potere esso sarà difeso strenuamente, e più è stato pagato un prezzo alto per averlo, più si cercherà di mantenerlo come risarcimento delle fatiche, delle umiliazioni, degli stress subiti per ottenerlo.
Il potere non ha prezzo, e il bisogno di ottenerlo nasconde spesso malesseri profondi che solo esso può sanare: infatti, le ferite narcisistiche, le frustrazioni personali e sociali, il senso di insicurezza, il bisogno di uscire dal grigiore e dall’uniformità, la bulimia, mai appagata, di stare sotto i riflettori, sono alcune delle “carenze” che il potere riesce a lenire fino a quando si detiene. Ma il bisogno del potere è un incubo, una “mania” incontrollata, perché appena si perde, l’immagine di onnipotenza viene meno e si presenta una insopportabile e catastrofica “crisi da astinenza” .
Infatti, poiché spesso la ricerca del potere assolve a funzioni compensatorie del Super Io, esso assume la sembianze di una sorta di assuefazione. Il bisogno di piacere, di essere ascoltato di essere seguito, reverito ed imitato, diventa una necessità imprescindibile che, psicanaliticamente parlando, risale ad esigenze infantili che richiedono appagamenti e soddisfazioni, per recuperare l’autostima di sé. Infatti, il narcisismo è la malattia principale del leaderismo. Il narcisismo attende continue conferme e attestazioni dagli altri. L’ambizione, la brama di dare istruzioni e di controllare la situazione sociale, fanno di chi corre per il potere una specie di missionario, al quale il destino avrebbe affidato un particolare compito. Ricevere richieste di raccomandazioni, di piccoli o di grandi favori, non è solo utile a stendere una rete di potere reale, quanto a far ingigantire e saziare il narcisismo. Si tratta di una sensazione compensatoria di onnipotenza, che cancella molti inconsci sensi di disistima di sé.
Per chi è al potere l’adulazione è uno dei motivi di maggior soddisfazione, e fa diventare questa esperienza esaltante, fino a portare all’arroganza.
Ma la preoccupazione di mantenere il traguardo raggiunto è stressante e piena di tormentoni interiori. La ineluttabilità di un possibile ricambio, soprattutto in periodo di nuove elezioni, crea un senso di vuoto e di intollerante angoscia. Lo vediamo quotidianamente: leader bruciati da esperienze passate, tentano di risorgere a qualsiasi prezzo. L’amarezza che nasce dal non aver più successo induce i più disperati a qualsiasi compromesso. È chiaro dunque che la conseguenza negativa più evidente del potere è un continuo aumento dello stress, del nervosismo e delle somatizzazioni. (Ulcere, mal di testa, ipertensione essenziale, insonnia, etc.)
Marcel Proust, ne I Guermantes, ha affermato che il mondo ha avuto molto dai grandi nevrotici, i quali – secondo lo scrittore francese – hanno fondare le religioni, hanno creato molti capolavori e, in qualche caso, hanno fatto anche la storia. Di questo parere era anche il maestro della psicoanalisi, Sigmund Freud.
Ed allora, paradossalmente si deve sperare che gli uomini politici siano più stressati perché siano più attivi?
Ma nel contempo sorge spontanea una proposta indecente: e se a coloro che sono stati eletti si desse anche un voto del tipo scolastico a fine legislatura, per valutare il merito o il demerito del loro lavoro? In fondo questa prospettiva potrebbe indurre a mantenere, durante il mandato, ciò che è stato promesso in campagna elettorale.
Sarebbe una benefica pagella. In ogni caso, ci sbarazzeremmo di coloro che hanno meritato meno della sufficienza, mentre invece, spesso, ce li ritroviamo ancora una volta tra gli eletti.
DONATO BILANCIA: ASSASSINO CON LA FACCIA DA UOMO QUALUNQUE
Donato Bilancia, il killer che ha confessato di avere ucciso freddamente 17 persone, ha fatto sapere che non intende presenziare il processo che si celebra a suo carico. Il quarantottenne Donato Bilancia aveva alle spalle, fino a poco prima di diventare un invasato dell’omicidio, una carriera di giocatore d’azzardo, un paio di rapine, qualche piccola stramberia alla quale nessuno aveva fatto eccessivamente caso.
Ma cosa può trasformare un individuo che, fino a quarantasette anni, era stato, tutto sommato, un cittadino qualunque, in un feroce assassino che in pochi mesi ha ucciso un numero incedibile di persone?
In un certo senso, il processo a Bilancia, a causa del numero di periti psichiatrici che faranno eco alle argomentazioni giudiziarie, diventa anche un “processo alla mente umana”. Infatti, l’interrogativo maggiore che si presenta, visto che il reo è confesso, e che moltissimi sono gli indizi che lo inchiodano, non è tanto se Bilancia ha commesso quei delitti, ma perché l’ha fatto. Preme stabilire come possa egli essere arrivato a quella incredibile facilità di premere il grilletto sulla gente.(Cinque dei 17 delitti li ha commessi in undici giorni).
Un’indagine, svolta tra le persone che lo conoscevano da ragazzo, mette in luce che Donato, da giovane, era considerato un tipo piuttosto introverso e timido, qualche volta persino oggetto di scherzi e lazzi da parte degli amici, ai quali, però, in fondo, rispondeva senza prendersela eccessivamente. Ma altri amici del Bilancia raccontano che gli era un po’ bizzarro e che mostrava d’innervosirsi se veniva criticato. Inoltre, pare che fosse spesso alquanto agitato e irrequieto. Donato stava poco con i coetanei, perché non sopportava di essere preso in giro “goliardicamente”: come quella volta in cui, dopo aver rubato, all’Upim, alcuni panettoni, che cercava di vendere proprio vicino all’uscita del grande magazzino, suscitò l’ilarità degli amici. Una dabbenaggine, quel voler vendere la refurtiva a pochi passi dal posto dov’era stata sottratta, che lo portò a farsi scoprire dalle forze dell’ordine.
Il suo ideale, sin da ragazzo, pare fosse quello di stare con persone più grandi. E, proprio dagli adulti Donato imparò quello che diventò il suo “mestiere” che lo affascinò in modo smodato e rimase l’attività dalla quale non seppe più distaccarsi: l’arte del gioco d’azzardo.
In un certo senso, forse, la chiave di volta per la comprensione della impulsività e della compulsività che lo hanno spinto alla improvvisa smania omicida, si può trovare nei “meccanismi mentali” che sono alla base della forsennata passione per il gioco. I delitti di Bilancia sono motivati da pulsioni diverse, tuttavia essi sono ricollegabili a qual meccanismo travolgente, irrefrenabile, a quella stessa incapacità di potersi staccare dalla passione per il gioco. Lo stesso input mentale può averlo indotto, esaltandolo allo stesso modo, a continuare ad uccidere in modo forsennato.
Insomma, Donato Bilancia, quando “impara” qualcosa che lo “appassiona”, non riesce a smettere. Avendo iniziato ad uccidere, non è riuscito più a fermarsi, e, tramite l’omicidio, ha cercato di risolvere le frustrazioni accumulate negli anni, così, come, giocando vorticosamente, egli forse aveva cercato di venire fuori dal buio di quella depressione che lo aveva afflitto, essendosi sentito, da ragazzo, un “perdente”.
Che l’omicidio sia usato come rivalsa per le sue frustrazioni, si può rilevare dall’assassinio dell’amico biscazziere, al tavolo del quale il Bilancia, a suo dire, aveva perso moltissimi milioni. Lo si può anche vedere in quella serie di omicidi nei treni. I treni, sono stati, per Bilancia, un elemento conturbante. Da ragazzo egli abitava un alloggio vicino alla ferrovia, e diceva che il continuo frastuono dei treni lo faceva impazzire. Il treno è stata anche la causa della morte del fratello del Bilancia, suicidatosi sotto un locomotore assieme al figlioletto, perché la moglie lo aveva lasciato. La donna è stata un altro elemento frustrante per Donato. “Fiorella”, un transessuale suo amico, lo definisce “aggressivo, anche se simpatico”. Ma una donna che Donato aveva avvicinato afferma di aver avuto paura del modo come egli la guardava e di come le dava “ordini”. Pare che, a causa di quello “strano modo” di avvicinare le donne, alcune lo abbiano persino deriso. Mettendo questi elementi assieme, forse è possibile spiegare la pulsione irrefrenabile, causa forse di un momento di gravissima depressione inconscia, che ha spinto Bilancia a salire nel treno a Savona, uccidere una donna qualsiasi nella toilette e a scendere dalla carrozza, sette minuti dopo esservi salito, a Bordighera. Bilancia ce l’aveva col treno e con le donne, e nel treno ha compiuto, con un’unica azione compulsiva più vendette: ha “contaminato” un vagone con un omicidio e ha soppresso una donna.
Ecco perché il processo a Bilancia può diventare il processo che può fare anche luce sulle distorsioni della mente umana. Le azioni di Bilancia danno la possibilità di constatare i percorsi che può intraprendere una mente disturbata da frustrazioni, da complessi e da variegate vicende. Questi percorsi possono indurre ad essere uno qualunque fino a 47 anni, e nel giro di qualche mese, a manifestarsi come uno spietato killer. Bilancia ha affermato che, una volta che iniziò ad uccidere, gli capitava che a un punto della giornata, se sentiva il bisogno di uccidere qualcuno, decideva di farlo, usciva e compiva un omicidio. Lo stesso, gli accadeva se sentiva l’impulso di andare a giocare: si recava in una bisca e cercava la fortuna al gioco. Gioco e omicidio sono stati percorsi compulsivi ai quali il Bilancia non ha saputo sottrarsi. Entrambi, lo sollevavano temporaneamente dalla depressione. Per avere un quadro completo della personalità frustrata di Bilancia, egli ha riferito che quand’era molto piccolo e faceva qualche monelleria, suo padre, per punirlo “più efficacemente”, lo obbligava ad abbassarsi i pantaloni e mostrare il sedere ai suoi piccoli amici che, a quella vista lo deridevano, procurandogli rabbia e frustrazione.
Certo, forse non bastano punizioni del genere, né un fratello suicida, né una vita da balordo, né la derisione di qualche donna, né la disistima di alcuni amici, per fare di una persona un omicida colpulsivo. Tuttavia sono elementi che contribuisco, anche se non del tutto, a tentare un’ipotesi che possa chiarire quali improvvisi sentieri, a volte, percorre la mente umana. E ciò, soprattutto, in una personalità che ritiene il concetto di rispetto umano una variabile da tenere poco in considerazione, essendo pressata da forti bisogni di “risarcimento”.
Ma questo, purtroppo, è un problema che non si riscontra solo in Donato Bilancia.
C .G. JUNG, L’UOMO E LO STUDIOSO
Per comprendere il pensiero di Jung, bisogna tenere presenti il clima intellettuale dei suoi tempi ed i suoi episodi biografici. Uomo di grande cultura, Jung studiò a fondo il materiale mitologico, letterario e religioso di tutti i tempi e di tutti i paesi. Viaggiò in Africa, in India, nel Nord America ed entrò in contatto con numerose popolazioni, di cui studiò miti, riti e abitudini, convinto che esista, oltre all’inconscio personale che è nel singolo individuo, anche un inconscio collettivo, comune agli uomini di tutti i tempi. I contenuti di questo inconscio collettivo si sarebbero manifestati, nel corso dei secoli, in immagini, miti, credenze religiose che Jung ritrovò, identici, nelle culture di popoli di epoche e luoghi diversi.
Nel periodo in cui Jung diede inizio ai suoi studi, si era verificato, constatata l’inadeguatezza della ragione e anche della scienza a risolvere alcuni dei più pressanti problemi dell’umanità, un rifiorire dell’irrazionale con la conseguente ricerca delle esperienze occulte, mistiche e psichedeliche.
Erano tornati di moda i guru, i rituali ascetici, l’antico culto dell’astrologia, la ricerca dei simboli magici, la rivalutazione del mandala. In questo ambiente spirituale il pensiero di Jung, che si nutriva di miti, di ricerche sulla magia, di esperienze soprannaturali e che approfondiva gli “abissi” dell’inconscio individuale e collettivo, ebbe un grande successo.
In contro corrente con la cultura satura di razionalismo e di scientismo che culminava nella filosofia positivista, Jung ha invece evidenziato il valore dei messaggi simbolici e delle immagini dell’inconscio. Per capire l’inconscio egli affrontò un immenso viaggio nella letteratura del simbolismo, della mitologia dell’occultismo per raccapezzarsi sul destino dell’uomo.
Jung cercò in questo modo di mettere a fuoco e dare significato a quello che chiamò “magma” psichico che emerge in maniera cosciente o inconscia, giorno e notte, dalla mente umana individuale. Questo “magma”, affermò, si trova nella cultura ancestrale ed è una poderosa massa ereditaria spirituale, composta da archetipi cioè da immagini appartenenti al patrimonio dell’umanità, e che alla nascita si trova in ogni struttura cerebrale individuale. Questo mondo psichico, sostenne Jung, sebbene spesso sconosciuto non è né inesistente né frutto di fantasia, come qualcuno pretendeva di affermare: esso è evocato per mezzo di immagini e simboli che non sono affatto un prodotto dell’immaginazione, ma una realtà che si manifesta al di là degli apparati concettuali.
Nelle teorie junghiane un ruolo fondamentale è pertanto rivestito dagli archetipi, che lo scienziato chiama immagini originarie, contenuti inconsci che fungono da produttori e ordinatori di rappresentazioni. Insomma una sorta di modello, presente in maniera innata, nella psiche umana.
Queste intuizioni furono frutto del suo immergersi nel misticismo sia occidentale che orientale, ma, essendo l’argomento che tratta della psiche umana, molto sfuggente e ambiguo, Jung non poté dimostrare “scientificamente” i suoi assunti. Essendo un mondo enigmatico nella forma più alta del mistero, a Jung non rimase che “descriverlo” per intuizioni, senza poterlo scientificizzare.
Lo psichiatra svizzero, affermò che la memoria sommersa, ma non estinta, di questo rimosso collettivo, passando dall’inconscio al simbolo, “testimonia” una realtà concreta. Il simbolo sarebbe dunque qualcosa di reale, anche se fondamentalmente inconscio, e per ciò, a prima vista, sconosciuto.
A onor del vero, a quei tempi, senza lo sviluppo della biochimica del cervello, la Pet, senza le neuroscienze, senza la risonanza magnetica funzionale e via dicendo, cercare di comprendere i processi mentali era una impresa senza probabilità di successo. Del resto a tutt’oggi, trattandosi di argomentazioni passibili d’interpretazione e non sempre supportate dal conforto scientifico, anche con i moderni mezzi di ricerca l’argomento è affrontato senza certezze assolute.
A causa proprio della carenza di mezzi di ricerca, in quel periodo nemmeno Freud riuscì ad arrivare a una metapsicologia scientifica che potesse consolidare in termini obbiettivi e verificabili l’Io, l’Es e l’inconscio, e altre congetture psicoanalitiche.
Proprio per la valenza mistica che caratterizzava il pensiero di Jung, per il carisma che gli derivava dall’approfondire gli antri inespressi dello psichismo, lo psichiatra svizzero venne considerato come un sacerdote sommo, che, rigettato il materialismo e le scienze esatte, ritenute inefficaci, utilizzava suggestive forze intrapsichiche inconsce e universali.
Ma com’era Jung uomo?
Barbara Hannah, sua biografa, afferma che Carl Gustav poteva essere molto gentile e attento alle esigenze degli altri, ma che sapeva anche diventare terribilmente duro e trattare la gente come uno straccio. Quando lei una volta glielo fece notare Jung affermò “ se perdo le staffe è l’inconscio che agisce attraverso me, non posso farci nulla”. Essendo abbastanza ricco, Jung non interpretò mai le culture in termini di meccanicismo economico, ma dal punto di vista spirituale e psicoanalitico, e non curò di indagare la psicologia sociale di coloro che vivevano nella intollerabile realtà al di sotto della sopravvivenza.
Per individuare la personalità junghiana è necessario evidenziare il suo interesse per la religione, dovuto al padre che era vicario e al nonno materno anch’esso uomo di chiesa. Nel contempo il suo bisogno di approfondire la mistica che riteneva “deludente” del cattolicesimo lo portò a studiare la religione cattolica.
Le crisi emotive del giovane Carl Gustav, presenti nella sua infanzia, forse dipesero dai reiterati litigi che si svolgevano tra i suoi genitori. La sua fragilità emotiva lo portava ad avere fantasie e visioni notturne, sogni in stato crepuscolare, tutte manifestazioni psichiche che indussero il medico che lo curava a diagnosticargli un disturbo di carattere epilettico, e ciò anche a causa dei frequenti svenimenti durante quel periodo.
L’infanzia e la giovinezza di Carl Gustav furono dunque fondamentali: Jung da ragazzo era convinto che il padre reverendo vicario di Kesswil, fosse un grand’uomo tant’è che in paese lo chiamavano “Carl del parroco”.
Di suo padre si diceva in paese che fosse “un individuo particolare” e che parlasse con i defunti. Anche la madre, Emilie, era legata alla religione, essendo nipote di un uomo di Chiesa. Carl perse fiducia in suo padre quando si rese conto che aveva dubbi di carattere religioso, ed ebbe molta pena per lui. In concomitanza con questa presa di coscienza cominciò ad avere frequenti tonsilliti e accessi di soffocazione, sintomi che in seguito Jung stesso definì di carattere psicosomatico.
Tra il 1892 e ‘ 94 la crisi tra Carl e il padre si acuì, giornalmente litigi e violente discussioni crearono tensioni nella vita familiare. Jung raccontò che quando vide il padre morente, non avvertì subito la madre e rimase a guardarlo rantolare, “perché non aveva ancora mai visto morire qualcuno”; e solo dopo qualche minuto andò a chiamarla.
Ciò che più sconcertava Jung da piccolo era la improvvisa scomparsa di una persona conosciuta, seguita dallo scavo di una buca e dal sentire dire che la persona che non c’era più in giro era stata seppellita e che il Signore l’aveva presa con sé.
Prima di frequentare la prima classa della scuola, Carl visse in solitudine, schivo da compagnie anche perché era un ragazzo molto introverso.
Quando a undici anni fu mandato a studiare a Basilea, Jung si accorse che l’importanza che aveva attribuita a suo padre, in quanto vicario religioso, era una illusione dovuta all’ambiente paesano, nel quale il padre primeggiava.
A Basilea la gente aveva ben altro spessore: era ricca, potente, e inserita socialmente, situazione diversa di quella dalla quale proveniva Carl “povero villico”.
In quella città si spalancò a Jung un mondo diverso da quello paesano, con valori meno spirituali e più materiali. Questo rilievo lo impaurì, e lo avvicinò alla religione. Comprese infatti che “l’unica cosa che davvero conti nella vita è l’obbedienza alla volontà del Signore”.
Dalla religione era affascinato perché la riteneva densa di misteri, come per esempio quello della Trinità. Jung si chiedeva come poteva esistere un’unità che nello stesso tempo era trina? Doveva esserci un verità soprannaturale importante dietro quella che a ragion di logica appariva una impossibilità evidente e madornale, se si ragionava con il metro della razionalità!
Il giovinetto sul mistero chiese spiegazioni al padre, che però non seppe dargli una delucidazione plausibile e Carl ne fu molto deluso.
Divenuto in seguito psichiatra, Jung affermò d’esser convinto che suo padre fosse morto perché incapace di risolvere il proprio dilemma religioso che lo aveva logorato fino a menarlo alla tomba!
Carl meditando sulla propria indole si rese conto che era scissa in due parti; una meditativa, intimista e l’altra tendente all’esteriorità, all’attività, allo stare con la gente. La “sensazione di essere due persone distinte” lo sconcertò per qualche tempo.
Al liceo, per avere idee più chiare sull’essenza delle cose del mondo e su se stesso, Jung ritenne opportuno leggere i filosofi. Affrontò le opere di Schopenhauer, Kant, e il Faust di Goethe. Fu molto colpito da Goethe: finalmente c’era qualcuno che prendeva sul serio l’esistenza del Diavolo. Jung era ammirato: “ecco qualcuno che parla della coincidenza degli opposti, del Diavolo che ha il potere di opporsi al Creatore!”. Per tutta la vita Jung fu turbato dall’idea che Dio permettesse al male di esistere nel mondo, ponendo così in essere “l’inevitabilità della coincidenza degli opposti”.
Di Schopenhauer fu subito deluso, perché negava il Padreterno. Col filosofo tedesco condivideva solo il pessimismo; mentre fu colpito da W. Krug, il successore di Kant, uno dei pochi filosofi che affermavano l’esistenza di Dio.
Malgrado il suo interesse religioso, paradossalmente, quando si trattò di pensare ad una scelta universitaria, Jung non pensò di accostarsi alla teologia, ed ebbe molte esitazioni; la parte estroversa della sua personalità voleva iscriversi a scienze, quella intimista si orientava verso gli studi umanistici. Nel suo libro “Ricordi” Jung descrive nei particolari le tappe della scelta della sua carriera. A venti anni, mortogli il padre, fu messo di fronte alla necessità di la lavorare e farsi carico delle spese della famiglia.
Dopo una scelta non univoca e molto sofferta, malgrado “la sgradevole sensazione di iniziare la vita di adulto con un compromesso”, Carl Gustav si iscrisse in medicina.
Più che di medicina, però Carl Gustav si interessava alla psicologia umana, conscia e inconscia. Nella sua continua indagine al riguardo vagliò e cercò di dare significato a tutte le formazioni mentali, tra cui “premonizioni”, impressioni, presentimenti, sogni, e, a proposito di questi ultimi, egli attribuì loro carattere rivelativo e profetico, affermando che con essi, a livello simbolico, l’individuo manifesterebbe il suo stato di crescita spirituale, e se ne servirebbe per comprendere gli archetipi collettivi che guidano il soggetto durante tutta la sua vita.
Jung in un primo tempo aveva preso in giro coloro che studiavano l’occulto, ma in seguito si convinse che quella era una materia da trattare con massimo rispetto e cura, tant’è che raccontò di avere egli stesso avuto alcune “esperienze strane e conturbanti” che non si prestavano ad alcuna spiegazione razionale, e un chiarimento poteva essere ricercato solo nel mondo della produzione “di fattori occulti”.
Cominciò così a frequentare sedute spiritiche per studiarle “scientificamente” e approfondì gli studi sullo spiritismo. Assistette a sedute in cui la medium aveva visioni, parlava con gli spiriti, alterava la voce e manifestava stati di possessione. In seguito espresse la possibilità che i defunti potessero davvero manifestarsi magari realizzando un tutt’uno col medium.
L’interesse crescente che nutriva per il regno dell’occulto, spinse Jung ad accostarsi alla psichiatria e a sostenere una tesi di dottorato sull’indagine psicologica dei fenomeni spiritistici. La predisposizione di Carl Gustav a credere in questi fenomeni gli impedì tutta la vita di procedere ad un esame scientifico di questa materia. Egli seguì varie sedute spiritiche e anche quando erano palesemente una frode, egli restava ancora dubbioso.
Per una strana combinazione, Jung aveva avuto come paziente, una sua giovane cugina, Hélène Preiswerk, che aveva manifestazioni isteriche e si definiva medium. A lei Jung si era legato con un sentimento da lui definito “molto vicino” all’amore, ma non si rese conto però che la Preiswerk, era una medium “truffaldina”, che passava durante le sedute da una personalità all’altra cambiando voce e il proprio nome in Ivènes perché voleva suscitare l’interesse di Carl e far colpo su di lui. Essendo innamorata del cugino, Hélène supponeva che impressionandolo con le sue trovate avrebbe potuto entrare nelle grazie del cugino.
Fu una delle caratteristiche più deboli del pensiero di Jung, scrive V. Brome nella biografia dello psicoanalista svizzero, quella di accettare senza prove scientifiche sufficienti gli eventi spiritici ai quali era convinto di assistere.
La frequentazione dei malati psichiatrici aprì a Jung nuovi orizzonti. Alla fine dell’ 800 questa branca ritenuta la meno valida della medicina, era quella più disprezzata dagli altri specialisti.
Ma leggendo Krafft-Ebing Jung trovò che era la disciplina che poteva dargli la soluzione ai suoi problemi.
Nel 1900 fu assunto come assistente psichiatra all’ospedale Burghölzili di Zurigo, che era una struttura appena costruita. Il primario professore Bleuler sulle prime prese in simpatia Jung, ma in seguito i loro rapporti si guastarono, anche perché Jung si rese subito conto che i suoi colleghi, sebbene apparissero appagati della loro professione, avevano fatto ben miseri passi avanti nella cura dei malati psichiatrici. Jung a tal riguardo aveva anche contestato una diagnosi di Bleuler, mandando il “maestro” su tutte le furie.
Jung al Burghölzili, suscitò subito molta invidia, perché col suo fare comprensivo attirava l’attenzione dei pazienti che preferivano affidarsi a lui piuttosto che agli altri medici del reparto.
Con la sua personalità “totalizzante” Jung riusciva ad avere un effetto terapeutico sui malati. Il suo carisma su di loro non era immeritato: Jung s’interessava profondamente dal punto di vista umano dei pazienti, e, mentre per gli altri psichiatri non aveva importanza né il vissuto conscio e inconscio né la individualità dei malati, ma erano accontentati solo nello stilare diagnosi, nel compilare statistiche e nel “bollare” i pazienti con etichette che non aiutavano la cura.
Jung invece si curava di approfondire il dialogo con l’ammalato, dominato com’era, da uomo e da ricercatore, dallo scottante problema di capire cosa passasse nella mente dei pazienti e perché. Poiché sin da giovanetto aveva intuito che ammettere le proprie debolezze era già un passo decisivo per “guarirne dall’angoscia”, divenuto psichiatra, suggeriva lo stesso metodo ai malati: li metteva di fronte alle loro responsabilità, di fronte alla verità. I risultati erano spesso benefici, in quanto “parlar chiaro” evitava le “rimozioni”.
Lasciando temporaneamente il lavoro al Burghölzili, il giovane medico andò a Parigi per studiare psicologia con Pierre Janet. Autonomamente da Freud, Jung giunse alla scoperta dell’inconscio, ma a differenza di Freud e Adler egli riteneva che molti contenuti psichici inconsci non avevano sede nella psiche individuale, ma in quella che lui definiva “collettiva”, fatta di archetipi.
Poiché Jung era convinto che per fare il mestiere di psichiatra il medico doveva provvedere a raggiungere una buona conoscenza di sé, per tal motivo affrontò la “conoscenza” del proprio inconscio.
In quel tempo oltre al lavoro, Jung pensò alla propria sistemazione sentimentale, sposando, era il 1903, Emma, figlia di una vecchia amica della famiglia, con la quale andò a vivere in un appartamento all’ospedale.
Con Emma non aveva avuto una frequentazione sufficiente perché potessero conoscersi ben, né tanto meno un feeling intellettuale, ma egli l’aveva notata anni prima e gli era sembrata la “ragazza a modo” adatta a essere la sua compagna nella vita.
L’attività di Jung ebbe ancor più successo quando si dedico all’ipnosi, pratica che però abbandonò ben presto perché egli stesso ammise di non capire come funzionasse e perché gli dispiaceva imporre la propria volontà al paziente.
Avuta una cattedra universitaria, Jung iniziò lezioni teoriche di psichiatria. Ma l’attività alla quale dedicava più tempo era l’analisi dei sogni, di quelli propri e di quelli dei pazienti, convinto che solo attraverso quella “porta abissale” dell’anima si sarebbero potute comprendere le cause della malattia psichica.
Sebbene Jung si fosse avvicinato a Freud, del medico viennese non condivideva la smisurata attenzione per la sessualità, ritenuta dallo psichiatra viennese la causa principale delle nevrosi. Per Jung, invece si trattava di una e non dell’unica causa delle nevrosi e delle psicosi.
Lo psichiatra svizzero osservò che Freud da un lato aveva ricusato la religione in quanto la riteneva imposizioni di concetti non dimostrati, e dall’altro aveva creato la “religione della sessualità”. Fu questa, in seguito, tra l’altro la causa della rottura tra i due studiosi. Jung affermò inoltre di non avere mai avuto grande trasporto verso la Società psicoanalitica di Freud, e di averla frequentata esclusivamente per “far piacere” al maestro. Sebbene in seno alla gruppo freudiano Jung avesse raggiunto alte cariche, a causa delle differenti vedute tra lui e il maestro fu inevitabile l’allontanamento dalla associazione viennese e la fine del suo rapporto con Freud.
Jung sviluppò una pratica terapeutica diversa da quella tenuta dal maestro, sia per quanto riguardava l’interpretazione dei sintomi e dei sogni e sia persino nel rituale della seduta analitica. . Egli utilizzava il transfert come “confronto” delle loro reciproche idee. Il che significava che Jung invitava i pazienti ,durante l’analisi, a collaborare con lui nella ricerca della comprensione dei loro disturbi, dando i loro pareri anche sulla terapia.
A differenza di Freud, Jung non faceva sdraiare sul lettino i pazienti, che mentre avveniva la seduta erano liberi di muoversi nella stanza, così come lo era lo stesso terapeuta. A volte Jung riceveva i pazienti in auto e persino in barca
Freud intanto si allontanava sempre più dall’allievo prediletto, dicendo addirittura che si riteneva incapace di capire gli scritti di Jung, in particolare il lavoro riguardante “I simboli della trasformazione”, cosa che addolorò molto l’allievo.
Freud non perdonò a Jung di avere abbandonato lo scientismo razionale e di essersi dato, anima e corpo, alla ricerca dell’occulto, della magia e dei mandala, sostenendo inoltre che gli era difficile comprendere i motivi per i quali uno studioso che all’inizio della carriera era stato psicologo e psichiatra in senso scientifico, fosse passato a ricerche che nulla avevano di scientifico, e lo portavano a indagare con l’immaginazione e non col metro scientifico.
A tal riguardo un curioso episodio fece riflettere negativamente Freud sulla capacità scietifica dell’amico e allievo. Un giorno quest’ultimo era a casa di Freud, e improvvisamente nella stanza dove discutevano s’udì un rumore al quale Freud non fece caso, ma che attirò l’attenzione di Jung il quale lo collegò a un certo discorso sulla morte che avevano intavolato, e affermò solennemente: «Professore sono certo, che tra poco ci sarà nella stanza un altro rumore inspiegabile».
Il rumore ci fu davvero, e poiché Jung insisté nel descriverlo come un fatto “imperscrutabile”, subì la immediata derisione del maestro che così l’apostrofò: “Suvvia quello che lei dice è una vera sciocchezza!”.
Freud infatti non ammetteva supposizioni non scientifiche del genere. Freud scrisse in seguito che quel rumore lo avvertì altre volte nella stanza e che probabilmente dipendeva da un assestamento del legno della vecchia mobilia.
Freud e Jung avevano mentalità diverse. Il primo, razionalizzatore, tendeva a scientificizzare persino materie ed eventi difficilmente inquadrabili scientificamente; Jung, invece, temperamento mistico, si rifiutava di razionalizzare anche laddove era evidente che si poteva ricavare una conoscenza scientifica.
Per un certo periodo Freud e Jung si scambiarono notizie sui rispettivi sogni e li analizzarono vicendevolmente. Ma anche questo fu causa di attriti tra i due: Freud non accettò alcune interpretazioni che l’altro gli proponeva per i sogni che egli gli aveva raccontato, ritenendo che le interpretazioni di Jung “mettevano a repentaglio la sua autorità” e, a sua volta, Freud trovò sconcertanti alcuni sogni che gli aveva confidato il suo “allievo”.
Tra i due sorsero dunque parecchie dispute, una di queste durante il loro viaggio a New York, quando Jung diede dell’ambizioso a Freud e questi replicò affermando: «Io sono il più umile degli uomini, l’unico che non sia ambizioso!». E Jung replicò freddamente: «E non è ambizione ritenersi “l’unico non ambizioso al mondo?”».
Nel 1909 Jung abbandonò l’appartamento che gli avevano messo a disposizione all’ospedale e andò ad abitare a Kusnacht. A quel tempo aveva trentaquattro anni, due figli e un figlio ( Agata, Anna, Franz), (le altre due figlie (Marianne ed Emma) nasceranno a Kusnacht). La risoluzione di far alloggiare la famiglia fuori dall’ospedale dipese anche dalla necessità che Jung sentiva di tenere lontani i suoi familiari dal suo lavoro. Con questa decisione Jung impediva alla sua famiglia di venire a conoscenza dal suo rapporto con i malati, soprattutto del tipo di relazione che si sviluppava tra lui e le donne.
Paul Stern affermava che il magnetismo di Jung nei confronti delle donne era noto e visibile. Emma, in una lettera inviata a Freud raccontò che tutte le pazienti di Carl erano innamorate di suo marito. Infatti, le donne avevano nei confronti di Jung un transfert se non molto più forte, molto più evidente di quello che avevano gli uomini verso di lui. Una volta Jung stesso ebbe a dire: “ Non avrei scoperto la, psicologia senza voi donne.
Quando lo accusarono di creare, col suo carisma, un transfert troppo intenso nei suoi pazienti, Jung si difese affermando che per calarsi nel modo dei malati era impossibile non si costituisse una mutualità di sintonie tra medico e pazienti, e inevitabile che questi ultimi, magari impercettibilmente, non si “impadronissero” di lui. “La seduzione – diceva Jung è come un gas inodore, che non si percepisce coscientemente ma che tuttavia produce i suoi effetti”.
Questa visione del rapporto terapeutico Jung utilizzò a difesa della vicenda che lo legò ad una paziente, Sabina Spielrein.
A mano a mano che procedeva la guarigione, Sabina si legava sempre più a medico che la curava e questi a lei, fino a quando in loro non avvenne un “franco chiarimento” che però invece di troncarla consolidò vieppiù la loro unione sentimentale.
Quel rapporto perturbante, sconvolse Jung, tanto impreparato ad un evento del genere che chiamò in causa anche dalla madre della paziente. In seguito lo psichiatra definì quella vicenda il tasto più infelice della sua carriera.
Sabina i pretendeva sempre maggiori attenzioni da parte di Carl Gustav, e gli rimproverava di non avere il coraggio di lasciare Emma e mettersi definitivamente con lei.
Jung però non se la sentì di troncare il matrimonio anche perché c’erano già tanti figli, e cercò di ritirarsi in buon ordine dalla relazione con Sabina. Ma lei non volle abbandonare il campo e andò su tutte le furie quando lui le chiese di por fine alla relazione. Carl tenne duro e rimase fermo nella decisione di non rompere con Emma. Jung spaventato dalla piega romantica e dalle conseguenze negative che portava alla sua professione, passò Sabina a Freud, abbandonandola al suo destino. La Spielrein seppe reagire all’abbandono, completò l’analisi con lo psichiatra viennese e affascinata dagli studi psicoanalitici nel 1923 venne accettata come psicoanalista nella società psicoanalitica di Freud.
Dopo che divenne psicoanalista, Sabina aprì in Russia un ricovero per malati di mente. Durante la guerra, poiché era ebrea, venne catturata dai nazisti e morì in un campo di concentramento,
La vicenda Jugh – Spielrein ha solleticato un certo gossip romantico, spingendo un regista, Roberto Faenza, a imbastire nel 2003 un film dal titolo Prendimi l’anima. In esso è descritto con tratti alquanto oleografici il passaggio di Sabina da malata di mente a psicoanalista freudiana, da paziente ad amante del proprio terapeuta.
Altri registri hanno trattano la figura di Jung: Moira Armostrong in “Freud”(1984); Carlo Lizzani in “Cattiva”. In questo film lo psicoanalista Jung salva mediante la psicoterapia una donna che gli altri ritenevano “cattiva e perversa” a causa del suo modo di fare, mentre invece era solo nevrotica.
Sul problema del transfert, Jung affermò che ogni terapeuta si trova dinanzi a un grande dilemma: come si può penetrare il cuore degli altri per guarirlo, uscendone indenne? Jung scrisse che il legame che si sviluppa tra paziente e medico assume talvolta valenza indistruttibile, e i sentimenti che il paziente avverte nei confronti dell’analista ne fanno una figura con un immenso potere nei confronti della persona analizzata.
Partendo da questa considerazione, Aldo Carotenuto raccontando il rapporto Jung-Spielrein creatosi col rapporto analitico, nota che questo tipo di legame è presente anche nei rapporti che avvengono nella vita reale: “nella società – scrive Carotenuto – l’amore della donna per il proprio uomo spesso si sviluppa in una situazione di disparità, se non di dipendenza, e, anche quando le cose vanno male nella coppia, malgrado gli aspetti negativi dell’unione, vi sono donne che non riescono a liberarsi da quel “transfert” e rimangono legate al loro uomo anche se si rendono conto che potrebbero essere più serene se troncassero quel legame”. L’intromissione del terapeuta nell’inconscio del paziente affermò Béla Grunberger sfiora l’onnipotenza narcisistica e crea una captazione di soggezione da parte del paziente.
Poco dopo la vicenda Spielrein un’altra giovane malata interferì con la vita familiare di Jung: era Antonia Wolff, detta Toni, che soffriva di depressione e venne curata dal terapeuta svizzero. L’apporto di Carl Gustav per la guarigione della giovane fu essenziale, egli dedicò grande cura a quella che definì “una intelligente ragazza”, e le diede fiducia al punto da farla partecipe dei propri studi psicanalitici. Jung entrò così in intimità con lei che le confessò che era caduto in depressione dopo la rottura con Freud, e che era giunto alla conclusione che doveva analizzare il proprio inconscio per far luce sui suo nodi navrotici.
Quella confessione cementò ancor più l’unione tra la paziente e il terapeuta. La Wolff si era legata a doppia mandata al suo medico, e affermava che se si separava da Jung tornava ad essere depressa. Mentre faceva l’analisi del proprio inconscio, Jung si trovò dunque alle prese con un problema che gli era giù sorto in precedenza, ma che non aveva affrontato mai seriamente: la constatazione che si possono amare contemporaneamente due persone: nel suo caso, la moglie Emma, che era la madre dei suoi figli, e la signorina Toni Wolff, della quale apprezzava le capacità “scientifiche” e di sintesi e che lo aiutava nelle ricerche “creative”.
Jung era in contrasto con le teorie freudiane secondo le quali bisognava evitare qualsiasi contato con i clienti. Egli affermava che incontrando i pazienti nella vita di ogni giorno aveva maggiori occasioni di conoscerli e di capire la loro situazione psicologica reale.
Così dopo qualche esitazione, cominciò a vedere Toni anche fuori dall’analisi. A quel punto Jung cercò di integrare la figura di quella donna nell’ambito della propria vita quotidiana. Sulle prime Emma trovò la situazione molto sgradevole e difficile. Ma Jung assicurò ad Emma che se gli avesse lasciato frequentare Toni non la avrebbe mai trascurata. In seguito Emma ammise che il marito aveva affermato il vero, e scriverà: “in un primo tempo pensai che Carl avesse portato via a me qualcosa per darla a Toni, ma mi resi presto conto che invece più dava a lei e più sembrava in grado di dare il più possibile a me”.
Jung mantenendo una certa “trasparenza” sentimentale nei confronti della moglie e della famiglia, poté nel contempo utilizzare l’aiuto psicologico e materiale che Toni Wolff gli dava anche riguardo agli studi di psicologia.
Emma e Toni avevano caratteri diversi: la prima era convenzionale, divenne una brava analista ( disse, per capire meglio la psicologia di suo marito); la Wolff aveva un temperamento intraprendente e libero, e non condivideva, col tipico scetticismo dell’intellettuale, molti dei valori comunemente accettati dalla società.
L’appoggio apportato da Toni a Jung era variegato, culturale ed emotivo: una notte Jung si svegliò in preda all’angoscia, si vestì e andò a casa di Toni, perché riteneva che potesse aiutarlo a sedare l’angoscia che gli era sviluppata durante il sonno.
In seguito Toni divenne il pilastro del circolo di psicologia fondato nel 1916 da Jung e, una volta diventa terapeuta, sollevò Jung da molte ore di analisi. Ciò consentiva a Jung di dedicarsi interamente alla ricerca del proprio inconscio.
Affrontando questo lato della sua psiche, Jung fu turbato dalla marea di fantasie, percezioni illusori, visioni sfrenate che ristagnavano all’interno della sua mente; molte delle quali non riusciva né a capirne né a dipanare nella loro complessa simbologia. Dopo la rottura con Freud di avere avuto un periodo di incertezze interiori e di disorientamento e che la sua autoanalisi lo aveva condotto in maniera a volte anche deturpante nelle regioni più “vulcaniche” del suo Io. Tra il 1913 e il 1917 Jung fu afflitto da disturbi psichici, che alcuni colleghi diagnosticarono come un vero e proprio “crollo schizofrenico”, ma che lui decisamente ricusò ritenendola una diagnosi infondata.
Jung “somatizzava” la propria nevrosi con insonnia, dolori di stomaco, e perfino con sensazione di “essere posseduto” che lo riducevano in condizioni pietose. Raccontò a Toni Wolff di avere avuto la sensazione, allontanandosi da Freud, di avere commesso un “parricidio” ed era impaurito che le proprie condizioni psichiche potessero peggiorare anche perché Edward Jung gli aveva riferito in una lettera, che la bisnonna Sophie Ziegler aveva sofferto di una malattia mentale.
Mentre compiva la sua autonalisi, lo psichiatra svizzero pensava a formulare teorie sulla psiche umana, e si convinse che la nevrosi che tormenta l’uomo moderno altro non è che l’alienazione che avviene nell’individuo dal substrato mito poetico ancestrale. L’individuo normale resta attaccato al proprio passato, lo psicotico se ne allontana e perde così le tracce dell’equilibrio ancestrale.
Per “guarire” e approfondire la ricerca del proprio inconscio, Jung nel 1913 decise di rinunziare alla lezioni all’università. In quel periodo cominciò a studiare Paracelso, medico e alchimista svizzero del XVI secolo e cercò di capire il mondo archetipo della mente e prevenire il proprio “squilibrio mentale” a causa della gran lavoro dell’indagine intrapsichica che faceva su se stesso.
Jung si rese conto che doveva bilanciare la vita interiore nella quale si era calato con una “sana” partecipazione al mondo reale, affinché il contatto con la realtà facesse da contrappeso al continuo immergersi nel mondo dell’inconscio.
Durante il primo conflitto mondiale Jung dovette tralasciare gli studi perché a periodi alterni prestò servizio militare. In quel periodo Jung fu utilizzato dal suo reparto come medico generico, ma aveva molto tempo a disposizione. Meditando durante gli ozi di tale servizio, Jung scoprì il mandala. Il mandala è disegno circolare con molte figure e molti colori, che rappresenta, secondo i buddhisti il processo secondo cui il cosmo si è formato dal suo centro. Il mandala attraverso un articolato simbolismo consentirebbe una sorta di viaggio iniziatico che permetterebbe secondo i buddisti di “crescere” interiormente.
I buddhisti ritengono i mandala entità mentali, e le immagine fisiche che le rappresentano materialmente servono solo perché la gente possa visualizzarli durante il periodo nel quale sono utilizzati per fini della meditazione intimista e religiosa.
Al termine del lavoro, il mandala deve essere “distrutto”. Questo gesto vuole ricordare la caducità delle cose e la rinascita, della forza che dà la vita.
L’utilizzo dei mandala ha una tradizione antichissima e Jung ne fece uno strumento di studio per comprendere la personalità dell’uomo. Secondo Carl Gustav Jung, chiunque è prossimo a completare il processo di individuazione, cioè quando sta per conoscere se stesso, incontra un mandala. Può incontrarlo in sogno o in un disegno tracciato con le sue proprie mani.
Chi è matematico, lo può vedere in un problema geometrico, ma anche in un problema aritmetico. Lo psichiatra svizzero sull’argomento scrisse 4 saggi dopo aver studiati i mandala per oltre venti anni.
Secondo Jung durante i periodi di tensione psichica figure mandaliche possono apparire spontaneamente nei sogni per portare pace o per indicare la possibilità di un ordine interiore. Il simbolo del mandala, sostiene Jung, non è un’affascinante forma espressiva ma, in esso si nasconde un effetto magico: l’immagine ha lo scopo di tracciare un recinto sacro della personalità più intima, un cerchio protettivo che evita la “dispersione” e tiene lontane le preoccupazioni provocate dall’esterno.
Ma c’è di più: oltre ad operare al fine di restaurare un ordinamento precedentemente in vigore, il mandala persegue anche la finalità creativa che consente di dare espressione e forma a qualche cosa che ancora non esiste, e che può diventare qualcosa di nuovo e di unico.
Il mandala dunque aiuterebbe a meditare, a concentrare l’attenzione, a proteggere dalle distrazioni esterne e interne. Il mandala sarebbe un luogo in cui si entra per poi scoprire che è dentro di noi; è la porta attraverso la quale possiamo stabilire un contatto con il nostro inconscio affermò Jung.
Quella convinzione gli ridiede equilibrio e gli fece recuperare la pace con se stesso. Il lavoro sul proprio inconscio e la scoperta del mandala trasformò la personalità di Jung. Egli seppe che doveva vivere con gli opposti, e accettò di vivere con le sue due personalità, quella estroversa e quella introversa.
Jung affermava che gli anni nei quali si era dedicato ai mandala erano stati i più importanti della sua vita. Il mandala è espressione del Sebst (di se stesso) affermava e questo fatto ristabilisce la pace interiore. Marie-Louise Von Franz (allieva di Jung), in sintonia col maestro affermava che nella maggior parte dei casi, il mandala restaura l’ordine mentale, e stimola nuovi elementi creativi.
Jung ricorse anche all’alchimia per decifrare le possibilità della sorte umana. Era questa, come lo studio del mandala, un’altra delle sue “deviazioni” dalla via scientifica. Sugli studi sull’alchimia Jung pubblicò due studi, Affermando che “l’opera alchimistica non consiste in meri esperimenti chimici, ma in qualcosa di simile ai processi psichici espressi in linguaggi pseudochimici”. Affermava altresì di essere convinto che nella costituzione spirituale dell’uomo c’era anche una componente chimica che la “animava”. Jung era convinto che gli alchimisti intuirono che la loro opera aveva un certo rapporto con la psiche umana e le sue funzioni
Secondo Jung, dunque, l’opera degli alchimisti, con i loro interventi chimici otteneva una conoscenza della psiche. Così come accadeva mediante i mandala, l’alchimia realizzava un processo psicologico in parte conscio e in parte inconscio.
Studiando l’alchimia Jung si imbatté nel problema della coniunctio, che era in alchimia l’unione degli opposti, che divenne uno dei motivi dominanti della vita del medico svizzero. Per capirsi, affermava Jung l’uomo dovrebbe accettare la propria coniunctio.
Jung eccitato da queste ricerche, abbandonò l’università l’ospedale e si dedicò all’esame dell’inconscio.
Emma e Antonia gli diedero una mano e lo aiutarono in tutti i sensi: evitandogli problemi materiali e spirituali con il lavoro e con la gente. Toni gli faceva persino da autista.
Sollevato dalle proprie incombenze di terapeuta, abbandonati gli studi più tecnicamente “scientifici” di psichiatria, quelli cioè che riguardavano le malattie mentali vere e proprie, le quali forse egli sentiva di non riuscire curare, Jung iniziò una serie di viaggi antropologici, sociologici e di ricerca psicologica, per studiare le mentalità di culture diverse dalla europea, e capire come i paesi extaeuroperi vedevano gli occidentali.
Tali “escursioni” lo portarono in Tunisia, tra i Pueblos del Nuovo Messico, a Mombasa, a Nairobi, in Uganda, sul Nilo, nel Sudan, in India, nell’Himalaya. Da queste culture disse di avere appreso molto sul sentimento della morte, e della sessualità. Inoltre si convinse che “l’europeo non conoscendo il proprio inconscio, non capisce l’Oriente e vi proietta tutto ciò che teme e disprezza in se stesso”.
In quei periodi di studio-vacanze Jung affermò che “si era liberato della civiltà occidentale e le sue energie psichiche erano espanse nelle distese primordiali della mente”. Quando affrontò il viaggio in Africa lasciò a casa Emma e Toni, affermando che aveva bisogno di un periodo di solitudine per viaggiare all’indietro nel tempo e approfondire le culture extraeuropee.
Ma fu proprio durante il suo viaggio in Africa che entrò nella sua vita un’altra delle figure femminili importanti per Jung: Ruth Bailey, una inglesina che si recava a Nairobi per il matrimonio della sorella. Quell’incontro fortuito avvicinò la giovane al dottore svizzero, e i due finirono col restare assieme tutto il periodo del soggiorno africano di Jung. Jung giustificò l’amicizia con Ruth affermando che quella figura rappresentava il completamento della “triade”. Egli non precisò mai e non lo fece nemmeno Ruth se la loro amicizia fosse sfociata in un vero e proprio rapporto, ma sta di fatto che da allora i poi i due non si persero più di vista. Al ritorno in Europa, Ruth fu invitata più volte a casa Jung e vi si trattenne per settimane.
Oltre ai viaggi in terre non occidentali, Jung fece molte “incursioni” in Usa ( sempre in nave, perché diceva, la nave avvicina a poco a poco alla meta, e fa assaporare la novità delle nuove terre, mentre l’aereo, facendo arrivare troppo presto, imbroglia lo spirito, che si trova a dover essere contemporaneamente tra il passato e il presente), in Inghilterra , in Scozia, in Italia, tenendo sempre conferenze e seminari che avevano per argomento le visioni e le apparizioni nell’inconscio, oppure temi riguardanti il pensiero di filosofi come Nietzsche, Schopenhauer, Descartes, W. James etc.
Durante gli anni del secondo conflitto mondiale Jung fu angustiato per la sorte dell’umanità, essendo convinto che ad essere preso dalla possessione non era solo Hitler, ma tutto il popolo tedesco che Jung definì, impossibile oramai da riportare alla ragione.
Jung aveva scritto diversi articoli e aveva tenuto varie conferenze per “rendere consci” i tedeschi di ciò che accadeva nel loro paese, e del disastro cui stavano per andare incontro seguendo Hitler, ma si persuase che il caso era disperato e che il mondo a causa loro andava inevitabilmente verso il disastro.
Nel 1942 Jung fu invitato da politici e personalità svizzere a tentare di compiere passi per ristabilire la pace. Lo psichiatra svizzero si dedicò con entusiasmo alla causa della pace, il cui mediatore doveva essere l’arcivescovo Temple, che Jung conosceva bene. Ma il progetto andò in fumo. Qualcuno aveva ventilato ad Hitler quei tentativi, e il Führer andò su tutte le furie e così il proposito di un tavolo di trattative venne meno.
Nel 1944 Jung ebbe una trombosi cardiaca e fu sull’orlo della fine. In quel periodo di semi incoscienza, riferirà egli stesso in seguito, ebbe parecchie visioni sintomatiche per comprendere ancora meglio il proprio inconscio. L’anno appresso, ristabilitosi compì 70 anni festeggiato dalla comunità di amici e pazienti. Il maggior dispiacere che ebbe dopo l’infarto fu che gli venne proibito di guidare l’automobile, cosa che prima lo aveva divertito molto. In quel periodo s’incontro con Winston Churcill col quale ebbe una lunghissima conversazione sugli accadimenti del periodo bellico, e col quale scambiò impressioni e idee di carattere antropologico circa l’esistenza della tendenza alla guerra nell’umanità tutta. Pochi mesi dopo Jung ebbe un altro attacco di cuore, che lui attribuì allo sforzo che aveva sostenuto per descrivere e risolvere un problema alchemico.
Infatti l’alchimia si presentò nella sua mente eclettica come una delle possibili vie per capire il destino umano. In psicologia e alchimia Jung si sforzo di mostrare come l’alchimia integrasse e completasse il cristianesimo. Jungo sosteneva che la tradizione cristiana, così come l’alchimia, era vissuta nel dilemma Cristo-Anticristo, cioè nella coincidenza degli opposti. Lo psicologo svizzero avvertiva che Cristo condivideva col Diavolo molti simboli: il serpente, il pesce, l’uccello ( la colomba). Jung ripercorse la storia degli opposti verificatasi durante tutta l’era cristiana e giunse alla conclusione che Dio ha bisogno dell’uomo “per diventare conscio”. Sarebbe questa l’idea non manifesta ma sotteso della credenza cristiana del Dio che si fa uomo, appunto per conoscere la realtà umana! Dio, rima di farsi uomo, aveva sofferto per la sua “incoscienza” , di qui la decisone di Dio di diventare uomo. Ma, afferma sempre Jung, sebbene Dio si sia presentato come sommo amore, l’accentuazione di questa caratteristica unilaterale comportò negli uomini psicologicamente l’inevitabile costellazione del suo opposto, l’eccessiva speranza ha prodotto per coincidenza degli opposti sfiducia e odio! Dio a quel punto ebbe bisogno di un avvocato, il suo figliuolo, che farò tornare la fiducia nel Padre. Probabilmente nessun altro scritto di Jung è così pregno di misticismo e lontano dalla scientificità. Ormai Jung studiava con puntiglio i fenomeni paranormali, e non prestò orecchio alle critiche sul suo modo di procedere.
Nel tempo in cui era dedito a questi studi, un luttuoso evento lo colpì profondamente, e fu la morte improvvisa della Wolff.
Ruth Bailey che aveva frequentato per molto tempo gli Jung sostituì la Wolff nella cura di Carl Gustav, e assisterà Emma e il marito fino alla loro morte.
Nel 1955 Jung festeggiò il suo ottantesimo compleanno in sordina. “Come se mi aspettassi un altro lutto” affermò lo psicologo, e infatti, poco dopo morì Emma. Gli ultimi quattro anni della sua vita Jung lamentò spesso il suo destino atroce di esser sopravvissuto a Toni e a Emma. Fortunatamente ebbe vicini molti amici, Ruth e Konrad Lorenz furono i più assidui frequentatori della sua casa. Ruth lo accudiva giornalmente e il fatto che non si fosse mai sottoposta all’analisi, faceva dire a Jung che tramite lei egli poteva avere notizie sulla gente giudicate dalla sua amica con una straordinaria ingenuità, e senza “compromissioni” psicoanalitiche. Toni non aveva peli sulla lingua, e apostrofava in modo schietto Jung, dandogli del vecchio impostore, quando trovava nel medico delle incongruenze, e Carl Gustav lungi dell’arrabbiarsi, come avrebbe fatto con chiunque altro, scoppiava in una fragorosa risata e conveniva che lei aveva “proprio ragione”.
Negli ultimi anni, Jung si occupò anche del problema degli Ufo. Lo scetticismo iniziale di Jung a proposito dei dischi volanti andò attenuandosi a mano a mano che studiava le varie testimonianze, sicché alla fine disse che probabilmente gli ufo non erano che uno degli aspetti “psicologici” dell’umanità. In altri termini, gli Ufo erano archetipi desiderati dalla gente.
Prima di morire Jung raccontò a Ruth il suo ultimo sogno e le chiese di registrarlo. Carl Gustav Jung si spense nel 1961.
Sebbene accusato di scarsa scientificità e di ingombrante misticismo, Jung si è ritagliato uno spazio importante nel panorama della ricerca psichica, avendo dedicato con grande onestà intellettuale e senza riserve tutta la sua vita ad analizzare il flusso mentale dell’essere umano, sia quello che avviene in stato di coscienza che quello che si sviluppa nei meandri dell’inconscio.
Questa ricerca Jung la effettuò sui pazienti, sui loro sogni ma soprattutto analizzando incessantemente se stesso.
Jung poté rendersi conto di alcuni dei meccanismi che presiedono al funzionamento della psiche umana, dei risvolti poco appariscenti, delle forze intrapsichiche che creano l’insieme di intuizioni, di impressioni, di premonizioni, di spinte e di forze emozionali positive e negative che costellano la nostra psiche. Jung affermò che la saggezza si acquisisce riconoscendo il senso del mistero, nel quale l’anima ritrova la propria origine e il proprio destino, in quanto, “l’armonia invisibile vale più di quella visibile”.
EDUCAZIONE E CARATTERE: I TIPI UMANI.
L’umanità è fatta di svariati tipi psicologici. Osservando l’evolvere del modo di pensare, di reagire e
di vivere di un individuo, dalla nascita alla maturità, è possibile rendersi conto di quali condizionamenti impone
l’educazione. E tuttavia, sebbene la maggior parte della gente non dubita, per esempio, che l’alimentazione incida
sulla qualità della vita e che bambini mal nutriti si possano ammalare, non sempre essa accetta l’idea che
l’educazione è l’alimento della personalità.
Il carattere è l’originaria struttura della personalità, l’insieme di tratti psicologici reattivi che
si formano nella primissima infanzia e che distinguono una persona da un’altra. La personalità si identifica a
lungo termine, nei gusti, nelle scelte personali e culturali e nei modi con i quali l’individuo affronta la
vita, gli avvenimenti sociali, le relazioni con gli altri. A mano a mano che l’individuo cresce appaiono
sempre più chiare le modalità con le quali egli si comporta, come reagisce e come esprime il proprio modo di
vedere e di vivere la vita. Gli psicologi hanno cercato di descrivere i tipi umani che s’incontrano più di frequente, anche se nella realtà non è possibile trovare prototipi eguali, in tutto e per tutto, a quelli delineati dagli studiosi.
Infatti, ogni individuo è irripetibile, particolare, e non è possibile trovarne due perfettamente identici.
Tuttavia, alcune caratteristiche di base distinguono un tipo da un altro e servono da orientamento per
decifrare la psicologia della gente e anche per capire noi stessi.
Descrivere i tipi umani è stata un’esigenza sentita sin dagli albori della cultura. Nell’antichità il primo medico della storia, Ippocrate, suddivise gli
uomini in base al temperamento, che è l’insieme di caratteristiche meramente genetiche che distinguono un
individuo da un altro. Allora si non si conoscevano le dinamiche psicologiche e Ippocrate basò la sua tipologia
su dati più psicofisici. Egli divise l’umanità nei seguenti temperamenti: il sanguigno, socievole e
ottimista; il malinconico, emotivo e suscettibile; il collerico, aggressivo e irascibile; il linfatico, lento e
pigro. Nell’800 il medico Ernest Kretschmer divise anch’egli i tipi secondo strutture temperamentali, in:
atletico, ottimista, pieno di vitalità;
astenico magro, fragile e con tendenze pessimiste,
picnico grassottello, superficiale e allegro.
Fu lo psicoanalista C. G. Jung che indicò i tipi, basandosi solamente su caratteristiche psicologiche, in
introversi ed estroversi. I primi sono generalmente chiusi in se stessi, gli altri allegri e di comitiva. A questa suddivisione
Jung aggiunse le seguenti sotto categorie, che possono essere a loro volta, introversi ed estroversi:
il tipo pensatore, buon teorico, ma poco pratico;
il sentimentale che sogna ad occhi aperti;
il sensitivo che ama avere esperienze e sensazioni nuove, ma superficiali.
l’intuitivo, categoria in cui sono i mistici, i poeti e coloro che hanno molto ascendente con la loro forza suggestiva.
Sigmund Freud, distinse tre tipi umani: l’orale, l’anale e il fallico.
Il primo sarebbe caratterizzato da un estremo bisogno di protezione,
il secondo è meticoloso, combattivo e ossessionato dalla perfezione,
il terzo è narcisista e alquanto superficiale.
Lo scienziato viennese osservò che, quando il processo di maturazione psicosessuale arriva a buon fine, si forma in ultimo il tipo genitale, persona veramente equilibrata, con comportamenti maturi e scelte ragionevoli e poco condizionata dall’infanzia. Suddivisioni a parte, il destino di ognuno dipende dall’infanzia, ed è importante che gli adulti e in particolare padre e madre
siano persone equilibrate e ragionevoli. In questo caso il bambino cresce sicuro di sé e fiducioso. Ma se gli adulti o i genitori schiacciano il bambino con la loro biliosità o la loro prepotenza, il piccolo non sarà in grado di sviluppare
una personalità normale. Che l’educazione manipola la personalità, lo si riscontra facilmente osservando i tratti infantili di certi adulti, nei quali si leggono chiaramente i traumi che li afflissero in età giovanile. Tanto più sono stati
forti questi stress, tanto più in seguito gli adulti sono impacciati e involuti.
Osservando i bambini più piccoli, ci si accorge che essi hanno idee, gusti e comportamenti che sono le
fotocopie di quelli degli adulti. Ciò potrebbe essere un vantaggio quando si tratta di influenze dovute a buoni
educatori. Le cose invece si complicano quando gli adulti, ritenendo che la personalità e il carattere sono
congeniti, si comportano in maniera dissennata nei confronti dei minori.
“E’ nato così e non può cambiare” afferma qualche sconsiderato genitore a proposito del figlio che non “si
fa educare”. Questa è la sconfitta dell’adulto incapace che rinunzia a migliorare il proprio sistema educativo,
o è, più semplicemente, una scusa per non ammettere di non aver saputo educare al meglio.
LE CONSEGUENZE DELL’INFANZIA NEGLI ADULTI
Ma l’idea della fisiognomica era partita da Ippocrate, il quale aveva suddiviso gli uomini in base a fattori fisico-genetici, distinguendo i temperamenti in sanguigno, (socievole ed ottimista); malinconico (emotivo e suscettibile); collerico, (aggressivo e irascibile); linfatico, (lento e pigro).
Una classificazione quella della fisiognimica che resse circa duemila anni, fino a quando, a cavallo del 1900, il neuropsichiatra Kretschmer descrisse il tipo atletico, (ottimista e piena di vitalità); l’astenico (fragile e pessimista), il picnico ( superficiale e allegro).
Ma fu con C. G. Jung che l’umanità venne classificata secondo caratteristiche psicologiche, piuttosto che per attributi fisici. Jung individuò gli introversi (chiusi in se stessi) e gli estroversi, (allegri e di comitiva), precisando altre caratteristiche, nei tipi pensatori, sentimentali, sensitivi, intuitivi.
E alla fine Jung pervenne a un quadro abbastanza esauriente delle carattreristiche psicologiche di buon parte della gente. L’introverso pensatore, è il tipo teorico, ma poco pratico, In quanto all’estroverso pensatore è un buon realizzato; invece l’introverso sentimentale è suscettibile e molto sognatore.
L’estroverso sentimentale è allegro, buontempone, mentre l’introverso sensitivo piuttosto istintivo e attento solo ai propri bisogni,
L’individuo avventuroso, entusiasta, godereccio, è estroverso sensitivo. Mentre l’introverso intuitivo è mistico, poeta, artista., L’estroverso intuitivo è sempre secondo Jung la persona sempre pronta, attiva, tempista.
Sigmund Freud si convinse che il carattere è determinato dalla maturazione psicosessuale, e individuò tre fondamentali tipi umani: l’orale, l’anale e il fallico. Il primo bisognoso di protezione; il secondo meticoloso, combattivo, ossessionato dalla perfezione; il terzo narcisista e superficiale.
Secondo lo psichiatra viennese, con un riuscito processo di maturazione si forma il carattere genitale, che si esprime nella persona equilibrata, matura e ragionevole. Quasi tutti gli psicologi sono ormai concordi che, a parte inevitabili influenze genetiche, la personalità dipende dall’educazione. Essi sostengono che negli adulti si notano i traumi derivati dalle vicende infantili.
I variegati personaggi psicologici di cui si caratterizza l’umanità, sarebbero dunque modellati dalle esperienze infantili. Il carattere è la base della psicologia individuale e la personalità esprime la filosofia di vita e le modalità sociali dell’individuo. Entrambe si formano a contatto dell’ambiente. L’individuo assume la mentalità del gruppo, e ritiene alcuni tratti della propria personalità del tutto naturali mentre invece, molto spesso, sono solo acquisiti.
Anche la psicopatologia quotidiana è trasmessa dagli adulti ai minori. I bambini hanno gli stessi tic, le stesse manie, le medesime perniciose fobie, le dirompenti angosce e le ubbie dei grandi. Persino chi “rifiuta” il modello familiare, resta vincolato all’infanzia,
E sebbene ogni individuo sia unico e irripetibile, per molti tratti egli resta simile ai genitori. Dal passato giovanile dell’individuo si comprende l’origine delle sue idee, dei suoi gusti e dei suoi modi di fare, spesso fotocopie di quelle degli adulti. Può essere un vantaggio, quando si hanno educatori esemplari, ma con adulti “dissennati”, le personalità dei minori sono maltrattate e le esperienze infantili nocive riemergono in ogni circostanza della vita, mostrando danni irreversibili e comportamenti nevrotici.
Se sono mancate queste evenienze, dai danni dell’infanzia non ci si affranca mai.
IL RAPPORTO TRA IMMAGINE E PENSIERO
Il Duemila sembra ormai orientato verso una unificazione tra immagine, cultura e scienza. Mentre un tempo si riteneva che l’unico modo per trasmettere idee fosse il linguaggio, scritto o parlato, e che l’immagine fosse solo un supporto, un aiuto, ma non essenziale, per la diffusione del sapere, oggi, invece, si ritiene che vi possono essere dei processi di trasmissione di idee, anche complesse, che avvengono solo tramite l’immagine e senza l’aiuto della parola scritta. Insomma, alla figura si da’ oramai il compito di intermediaria culturale e di mezzo di propagazione concettuale, così come lo è la parola, la letteratura o la saggistica.
In realtà, in qualche caso, una possibilità di questo tipo si attribuiva all’immagine anche in passato, ma solo in particolari circostanze, come, per esempio, quando un teorema veniva illustrato concettualmente con diagrammi e schizzi che servivano a spiegare ciò che la parola, da sola, non poteva illustrare. Ma si riteneva che fosse solo un artificio tecnico. Oggi invece, si è sperimentato, per esempio, che una immagine paesaggistica, riesce ad esprimere sinteticamente, al pari di una descrizione fatta a parole, una serie di sensazioni che a verbalizzarle potrebbero anche banalizzarsi. E, tanto per fare un altro esempio, la desolazione dei danni provocati da un conflitto bellico, può essere illustrata più efficacemente da una serie di fotografie, che da un intero testo scritto, così come “lo stato di salute” di una azienda può essere intuitivamente percepito da una serie di grafici più di quanto non possa fare una relazione verbale.
Insomma, l’immagine non è più considerata fine a se stessa, semplice percezione estetica ed oleografica, come un tempo era per lo più considerata, ma ha assunto anche un valore di comunicazione, di messaggio di idee, di esternazione anche di proteste, di angosce o di gioie. Si osserva perciò una saldatura tra pensiero e immagine, tanto che a volte può mancare anche la didascalia, ma il concetto che essa esprime va dritto alla mente più e meglio che se fosse stata introdotta da una frase esplicativa. Prendiamo, ancora, ad esempio, una serie di foto del cosmo: intuitivamente tramite esse lo scienziato riesce a far “pensare” qual è la struttura dell’universo, aiutandosi, semmai, con altre figure, che sono quelle che la geometria traccia per indicare il modello delle posizioni dei pianeti. In molti casi, dalla astronomia alla biologia, dalla fisica alla psicologia delle figure, v’è una linea diretta, intuitiva, tra immagine e dimostrazione di un concetto. Si pensi a certe strutture molecolari complesse che sono scientificamente apprese grazie a immagini che, meglio di qualsiasi prolissa spiegazione, riescono a farne intuire l’essenza.
Ed è impossibile non rilevare il valore cognitivo di certe mimiche che indicano gioia, dolore, passione, stupore, con un linguaggio espressivo, che viene colto nella sua bellezza e nella sua spontaneità dall’obbiettivo fotografico, e che a volte è molto più efficace di qualsiasi prolisso discorso.
Oggi la scienza ci permette di illustrare sinteticamente o analiticamente, per esempio, l’universo macroscopico delle galassie, o quello microscopico, dei fotoni o delle particelle atomiche, con la medesima, piacevole comunicativa e con la stessa capacità di trasmette cultura e conoscenze, con cui un tempo ci informavano delle loro esperienze i grandi ricercatori del passato, costretti, però, a dilungarsi con una serie di metafore per dire ciò che invece la figura può esprimere immediatamente. E così, come Cézanne, Michelangelo, Munch e altri “traduttori” di sensazioni visive ci danno notizie del loro modo di vedere il Mondo, anche lo scienziato e il fotografo, ci mettono a parte, grazie ai mezzi sofisticati di cui dispongono, e senza bisogno di utilizzare parole, di alcuni squarci e problemi della natura o di eventi accaduti, e possono farceli recepire con il solo tramite di concetti “visivi”.
IN COLOMBIA SI SPERIMENTA L’IMPORTANZA DELL’ILARITA’ COME ANTIDOTO AL CRIMINE
A Bogotà, Aurelijus Antanas Mockus, il sindaco di una delle più violente città del mondo, convinto dei benefici effetti della risata, ha lanciato una sfida surrealista, mettendo “in piazza” mimi, pagliacci e e caratteristi per far divertire la gente e abbassare così il tasso di criminalità.
Per alcuni osservatori il progetto più che ambizioso è paradossale, ma chissà che questo programma di “cultura della risata”, portato nelle strade, non riesca davvero a ridurre la tensione in una delle aree “più calde” del Pianeta. Mockus è fiducioso! E del resto, la sua non è un’idea del tutto assurda.
Secondo gli scienziati, l’umorismo elimina l’aggressività, lo stress e giova al nostro equilibrio psicofisico. L’ansia, la tensione e la depressione hanno invece un effetto negativo.
Ridere, secondo molti ricercatori tra cui John Berk, Norman Cousins, Roland Glaser e altri, favorirebbe l’aumento e l’attivazione delle difese immunitarie. Pertanto il parere di molti medici, psicologi e sociologi, è che gli individui depressi e di cattivo umore hanno più probabilità di ammalarsi di coloro che ridono di gusto. E che, inoltre, la mancanza di umorismo fa lievitare rabbia e odio spianando la strada alla violenza e al crimine.
Per questo motivo sono sorte in America e, da qualche tempo anche in Europa “scuole che insegnano a sorridere”. L’American Association for Therapeutic Humour promuove spettacoli, corsi, terapie che fanno leva sull’umorismo
Con l’ilarità, aggiunge Mockus, può essere fronteggiata la criminalità. E lo scrittore russo, Andrei Sinjavskij, al tempo in cui era considerato un “dissidente” scrisse che l’umorismo può diventare un’arma efficace contro le dittature. Con la derisione, sosteneva Sinjavskij, può essere seppellito persino un regime.
Un vecchio proverbio infatti sostiene: “Se riesci a ridere di qualcosa, riesci a sopravvivere”
Dell’umorismo se ne è occupata la letteratura e la psicologia, da Balzac a Pirandello, da Freud all’editore Formiggini, la cui vocazione per l’umorismo lo portò negli anni Venti, a creare una collezione ad hoc: “ I classici del ridere”
L’umorismo scopre una realtà, sovraccaricata ed esagerata, da smascherare. Alcuni aspetti negativi della vita, se vengono enfatizzati, appaiono in tutta la loro ridicolaggine, e la battuta di spirito procura un riso “liberatorio”.
L’umorismo fa trionfare “i lumi” della ragione sul luogo comune. È, direbbe Freud, la messa in berlina del conformismo. L’umorismo diluisce l’aggressività nella battuta di spirito e converte lo spiacevole in divertente.
E se lo humour è raffinato, “a bassa voce”, la comicità invece è esplosiva; entrambi spingono la gente a “liberarsi” con uno scarico di tensione che produce un benefico rilassamento.
Il riso varia secondo l’età, il sesso, i gruppi sociali, la cultura.
L’effetto comico deriva dalla enfatizzazione di idee e di comportamenti. Si ride non solo del grottesco, ma anche del “troppo logico”, di ciò che è conseguenziale fino… al ridicolo. Si ride di una situazione inverosimile e in contrasto con la ragione. Quando la situazione comica è a lungo sfruttata, si muta in cliché, diventa parodia e ad un minimo cenno produce riso.
La gag è ben riuscita se fonde con un doppiosenso significati inconciliabili, creando un palese non senso. La battuta, dapprima può suscitare una certa sorpresa, poi quando se ne afferra il “gioco umoristico” produce un effetto esilarante.
La comicità mette in berlina gli “atteggiamenti infantili” e paradossali delle dittature, sottolineando la loro divertente ed equivoca ambiguità.
La caricatura e la vignetta “colpiscono” più della battuta. Chi ne è vittima le ritiene fastidiose perché avverte il “potere” dell’immagine. In passato,alcuni uomini politici hanno modificato il loro atteggiamento proprio perché bersagliati dalle caricature!
Nelle culture primitive, manipolare la figura che riproduce sembianze umane, deformandola o trafiggendola, equivale a mettere in gioco l’esistenza stessa del soggetto. E anche nel mondo occidentale la caricatura ha spesso un potere deterrente.
Ma torniamo al tentativo di Aurelijus Antanas Mockus: se a qualche sindaco nostrano venisse in mente di sperimentare anche da noi gli effetti anti-crimine dell’umorismo, quante risate si dovrebbero fare per frenare, dalle nostre parti, la criminalita!
LA GELOSIA, “PERICOLOSO” SENTIMENTO
“La gelosia può essere più pericolosa della follia. Probabilmente tra l’una e l’altra non ci sono confini”, scrive Armando Torno nel suo saggio Piccola storia dell’amore. Nella novella Tu ridi Luigi Pirandello sintetizzò la grottesca assurdità della gelosia. Lo scrittore di Agrigento racconta la vita di un uomo, il signor Anselmo, che “all’età di cinquantasei anni, con la barba bianca, il cranio pelato” veniva rimproverato dalla moglie per “quelle sue incredibili risate d’ogni notte, nel sonno, le quali facevano sospettare alla moglie che egli, dormendo, guazzasse chissà in quali beatitudini, mentr’ella, ecco, gli giaceva accanto, insonne, arrabbiata dal perpetuo mal di capo e con l’asma nervosa, la palpitazione al cuore, e insomma tutti i malanni possibili e immaginabili in una donna sentimentale presso la cinquantina”
E quando il marito, svegliato dalla moglie perché rideva, scese dal letto per prenderle la boccetta con le gocce “contro le crisi isteriche”, passando davanti allo specchio, “istintivamente levò la mano a rassettarsi sul capo la lunga ciocca di capelli, con cui s’illudeva di nascondere in qualche modo la calvizie, la moglie dal letto se ne accorse: “S’aggiusta i capelli! – ghignò – Ha il coraggio d’aggiustarsi i capelli, anche di notte tempo, in camicia, mentr’io sto morendo!””
Diceva l’attrice Doris Day: “Siamo sempre riluttanti a dare via i nostri vestiti dismessi e quelli fuori moda. Figuriamoci se possiamo accettare di dividere il nostro partner con un’altra persona”.
Il male oscuro dell’amore è la gelosia. C’è chi si ritiene tradito per il semplice fatto che il proprio compagno o la propria compagna hanno ballato con una persona diversa da sé.
Per alcuni ciò che conta è la fedeltà sessuale. Altri, invece, ritengono che sia infedeltà quando il partner frequenta un’altra persona, magari per motivi di lavoro o se scambia quattro chiacchiere al telefono..
“Se trovassimo una cura per la gelosia, di che cos’altro non saremmo capaci?” scrive argutamente Adam Phillips e aggiunge: “Il fatto che la gelosia tenga in piedi il desiderio – o che almeno lo alimenti – ci fa capire quanto il desiderio sia precario. Non ci serve solo un partner, ma anche un rivale.(…) Insomma, per far funzionare il desiderio ci vuole un sacco di gente”
La cultura popolare considera la gelosia un sentimento “positivo”. Essa rinsalderebbe il vincolo e terrebbe in piedi il desiderio. Insomma, per mettere in moto il desiderio, ci sarebbe bisogno della gelosia!
E tuttavia la paura di perdere qualcosa che ci appartiene, a volte porta a situazioni grottesche. A Padova, un marito esasperato dai continui rifiuti della moglie, temendo che ella avesse una relazione nascosta con un altro uomo, ha chiesto “l’intervento della polizia” per convincere la consorte a fare all’amore!
Scrive Italo Svevo alla fidanzata: “Non credere che sia una tua occhiata data ad altri che m’offende, è l’idea che quell’occhiata mi da la prova che nel tuo animo c’è la vanità e il desiderio di piacere, che m’offende. Quello si!”.
La base della gelosia è un desiderio forsennato di possedere. La gelosia ha fatto da alibi a molti delitti. In passato, per la legge italiana, il marito poteva “sbarazzarsi” della moglie uccidendola per motivi d’onore. Sospetti, timori, angoscia della perdita tolgono la serenità: la gelosia è una patologia dalla quale difficilmente si guarisce. Perdendo il partner, per qualcuno significa rimanere “in balia della tempesta”.
Chi è geloso presume che il partner, con un’altra persona, possa mettere a nudo la propria privacy e ciò crea profonde e insanabili paure. Non è necessario che vi sa infedeltà perché vi sia gelosia. A volte le persone gelose non hanno alcun motivo di esserlo. La gelosia è anche narcisismo ferito.
L’angoscia della gelosia è superiore al dolore per la morte della persona amata. Con la morte della persona amata la rassegnazione è inevitabile. Mentre la persona gelosa non sopporta la perdita del partner che va con un’altra persona. E spesso, anche coloro che percorrono la strada della trasgressione, possono avere insicurezze e gelosie “borghesi”. Emblematico il caso degli “swingers” di Chicago. Swingers sono le coppie che nel Sessanta praticavano l’amore di gruppo. Anche in quella circostanza la gelosia, a poco a poco, venne fuori. La gelosia è anche legata all’invidia. Si è invidiosi di un’altra persona che “coinvolge” il nostro partner.
La gelosia è difficile da fronteggiare. Gli uomini sanno controllare meno la loro gelosia e la esternano brutalmente e con violenza. Le donne sono più rassegnate e meno violente.
Una inchiesta condotta dalla équipe del prof. Dino Origlia dimostrò che la gelosia, anche se mascherata, è sempre in agguato.
La gelosia investe ricchi e poveri, colti ed ignoranti, gente del popolo e personaggi della cronaca, artisti e intellettuali. La gelosia ha anche afflitto governanti e sovrani. L’Imperatore Napoleone Bonaparte fu gelosissimo delle donne che amava e in particolare di Giuseppina.
Nelle lettere d’amore che il Bonaparte mandò all’amante, sono chiari i dubbi e le gelosie di un innamorato timoroso.
Insomma, la gelosia, non perdona nessuno
BENESSERE PORTA ALLA SUPERFICIALITA’?
La superficialità offusca la memoria della Civiltà. Dimenticando il passato, per essere “attuali ad ogni costo” si compromette il patrimonio dell’umanità. La tendenza alla soddisfazione immediata, il bisogno di raggiungere traguardi economici, benessere e lusso, fa perdere di vista la tradizione culturale, base del nostro progresso. L’informazione viaggia a livelli superficiali, non si ascolta musica di qualità, i teatri sono vuoti, e nelle librerie i libri invenduti.
Autori una volta ritenuti patrimonio prezioso, oggi sono dimenticati. Le auto, lungo le strade, strombazzano musica mediocre e dentro l’abitacolo,chi l’ascolta o è sordo o distratto. Il genere di musica che “gira” è spesso di mediocre solfa e, in discoteca serve, a stordire col frastuono di mille watt di stress allucinogeno. La tendenza è a vivere del presente, nella convinzione che “storia” e “passato culturale”, vadano ignorati in nome dell’epicureismo gastronomico del sabato sera.
Un’inchiesta, in Germania, ha rilevato che quasi nessuno più ricorda Goethe, Thomas Mann e Schopenhauer. Nel 1992, un sondaggio, in Italia, ha messo in luce che, per molti giovani, Haendel è una marca di elettrodomestici e Beethoven un cane bizzarro.
Inutile riferire le risposte alla domanda: “Conosci Sartre ?”.
Diceva Oscar Wilde che l’arte e la più indispensabile delle cose inutili: oggi
qualcuno non la ritiene nemmeno indispensabile.
C’è chi sostiene “responsabili” di questo degrado le holding, le multinazionali che azzerano il senso critico e spingono al consumismo, creando desideri artificiali “usa e getta”. Può darsi che sia vero. Ma se ai giovani si continua ad offrire una vita “vuota”, un presente senza “passato”, la noia chiama la droga. Lo testimoniano le storie di ragazzi annoiati che muoiono per overdose.
Sta dunque agli educatori creare nei giovani la necessità dell’istruzione. Ma il menefreghismo educativo, figlio del minimalismo che appiattisce il sapere, produce un pauroso vuoto. La superficialità costituisce nella maggior parte dei casi, una pericolosa mancanza di identità, una potenziale situazione d’angoscia, di smarrimento.
Scriveva George Eliot ” La scelta più alta è vivere senza oppio, vivere con pazienza consapevole e lucida”. Non sono solo droghe l’LSD, la coca e l’haschish, lo sono anche il conformismo, la carenza di dialogo, i sistemi educativi che non affrontano i problemi, l’oblio della ragione.
A SCUOLA, EDUCARE O ETICHETTARE?
Un tempo si educava e si “spiegava” con le batoste.
Ma poiché condizione fondamentale per una buona educazione è il rispetto dell’educando, quando questo manca, parlare di educazione è un eufemismo. Dal Seicento all’Ottocento si ritenne che genitori ed educatori potessero ricorrere alla violenza e all’umiliazione per rafforzare la sottomissione. La pedagogista Katharina Rutschky definì pedagogia nera il sistema “pedagogico” che trasformava l’educazione in sadismo. Gli allievi e i figli maltrattati e sottoposti alla pedagogia nera, diventavano quasi sempre svogliati e apatici.
Chiunque può osservare gli effetti negativi, nel bambino sottoposto a terrore educativo, che si manifestano nelle forme di pavor nocturnus, di enuresi, di balbuzie e di disattenzione scolastica.
Tuttavia, se la delirante “onnipotenza educativa” di un tempo, almeno nella parte del mondo più civilizzata, è sempre meno consueta, resta ancora, tra gli errori pedagogici più comuni, quello di etichettare con stereotipi e marchi negativi che incapsulano l’allievo e creano difficoltà di “recupero”. Persino insistere troppo su pregi e qualità può essere imbarazzante. Difatti la scuola eccessivamente competitiva impone molte frustrazioni. Chi è considerato “primo” e “impeccabile” può temere di non essere sempre all’altezza della propria immagine. Figuriamoci poi se l’etichetta è negativa! Anche gli allievi “incorreggibili” possono essere recuperati. Questo risultato non può essere raggiunto solo quando sono proprio “gli atteggiamenti sempre più sfavorevoli” degli insegnanti che li “costringono” a restare con l’etichettatura negativa.
Nella nostra società si è più inclini ad ammirare “.il vincente” che a dare una mano a chi incorre in “errori”. L’educazione condiziona l’esistenza, e il disagio causato da gravi situazioni socio-familiari sottopone a un forte stress emotivo. Ciò crea evidenti complicazioni, soprattutto quando s’ignorano le tristi condizioni, non solo materiali, ma anche morali in cui l’allievo, che è stato “ingabbiato in una figura negativa”, è costretto a vivere. Apparire “diverso”, rispetto ai compagni, crea un senso di alienazione. Gli educatori solleciti sanno che prima di giudicare un alunno, soprattutto quando egli si presenta in condizioni apparentemente “negative”, bisogna appurare le motivazioni di quello status. Se non si procede in questo senso, l’allievo non avrà spinte sufficienti per il proprio recupero scolastico.
In alcuni casi si tende anche a minimizzare gli episodi di prepotenza, dai più banali ai più gravi, commessi dai ragazzi sui loro compagni di scuola, fatti che sicuramente emarginano gli allievi più deboli. Le vittime sono personalità ansiose e insicure che sono state facilmente individuate e sopraffatte dai più prepotenti senza che i docenti intervengano se non in casi gravi. Spesso gli insegnanti, soprattutto quelli caratterizzati da un certo dogmatismo e da autoritarismo educativo, si dedicano solo ai temi culturali e non anche a quelli proposti dal mondo psicologico e sociale dei loro alunni. Ma è solo riservando anche un po’ di tempo ad approfondire le cause di certe “stavaganze”, di certe “difficoltà” che è possibile comporre un quadro sufficientemente obbiettivo delle qualità di un allievo, evitandogli così ingiuste “etichettature”. Se ciò non accade, in qualche caso, chi è caduto in una avversa trappola valutativa, si riscatta solo cambiando scuola e insegnanti.
Ma bisogna arrivare proprio a questi estremi rimedi?
I PILASTRI DELLA DISEDUCAZIONE
PER EDUCAZIONE CI VUOLE COMPETENZA: A SCUOLA, EDUCARE O ETICHETTARE?
Un tempo si educava e si “spiegava” con le batoste.
Ma poiché condizione fondamentale per una buona educazione è il rispetto dell’educando, quando questo manca, parlare di educazione è un eufemismo. Dal Seicento all’Ottocento si ritenne che genitori ed educatori potessero ricorrere alla violenza e all’umiliazione per rafforzare la sottomissione. La pedagogista Katharina Rutschky definì pedagogia nera il sistema “pedagogico” che trasformava l’educazione in sadismo. Gli allievi e i figli maltrattati e sottoposti alla pedagogia nera, diventavano quasi sempre svogliati e apatici.
Chiunque può osservare gli effetti negativi, nel bambino sottoposto a terrore educativo, che si manifestano nelle forme di pavor nocturnus, di enuresi, di balbuzie e di disattenzione scolastica.
Tuttavia, se la delirante “onnipotenza educativa” di un tempo, almeno nella parte del mondo più civilizzata, è sempre meno consueta, resta ancora, tra gli errori pedagogici più comuni, quello di etichettare con stereotipi e marchi negativi che incapsulano l’allievo e creano difficoltà di “recupero”. Persino insistere troppo su pregi e qualità può essere imbarazzante. Difatti la scuola eccessivamente competitiva impone molte frustrazioni. Chi è considerato “primo” e “impeccabile” può temere di non essere sempre all’altezza della propria immagine. Figuriamoci poi se l’etichetta è negativa! Anche gli allievi “incorreggibili” possono essere recuperati. Questo risultato non può essere raggiunto solo quando sono proprio “gli atteggiamenti sempre più sfavorevoli” degli insegnanti che li “costringono” a restare con l’etichettatura negativa.
Nella nostra società si è più inclini ad ammirare “.il vincente” che a dare una mano a chi incorre in “errori”. L’educazione condiziona l’esistenza, e il disagio causato da gravi situazioni socio-familiari sottopone a un forte stress emotivo. Ciò crea evidenti complicazioni, soprattutto quando s’ignorano le tristi condizioni, non solo materiali, ma anche morali in cui l’allievo, che è stato “ingabbiato in una figura negativa”, è costretto a vivere. Apparire “diverso”, rispetto ai compagni, crea un senso di alienazione. Gli educatori solleciti sanno che prima di giudicare un alunno, soprattutto quando egli si presenta in condizioni apparentemente “negative”, bisogna appurare le motivazioni di quello status. Se non si procede in questo senso, l’allievo non avrà spinte sufficienti per il proprio recupero scolastico.
In alcuni casi si tende anche a minimizzare gli episodi di prepotenza, dai più banali ai più gravi, commessi dai ragazzi sui loro compagni di scuola, fatti che sicuramente emarginano gli allievi più deboli. Le vittime sono personalità ansiose e insicure che sono state facilmente individuate e sopraffatte dai più prepotenti senza che i docenti intervengano se non in casi gravi. Spesso gli insegnanti, soprattutto quelli caratterizzati da un certo dogmatismo e da autoritarismo educativo, si dedicano solo ai temi culturali e non anche a quelli proposti dal mondo psicologico e sociale dei loro alunni. Ma è solo riservando anche un po’ di tempo ad approfondire le cause di certe “stavaganze”, di certe “difficoltà” che è possibile comporre un quadro sufficientemente obbiettivo delle qualità di un allievo, evitandogli così ingiuste “etichettature”. Se ciò non accade, in qualche caso, chi è caduto in una avversa trappola valutativa, si riscatta solo cambiando scuola e insegnanti.
Ma bisogna arrivare proprio a questi estremi rimedi?
Potrebbe sembrare, a prima vista che il “mestiere” di genitore o di educatore sia una caratteristica naturale di chi ha procreato figli. Ma non è sempre così. Alcuni genitori non hanno dialogo con i figli, si disinteressano dei loro problemi e danno l’impressione di non seguirli, qualsiasi cosa facciano. Talvolta i genitori credono che sia utile rimproverare i loro piccoli per ogni errore che fanno, anche il più insignificante. Questo tipo di comportamento può originare vari generi di paure. I genitori “che si disinteressano” dei figli, a loro volta, possono indurre allo sfascio i giovani, non danno loro la capacità di seguire regole e spingendoli, con la loro “assenza”, alla necessità di trovare autorità “sostitutive”, che a volte risultano poco idonee. Il comportamento iperprotettivo crea bisogni eccessivi di protezione, sensi di colpa dolorosi, paura di sbagliare, timore del giudizio degli altri etc. Questi metodi “para-pedagogici” sono spesso alla radice della depressione, creano insicurezze in quei giovani che sono stati troppo protetti e in quelli che non lo sono stati affatto. C’è anche un terzo sistema di diseducare, che comporta disfunzioni mentali subdole e pericolose e danni che non possono essere controllati se non quando ormai fanno parte del corpus psicologico del soggetto: inculcare nella mente dei bambini “verità distorte”, fantasmagorie animistiche ascientifiche, pregiudizi balordi, che creano confusione, incapacità razionali e impossibilità di interpretare correttamente la realtà. In fine, ultimo modo di “diseducare in modo efficace” è quando l’adulto frustra ogni iniziativa infantile tacciandola d’essere scorretta, velleitaria e ridicola, o quando all’opposto, tutto ciò che fa il bambino è elogiato troppo sperticatamente da fargli credere che egli “è il migliore”, cosa che in realtà poi egli, non ritrovando riscontro, gli creerà grosse frustrazioni.
Come si vede, in realtà è più facile diseducare che educare…
Il problema fondamentale della pedagogia non riguarda soltanto i metodi educativi, e neppure i contenuti dell’educazione: riguarda soprattutto il controllo della capacità psicologica degli educatori e la loro attitudine a saper educare serenamente. Condizione fondamentale per un sano sviluppo educativo è che vi siano buoni maestri di vita.
L’aspirazione ad una migliore pedagogia si deve basare non solo sul cambiamento dell’atteggiamento dei genitori ma anche sulla trasformazione delle scuole e degli insegnanti. Chi educa non sempre ha equilibrio e competenza psicologica per fare da guida intellettuale. Chi non conosce se stesso, chi ignora le motivazioni delle proprie azioni, dei propri amori e dei propri rancori, non è in grado di educare.
Sigmund Freud sosteneva si possono prevenire i disturbi della personalità dei giovani se gli educatori non hanno disturbi psicologici per cui egli consigliava di applicare la psicanalisi alla pedagogia. Educatore può essere soltanto colui che conosce la vita psichica infantile
La figlia di Freud, Anna scrisse: “Qualunque cosa si voglia intraprendere con un bambino, si tratti di insegnargli la geografia o l’aritmetica o lo si voglia educare o analizzare, sarà necessario innanzitutto stabilire con lui una relazione emotiva ben definita”. La relazione emotiva alla quale Anna Freud si riferiva è l’empatia psicologica che esclude qualsiasi atteggiamento distruttivo nei confronti del bambino. Spesso infatti, sono i genitori, e gli educatori poco istruiti ed attenti, a provocare la nevrosi nel bambino..
La legislazione non prevede un esame psicoattitudinale e l’approccio pedagogico è ritenuto insindacabile. Eppure bisogna controllare se chi ha tanta influenza sia idoneo psicologicamente. Chi conosce a fondo la vita nelle unità scolastiche sa che ci sono insegnanti inadatti al loro ruolo.
La psicologa Elena Gianini Belotti si pone una interessante domanda: “Chi sono nella realtà queste insegnanti alle cui cure sono affidati per legge i bambini proprio nell’età che dovrebbe essere la più intensa, la più proficua, la più feconda?”. Può accadere che vi siano docenti che usano metodi durissimi di repressione per la disciplina e altri invece che con la loro debolezza generano in classe caos, indisciplina e arroganza.
La psicologa Nelly Wolffheim afferma, a proposito della scelta professionale della maestra giardiniera, che le aspiranti a tale professione non devono far leva solo su una certa personale inclinazione all’istinto materno, o sul loro generico atteggiamento fanciullesco, che potrebbe sembrare utile ai fini del rapporto educativo, in quanto in sincronia con gli atteggiamenti infantili del bambino. La Wolffheim ritiene che devono essere ben altri i motivi alla base della scelta di quella professione.
Non solo la cultura in materia di psicologia dell’età evolutiva e di psicolgia in generale, ma a anche e soprattutto il training personale degli educatori è dunque il fattore determinante per arricchire il rapporto pedagogico e l’unico mezzo per evitare che l’infanzia venga incompresa.
Il sessantotto: suggestione ed effetti nel mondo giovanile
COSA RESTA A TRENT’ANNI DALLA CONTESTAZIONE?
La “contestazione” del ’68 aveva tanti progetti, alcuni realizzabili, altri del tutto utopici. Anelava alla libertà di pensiero, alla parità (oggi si dice pari opportunità) tra uomo e donna, a contrastare il colonialismo e la guerra. Voleva abbattere tante barriere, eliminare ingiustizie, arrivare alla conquista della libertà d’espressione e alla crescita della responsabilità individuale. Doveva formare giovani le cui idee si sviluppassero senza l’intercessione dei partiti e delle parrocchie. Era anche una rivolta contro il consumismo sfrenato, in favore di una cultura di massa e di una reale libertà negli studi. Fu anche una protesta contro i ranger della Bolivia che avevano catturato ed ucciso l’eroe antimperialista per eccellenza: Ernesto Che Guevara. I giovani Americani scesero in campo contro la guerra del Vietnam. In Germania il movimento studentesco significò anche il riscatto dagli orrori della guerra. In Grecia non poté svilupparsi perché c’era stato il colpo di Stato dei Generali. In Inghilterra, nei teatri, impazzavano il Living Theatre e i Beatles e i giovani, per ribellione al conformismo, si conciarono come se fosse sempre carnevale.
Il Sessantotto ebbe molti padri: negli USA iniziò nelle università californiane, per un bisogno di rinnovamento contro l’ipocrisia borghese statunitense, in Inghilterra nacque dal “rigetto” per tutto ciò che rappresentava l’imperialismo e l’Era Vittoriana. Il Sessantotto italiano fu un pasticcio tra goliardia e politica. Nella Penisola, l’antiautoritarismo sessantottino, venne gestito dal partito che altrove, era repressivo e autoritario. Difatti, nel ’68, quando i comunisti italiani incitavano i giovani sessantottini della Penisola a rigettare l’utopia borghese, la Russia imperialista e le armate del Patto di Varsavia invadevano la Cecoslovacchia di Dubcek, l’uomo che aveva tentato le riforme!
In Italia era l’anno in cui Paolo VI s’era pronunciato contro il divorzio, mentre il cantautore Franco Guccini intonava la canzone “Dio è morto”, regolarmente censurata dalla Rai.
La spinta sessantottina italiana venne anche dalla generazione dei giovani borghesi che cercavano una via d’uscita contro il tabù dell’autorità. Ma in Italia, nelle università occupate dagli studenti, tutto si risolse più che nel mettere in discussione i contenuti dell’insegnamento, nell’ottenere esami “collettivi”, e nelle scuole in un minore “aggravio” culturale negli studi.
E malgrado Berlinguer avesse annunciato che intendeva rispettare il pluralismo delle idee, la violenza si scatenò indiscriminatamente nelle piazze.
Infatti nell’80 venne ucciso un uomo illuminato, Vittorio Bachelet, dai “nipoti perversi”, da quelle schegge impazzite dei sessantottini che furono le Brigate Rosse.
Ma cosa rappresentò in realtà il ’68?
Le “vie nuove della libertà”, in Usa furono aperte da autori come Burroughs, Marcuse, Russell. In Italia gli scrittori che avevano dominato prima della “rivolta”, Pratolini, Cassola, Saviane, Bernardi etc, furono messi da parte, per dar spazio ad una nuova generazione di autori “arrabbiati” e sensibili alle istanze sessantottine. Giancarlo Feltrinelli produsse la rivista Quindici, che rappresentava la voce del movimento giovanile. Scalfari diede all’Espresso un taglio “particolare ed innovativo”. Luigi Bobbio, Guido Viale e Peppino Ortoleva contestarono l’arcaicità dei Senati Accademici in nome di una maggiore libertà, di una cultura più aperta e moderna e della liberalizzazione agli accessi all’Università. Pannella guidò il movimento a far luce nei meandri di una politica esclusiva e fino ad allora gestita solo dagli “addetti ai lavori”.
L’irruzione nella routine della vita quotidiana del Paese della nuova ideologia libertaria, fu lenta e non priva di contraddizioni. Tuttavia, oggi possiamo forse affermare che se la gente interviene con più convinzione in politica, se i giovani hanno conquistato il diritto alla parola, se le donne si sono emancipate, se sono avvenute molte evoluzioni nei costumi, lo si deve, malgrado luci e ombre che il movimento giovanile ha comportato, in gran parte, al contributo che ha dato la contestazione iniziata nel ’68.
E forse di Sessantotto ce ne vorrebbe almeno uno ogni trent’anni.
Un modo di diseducare creando danni irreparabili
Il filosofo B.Russell sosteneva che bisognerebbe dare ai figli un amore più sano e robusto. Un amore più naturale, altruista e disinteressato. Ma questo tipo di amore non può venire da genitori affamati e impazienti, che manipolano nevroticamente fanciulli indifesi. Si dovrebbe apprendere dagli animali che educare i figli non significa renderli psicodipendenti. Gli animali evitano ai cuccioli le cure superflue. Quando è tempo che la prole può badare a sé stessa spingono i figli all’autonomia.
Dal momento che il bambino ha bisogno più di qualsiasi altro essere vivente di cure, questa condizione può diventare l’origine di molte insicurezze e di tanti tratti nevrotici.
L’etologa Isabella Lattes Coifmann afferma, tesi sostenuta anche dai ricercatori dell’Università di Amburgo, che l’addomesticamento degli animali riduce l’originario quoziente intellettivo, causando una vera e propria degenerazione della specie. Risulta che il cervello degli animali addomesticati è del venti o trenta per cento inferiore a quello degli esemplari della stesa specie non addomesticati.
Vivendo sotto l’eccessiva protezione del padrone,gli animali domestici non hanno più bisogno di utilizzare le strategie predatorie, né di affinare la capacità di difesa contro i pericoli naturali. In altri termini, nel domicilio dell’uomo, l’animale si impigrisce e perde le naturali doti di lotta per la sopravvivenza. Godendo di un’esistenza senza problemi egli perde la carica d’indipendenza.
Per lo stesso motivo, l’amore possessivo dei genitori può soffocare la libertà e affliggere la vita di bambini e adolescenti. Scriveva Freud che l’individuo deve dedicarsi al grande compito di maturare e solo dopo la soluzione di questo compito può cessare di essere un bambino e diventare un membro della comunità. Spesso l’ansia dei genitori pone il bambino al centro dell’attenzione e lo stringe in un vero e proprio “accerchiamento” emotivo. Questo atteggiamento soffoca la libertà e stimola problemi psicologici di vario genere. Il bambino assillato da adulti nevrotici cresce con una evidente “fragilità” psichica che in seguito sarà difficilmente sanabile.
Dal carattere degli adulti e dal loro modo di educare derivano la caparbietà, l’irragionevolezza, l’immaturità affettiva e la gracilità psichica del bambino.
In molti casi “il troppo amore” può essere dannoso quanto l’abbandono e la disaffezione. Entrambi, sono atteggiamenti che, se pur antitetici, esprimono il disagio esistenziale, l’insoddisfazione e le paure degli adulti.
Se queste situazioni stressanti se vengono “riversate” sui minori, creano “corti circuiti” emozionali e psicologici che rimarranno impressi per la vita.
Nella quotidiana scelta tra Bene e Male l’umanità appare più propensa ad una sciocca autodistruzione. Le guerre, le violenze, l’odio, gli stupri, e persino grettezza e meschinità non sono altro che forme di suicidio della ragione.
Ma non solo gli adulti s’affannano ad autodistruggersi gli uni con gli altri per conquistare potere, per arraffare denaro, per raggiungere un effimero prestigio; anche i giovanissimi abbandonano ben presto la strada della ragionevolezza per quella della perdizione.
Ogni tanto i media danno un amaro risveglio mettendo, per qualche giorno o per qualche settimana, in primo piano la condizione dei giovani. Poi, tutto torna nel silenzio, e il problema viene dimenticato.
La morte arriva per qualche ora di “sballo”; la morte arriva per “non essere da meno degli altri”, la morte arriva per inconsapevolezza dei rischi.
Scoprire chi vende le pasticche, sequestrare carichi di droga, aumentare per qualche settimana i controlli all’ingresso delle discoteche sono solo palliativi che denunziano la reale impotenza davanti al problema.
Il primo passo utile è capire perché i giovani si giocano la vita per qualche manciata di minuti di illusorio benessere. Il secondo è trovare il modo giusto per far breccia nella mente della gioventù e impedire che vada allo sbando con incoscienza.
La società sovraccarica di irrisolti problemi esistenziali, di contrasti generazionali, di sfasci economici e politici, si dimostra impotente davanti a un fenomeno di così vasta portata. Il mal di vivere, la solitudine e un’infanzia frustrante creano condizioni favorevoli per la droga. L’inganno del ‘viaggio’ ha sostituito l’alcol. I giovani sperano con la droga di rompere l’accerchiamento della angoscia esistenziale. Invece, la momentanea sensazione di euforia viene pagata a caro prezzo e i più deboli non riescono ad uscire dal tunnel.
Non è la carenza del lavoro che porta alla depressione e all’assunzione della droga. Una quota di drogati proviene da famiglie benestanti. I giovani cercano nelle discoteche la conoscenza di se stessi, la prova della propria resistenza fisica e psicologica. La discoteca è il luogo dove è possibile sperimentare un happening tra corpo e mente, una sfida psicofisica per approfondire esperienze diverse da quelle quotidiane. In Italia circa cinque milioni di giovani frequentano abitualmente, a fine settimana, cinquemila discoteche. La discoteca rappresenta un illusorio mondo di libertà. La musica assordante, travolgente, psichedelica ha il temporaneo potere di far dimenticare.
La libertà che i giovani cercano nel mondo delle relazioni quotidiane si realizza nella danza frenetica che esprime sentimenti primitivi, vitali, corporali, sensuali. Al termine del viaggio, il drogato vede spietatamente messe a nudo tutte le carenze della sua personalità. Allora torna impellente la necessità di “farsi” ancora una volta, per allontanare lo spauracchio dell’angoscia esistenziale. Ma l’efficacia narcotica va scemando dopo ogni assunzione e ogni dose peggiora lo stato psicologico.
La droga introduce nella personalità caratteristiche psicologiche mai riscontrate prima nel soggetto. I timidi diventano aggressivi, gli introversi estroversi ecc. Si pone allora un problema di identità personale: la droga cambia i connotati psichici del soggetto.
Donne ed uomini tendono ad essere poliassuntori, cioè tendono ad assumere più sostanze insieme per ottimizzare lo sballo e per allontanarsi da una realtà che per molti non é piacevole né edificante. Bisogna allora avere il coraggio di ammettere che non è la droga che occupa una posizione centrale nella vita della società: è il problema esistenziale.
Di conseguenza, è solo con una corretta educazione e con una serie di iniziative, di soluzioni, di promozioni in favore della gioventù, che si può fronteggiare la questione droga. Bisogna affrontare i disturbi della personalità, guidare i giovani ad intendere il significato della vita, aiutarli a fronteggiare i turbamenti dell’animo.
Non si può negare: non tutti gli adulti sono capaci di assolvere a questo compito. Infatti molti adulti non vogliono essere chiamati in causa; essi attribuiscono tutta la responsabilità agli spacciatori e, semmai, alla dabbenaggine dei loro figli. Purtroppo, la faccenda non può essere liquidata in questi termini. Spesso sono proprio gli adulti nevrotici fatalmente causa della psicopatologia dei giovani. In molti casi il disagio dei ragazzi viene liquidato come una “crisetta” da sottovalutare. E invece i giovani hanno bisogno di aiuto. Solo una buona azione pedagogica, fatta di buon senso può impartire cognizioni, modelli, orientamenti mentali per crescere e maturare. A volte, invece, al posto di una educazione dell’intelletto vengono suggeriti modelli di vita intrisi di falsi valori, di ipocrisie, di luoghi comuni che causano disarmonie emotive.
Nei paesi occidentali un numero imponente di giovanissimi tenta ogni anno il suicidio. Anche assumere droga è una forma di suicidio. Molti minori sono alla prese con problemi esistenziali e relazionali che portano alla disperazione. Si tratta di una troppo sottovalutata e trascurata depressione adolescenziale, i cui sintomi sono variegati e spesso sfuggono all’attenzione di coloro che dovrebbero vigilare sui giovani.
Nella maggior parte dei casi quelli che tentano il suicidio provengono da famiglie i cui membri non sono né sereni né equilibrati.
Che vi sia una correlazione tra tossicodipendenza e problemi socio-familiari è impossibile ignorarlo. I giovani che ostentano disprezzo verso tutto ciò che sa di famiglia e di normalità sono pronti per la droga o per il crimine. In molti casi si è constatato che i genitori dei drogati hanno idee confuse e contraddittorie sull’educazione.
I giovani più deboli, trascinati dal demone della trasgressione e dal bisogno di protagonismo, rischiano l’esistenza anche per un inconscio desiderio di autopunizione.
Ed anche i giovani, come gli adulti, difficilmente accettano di essere essi stessi responsabili nella cattiva riuscita della loro vita. Solo chi cambia abitudini mentali può dare una svolta positiva alla propria esistenza. Solo chi ha il coraggio di mutare i propri atteggiamenti infantili in comportamenti consapevoli e maturi può raggiungere la serenità e l’equilibrio desiderati.
La società purtroppo non aiuta. Anzi, il più delle volte crea devianze con esempi irrazionali e deliranti. Bisognerebbe invece cominciare dall’educazione della ragione. La ragione deve essere educata perché l’intelligenza non sia preda della pigrizia mentale. Purtroppo, le famiglie, la società, i mass media e perché no? anche la classe politica spesso trascurano l’educazione intellettuale, trovando più comodo propagandare idee banali e grevi, che rendono i giovani superficiali e facile preda di credenze sciocche e insensate.
Questa mala educazione porta al tranello della droga.
È solo una questione di regole o comportamenti sociali da apprendere compiutamente, è soprattutto una questione di cervello. Si sa da tempo che il cervello è una struttura plastica in continua evoluzione e che alcune regioni cerebrali vanno incontro a notevoli modificazioni nel corso dell’adolescenza.. Utilizzando le nuove tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale, alcuni ricercatori dell’Istituto di Neuroscienze Cognitive dell’University College di Londra (UCL) hanno voluto indagare le differenze tra il cervello degli adolescenti e quello degli adulti, correlandole a determinati ambiti del comportamento.
Un campione di volontari dagli 8 ai 36 anni di età è stato sottoposto alla risonanza magnetica funzionale mentre rispondeva ad un questionario orale su possibili sensazioni proprie ed altrui, in determinate situazioni, del tipo: “Sei al cinema ed hai difficoltà a vedere bene lo schermo. Ti sposti cercando un’altra posizione, anche a costo di creare disturbo ad altri?”, oppure “Un grande albero crolla in una foresta. Fa un rumore agghiacciante?”. I risultati delle osservazioni, presentati il 7 settembre al “BA Festival of Science”, dimostrano che negli adolescenti la “corteccia prefrontale mediale” è sotto utilizzata rispetto agli adulti, mentre appare più attiva un’area posteriore, nota come “solco temporale superiore”, coinvolta nella percezione e prefigurazione degli eventi. La corteccia prefontale mediale (situata all’interno della scissura che separa i due lobi cerebrali, in posizione ventrale, cioè più vicina alla base cranica), è invece cruciale nel pensiero astratto, nella presa di decisioni ma anche nell’empatia, ovvero nella capacità di comprendere le motivazioni delle azioni altrui (e nei sensi di colpa, se si disattende qualcosa che direttamente o indirettamente ci viene richiesto). Sentimenti e azioni sono strettamente collegati nell’adulto – almeno in un adulto responsabile – che prima di intraprendere un’azione si chiede. “Cosa devo fare, tenendo conto di quello che proverò io dopo che avrò agito e anche di quello che proveranno le persone direttamente interessate?”, cioè facendo delle supposizioni su come reagiranno quelli che ci sono intorno (un processo definito di recente “mentalize”), mentre un adolescente si pone semplicemente la domanda:” Che devo fare?”, ignorando molto spesso anche i propri sentimenti riguardo alle possibili conseguenze dell’azione. “Le strategie di pensiero cambiano con l’età – sostiene Sarah-Jayne Blakemore dell’UCL – invecchiando si ha una maggiore distribuzione dell’attività cerebrale dalle aree posteriori del cervello alle aree frontali”
Una cosa va detta in difesa degli adolescenti: spesso lo scarso livello di considerazione per i sentimenti o le aspettative degli altri viene interpretato da genitori e insegnanti come egoismo o peggio, crudeltà. L’empatia si fonda prima di tutto sulla consapevolezza dei propri stati interiori: più si è in grado di riconoscere i propri sentimenti (nel momento in cui si presentano) e meglio si comprenderanno i sottili segnali sociali che indicano le necessità o i desideri altrui. L’autoconsapevolezza è proprio quella competenza che deve maturare pienamente nell’adolescente, spesso immerso in un groviglio di emozioni contrastanti. Riuscire a conoscere e a dominare le emozioni, sancirà il passaggio definitivo all’età adulta.
Se si istituisse la “patente” di genitore?
BAMBINO UCCISO DAL PADRE PERCHE’ TROPPO VIVACE
Forse nemmeno Eschilo o Euripide avrebbero saputo narrare una tragedia così dolorosa quanto assurda come quella che si è consumata a Butera, dove un padre, irascibile e incapace di prevedere le conseguenze fatali di uno stupido e inconsulto gesto, ha ucciso il figlio undicenne, un bambino esuberante e con tanta vivacità in corpo.
Ancora un ennesimo fatto di sangue mette a nudo i peggiori aspetti dell’animo umano e le conseguenze della incapacità di educare. E così, ogni giorno si sentono storie sempre più feroci: adulti che spappolano la milza ai bambini, adulti che dimenticano, per ore, figli ancora in fasce, in auto arroventate dal sole, madri che abbandonano i neonati nei cassonetti della spazzatura, genitori che stuprano le figliolette, adulti che, “per fini educativi”, scagliano contro adolescenti sbarre di ferro; maggiorenni irresponsabili, nevrotici e biliosi che avendo in mano la vita di minori, si comportano in modo incontrollato senza che nessuno possa valutare le loro capacità di genitori e di educatori affidabili, per fermarli prima dell’irreparabile.
E così viene spontanea una proposta provocatoria ma alquanto seria: piuttosto che continuare nella melensa retorica delle naturali qualità formative della famiglia, perché non provare a mettere ordine e freno alla deleteria pedagogia fai-da-te, facendo seguire corsi pedagogici seri e rigorosi, con esami finali di educazione dell’infanzia?
La storia del piccolo Gaetano Massimo è chiaramente causata dalla brutalità e dalla stupidità, ma anche dall’ignoranza di come si educa senza danni. In ogni caso, la vicenda di Butera non trae origine dalla fatalità, ma da una totale carenza di buon senso e da incoscienza.
Mettiamoci per un momento nei panni di quel bambino, che i suoi insegnanti ricordano come allievo intelligente e vivace, che, felice, balza ancora una volta sull’albero per raccogliere delle arance, e si arrampica sui rami anche per mostrare la propria capacità fisica, il proprio bisogno di libertà e, magari, perché no? per il gusto di una piccola trasgressione: quel bambino così fiducioso e allegro, come poteva immaginare che suo padre, che avrebbe dovuto insegnarli tante cose, e che avrebbe dovuto salvarlo dalla jungla quotidiana, si sarebbe improvvisamente trasformato nel suo carnefice?
È sperabile che Gaetano non abbia capito quale sorte era dietro l’angolo della sua vita. Ma, se per una manciata di secondi egli si è reso conto di ciò che gli stava capitando a causa del criminale gesto del padre, in quell’istante avrà visto sintetizzato tutto il fallimento dell’intera umanità.
“Non mi ascoltava. Ho perso le staffe, gli ho lanciato un ferro, ma non volevo colpirlo”, cerca di discolparsi il padre. Chi scaglia un ferro contro un bambino, ed ha l’ardire d’affermare che non immaginava di fargli del male, non ha nessuna possibilità non solo di essere discolpato ma di essere considerato facente parte del consorzio umano.
Ed allora, perché non pensare che possa essere utile una scuola che insegni ed abiliti ad educare? Perché adulti presuntuosi, arroganti e incapaci possono guidare a ruota libera i minori senza un preventivo controllo che accerti le loro qualità pedagogiche, psicologiche e psichiatriche?
Se si riuscisse a mettere in guardia sulla pericolosità dell’insensata inettitudine educativa, molte tragedie potrebbero essere evitate.
E fa riflettere una recente sentenza del tribunale di Bersenbrueck, città della Bassa Sassonia, che ha tolto la custodia dei due figli ad una coppia trentenne, ritenuta incapace di poter educare in modo regolare i due bambini. In altri termini, il giudice, dopo aver accertato, per mezzo degli specialisti, che i due bambini hanno bisogno di aiuti pedagogici più concreti di quelli che i loro genitori sono in grado di fornire loro, ha tolto la patria potestas ad entrambi i componenti della coppia.
Certo la sentenza solleverà polemiche. Infatti, marito e moglie hanno già annunziato che ricorreranno al tribunale europeo di Strasburgo e si sono rivolti all’associazione Aktion Rechete fuer Kinder che difende i diritti dei bambini. Ma non si può negare che il provvedimento del tribunale di Bersenbrueck è la prima voce coraggiosa e anticonformista di condanna concreta della incapacità genitoriale.
LA FIGURA PATERNA E I SUOI RISVOLTI
La relazione col padre è altrettanto importante di quella con la madre. Il bambino o la bambina cercano questo “secondo” legame non meno indispensabile e coinvolgente di quello primario con la madre. Il padre concorre nel processo evolutivo con una più completa capacità di capire il mondo. Dal padre spesso i figli apprendano come avere relazioni sociali, e il padre è per il figlio il primo esempio col quale identificarsi. Per la figlia il padre è il primo ideale di uomo. Comprendendo la psicologia del padre la ragazza impara a capire le caratteristiche psicologiche del maschio.
La figura paterna è un punto di riferimento e una alternativa alla personalità materna. Il padre amplia le esperienze dei figli. In mancanza del genitore i figli rimangono legati ai sentimenti e alla cultura della madre il ché può creare a volte un certo scompenso.
Nella biografia di Richard Wagner troviamo l’esempio di una personalità modellata dalla mancanza del padre. Wagner fu privato della presenza paterna per ben due volte. La prima all’età di sei anni, quando restò orfano e la seconda alla morte del secondo marito della madre, Ludwig Geyer, al quale Richard si era legato con affetto. Le opere di Wagner denunciano questa sua carenza. L’ossessione del fantasma paterno si ritrova anche in altre opere di Wagner, dal Lohengrin al Parsifal.
L’eclissi della figura paterna ha segnato l’esistenza di Baudelaire che ricorderà iprimi anni dell’infanzia come un paradiso perduto. Il padre di Charles, appassionato di pittura, incise profondamente nella vita dello scrittore con una eredità culturale che ne determinerà il destino. Charles Baudelaire, dopo la morte del genitore, si legò ossessivamente alla madre. Non sempre però l’ammirazione lega i figli ai padri; spesso i contrasti sono acuti e la lotta col padre diventa radicale. Nella famiglia di un tempo il genitore era la figura dominante. La sua autorità era indiscussa e il suo rapporto con i figli era “duro” e veniva mediato dalla madre che smorzava i toni bruschi. Il compito della figura paterna era far da giudice e di comminare pene. Il padre creava il Super-Io, per compensare le debolezze della moglie iperprotettiva. Lo scrittore Giuseppe Berto racconta ne Il male oscuro, che i contrasti con suo padre durarono sessanta anni. Dopo avere illustrato come fosse riuscito gradualmente a liberarsi dello strapotere del genitore, Berto confessa che alla morte del padre si sentì colpevole e gli si manifestò la nevrosi. Giuseppe Berto, testimonia il groviglio di sentimenti che possono coinvolgere un figlio nei confronti del padre-padrone In qualche caso i figli ingaggiano una cruenta lotta con il genitore e la felicità domestica, a causa di quella incomprensione “generazionale” è messa in serio pericolo.
Tuttavia, in ogni caso, il figlio assimila la cultura socio-psicologica del padre. Ne viene così fuori una mescolanza di transfert, di imitazione e di rigetto della figura paterna. Chi si piega interamente al padre-padrone esprime il proprio masochismo e chi si oppone esprime mediante l’aggressività il bisogno di liberarsi dell’autorità. Freud configura questa ribellione in un simbolico parricidio. La lotta generazionale è espressa simbolicamente nella violenza esercitata dal padre, Agamennone, che sacrifica la prole per privilegiare la necessità sociale e uccide la figlia Ifigenia, e dell’altro lato, nel figlio, Edipo, che reagisce al potere del genitore, spodestandolo. Eugène Ionesco sintetizza mirabilmente lotte e incomprensioni tra padri e figli. In Vittime del dovere, il figlio dice al padre: “Padre, non ci siamo capiti. Eri duro ma non eri forse tanto cattivo”. “Non odiavo te, ma la tua prepotenza, il tuo egoismo”. Alla fine il figlio arriva ad una triste constatazione e dice al padre: “Avevo torto di disprezzarti.
Non valgo più di te. Ho tutti i tuoi difetti!”.
La struttura sociale odierna sovraccarica di irrisolti problemi esistenziali, di contrasti generazionali, di condizionamenti economico-storici, si dimostra impotente davanti a un fenomeno di così vasta portata come quello della droga. Il mal di vivere, la solitudine (soprattutto affettiva) e un’infanzia frustrante creano le condizioni più favorevoli per l’approccio alla droga.
L’inganno della droga, the trip (il viaggio) che ha sostituito l’alcol che provocava l’ubriachezza necessaria per rompere l’accerchiamento della angoscia esistenziale, si è dimostrato fatale. La sensazione euforica, stimolante, la momentanea felicità, sono pagate a caro prezzo perché la dipendenza alla droga crea una spirale senza scampo.
Il problema è serio e coloro che dovrebbero combattere il fenomeno non hanno idea dei metodi da utilizzare.
I drogati vengono colpevolizzati e trattati con una specie di razzismo morale. Invece di tentare il recupero di coloro che sono i più deboli e che non riescono ad uscire dal tunnel della droga, il più delle volte si cerca semplicemente di escluderli dalla società.
Oggi la qualità della vita è migliorata, e ha reso vivibile adolescenza e gioventù. Ma in qualche caso la società sembra aver smarrito la carica umanitaria utile ad aiutare e non a punire. Né sempre è la carenza del lavoro che porta alla depressione e all’assunzione della droga. E anche l’abbandono scolastico è sintomo e causa dell’inizio dell’assunzione di sostanze tossiche.
Il drogato mette a nudo le carenze della sua personalità e, per un circolo chiuso, torna impellente la necessità di “farsi” ancora una volta, per allontanare lo spauracchio dell’angoscia esistenziale.
Ma ecco il punto: sebbene il tossicodipendente si renda conto che l’effetto della droga non è immune da disturbi collaterali, egli ci riprova, nella speranza che sia la volta buona. Ma l’efficacia narcotica dopo ogni assunzione va scemando, mentre ogni dose peggiora lo stato psicologico.
La droga introduce nella personalità caratteristiche psicologiche mai riscontrate prima nel soggetto. I timidi diventano aggressivi, gli introversi si mostrano estroversi ecc.
Si pone dunque un problema di identità personale: la droga cambia i comportamenti del soggetto. Più il circuito tormentoso dell’angoscia esistenziale si fa sentire, più il tossicodipendente assume droga per dimenticare la propria condizione che va sempre più allo sbando.
Dai dati rilevati del Ministero della Sanità un giovane su sei/sette avrebbe assunto almeno una volta qualche tipo di droga, (nella maggior parte dei casi si tratta di cannabinoidi, anoressanti, anfetamine ed ecstasy; mentre eroina, cocaina e crack, sono assunti da almeno il 3% dei giovani di leva e gli allucinogeni ed inalanti dall’1,5%.
Non ci conoscono le statistiche riguardanti le donne. Ma si sa per certo che esse, come i maschi, tendono ad essere poliassuntori, cioè tendono ad assumere più sostanze insieme per ottimizzare lo sballo.
Molti tossicodipendenti giacciono nelle carceri, condannati a pene detentive, senza però ricevere alcun serio intervento di recupero. Ecco il punto: in cella, è possibile recuperare un tossico dipendente? Il fenomeno non può essere solo oggetto di ipocrite discussioni teoriche o di facile retorica “morale”.
Malgrado tutto, bisogna avere il coraggio di ammettere che solo facendo leva sulla buona pedagogica e sul coraggio dei politici più onesti che si può affrontare il problema droga. Solo portando avanti una serie di iniziative, di soluzioni, di promozioni in favore della gioventù, la questione droga avrebbe probabilità di essere risolta. Solo quando la società sarà in grado di operare in questo senso, i suoi figli non potranno più essere attaccabili da lusinghe di esperienze allucinanti e illusorie.
La droga è una forma di suicidio. Molti giovani, quando la loro vita è condotta nel peggiore dei modi, attribuiscono i loro insuccessi esistenziali alla fatalità avversa e sono convinti che l’assunzione di droga possa trasformare l’infelicità in benessere psicologico, le insicurezze in coraggio. La società a sua volta crea devianze, con l’intimidazione e con insegnamenti e messaggi irrazionali e deliranti.
Bisogna allora scuotere dal giogo dell’ignoranza e far vedere come la saggezza, e non il benessere materiale sia la vera ricchezza. Bisognerebbe dare buoni esempi e una efficace guida intellettuale. Senza di ciò la personalità dei minori s’incupisce e la loro vita diventa un inferno.
Quando è così, sono già pronti per la droga.
IL MALESSERE DEI GIOVANI : un degrado psicologico che ha origini profonde
Dalle cronache quotidiane apprendiamo che l’escalation giovanile della violenza è sempre più insistente, sempre più sofisticata. A parte i giovani killer del cavalcavia che pare urlassero “Bingo!” ogni qualvolta facevano centro con le pietre che scagliavano dall’alto della loro incoscienza, compaiono a Roma i lanciatori di sassi sul metrò. “Era solo un gioco, lo abbiamo fatto altre volte”, hanno confessato cinque degli otto minorenni “figli di borgata” che passavano il tempo a colpire i finestrini dei vagoni in corsa. Ed è sbalorditivo ciò che hanno denunciato molti automobilisti dell’interland di Mantova: a Casaloldo un gruppo di ragazzini più o meno quindicenni, venuta la sera, sfidano la fortuna, lanciandosi a velocità incontrollabili nei crocevia. Quando arrivano le auto, questi incoscienti ragazzi sbucano con le loro moto come frecce dalle traversine che s’affacciano lungo il rettilineo che porta al paese, tagliando la strada agli esterrefatti automobilisti i quali debbono sobbarcarsi a manovre pericolosissime e a stridenti frenate d’emergenza.. La “prova di coraggio” consiste nel non farsi “beccare”. Questa folle corsa alla conquista di una gloria balorda ed effimera dura ormai da mesi. Un altro gioco di morte, al quale ricorrono alcuni giovani in cerca di emozioni pazzesche è la vera e propria roulette russa. Qualche mese fa, un ragazzo di sedici anni, trovata la pistola del padre, volendo mostrare a se stesso il proprio “coraggio” ha scommesso sulla propria assurda esistenza.
Ed ha perso.
A Washington, la settimana scorsa, due ragazzi uno di quindici anni e uno di tredici, “amici fino alla morte”, forse per una delusione
amorosa di uno dei due, forse perché non avevano ottenuto dai genitori il regalo che avevano chiesto, convinti che non valesse più la pena di vivere, dopo aver stipulato vicendevolmente quell’orribile patto assassino, si sono dati la morte con un omicidio-suicidio.
L’elenco della vacuità e della disperazione giovanile si allunga giorno dopo giorno. Abbiamo molti campanelli d’allarme che indicano come questo malessere non sia solo il risultato di una situazione economica carente, ma che si tratta di un “degrado” psicologico che ha radici molto più profonde. La folle ricerca della gloria, il bisogno di dimostrare un coraggio insensato hanno avuto da sempre un sito privilegiato nella gioventù. Nel Medioevo i “figli cadetti” cercavano fortuna col mestiere delle armi, nelle Crociate; nel Rinascimento i giovani ingrossavano le fila degli eserciti di ventura. Tra l’800 e il ‘900, soprattutto in Prussia, i giovani che frequentavano il liceo usavano sfidarsi a duello con spavalde sciabolate. Più erano le ferite che riportavano in viso e in altre parti del corpo più era evidente il loro “virile” disprezzo del pericolo.
Nel film Gioventù bruciata di N. Ray, la ribellione alla società e alla vita consisteva nella sfida alla “corsa del coniglio”: due concorrenti, in due auto affiancate si lanciavano a forte velocità verso un burrone, scommettendo che non avrebbero mai frenato all’ultimo momento.
Perdeva chi saltava per primo fuori dall’auto. Vinceva chi “aveva il coraggio di restare incollato al volante” fino all’ultimo istante.
La società del consumismo e dei “valori vuoti” non è riuscita ad insegnare altro ad alcuni giovani se non che il “rischio” è la virtù più alta. Quel rischio che essi hanno appreso dalla roulette russa della guerra, dagli operatori economici spietati, dalla lotta politica condotta fino all’ultimo sangue, dal gioco d’azzardo delle lotterie.
L’individualismo portato alle estreme conseguenze, il radicalismo della corsa al potere e al denaro, la povertà di ideali culturali, hanno “insegnato” ad indossare la maschera dell’indifferenza e del disprezzo verso “chi perde”, ma anche a rischiare la propria vita sacrificandola ad un assurdo modello di audacia, ad una soluzione “per una vita senza futuro”.
Non illudiamoci, finché questi gesti e questi “giochi” rappresenteranno il segno di un primato, nel gruppo saranno sempre invidiati coloro che riescono meglio degli altri a primeggiare in campi così perversi. Il problema sta nel saper educare la masse dei giovani indicando loro che non è quella la via giusta per essere davvero dei leader. Ma per raggiungere questo scopo gli adulti, per primi, dovrebbero smettere di confrontarsi nella roulette russa della guerra, della criminalità, dell’odio razziale, del fondamentalismo radicale, delle stragi, delle maxitruffe, dell’usura. Tutti crudeli tentativi degli adulti per primeggiare.
Ma che altri modelli hanno i giovani?
LA TELEVISIONE FA MALE ALL’INFANZIA?
La personalità ha origine nell’infanzia, ed è importante che gli
adulti diano ai minori, perché possano crescere sicuri e fiduciosi, non solo un’educazione ragionevole ma anche una cultura di base che non sia fatta di melensi luoghi comuni, di storie sdolcinate, violente o stressanti.
Uno dei pregiudizi più comuni è che il mezzo televisivo è nocivo all’infanzia,e che “deforma” la mente dei bambini. Se è vero che in televisione è molta “spazzatura”, che altera le coscienze e che non dovrebbe arrivare ai giovani perché crea illusioni, suggerisce cattivi
modelli e persino stimola paure, è anche vero che vi sono molti programmi formativi.
Tutto sta nel saper scegliere “i pezzi” più creativi. La televisione va sfruttata correttamente. I giovani dovrebbero seguire programmi utili alla loro maturazione ed edificanti per la personalità. Sono tanti i programmi educativi, scientifici e istruttivi in grado di distrarre da giochi balordi e di occupare la mente stimolandola in modo produttivo. Con questo taglio di visione la televisione è forma primaria di educazione culturale. Purtroppo, non tutti i “programmi per l’infanzia” sono adatti ai minori. In qualche caso sono scempiaggini che allontanano i piccoli dalla realtà o li terrorizzano e inculcano loro idee di violenza. I programmi per l’infanzia devono essere ideati da buoni educatori perché il problema sta nella “sensibilità psicologica e artistica” dei produttori e dei registi.
Non sempre è necessario dunque far seguire ai più piccoli i programma a loro dedicati. In qualche caso è più utile sceglie per loro film, documentari, analisi sociali che sono modelli emblematici di educazione mentale. Per l’inettitudine di chi programma i palinsesti, una parte dei migliori prodotti non è né reclamizzata né mandata in onda negli orari fruibili dai giovani. Infatti i prodotti culturali sono mandati in onda quando la maggioranza degli spettatori, soprattutto minorile, dorme. E poiché dunque gli adulti seguono programmi “leggeri”, i minori sono “costretti” ad assistere, in prima serata, a programmi poco edificanti e in qualche caso persino idioti. In un certo senso è come se si volesse evitare il contatto con la cultura.
Da un’analisi dei programmi televisivi italiani, il Financial Times è arrivato alla conclusione che quelli della fascia alla quale possono accedere proprio i giovani (pomeriggio-prima serata) sono spesso un minestrone di “vuote volgarità e di consumismo smodato”. Molti di essi sono pieni di chiacchiere inutili, stupide e senza costrutto. E sono proprio questi i programmi ai quali hanno accesso i minori, che così rischiano di avere un’idea distorta della vita e del vivere sociale. I giovani vanno invece spinti a vedere i programmi scientifici, di viaggi, di storia, di cultura, che sono sempre di buon livello educativo. In ogni caso più della stessa esperienza reale quotidiana, che a volte è davvero alienante.
I media possono essere mezzi efficaci di manipolazione dell’opinione pubblica, ma se ben utilizzati, accrescono la cultura e stimolano la sete di conoscenza. Insomma, non sempre “la televisione fa male all’infanzia”.
CRESCE L’EMERGENZA MINORI ASSASSINI
Dalle cronache apprendiamo di continui omicidi commessi da giovani e adolescenti. Negli ultimi anni, un diciassettenne del Kentuky ha ucciso perché non aveva amici. In Alaska, un cecchino sedicenne ha sparato per strada a due persone che non conosceva, nel Mississippi, un ragazzo ha ucciso, senza motivo, tre volte. E nel Kentucky, un quattordicenne ha fatto fuoco all’impazzata sulla folla con l’arma del padre.
E cosa ha spinto dei bambini a fare una strage in una scuola media dell’Arkansas?
Per spiegarlo, una TV ha mandato in onda le immagini di uno dei due piccoli omicidi, ripreso da un parente mentre si divertiva, con papà e nonno, a sparare con un’arma vera.
Un altro giovane cecchino ha confessato di aver appreso l’uso delle armi automatiche a casa,sin da piccolo.
Sono molti i ragazzi che maneggiano armi e che le utilizzano con la stessa disinvoltura di chi adopera la fionda. Nelle scuole superiori americane gli studenti sono perquisiti col metal detector per impedire che portino armi in classe. La passione per le armi fa parte del “pacchetto” educativo dell’adolescente ed è un business delle multinazionali che sperano che i minori, spinti ad usare pistole e fucili dai genitori, da adulti, acquistino, a loro volta, altre armi. Attualmente, i privati, in Usa, ne detengono oltre duecentocinquanta milioni.
Ma c’è un segnale più conturbante: nelle stragi americane, i bersagli della furia omicida di adolescenti sono spesso donne. I bambini dell’Arkansas hanno sparato nel gruppo delle compagne, per “punire” la fidanzatina che aveva rotto con uno dei due babykiller. A Washington, un quattordicenne, abbandonato dalla “fidanzata” ha “fatto fuori” tre persone. Uno studente, dal tetto dell’Università di New York, ha sparato sulle colleghe. È forse questo il segnale di una inconscia guerra dei sessi, trasmessa ai minori dagli adulti?
Se per quanto accade negli USA è possibile qualche spiegazione, inquietanti sono gli oscuri e deliranti motivi dei lanci dal cavalcavia, dei patricidi, dei matricidi, e delle stragi commesse, in seno alla famiglia, da giovani in un momento d’ira e per vecchi rancori.
Nella vicenda delle due ragazze,allegre e prime della classe, che hanno soppresso l’amica Nadia Rocca, è difficile stabilire cos’ha “inquinato” le loro menti, spingendole ai confini tra sogno e realtà, tra conscio e inconscio fino al crepuscolo della ragione, facendo commettere un crimine che ha portato il deserto nelle loro giovani vite e ha calato il sipario su quella dell’amica.
Da tutti questi orribili episodi si rileva che in qualche caso il delitto matura in solitudine e con rabbia, o nell’eccitazione di gruppo, ma il più delle volte ha radici nell’educazione.Infatti, è impossibile che un minore si inventi di sana pianta un comportamento se non gli è stato suggerito, in qualche modo, anche solo come messaggio subliminale,dalla mentalità e dai pregiudizi dell’hinterland in cui vive.
E ciò deve fare meditare gli adulti.
Nel ’93 un diciassettenne del Kentuky ha ucciso “per gioco” due persone,”perché non aveva amici”. Nel 96, a Washington, un quattordicenne ha “fatto fuori” tre persone perché abbandonato dalla “fidanzata”, e nel 1997, in Alaska, un cecchino sedicenne ne ha uccise due, nel Mississippi, un altro sedicenne sparando senza motivo, ha ucciso due persone e ferite sette. Nel ’97, ancora nel Kentucky, un quattordicenne, ha causato tre morti usando all’impazzata un’arma del padre. Nell’89,uno studente canadese, dal tetto dell’Università di New York ha sparato sulle studentesse che passavano.
I GIOVANI E I PERICOLOSI “PASSATEMPI”
Il “vuoto”è protagonista della vita di molti giovani. Sono agghiaccianti le cronache dei divertimenti e dei passatempi preferiti dai giovani dell’ultima generazione, dai ragazzi di buona famiglia e dai rampolli di genitori facoltosi, che rappresentano una parte della società bene di fine anni Novanta.
Questi giovani non credono più in nulla. Alcuni di essi concepiscono come trasgressione e come protesta contro la società il saccheggio degli appartamenti dove si svolgono le feste, dando vita ad una moda che, iniziata nell’hinterland della Milano “bene”, rischia di estendersi a macchia d’olio.
Arrivano senza essere invitati, mettono a soqquadro ville e appartamenti, rubano, danneggiano e sporcano tutto ciò che capita loro sottomano. Si radunano in bande che girano con aria spavalda, si mescolano agli invitati, e dopo aver saccheggiato gli appartamenti vanno via schiamazzando e sbeffeggiando i padroni di casa.
L’altro “passatempo di moda” dei danarosi giovani perditempo è “il gioco della mafia”. Armati di fucili giocattolo a lupara, di auto di grossa cilindrata, vestiti alcuni da “picciotti” e altri da questurini, giocano a mafiosi e poliziotti, dandosi la caccia con pericolose scorribande automobilistiche per le strade di Milano.
Ma non è una novità: nelle campagne del Nord, già da tempo si assiste a “giochi di guerra” imbastiti da esuberanti ragazzotti che fanno del loro tempo libero (e ne hanno fin troppo, pare) un ludus bellicus. Le “cosche” si dividono “per gioco” i quartieri delle città. Gli affiliati gironzolano con un’arma ad aria compressa nella fondina che tengono sotto l’ascella, come i veri criminali.
Ci sono anche, per gioco, “i pentiti e i sicari”. Qualche volta si tratta proprio di scherzi pesanti: le cosche “ricattano per burla”, “simulano rapine per beffare alcuni malcapitati”, inviano “minacce fasulle per sbeffeggiare quelli che ci cascano” e “promettono false vendette trasversali” anche se dichiarano, quando sono individuati dalle forze dell’ordine, che il tutto è solo per puro divertimento.
“Si tratta di giochi innocenti”, minimizzano i loro genitori permissivi, i quali sperano di “coprire” le intemperanze dei figli che essi hanno troppo viziato.
Per “iscriversi al gioco” bisogna versare nelle casse dell'”organizzazione” dalle duecento alle trecentomila lire, avere almeno una BMW, e possedere sofisticate armi a pallini di plastica.
In un vecchio film degli anni ’60 la ribellione alla società consisteva nella sfida chiamata “corsa del coniglio”: due giovanissimi concorrenti, con due auto affiancate si lanciavano a forte velocità verso un burrone, scommettendo che non avrebbero mai frenato all’ultimo momento. Perdeva chi per primo saltava fuori dall’auto. Vincitore era colui “aveva il coraggio di restare incollato al volante” fino all’ultimo istante.
La società del consumismo e dei “valori vuoti” non è riuscita ad insegnare altro ad alcuni giovani se non che il “rischio” è la virtù più alta? Quel rischio che essi hanno appreso dalla roulette russa della guerra, dagli operatori economici spietati, dalla lotta politica condotta fino all’ultimo sangue, dal gioco d’azzardo delle lotterie.
In certi casi, purtroppo, e non solo al Nord, le alternative, per alcuni altri giovani, sono gli scippi “veri”, la droga, le violenze teppiste su anziani e disabili.
Meno male che, a tutto questo squallore, ha fatto da contraltare la notizia che a Montecitorio un folto gruppo di “giovani” ha preso, per un giorno, il posto dei veri parlamentari, per “provare” e capire come si sta in quell’aula, per fare domande al Governo sul lavoro, sull’ingresso in Europa, sulla lotta all’evasione, sui problemi internazionali e via dicendo.
Meno male che cinquecento studenti hanno rassicurato, con la loro responsabile partecipazione alla seduta di Montecitorio, che l’Italia non sarà in mano solo a giovani balordi.
Meno male davvero.
Incredibile: un giudice “convalida” un miracolo
La notizia è conturbante. A Perugia, un ventinovenne centralinista “cieco”, indagato come presunto falso invalido si è difeso sostenendo che era stato “miracolato” durante un viaggio a Lourdes. Dopo quel viaggio in terra di Francia, l’uomo, che era stato assunto proprio perché invalido, ha affermato in Tribunale di essere passato dalla condizione di non vedente a quella di vedente.
Il miracolo sarebbe accaduto il giorno di Santa Lucia, protettrice della vista. E poiché l’inquirente aveva anche contestato al centralinista di essere in possesso di una patente di guida, l’ex “cieco” ha affermato, che in seguito al prodigioso evento, avendo dimostrato alla visita di controllo dell’ufficio patenti di avere un buon visus, era riuscito ad ottenere dalla Prefettura l’autorizzazione alla guida.
Con una sentenza di quelle che possono essere definite “storiche”, il Tribunale ha “archiviato” il caso, perché il giudice ha accettato la “versione” dell’indagato, confermando che “il miracolo” era davvero avvenuto.
Che le radici del nostro Paese siano cattoliche è indubbio, che il “Patto Gentiloni” del 1913 sia stato stipulato perché vi fosse una “convergenza” tra Stato Italiano e Chiesa è altrettanto pacifico. Ma che fossero demandate alla giustizia italiana le prerogative più esclusive del Sant’Uffizio in materia di attestazione di miracoli, questa è davvero una sconvolgente novità.
Ed è anche singolare che la giustizia italiana, di solito lenta, faragginosa, burocratica e guardinga, abbia tanto celermente giudicata la veridicità di un evento così prodigioso come il ritorno della vista ad un cieco.
La Chiesa è stata sempre molto “lenta” nel testimoniare la veridicità di eventi del genere e cauta nel certificarne il riconoscimento. Ma Cesare, alias il giudice inquirente, invece, invadendo un campo che è proprio della dottrina della fede, è stato più sollecito del Sant’Uffizio nell’escludere la falsità delle attestazioni dell’indagato e nel riconoscere urbi et orbi “con certezza” che un evento straordinario, fuori dalla possibilità umana, e dunque miracoloso, fosse avvenuto a Lourdes il giorno di Santa Lucia di quest’anno.
Il fatto più inspiegabile e strano è che il miracolo, contrariamente a quanto avviene in questi casi, non era stato riferito ai mass media dal centralinista ex cieco, prima che fossero scattate le indagini che ipotizzavano una sua presunta truffa.
Forse, il ventinovenne che lavora presso un ente pubblico, per modestia ha voluto tenere tutto per sé l’evento straordinario. Insomma, è stato il giudice “a costringerlo” a pubblicizzare quanto accaduto, vanificando così la “discrezione” tenuta dal giovane riguardo al miracolo.
Non possiamo dunque che congratularci non solo col centralinista, per aver riacquistato la vista, ma anche con la giustizia italiana, che, almeno in questo caso, ha riacquistato una esemplare velocità di giudizio.
LA LIBERTA’, È SOLO UN’OPZIONE?
Scriveva Karl Marx che l’uomo fa la storia sulla base di condizioni anteriori. Ciò perché la libertà dell’individuo è limitata, nel senso che l’uomo deve sempre fare i conti con il contesto nel quale si trova e con quello dal quale proviene.
Anche Sigmund Freud, con parole diverse, in fondo, ha espresso lo stesso concetto: l’individuo è condizionato dalla propria infanzia e la sua libertà dipende da ciò che apprese nel primo periodo della sua vita. L’adulto è dunque figlio del suo passato e le sue scelte dipendono sopratutto da come fu la sua educazione. Da un lato egli è il prodotto del suo passato (e per ciò è improbabile che sia libero) dall’altro, quando agisce crea una serie di conseguenze delle quali è responsabile.
Infatti la libertà dell’uomo coincide anche con la sua responsabilità, perché ogni atto di volontà del singolo può impegnare e condizionare una parte o tutta l’umanità. Dai grandi inventori, dai politici, dagli educatori, ma anche dai capi di stato, dipende la pace o la guerra, la morte o il benessere. Ma esiste responsabilità solo se c’è libertà: perché nessuno può essere considerato responsabile se ha agito senza possibilità di scelta.
A questo punto come valutare la libertà dell’uomo? Ogni azione è un atto di libertà, anche se la scelta è “guidata” da condizioni precedenti?
Come possiamo essere sicuri che sono stati veramente liberi di gestire la propria e l’altrui esistenza Hitler, Giulio Cesare, Chessman il mostro che uccideva nelle autostrade americane, Napoleone, Mozart, Einstein, Fellini e chiunque si mette in luce come protagonista e che s’impegna a fondo, nel bene o nel male, per modificare la storia?
Sebbene nessuno esclude a priori la libertà, tutti sono d’accordo che l’uomo, nell’affermare la propria volontà, può scegliere entro limiti ben precisi e determinati dalle condizioni storiche, sociali e psicologiche della propria esistenza. In un certo senso, al pari di qualsiasi giocatore, l’essere umano può scegliere liberamente le proprie mosse, ma “solo” nell’ambito delle regole imposte dal gioco.
In altri termini, una certa libertà è possibile, ma non è “vera” libertà. L’uomo prende costantemente delle decisioni, ma sono scelte che, in ogni caso, dipendono dagli imprinting ricevuti durante l’infanzia e che sono condizionati dalla società e dal periodo storico in cui vive il soggetto.
La libertà è dunque un’opzione tra alcune possibilità?
Dovrebbe rappresentare la punta più alta dei rapporti umani, ma in qualche caso nasconde più insidie dell’odio, perché da quest’ultimo sentimento, ci si può proteggere, conoscendo le sue trappole, mentre dall’amore sconsiderato, che incanta e che distrugge, come difendersi?
Maria Pia, che era incinta, era forse tornata da Padova proprio per lui, per il suo ex, per discutere e farsi confortare da lui, che “era il suo migliore amico”, malgrado tutto. Come poteva, quella ragazza di Gravina di Puglia, non avere fiducia nell’innamorato che continuava a giurarle eterno amore, anche se i loro rapporti non erano più buoni come un tempo? Come poteva prevedere che Giovanni Pupillo, il giovane di cui s’era innamorata al liceo, e con cui era stata a lungo fidanzata e che, malgrado non stessero più assieme, restava ancora la sua “nicchia di sicurezza”, avrebbe potuto soffocarla con un cuscino?
E, sebbene in tutt’altro contesto, come poteva la giovane parigina Julie Yasa, che da mesi aveva intrecciato una storia d’amore cibernetico, con un yankee di Detroit, e che il 14 febbraio scorso era andata a trovarlo in Usa, dopo aver scambiato una lunga serie di messaggi via Internet, immaginare che avrebbe trovato non l’uomo ideale che s’era mostrato via cavo, ma un uomo che l’avrebbe accolta solo per una notte nel suo letto, e dopo tante frasi d’amore scritte on line, dopo tante promesse, l’avrebbe sbattuta fuori dalla propria casa l’indomani, dopo una infuocata notte d’amore, dicendole che non intendeva allacciare una relazione. Un uomo che, dopo le suppliche di Julie, sconvolta e disperata da quelle rivelazioni, si è mostrato tanto rude da non lasciarle alcuna chance e da infischiarsene della minaccia di suicidio fattagli dalla ragazza parigina. Suicidio, che l’indomani della giornata mondiale degli innamorati, è avvenuto puntualmente, a pochi metri dalla casa dell’ex innamorato cibernetico.
E come avrebbe mai potuto sospettare la trentatreenne Monica Sassone che Roberto Di Martino, dopo averle insistentemente dichiarato il suo amore, affermando di non poter fare a meno di lei, col quale alla fine aveva intrecciato una relazione, apparsa subito difficile sin dai primi tempi, malgrado tutte le promesse di tenerezza del giovane, sarebbe stato il carnefice che l’avrebbe fatta a pezzi e nascosta in una valigia, nell’appartamento di Torino ove la coppia abitava?
La letteratura dell’amore è così affabulante che non è possibile immaginare quanti pericoli si nascondono dietro questo complesso sentimento, così bello, così esaltante, ma anche così prepotente, invadente e inquietante che può diventare, in qualche caso particolarmente ossessivo, la chiave di volta di orribili storie di ordinaria follia. Una insensatezza, bisogna dire per obbiettività di cronaca, le cui vittime non sono solo donne ma anche uomini.
Oggi Giovanni Pupillo s’appresta a rendere conto alla giustizia del suo gesto criminale; Roberto Di Martino si è suicidato l’altro giorno nelle carceri Torinesi de le Vallette, e il giovane americano che ha sedotto la parigina su Internet, dopo essere stato più volte interrogato dalla autorità americane è stato rilasciato sotto cauzione.
Tre modi “d’amare” e tre modi di espiare una folle passione. Ma anche tre modi d’uccidere e di morire per troppo amore, o per mancanza d’amore, il che, in molti casi, è lo stesso.
Queste tre storie sono venute alla ribalta perché non potevano passare inosservate, ma in molte altre vicende quotidiane, che non appaiono nella cronaca, la passione amorosa è un pretesto per imporre una subdola “morte” psicologica, che non si evidenzia nei “corpi esanimi delle vittime”, ma nelle personalità sofferenti, distrutte, annientate da partner i cui affetti morbosi, contorti, possessivi schiacciano come macigni.
E se l’amore, non fosse retto, come raccontano i modelli romantici, solo da sentimenti celestiali, ma fosse più dispotico e terreno di quanto non si voglia far credere; e se in esso fossero frammiste le più imbarazzanti scorie personali e i più egoistici detriti mentali?
In questi casi, l’“amore” potrebbe davvero essere molto pericoloso.
La farsa del perbenismo perseguita da millenni l’eros e l’ultimo a farne le spese è Rondolino, incappato in questo problema per ingenuità. Il romanzo di Rondolino sarebbe passato inosservato, fatto del tutto normale, se i media non si fossero ferocemente impossessati dell’evento e non l’avessero sommerso con una valanga di fango che ha travolto l’autore. La vicenda, di per sé, è banale, ma non è banale l’inaccettabile putiferio degno del più abietto Medioevo che dimostra come, malgrado la strombazzata “maturità sociale in fatto di sessualità”, siamo ancora al tempo in cui la gente arricciava il naso e si voltava dall’altra parte quando si affrontava l’argomento. La ventata di puritanesimo di opinionisti insospettati, in un’epoca cui i profilattici si vendono nelle scuole e nella quale chi non può, ricorre al Viagra o allo specialista è francamente eccessiva.
Forse che l’homus politicus non si deve coniugare con l’homus eroticus?
Sia la Ercolani che Rondolino avevano creduto alle parole del filosofo indiano Vatsyayana, il quale, secoli addietro affermò che “i piaceri, essendo necessari all’esistenza e al benessere corporeo, sono utili come il cibo”. Forse supponevano che l’erotismo, descritto dal Boccaccio, è gioia di vivere, non rendendosi conto che, quando si affronta quel tema, tutti fanno finta di avere la puzza al naso, e mettono l’argomento tra virgolette, perché, oggetto di scandalo, anche se visto in chiave scientifica.
Infatti Freud, venne tacciato di avere una personalità “pruriginosa”. Gli autori che hanno scritto sul tema, da Ovidio a Saffo, da Pietro l’Aretino, al siciliano Domenico Tempio, a Henry Miller etc, sono considerati dei “perversi”.
Ebbe coraggio, infatti, Herbert George Wells che, in piena epoca bigotta firmò alcuni romanzi erotici. E ne ebbe Flaubert, ma poi venne condannato per Madame Bovary. Anche se con poco ardimento pure Voltaire si cimentò, prima con La Pulzella d’Orleans e poi con L’Odalisca, ma, temendo la galera, pubblicò le opere come se fossero di anonimo.
Diderot percorse questo genere letterario con Les Bijoux Indiscrets, e Mirabeau lo fece con Le Rideau se Lève, ou la Education de Laure .
Jonathan Swift, autore dei I Viaggi di Gulliver, scriveva di nascosto poesie pornografiche e Alfred de Musset, con Gamiani, romanzo hard, ebbe ben quarantuno edizioni.
E anche l’insospettabile Felix Salten, l’inventore di Bambi, notissimo capriolo della Walt Disney, scriveva romanzi pornografici e uno di questi, Storia di Josefine fu molto venduto. Paul Verlaine, genio della poesia francese, scrisse poesie porno che ebbero grande diffusione. Il drammaturgo e filosofo tedesco Frank Wedekind, intellettuale rivoluzionario, in Una vita erotica, suo diario intimo, racconta variegati legami erotici. Forse ricordando che il filosofo Guido Calogero, l’estetologo Gillo Dorfles, e persino l’insospettabile storico Luigi Settembrini, si cimentarono nella musa erotica, sia Rondolino che la moglie non pensavano di fare tanto scalpore ammettendo che, tutto sommato a loro (come quelli che se ne scandalizzano) piace leggere libri hard e fare all’amore. Dal momento che molte donne hanno scritto in materia (Colette, Anaïs Nin, Erica Jong), e persino il famoso Histoire d’O. uscì dalla penna di una donna, per compiacere il suo amante, i coniugi Rondolino, hanno ritenuto molto semplicemente che Eros fa parte del vivere quotidiano e non immaginavano di sollevare tanti malintesi sensi del pudore, né di pizzicare nel vivo le coscienze ipocrite, che pur essendo, sotto sotto, dell’opinione dei Rondolino, sono insorte per non sentirsi “scoperte”.
Da che mondo è mondo, la storia politica si è fatta anche a letto. La stessa vicenda dell’Unità d’Italia è passata dall’alcova di Napoleone III. Come tutti sanno, la Contessa di Castiglione sbloccò le reticenze dell’Imperatore dei Francesi, che era stato restio ad intervenire in favore della nostra Patria. Allora si disse che la mossa di Camillo Benzo conte di Cavour d’aver inviato a Parigi la seducente cugina Virginia Oldoini Verasi di Castiglione, era stata una strategia di grande rilievo. Virginia s’intendeva poco di politica, ma era una maga nell’arte della seduzione. Qualche malalingua francese, nell’entourage del Palazzo, mormorò che la Oldoini era riuscita a “rimminchionire” l’Imperatore al punto da trascinarlo in una guerra a favore dell’Italia.
Nell’anno Mille, a Roma, la nobildonna Teodora, moglie del senatore Teofilatto, donna ambiziosa e, oggi si direbbe “scostumata”, pratica della vita, condusse le fila della politica in Roma, e riuscì persino a far eleggere come papa, Giovanni X, che era l’arcivescovo di Ravenna e che lo storico Liutprando e le popolazioni del tempo le attribuirono come amante.
Elisabetta I d’Inghilterra governò per quarantacinque anni in modo egregio grazie anche ai “suggerimenti politici” dei suoi molteplici amanti, dal barone di Burghley al conte di Essex.
L’Imperatore di Bisanzio, Gaio Aurelio Diocleziano, ebbe al suo fianco prima come amante poi come moglie una donna astuta e intelligente, che egli aveva tolto dai bordelli della Capitale, la quale gli risolse brillantemente molti “nodi” politici, soprattutto quelli interni al palazzo. E si potrebbe andare avanti a lungo con questo genere di racconti.
Le pruriginose vicende di Clinton, dunque, in apparenza sembrano non distaccarsi troppo dalla consuetudine “governativa” di tanti altri Paesi. Ma il Presidente americano ha perso di vista quattro pilastri fondamentali.
Primo: egli governa un Paese che, pur essendo democratico, ha sempre mostrato una scarsa affluenza alla urne ma una grande curiosità per le cronache rosa, essendo più interessato a capire se il Capo degli USA è sincero, soprattutto nell’intimità, piuttosto che se è un buon stratega politico. Questo lo sapeva bene il generale Dwight Eisenhower il quale, rientrando in patria dall’Europa, alla fine del II° Conflitto Mondiale, volendo intraprendere la corsa per la Casa Bianca, intimò alla sua segretaria ed autista, Kay Summersby, che era stata la sua amante, compagna e confidente nei quattro anni del conflitto, di non rivederlo più. Per la mentalità americana, Eisenhower si comportò da “accorto politico” anche se, obbiettivamente, dimostrò di essere un gran mascalzone.
Secondo: Clinton ha le idee confuse circa la moralità degli Americani: essi sono dei solerti divorziatori, ma reggono male, e in ciò diversamente da buona parte della mentalità europea, i tradimenti sessuali.
Terzo: Clinton studiando la storia, avrà appreso che Luigi XIV a corte aveva una schiera di amanti sulle quali nessuno eccepiva. Che Hitler quando si recava a ispezionare una città, la notte pretendeva che qualche bella ragazza gli riscaldasse il letto. Lo stesso facevano sia Stalin che Mussolini, sui quali si raccontavano addirittura molte piccanti vicende al riguardo. Clinton, memore di ciò che è accaduto in passato in altri Paesi, avrà dunque pensato che, essendo il Capo di una grande Nazione democratica, nessuno si sarebbe impicciato dei suoi “fatti personali”. Ma è proprio questo il terzo errore di Clinton: egli non ha compreso che il capo della Casa Bianca non può permettersi, in quel Paese di certo democratico, ma altrettanto ipocritamente puritano, di comportarsi come si comportava Mao Tse Dung, il quale si faceva portare a letto “le più belle del reame”.
Quarto: le donne con le quali Clinton è andato non erano né delle Contesse di Castiglione, né delle Pompadour, che sicuramente, con il loro savoir faire, l’avrebbero tolto dagli impicci. Egli si è contentato di fare il satrapo con delle insignificanti segretarie.
Insomma, Clinton, questo ragazzone impulsivo, e forse “bugiardo”, che guida gli USA, la Storia l’ha capita a metà: e cioè la parte “maschilista” e più piacevole. Ma ciò lo ha reso molto vulnerabile. Infatti gli avversari sanno come poterlo colpire nelle sue “debolezze di sovrano”. Il che gli potrebbe costare la “corona”, se non verrà ancora una volta in suo aiuto Hillary.
E certamente la First Lady, alla quale interessa soprattutto dirigere la stanza dei bottoni e non se la prende per ciò che “lui” fa nelle stanze da letto, farà di tutto per scagionare, come già in altre occasioni, quel pirla di Bill.
E poiché Hillary ha la tempra dei grandi personaggi femminili del passato, di quelle donne che hanno fatto la Storia, può essere che il gioco le riesca.
Alle origini delle convinzioni e degli usi ritualizzati
I pregiudizi sono opinioni e credenze che, ritenendo che guidino al meglio, qualcuno segue fino ad assumere atteggiamenti inadeguati e scarsamente realistici nel campo morale o nell’ambito dei rapporti sociali. In altri termini, i pregiudizi sono fisime, cioè idee preconcette e prive di serio fondamento, perseguite ed ostentate con pertinacia. Ben nota è la paura d’attraversare la strada con un gatto nero, e altrettanto comune è il pregiudizio che porti male il rovesciarsi del sale sulla mensa o il rompersi di uno specchio, etc.
Le credenze popolari a propositi di simili “pericoli” incombenti producono un turbamento, che è fronteggiato solo con la superstizione, la quale “annulla” tali “eventi pericolosi” con amuleti, talismani e con comportamenti ritualizzati.
I preconcetti rituali sono variegati; alcuni riguardano, per esempio, i giorni fasti e nefasti delle nozze: è comune credenza che chi li viola può mettere a repentaglio la riuscita del matrimonio!
In quanto alle etichette che vengono rifilate ad alcune persone, Pirandello sosteneva che chi ne riceve una, come, per esempio, la “patente” di jettatore, difficilmente può disfarsene. Emblematico, in questo senso, è il caso di Nerone, che, pur non essendo stato più crudele di altri imperatori, venne etichettato, per motivi religioso-politici, come uomo crudelissimo e da allora la sua figura non è stata rivalutata nella credenza popolare, pur essendo, storicamente, un capo che non governò così male come, con affettazione, si affermò per secoli.
Un altro stravagante pregiudizio spinse, nel III secolo a.C., il capo della dinastia Ts’in, promotore della Grande Muraglia, ad ordinare che venissero date alla fiamme le opere di Confucio e dei filosofi che lo avevano preceduto, perché, secondo la convinzione del tempo, portavano jella e avrebbero impedito che la costruzione andasse a buon fine.
Sono svariati e curiosi i divieti derivanti da leggende popolari e da tabù. La religione ebraica e quella islamica, vietano, per esempio, di mangiare carne di maiale, e questo perché il Levitico, dividendo gli animali in mondi e immondi, pose nella prima categoria i ruminanti, ritenendoli commestibili, mentre i maiali, che non ruminano, li considerò immondi e, dunque, tabù. Paradossalmente bisogna ricordare, per inciso, che la Lontra, invece, può stare nella mensa anche di venerdì, perché è un animale che si nutre di pesce.
Il senso di colpa derivato dall’alimentazione immonda era compensato ed attutito dalle astinenze e dai digiuni, ed era anche riscattato se la macellazione veniva fatta passare ipocritamente come sacrificio simbolico. In altri termini, se lo sgozzamento dell’animale aveva luogo in forma rituale, l’animale era mondato e poteva essere commestibile.
Approfondendo i motivi storici dei divieti alimentari rituali, si scopre che essi derivano da opportunità pratiche e diventano comprensibili conoscendo le necessità socio-geografiche che li hanno prodotti. Tornando ai maiali, un tempo alla gente del deserto era vietato allevarli perché essi mangiano ciò che è anche utile agli uomini. Gli Ebrei, popolo nomade, non poteva nutrire bestie che, alimentandosi dello stesso cibo necessario alla popolazione, lo sottraevano alle masse affamate. Nel deserto, inoltre, era inopportuno sprecare riserve d’acqua per i suini, i quali usano diguazzare nella fanghiglia.
Le medesime esigenze di risparmio idrico che affliggevano anche gli Islamici, i quali, vivendo in regioni aride, non potevano di certo dissetare gli animali bisognosi di molto beveraggio. E il Corano così, vietò, senza dare una realistica giustificazione merceologica, ma con un pretesto religioso, ritenendolo un veto più energico, che la popolazione allevasse quelle bestie le quali, per nutrirsi, entrano in concorrenza con le esigenze dell’uomo. I divieti sollevati dal culto e quelli sociali sono stati, pertanto, posti a salvaguardia della gente e in seguito, cessata l’esigenza che li aveva prodotti, sono rimasti come ritualità. Alcuni pregiudizi sono poco conosciuti, come quelli dei Copti che non mangiano carne se è stata macellata da un Mussulmano e così si comportano i Mussulmani se la carne è macellata da un Copto. All’origine di questa riluttanza v’è una motivazione forte: un tempo, le due popolazioni erano rivali e non avevano scambi commerciali di vettovaglie temendo che la fazione avversa avvelenasse il cibo che veniva scambiato.
Insomma, dietro ai tabù e alle credenze popolari spesso si nascondono ragioni economiche, geografiche, etniche, o semplicemente psichiatriche, come nel caso di molti guaritori, dei maghi e degli stregoni. Indagando sulle cause che hanno generato in un individuo, sempre ché sia in buona fede, la convinzione di appartenere ad una di queste categorie, in molti casi si può trovare all’origine di tale convincimento un problema causato da scompensi emotivi o addirittura un disturbo della ragione.
MOZART COPIO’ ANFOSSI E SHAKESPEARE OVIDIO ?
Grazie a una sensazionale scoperta fatta da due musicisti napoletani, i maestri Enzo Amato e Alberto Vitolo, si è appurato che Wolfgang Mozart, nell’opera Il Trionfo della Morte copiò quasi di peso l’andante in re minore della sinfonia Venezia di Pasquale Anfossi riportandolo esattamente nell’ultima sezione del Confutatis Maledictis. Mozart aveva una prodigiosa memoria e gli bastava ascoltare un brano per ricordarlo con estrema precisione in tutta la strumentazione.E Mozart aveva apprezzato l’opera di Anfossi che aveva sentito sia nel viaggio in Italia del 1770, che a Monaco nel 1775. È probabile che il grande musicista essendo in ritardo col committente dell’opera Il trionfo della morte, il signor Walsegg, che continuamente lo assillava, abbia ricordato il brano dell’Anfossi, anch’egli compositore brioso e dal ritmo sicuro, che gli era molto piaciuto e lo abbia riportato, avendo molta fretta, “di peso” nella propria opera. Del resto, che Anfossi abbia avuto un certo influsso su Mozart la storia della musica non l’ha mai negato.
Ma di plagi musicali famosi se ne ricordano anche ai nostri giorni, e diatribe, fondate o meno, tra cantautori che si accusano vicendevolmente di copiare reciprocamente i loro motivi, sono arcinote.
In quanto alla letteratura, il narratore veneziano del secolo XVII, Carlo Gozzi, sosteneva che le situazioni della commedia umana sono più o meno sempre le stesse, e che si possono raggruppare in una trentina di storie. Gozzi aveva ragione, e lo si deduce dal fatto che, proprio a causa di ciò, nella letteratura si riscontrano molti plagi.
Tra essi, uno dei più eclatanti è la narrazione della vicenda sentimentale di Pìramo e Tisbe, coppia di amanti assiri, forse tra le più “copiate” nella storia delle letterature mondiali di tutti i secoli.
Lo sfortunato amore dei due giovani,che fu narrato da leggende assire del VII° Secolo avanti Cristo, è forse già un “plagio” di racconti babilonesi di epoche precedenti.
Dalla letteratura assira affiorano i temi relativi ai drammi della vita, spesso in balia di dèi e demoni capricciosi.
E sono proprio vittime di tale capricciosa sventura del destino i giovani Pìramo e Tisbe, narrati prima dalle leggende babilonesi, poi da quelle assire, poi ancora nelle Metamorfosi del latino Ovidio e, secoli dopo, dal seicentesco Marino e in fine, divenuti personaggi più noti, con i nomi di Giulietta e Romeo, dall’inglese Shakespeare.
La storia riferita da Ovidio nelle Metamorfosi è la seguente: due giovani che si amavano ed erano per questo contrastati dai rispettivi parenti, vicini di casa,che si odiavano per motivi politici, riuscivano a comunicare solo attraverso le fenditure dei loro castelli.
Ma un giorno i due innamorati si diedero appuntamento presso una fonte che era vicina a un gelso. Tisbe, giunta per prima, spaventata dall’arrivo di un leone, il quale cercò di ghermire la ragazza, fuggì via, lasciando sul terreno il proprio velo lacerato e insanguinato. Quando arrivò Pìramo, credendo che Tisbe fosse stata sbranata dalla fiera, disperato per la perdita dell’amata, si diede la morte.
Poco dopo, quando la fanciulla ritornò sul luogo convenuto dell’incontro, avendo visto che il suo “amato bene s’era tolta la vita”, ricostruito il motivo che aveva indotto Pìramo a suicidarsi, disperata, s’uccise anch’essa sul corpo del giovane. È impossibile ignorare che questa vicenda è identica a quella raccontata da Shakespeare nell’opera Giulietta e Romeo. In ogni caso, non ci si può meravigliare troppo di Shakespeare, perché copiare è purtroppo un’abitudine radicata nei letterati; come qualcuno ricorderà, in tempi recenti, una scrittrice venne accusata (e inseguito condannata) per plagio dagli eredi di Margaret Mitchell: aveva ricopiato quasi per intero il romanzo Via col Vento, presentandolo al pubblico, come se fosse un’opera propria, mettendo semplicemente un titolo diverso!
IN PASSATO MOLTE LE DONNE FURONO “EMERGENTI”
Sebbene la Storia abbia registrato più prevaricazioni maschili sulle donne che rispetto per le loro qualità, non sono tuttavia mancati i casi in cui la supremazia femminile ha costretto il maschio a cedere lo “scettro”, e molti uomini sono divenuti strumenti delle strategie delle donne. Alcune hanno spinto i loro partner a fare cose che, senza di loro, non avrebbero mai fatto o saputo fare. Le “matrone romane”, per esempio, gestivano la Res Publica tramite i loro uomini. A quel tempo le donne non avevano nome in proprio, ma disponevano di diminuitivi e vezzegiativi che ricordavano quello della gens da cui provenivano. Emblematiche sono le figure di Clodia, Terenzia e Fulvia. La prima delle tre sposò Quinto Cecilio Metello, di dieci anni più grande di lei e attraverso il marito manovrò la politica romana. Terenzia sposò Cicerone perché vedeva in quell’avvocato ruspante l’uomo nuovo dell’Urbe. E poiché Cicerone non fu all’altezza delle mire politiche della sua donna, Terenzia, dopo di lui sposò via via altri tre uomini che stavano in politica, per poter arrivare al potere.
Fulvia, figlia di Marco Fulvio, aveva carattere “determinato e virile”. Grazie al terzo matrimonio, impalmò Marco Antonio, che dopo la morte di Giulio Cesare divenne improvvisamente il capo del governo romano. E poiché Marco Antonio non sempre aveva le idee chiare in fatto di potere, egli spesso fu assistito ed ispirato da Fulvia. Nel Medio Evo, a Bisanzio, Teodora diresse, con tatto e mano di velluto, la politica dell’Impero. L’imperatore Giustiniano, suo marito, vergognandosi di essere guidato da Teodora, cercava di far passare i “consigli” della moglie come se fossero “farina del proprio sacco”. Ma in realtà la strategia bizantina venne quasi sempre ispirata dall’Imperatrice. Quella di Teodora fu una politica accorta, frutto della efficace intuizione di colei che, prima di diventare Imperatrice, aveva “lavorato” nei bordelli della Capitale dell’Impero Bizantino.
Semiramide, la regina d’Assiria, della quale purtroppo le leggende raccontano solo le dissolutezze, diresse la vita pubblica e privata del suo popolo, sostituendosi al proprio consorte e, come narra Erodoto, fece costruire canali, rimise in sesto l’agricoltura e fondò diverse città. Grandi, nell’arte della direzione dello Stato, tra le altre furono, Elisabetta I° d’Inghilterra, Caterina II° di Russia, Cristina di Svezia, Maria Teresa d’Austria, Margherita di Francia, Maria Stuarda etc. Altre, come Madame de Pompadour e Madame de Maintenon seppero, come le antiche romane, guidare i loro amanti regali nell’arte del governo.
La Contessa di Castiglione, cugina del Cavour, fu esperta manipolatrice di illustri statisti e di teste coronate. A lei si deve se l’Italia venne “aiutata” da Napoleone III a divenire una nazione unita. Anche le leggende, le quali, si sa, sono lo specchio dei tempi, narrano di donne che hanno saputo frenare l’irruenza e la violenza dei maschi. Si racconta che il Sultano, furente perché era stato tradito dalla moglie,divenuto misogino, “assoldava” ogni notte una schiava come peripatetica e al mattino, regolarmente, la mandava a morte. Quando fu la volta di Scheherazade, ella riuscì ad evitare di farsi decapitare, come era successo a quelle che l’avevano preceduta, narrando astutamente al Sultano, per Mille ed una notte
di seguito, storie così avvincenti, che alla fine il padrone, non solo le fece salva la vita, ma addirittura la sposò.
Insomma, in qualche caso, anche le donne dell’antichità, hanno saputo dimostrare di essere esperte nel fronteggiare gli uomini, nel governare le nazioni e, in barba al maschilismo imperante, quando era necessario hanno fatto intendere di saperne una più del diavolo. E pensare che assurdamente e perversamente, alle soglie del Duemila, invece, qualcuno progetta di riaprire le case chiuse!
Anche nella Bibbia si racconta di donne “emergenti”: le due figlie di Lot, che nessuno aveva voluto in sposa perché “poco piacenti”, approfittarono “con astuzia”, a turno, dell’ubriachezza del loro padre per farsi mettere incinte dal loro genitore.
Da quelle unioni, sempre come riferisce la Bibbia, vennero fuori le stirpi dei Moabiti e degli Ammoniti.
Mammismo e rapporti tra i sessi
LA DONNA NELLA CULTURA MERIDIONALE
Nel meridione alcuni valori sono portati alla esasperazione. La cultura meridionale ha idealizzato la donna, ma la ha anche relegata ad essere subalterno. Il maschio la colloca spesso in un ruolo sociale marginale, utile ma certo non paritetico; anche se poi si rende conto che la donna è colei che ha potere di vita e di morte su di lui. Per il meridionale dunque, il confronto con l’universo femminile è arduo.
Al Sud la relazione madre-figlio ha aspetti inquietanti soprattutto. La donna-madre è artefice del destino dei figli maschi, è custode della stabilità familiare ed impone l’intima adesione del figlio ai propri ideali. Se le donne appaiono estremamente dipendenti dal maschio, se in qualche caso sembrano essere “lo stampo” del marito, se lo stereotipo di donna meridionale è quello di chi si tiene ai margini, non bisogna dimenticare che nel meridione le madri-mogli sono gli ammortizzatori delle sconfitte, delle delusioni, delle rabbie dei loro maschi.
Questo dimostra che è un pregiudizio ritenere che abbiano un ruolo marginale. Le meridionali esercitano all’interno del nucleo familiare un grande potere sugli uomini, garantendo i servizi essenziali, la cura della casa e il buon andamento della famiglia
Nel meridione, in apparenza, sembra che alle donne sia riservato meno potere che altrove. Nella realtà dal punto di vista psicologico e antropologico, ogni madre detiene nei confronti dei figli maschi un potere illimitato. La nascita di un figlio le concede di partecipare allo splendore del comando maschile, in quanto essa è in condizione di modellare, curare, e rendere dipendente il proprio figlio.
Il “possesso” di un figlio maschio la valorizza come madre e la rende certa della propria supremazia sull’universo maschile.
Il maschio che s’illude che la “femmina” sia alle proprie dipendenze per le premure che ha per lui ha la genitrice, deve presto ridimensionare l’idea che ella sia al suo servizio e deve fare i conti invece con gli insegnamenti e i valori che la madre gli impone e che ne fanno un individuo sottomesso all’educazione materna.
E se è vero che le donne meridionali pagano un alto prezzo, in termini di fedeltà, di obbedienza e di sottomissione, è indubbio che dietro ogni maschio meridionale c’è l’immagine di una figura femminile, una madre, una sorella, una moglie.
Donne votate al sacrificio, che sembrano cancellare se stesse in favore del maschio, ma che nella realtà non solo “custodiscono” il loro maschio, ma lo “dirigono”. E se la donna meridionale si mostra sempre psicologicamente come una “figlia”, nello stesso tempo, il maschio dipende da lei in tutto e per tutto.
E anche quando il modo di essere donna riflette schemi di organizzazione patriarcale, nella realtà il maschio è spesso saldamente nelle mani della donna. Infatti la donna chiusa nella sua casa, vede crescere il suo potere tra le mura domestiche.
Anche se il maschio attribuisce un palese disvalore al sesso debole e arriva al limite del disprezzo nei confronti della donna, la virilità maschile è imprigiona nello schema figlio-madre.
L’avidità del meridionale nei confronti della donna, madre, amante, schiava, si rivela nel linguaggio metaforico della nutrizione. Il cibo ha un valore affettivo e simbolico enorme: “Ti mangerei di baci” dicono le mamme meridionali ai figli. “Queste mamme che fanno i figli e poi se li mangiano” afferma metaforicamente un personaggio del romanzo Gli anni perduti di Vitaliano Brancati.
La donna fa trovare al maschio la minestra, come la madre quando, bambino, tornava da scuola. L’influenza enorme della Grande madre mediterranea, l’archetipo di Iside, di Demetra, di Cibele si avverte ovunque. Probabilmente nel meridione non può mai attecchire una vera parità dei sessi perché l’immagine della Grande Madre sovrasta su tutto. Il meridionale “ama” più di ogni altro la donna, ma contemporaneamente, soffocato dal suo potere, la disprezza.
Il meridionale non può che amare l’immagine della madre. La sua fedeltà alla madre è nell’incapacità di avere un franco dialogo con qualsiasi altra donna che non sia la genitrice o nella impossibilità di valutare sinceramente in altre donne qualità che non siano quelle che la madre gli ha insegnato.
Si tratta di un orientamento psicologico e relazionale che fa prevalere il “senso della famiglia” a quello dello Stato, il legame del clan in contrapposizione alla socialità di tipo mitteleuropea.
L’appartenenza alla famiglia cancella o mette in secondo piano, qualsiasi altra relazione. La legge della madre, che governa senza averne l’aria, che dirige con l’atteggiamento di chi appare sottomessa, che finge di non sapere nulla, mentre comprende tutto, imbavaglia il figlio-maschio.
Un legame così profondo e simbolico genera inevitabilmente tensioni sicché, paradossalmente, la mamma meridionale è “molto” odiata perché opprime e assieme a lei è anche odiata la donna in genere.
Il bisogno che ha il maschio meridionale di far risaltare la propria virilità è altamente compensatorio. I meridionali sono sicuri di essere impareggiabili in amore. Essi in ogni circostanza “devono” mostrare la loro virilità. La paura e l’insicurezza che genera la madre nel maschio si muta nel dileggio nei confronti della donna. Questo rovesciarsi della sottomissione nel suo contrario, comporta nel maschio un atteggiamento patriarcale verso la femmina. Ma induce anche l’isolamento dei sessi, che vivono così contrapposti e separati dal reciproco sospetto di voler prevalere l’uno sull’altro. All’esagerato sentimento di sé del maschio, si oppone la convinzione che la madre ha di essere indispensabile per il figlio.
Il maschio ha bisogno di continue rassicurazioni per mantenere l’autostima labile e precaria, e ciò lo porta spesso alla sopraffazione, alla violenza.
Ma l’identificazione stessa del potere, nel meridione, è risonanza e riverbero del potere materno: la parola mammasantissima evidenzia chiaramente la forza carismatica dell’immagine materna.
La convinzione dell’indissolubilità del rapporto del figlio con la madre ha privilegiato l’indissolubilità matrimoniale. Per questo la famiglia è una istituzione molto sentita nel meridione. L’ipertrofia del sentimento familiare ha impedito che nel meridione si sviluppassero il sentimento sociale, quello comunitario, quello consociativo, quello statalista-gerarchico.
Osservando le giovani generazioni, si può però notare che ragazzi e ragazze conversano, scherzano, vivono assieme con meno tabù di una volta. Forse loro potranno affrontare il problema della condizione subalterna femminile e risolvere felicemente i rapporti tra maschi e femmine con pari opportunità
OTTO MARZO, UNA DATA FATIDICA PER IL FEMMINISMO
LA CONDIZIONE DELLE DONNE IN PASSATO E LE PROSPETTIVE DI PARI OPPORTUNITA’
Se guardiamo la condizione della donna in genere e di quella meridionale in particolare, nei secoli passati dobbiamo constatare che i cittadini Greci, i Persiani e i Giudei, nelle loro preghiere ringraziavano i loro dei per non averli fatti nascere femmine. Presso gli ebrei, convinti dell’inferiorità femminile, alle donne non veniva insegnata nemmeno la Legge: “Si brucino le parole della Torà, ma non siano comunicate alle donne!”
La religione ebraica è patriarcale, la famiglia biblica di conseguenza è patrilineare.
Abramo, un maschio, venne creato da un Dio anch’egli di sesso maschile, Yaweth. Eva fu la filiazione di un maschio, avendola Dio tirata fuori dalla costola di Adamo.
In Grecia le donne erano soggette a molte frustrazioni, e la “nevrosi familiare” era posta in grande risalto nelle commedie elleniche. Di mogli bisbetiche, trascurate dai mariti e sottoposte ad umiliazioni, come Santippe, la compagna di Socrate, a quel tempo ve ne erano tante. Eschilo fa dire ad Apollo, nelle Eumenidi, che la donna non genera, ma è semplice nutrice e tutrice del seme che riceve. Essa conserva il germoglio di colui che veramente genera, l’uomo.
Sia in Grecia che a Roma il matrimonio era un’istituzione commerciale: gli affetti e il sesso trovavano posto fuori casa, presso le cortigiane. La donna romana, come la greca, non fruiva di molti diritti.
La moglie greca e quella romana, al pari degli schiavi, erano relegate nel gineceo, senza garanzie civili e senza nemmeno il diritto, dopo aver partorito, di trattenere con sé il figlio procreato. Esse potevano prendersi cura del neonato solo dopo che il marito aveva deciso di ammetterlo a casa. Se il capofamiglia non intendeva tenere presso di sé il neonato, esso veniva esposto fuori dall’uscio e la moglie non poteva opporsi.
A Roma era attribuita molta importanza al matrimonio, alle virtù domestiche e all’allevamento dei figli. Questo non escludeva però che fosse consentita se non favorita la pratica del concubinato, che era frequente e legalizzata.
Il Cristianesimo cercò di frenare la licenziosità di quei costumi. Per questo le donne s’avvicinarono al cristianesimo: quella religione dava loro maggiore dignità. Ma il Cristianesimo, al tempo stesso, sottopose le donne a una serie di ristrettezze severe.
Come la Bibbia, anche il Corano non è tenero nei confronti delle donne. Anche secondo l’Islam, così come aveva detto Eschilo, la donna è come la terra, riceve il seme che poi germoglierà. Di per sé Terra e donna, secondo il Corano, non hanno che funzione di ricettacolo. La donna è stata nell’immaginazione misogina il riflesso del Diavolo: colei che ha fatto peccare l’uomo. Partendo dalla convinzione della “inferiorità e della malvagità della donna”, per secoli è stata negata qualsiasi emancipazione al sesso femminile.
Sebbene il culto di Maria rappresenti un’alternativa alla femmina (Eva), che aveva dannato all’origine del mondo gli uomini, tuttavia fino all’anno 1200, quando fu indetto un apposito Concilio a Macon, in Francia, alla donna fu persino negato di avere un’anima. Molti erano gli anatemi degli asceti e dei predicatori che vedevano nella donna l’immagine del demonio.
In passato anche molti uomini di cultura hanno espresso giudizi oltraggiosi nei confronti delle donne. Plutarco affermava ne I precetti del matrimonio che la donna non deve mai prendere “l’iniziativa” se non vuole sembrare una cortigiana. Shakespeare riteneva che la mente della donna fosse debole, suggestionabile e inidonea alle speculazioni filosofiche e scientifiche. L’abate di Cluny, Oddone, sosteneva che se gli uomini potessero rendersi conto di cosa è veramente la donna, si disgusterebbero di essa. Martin Lutero definiva l’uomo il “buon raccolto” e la donna “l’erba cattiva”. R. Kipling, convinto maschilista, disprezzava visceralmente le donne, e persino il pedagogista J.J. Rousseau era convinto che la donna dovesse avere ruoli subalterni come si può leggere a chiare lettere nella Novella Eloisa.
Eppure nel campo culturale le donne, sin dal Medio Evo, hanno contribuito al recupero di testi antichi e a rendere la letteratura un bene di consumo indispensabile. Nei medievali secoli bui, l’arte dello scrivere e quella del leggere erano ritenute attività di seconda categoria e per questo demandate ai monaci e alle donne, le quali divennero, assieme ai religiosi, le depositarie della cultura. Inoltre, la maggior parte del lavoro della terra è, presso molti popoli, compito loro, dalla semina alla raccolta e fino alla distribuzione. Al centro della produzione del cibo è l’agricoltura e le donne hanno un ruolo fondamentale in questo campo. Per il 75% il lavoro agricolo, nel mondo, è sulle loro spalle. Quando le donne dei paesi sottosviluppati hanno qualche piccolo reddito acquistano soprattutto generi alimentari per la famiglia, nutrono i figli e gli anziani genitori. Negli ultimi anni si assiste ad una accentuazione della femminilizzazione e della infantilizzazione della povertà.
La misoginia, che ha prodotto la marginalità della donna, è stata una forma mentis dalle radici molto profonde e praticata non solo durante le persecuzioni stregonesche.
Sotto l’apparente “civiltà sociale”, le donne sono maltrattate anche negli ambienti più “insospettabili”, e ciò rende difficile intravedere gli abusi ed impossibile intervenire. Purtroppo le “crudeltà occulte” non fanno notizia perché non vengono registrate dalle cronache.
Anche nel cosiddetto mondo civile la donna viene sottoposta ad una serie di impedimenti, di compromessi, di incapacità, che rappresentano certamente una camicia di forza psicologica e sessuale.
Forse per questo le donne sono la categoria più esposta alla nevrosi.
Dal Congresso di Stoccolma dell’agosto 1996, dedicato proprio agli abusi sessuali, risulta che tali abusi non dipendono dalla povertà ma dalla sottomissione a determinati valori e dal modo in cui è considerato il problema sessuale. Ma osservando le giovani generazioni, c’è già uno spiraglio di luce nella buia notte delle relazioni sociali tra uomini e donne. L’ipocrisia che ha soffocato i rapporti tra i sessi va forse cessando. Ragazzi e ragazze vivono alla pari, conversano, scherzano, stanno assieme con molto meno tabù di una volta.
Insomma, malgrado la demonizzazione che il maschilismo ha fatto della donna, è sperabile che agli inizi del terzo millennio non si debba più affrontare il problema della condizione subalterna femminile, soprattutto di quella meridionale, e che l’avvento di una nuova era sociale risolva felicemente le tensioni e le incomprensioni tra maschi e femmine
Che Picasso sia stato un pittore innovativo e di grande intuito artistico, è risaputo, che abbia frantumato e ricomposto l’universo rimodellandolo astrattamente è un fatto che si desume dalla sue stesse opere, che la sua fantasia surrealista e personalissima ne abbia fatto un genio singolare, nessuno lo ignora; ma non tutti sanno, invece, che Pablo Picasso deve la passione per l’arte figurativa alla sollecitudine del padre. Insegnante di disegno e pittore mediocre, Josè Ruiz Blasco seppe infondere in Pablo sin da piccolo, l’amore per la pittura. Egli spinse il figlio a disegnare e lo incoraggiò tanto che Pablito iniziò a dipingere prima di saper scrivere. José Ruiz non nascondeva il profondo desiderio che il figlio potesse arrivare dove lui non era riuscito,. Così, Pablo s’impegnò fino allo spasimo per non deluderlo. Nella prima infanzia, Picasso copiava i disegni del padre che aveva una predilezione per le colombe. Da grande Pablo, in onore del padre, ne disegnò una che divenne famosissima!
Intuìto che il figlio stava progredendo, José Ruiz Blasco lo iscrisse all’Accademia Lonja di Barcellona e due anni dopo, il sedicenne Pablo era già “un caso artistico eccezionale”, attestato dall’encomio alla Mostra di Madrid. Ma il desiderio di raggiungere mete sempre più ambite fece sì che Pablo, qualche anno dopo andasse in Francia. La creatività, l’acume e le qualità artistiche non comuni di Picasso gli fecero rifiutare qualsiasi conformismo. Anche in amore fu trasgressivo: infatti, quando era colto dal “bisogno imperioso di rinnovamento”, affermava di dover sperimentare nuove tecniche pittoriche e contemporaneamente diceva di avvertire anche la necessità di un nuovo “affetto”. Sicché, il rinnovamento artistico del grande pittore, si traduceva anche in un irrefrenabile bisogno di conoscere nuove donne. Ma, se Picasso era facile ad infiammarsi, era altrettanto svelto ad abbandonare il ménage quando gli era diventato scomodo.
Durante il suo soggiorno a Roma amò Olga Kovolova, danzatrice dei Balletti Russi con la quale visse una stagione meravigliosa. Picasso si installò nell’appartamento di Olga e cominciò a disegnare furiosamente. Quella passione gli dava molto dal punto di vista artistico, ma dopo che si sposarono, le cose non funzionarono più: Olga, figlia di un alto ufficiale russo, era affascinante, amava il lusso, i bei vestiti, la gente bene e una genere di vita “selezionata e snob”; Picasso, invece, figlio di una popolana, era abituato a vivere in modo spartano e senza fronzoli. Olga gli diede un figlio e cercò di fare del marito un gentiluomo, elegante e raffinato; ma Pablo, non riusciva a stare nei panni del gentleman e alla fine piantò la moglie per tornare libero e bohémien. Lo choc di quell’abbandono, per Olga fu devastante; ella cadde in una grave depressione, anche perché quel distacco le ricordò d’essere stata abbandonata, da piccola, dalla madre.
In seguito Picasso amò Palma La Bucarelli, chiamata la bella “amazzone dei pittori” e la rivoluzionaria spagnola Dolores Ibarruri, le cui gesta ispirarono Hemingway, in Per chi suona la campana?
La splendida e anticonformista Sophie Zenaide Goebski, affascinante oriunda russa, figlia di uno scultore polacco, fu appassionata amante e pigmalione di Picasso. Il grande pittore fu dunque un grande amatore e s’occupò anche dell’eros nell’arte: un suo quadro, facente parte del lascito Scofield Thayer, è custodito, per motivi di censura, nei sotterranei del Metropolitan Museum di New York. Esso ritrae il pittore, nudo, assieme ad una donna, mentre si svolge tra loro un amplesso; i responsabili del Museo non lo hanno esposto, ritenendo “poco opportuno” quel Picasso “scandaloso”, dal momento che al Metropolitan i visitatori sono anche di minore età. Anche il tema della omosessualità femminile è stato trattato da Picasso ne “Le amiche”.
L’esuberante Pablo Picasso, a sessantacinque anni, s’innamorò di una giovane liceale, Geneviève Laporte che era andata ad intervistarlo per un articolo da pubblicare sul giornalino del Liceo Fénelon. Per Picasso fu un colpo di fulmine; in un primo tempo non osò fare delle avances alla splendida diciassettenne, limitandosi a invitarla più volte per ritrarla in varie pose. Da quegli incontri nacquero vari capolavori: “Geneviève”, “Un’odalisca in nudo” e altre tele sublimi. Poi la passione di Pablo esplose incontenibile perché la ragazza “lo faceva impazzire”, e così, preso il coraggio, l’artista si dichiarò alla modella, che gli ripose: “Era ora. Mi chiedevo quanto avresti ancora atteso”. Infatti, erano passati sette anni dal loro primo incontro, durante i quali Picasso, che infondo era un timido, le era stato vicino spiritualmente, ma non aveva mai osato “toccarla”. Il pittore dichiarò in seguito che era stato impaurito dalla giovanissima età della modella e che fu solo “in un fatidico pomeriggio” che divennero amanti: lei aveva ormai ventiquattro anni e lui settantadue. La relazione durò tre anni, durante i quali entrambi furono travolti da un appassionato amore spirituale e sessuale. Poi la fiamma si spense, ma Pablo e Geneviève mantennero inalterato l’affetto che li aveva uniti.
Sosteneva maliziosamente Picasso che: “ Per amare con pieno vigore si ha sempre bisogno di nuovi stimoli, o di un’altra donna”. Come si vede “l’altro Picasso” non è meno sorprendente del graffiante genio che ancora stupisce il mondo con le sue opere.
COME I POLITICI UTILIZZANO L’EMOTIVITA’ DELLE MASSE
La politica è dominata più dalla emotività che dalla ragione. Il motivo è che è più facile far breccia con le emozioni che non con la logica.
Il politico non trova dunque alcun movente valido per inserire nei suoi discorsi “pensieri logici” che “tecnicamente” potrebbero non produrre gli effetti che producono le frasi ad effetto: se è vero che la gente va avanti a suon di emotività, per trascinarla dove vuole, il politico, deve usare mezzi idonei: utilizzando la nebulosità delle idee, il sentimentalismo e roba del genere.
Meno la gente capisce meglio può essere “truffata”.
Per il politico è importante convincere, soprattutto con strategie passionali il maggior un numero di persone affinché lo accaldino e lo votino.
Colui che meglio è riuscito a introdursi nella ipersensibilità della gente riesce ad avere più consensi.
Pietro l’Eremita non sarebbe mai riuscito nel suo intento se avesse fatto ragionare la gente, egli la spingeva a furore di passione!
Lo stesso vale per la religione: ha tanti consensi perché è nebulosamente emozionale, soddisfa gli stati psicopatologici, e, soprattutto, afferma cose che non sono chiare logicamente e che non possono essere dimostrabili, ma che hanno un’efficacia immaginifica suggestiva molto grande. L’ essere avvolta dal mistero è la ragione del successo della religione: insomma, la gente meno pensa e più accetta. Lo stesso accade in politica: se la gente ragionasse e avesse chiaro il quadro, trarrebbe conclusioni logicamente realistiche.
Se volessi spacciare una banconota falsa, farei di tutto per farlo al buio, in fretta, e distogliendo l’attenzione magari suscitando ad arte l’emotività della persona alla quale sto per appioppare la patacca.
Insomma, ci vuole tecnica per fare il gioco del “tre oro tre oro”.
In questo i politici sono bravissimi. Dicono una cosa oggi, e l’indomani se sono contestati affermano che sono state travisate le loro parole e cambiano rotta. In parte, i politici “sono costretti” ad operare mezzi da imbonitori, sennò rimarrebbero fermi alla linea di partenza.
Quelli che si presentano con motivi realistici e logici, senza far leva sulle passioni e le emozioni della gente in molti casi sono coloro che sono i più soggetti a perdere…
LA CONDIZIONE DELLE DONNE NEL CAMPO SCIENTIFICO E LAVORATIVO
Può sembrare strano che in tempi in cui si ritiene sia ormai accantonato, perché “ufficialmente” sarebbe superato, il problema della parità tra i sessi, si scriva ancora sull’argomento.
In realtà è spesso soltanto un’affermazione convenzionale la raggiunta parità, più che una realtà sostanziale e lo si può riscontrare non solo in popolazioni meno evolute, o in società poco agiate, ma anche nelle classi sociali più elevate.
Anche nell’ambiente intellettuale e universitario vi sono e vi sono state diseguaglianze sociali a sfavore delle donne. Le poche ricercatrici che qualche decennio addietro lavoravano nelle università lo facevano senza una sostanziale eguaglianza con i ricercatori maschi. Maria Goeppert Mayer, che vinse il Nobel nel 1963, per oltre un trentennio prestò la sua opera in un famoso centro universitario americano senza essere retribuita. Spesso, inoltre, ella poteva accedere alle attrezzature solamente quando le équipe dei maschi abbandonava il campo, il che accadeva il più delle volte a sera!
Negli anni sessanta, la cinese Chien-Shiung Wu, che svolgeva la sua opera in USA, esperta di fissione nucleare assieme a due giovani ricercatori avrebbe rivoluzionato le leggi fondamentali della fisica. Chien- Shiung dovette superare insormontabili ostacoli burocratici perché quasi tutti i cattedratici erano convinti che quelle ricerche erano inutili e dispendiose. Ma la scienziata aveva visto giusto: i tre sperimentatori scoprirono, contrariamente a quello che prima si pensava, che le reazioni delle particelle sub-nucleari non sono simmetriche ma asimmetriche. Sebbene la scienziata cinese avesse lavorato per anni gomito a gomito con i giovani ricercatori, per tale scoperta ebbero il Nobel solo i due ricercatori maschi. Wu invece, non l’ottenne.
Ma questo trattamento sessista è quasi una prassi: dal 1901, cioè da quando l’onorificenza è istituita, sono oltre quattrocento gli uomini e poco più di una decina le donne che hanno ottenuta la massima onorificenza scientifica internazionale.
Si dice che, in media, le donne s’interessano poco di tecnologia, di scienza, di politica. Tuttavia si evita di controllare i motivi della bassa percentuale di partecipazione femminile in questo campo. Magari qualcuno avvalora l’ipotesi misogina che il cervello delle donne non per “natura” disposto come quello maschile a studiare certi campi dello scibile.
Pochi sono disposti ad ammettere che l’assenza femminile in certi campi lavorativi e di ricerca dipende da una questione socio culturale. La esiguità di modelli femminili , soprattutto nella storia della scienza e in altri spazi sociali ritenuti “difficili” per le donne, comporta un ritardo della partecipazione femminile in ambiti culturali ritenuti di esclusiva pertinenza maschile.
I mass media, anche se sembrano propagandare la parità, in sostanza, ancora oggi non favoriscono la cultura della partecipazione femminile in certi campi.
Anche la produzione cinematografica, per esempio, sebbene produca filmati nei quali è indicata la parità femminile (donne poliziotto, donne-manager in carriera, ragazze risolute e sessualmente eguali al latin lover) che sembrano avvalorare l’immagine della donna moderna in parità con l’uomo, in fondo in fondo è rimasta ancora maschilista.
Ancora oggi molti registi traducono nelle loro opere il passato maschilista nel quale sono vissuti da piccoli: è impossibile evitare di trasferire nell’età adulta ciò che si è appreso nell’infanzia. Molti film, difatti, raccontano la vita di bambini eccezionali nel campo scientifico, di bambini che sono dei geni, di ragazzi che risolvono complicate situazioni di emergenza . A causa della cultura misogina, pochissimi sono invece i filmati che portano sugli schermi l’immagine di una bambina prodigio.
E’ probabile che i produttori cinematografici abbiano ritenuto che film come Mamma ho perso l’aereo, forse, non avrebbero fatto presa sul grosso pubblico, se avessero avuto come protagonista una bambina.
Ciò sta a significare che sostanzialmente la settorialità nei confronti della donna è ancora presente e si manifesta in molte espressioni culturali. Non ci vuole fantasia per rintracciare nella tendenza misogina l’atavica convinzione che le donne siano incastonate in ruoli sociali definiti e marcatamente diversi da quelli attribuiti al sesso maschile.
Del resto, alcune donne offrono il fianco a simili interpretazioni, convinte che, per “piacere” agli uomini e per non essere ritenute “pericolose” concorrenti nel campo lavorativo e culturale devono mostrarsi svampite e per essere accettate dagli uomini devono occultare le loro doti intellettuali che le farebbero “apparire barbose”.
Questi timori hanno spesso indotto molte donne a nascondere la loro più genuina personalità e a sottomettersi alle esigenze del maschilismo.
A discutere del ruolo, della dignità e dell’eguaglianza delle donne si sono esercitati in tanti e si cimentano ancora sociologi, politici, religiosi, opinionisti, etc, con eloqui forbiti e con roboanti affermazioni. E’ una gara che però spesso resta a livelli del tutto formali, perché in certi casi non si hanno risultati concreti. Non è difficile notare infatti che i posti chiave nelle industrie, nella politica, nell’attività scientifica sono praticamente ancora quasi tutti in mano agli uomini.
LA GLOBALIZZAZIONE NELLA STORIA
Perché ci sono popoli che hanno uno sviluppo ordinato, e altri che rimangono sempre più indietro? La ricerca delle cause che comportano una ineguale distribuzione della ricchezza nel mondo, e che sono il motivo del progresso o dell’arretratezza di certe aree, è oggetto di profondi studi economici, politici e antropologici.Secondo economisti, antropologi e sociologi tra le cause principali che fanno la differenza tra i popoli vi sono la cultura, la religione, l’autonomia di pensiero o il conformismo, i vari tipi di morale sociale, i tabù, fattori tutti che, di volta in volta, favoriscono o ostacolano il progresso. L’atteggiamento religioso, morale, psicologico, il senso della competizione o la rinunzia e l’indifferenza al progresso, possono favorire lo sviluppo o bloccare l’economia di un popolo. In altri termini ha più peso l’approccio culturale che quello globalizzante nel determinare la fortuna o la sfortuna di una popolazione.
In quanto alla globalizzazione essa ha varie sfaccettature, e non tutte demoniache: una di queste tenta da secoli di unificare i sistemi di misura, per evitare, per esempio, il caos che esiste nel globo in questa materia.
La misurazione non è mai stata del tutto unificata: i liquidi venivano( e in qualche caso ancora vengono) calcolati in litri, in barili, in pinte, in brocche, in boccali, in foglietti, in urne, in anfore, etc.; si pesava la roba in chili, ma anche in libbre, in once, in “chin” cinese, in “arraba” cileno; lo stesso caos nelle unità di superficie: metro, pollice, braccio etc. Nel mondo moderno non c’è unità nemmeno nelle tecnologie: basti pensare alle guide a destra o a sinistra, e a problemi di poco conto, ma fastidiosi, come i sistemi di contatto elettrici, le comuni spine e prese; ne esistono di svariati generi: tedesche, italiane, americane, svizzere etc,.
Un’utile operazione globalizzante la stanno mettendo in atto istituti come l’Iso e il Din, che cercano di unificare i sistemi tecnologici diseguali, dettando normative valide per tutto il mondo.
La globalizzazione economica è la ricerca di aree preferenziali per la produzione e per la commercializzazione dei prodotti; il che significa, produrre dove la mano d’opera è meno cara e vendere a minor prezzo. Il principio di per sé non è assurdo, (nemmeno il più radicale componente del popolo di Seattle sceglierebbe, nel confronto tra due idraulici, quello che gli fa il preventivo più alto, solo per fagli “un favore umanitario”), ma, ovviamente, la ricerca della mano d’opera meno costosa può prestarsi a sfruttamenti: ed è da questo punto di vista che bisogna evitare sperequazioni. Infatti, non esistono divergenze sostanziali tra i G8 e gli anti G 8: identica nei due campi è la denuncia dei mali che affliggono il mondo.
Il problema sorge quando si propongono le misure per curarli.
Il termine “globalità” definisce, in un’ottica sociale, la dimensione con cui sorgono e in cui vanno affrontati i problemi, per evitare soluzioni parziali. Una visione globale dovrebbe portare ad unificare le interconnessioni mondiali evitando soluzioni contraddittorie e difformi. Da quando sono cadute molte delle barriere internazionali tra le nazioni, i problemi dei popoli sono diventati sempre più interconnessi: e così, ciò che accade in una parte del mondo si ripercuote, inevitabilmente, in un’altra. La globalizzazione insomma è la conseguenza di questo, certamente utile, processo di unificazione. Paradossalmente, addirittura, il capo storico della contestazione del ’68, Toni Negri, ha scritto un libro, premiato ad Harvard, sulla globalizzazione, in cui dice, in sintesi, che la globalizzazione è una prima fase di un rivoluzionario ed efficace sviluppo di democrazia sopranazionale.
Ovviamente, c’è da dire che, nelle scelte globali, a volte si è costretti a prescindere dalle situazioni particolari. Ecco dunque il nocciolo della questione: tenere conto delle esigenze singole, non perdendo di vista “la globalità”.
Al dialogo devono partecipare le parti interessate, perché se a decidere le priorità sono solo i Paesi più sviluppati, essi tenderanno a vedere solo i problemi che interessano maggiormente la loro società. Al G8, parteciperanno anche cinque capi di Stati che rappresentano molti paesi meno emergenti. Costoro, pur non facendo parte del consesso genovese, sono stati invitati alla riunione. Vi parteciperà inoltre il segretario dell’Onu, in rappresentanza di 187 Paesi.
A chi la globalizzazione può sembrare, a prima vista, una stonatura e una forzatura dei tempi moderni, bisogna ricordare che essa si è verificata molte volte nel percorso della storia.
Questo sistema, che oggi secondo alcuni crea tanto scandalo, è stato spesso in funzione nei secoli passati. Non meravigliamoci dunque delle intenzioni dei G8: l’essere umano da sempre è soggetto ad interventi di questo tipo; che se ne sia reso conto o meno.
Il primo grande globalizzatore fu Alessandro Magno. Nel IV sec a.C., Alessandro unificò sotto il suo regno tutto il mondo conosciuto, e diede direttive globali, al di là dei particolarismi dei Greci, dei Persiani, degli Egizi, degli Hittiti, tutti popoli da lui inglobati in un unico sistema.
Anche i Romani globalizzarono il mondo a loro sottomesso, cioè tutto il bacino del mediterraneo, unificando i popoli più disparati ed estendendo persino la loro lingua, quella latina, nel mondo conosciuto. Una globalizzazione, quella romana, che ha avuto un’influenza enorme anche sul mondo moderno.
La più grande influenza globalizzante l’ha avuto la Chiesa, la quale, su tutto il territorio prima latino-romano, e poi europeo ed extraeuropeo, ha imposto idee, comportamenti, credenze, modi di agire, ritmi, eguali per tutte le nazioni, per tutti i popoli, tanto che se di vera globalizzazione si vuole parlare nella storia, bisogna rifarsi, come modello, a quella cattolica.
Nel Medio Evo, per dirne una, la Chiesa stabiliva non solo i giorni in cui si poteva fare all’amore ( pochissimi, per la verità) ma persino come si doveva fare (solo posizioni opportune), chi lo poteva fare, e indicava quali dovevano essere “le intenzioni” nel farlo (era indicato un solo fine: quello riproduttivo, perché l’amore, anche quello tra coniugi, era considerato “sconveniente” dovendo essere un sentimento riservato solo a Dio).
Una globalizzazione delle idee e dei comportamenti, questa, che prescindeva dalle esigenze particolari, dai singoli popoli, dalle varie strutture sociali ed economiche. Insomma, una di quelle globalizzazioni che oggi, se ci si facesse caso, il popolo di Seattle contesterebbe…
Altro istituzione globale fu il Sacro Romano Impero, nella persona dell’Imperatore medievale, il quale aveva sotto di sé tutti i feudatari che, a loro volta, erano a capo delle genti. Una struttura ferrea, globalizzante, che non tenne mai conto dei particolarismi regionali e contro la quale combatterono i Comuni, per conquistare le loro libertà particolari, così come ora fa il popolo di Seattle. Ma in seguito i Comuni sono stati “inglobati” dagli stati nazionali!
Anche i libri della Bibbia, da sempre, compiono un’operazione di stampo globalizzante, così estesa e così capillare che addirittura s’è perso anche di vista il metodo usato per la penetrazione dei principi che essi propagandano, tanto che per secoli queste idee sono entrate nella giustizia, nella psicologia del singolo e delle masse, nella sessualità, nella scienza, nella gastronomia, e, in ultima analisi nella mentalità globale della gente di qualsiasi Paese.
Altre operazioni globalizzanti sono state le idee politiche di Carlo Marx e, di conseguenza, il comunismo, il quale aveva come mira la dittatura finale del proletariato, per cui un settore della società avrebbe dovuto “inglobare” tutti gli altri ed asservire ad esso ogni altra forza sociale. Assurdo anche l’altro global-principio, ideato da Marx, secondo il quale bisogna remunerare tenendo presente i bisogni e non i meriti. Vi immaginate dover pagare un medico incompetente 250.000 lire e uno bravo 50.000, sol perché il primo ha più bisogni del secondo? Chi andrebbe da un medico inadeguato, sol perché “tiene famiglia numerosa”, e non da quello bravo, che, magari essendo celibe, ha meno necessità di denaro del primo? Inoltre il medico più bravo sarebbe anche il più fregato:dovrebbe lavorare cinque volte di più per guadagnare quanto guadagna quello scarso!
Di queste incongruenze il Genoa Social Forum, l’associazione anti-G8, dovrebbe prendere atto, affinché non accada come nel Sessantotto, periodo elettrizzante ma utopico, che si concluse dopo il 1977, quando i giovani, finite le barricate, fecero carriera all’ombra del potere, scegliendo la via più tranquilla.
Se non tutte le globalizzazioni sono assurde, né tutte sono opera del Diavolo, allora, è giusto fronteggiare il problema e discuterne gli aspetti risolvibili, come quello di migliorare qualitativamente la cultura e la mentalità di certe popolazioni che potrebbero meglio sfruttare le loro risorse se fossero più istruite e meglio dirette, mentre è ingenuo porsi mete utopiche, come la cancellazione del sistema dei mercati, o come la donchisciottesca proposta di azzerare le borse mondiali per strutturare l’economia sotto diverso aspetto: tutti suggerimenti puramente sentimentali
La moneta, checché ne pensino i giovani, non ascolta il cuore.
IL CULTO ESAGERATO DELLA BELLEZZA FISICA
Indubbiamente la bellezza è da ritenere tra gli ideali più alti: l’arte, la letteratura, l’architettura, la natura testimoniano quanto essa sia indispensabile, essendo manifestazione di armonia e di squisito fascino. La società odierna, tuttavia, narcisista e consumistica, travalicando il concetto estetico del bello, pone soprattutto l’accento sull’avvenenza erotico-fisica del corpo umano e tiene solo in conto la giovinezza, per cui, secondo il copione più accreditato, il protagonista è bello, giovane e buono, mentre l’antagonista è brutto, cattivo e magari avanti negli anni.
Infatti, tra i pregiudizi dei mass media c’è quello secondo cui la vecchiaia si coniuga con l’inefficienza e la mancanza d’avvenenza con la perfidia.
Questo teorema ossessiona molte persone, che, volendo essere apprezzate, fanno di tutto perché il loro aspetto sia in sintonia con ciò che la società richiede per trionfare nel “teatrino della vita”.
Nei secoli passati ogni età era apprezzata per le sue caratteristiche e, in particolare, quella senile era rispettata perché ritenuta la più saggia; in quanto ai “valori” femminili, oltre all’aspetto, essi si basavano soprattutto su qualità concrete: la donna doveva essere fertile, robusta e resistente; e la madre di famiglia veniva apprezzata perché era l’ausiliaria del lavoro dell’uomo. L’invecchiamento non comportava i complessi che oggi angustiano non solo le donne ma anche gli uomini che, all’avvicinarsi dell’età matura, temono anch’essi il decadimento fisico.
Le odierne relazioni sociali rendono ipercritici sull’aspetto esteriore e quando, dopo una certa età, inevitabilmente si cominciano ad evidenziare i segni del tempo, molti si scoraggiano e cadono persino in depressione.
Il teorema che, oltre al denaro, sia la bellezza l’unica chance sociale per avere successo, glorifica l’effimero narcisismo come valore determinante ed esalta la moda e l’uso dei cosmetici, divenuti così un businnes miliardario.
Nel XX° secolo, la donna, per essere attraente e mantenere sempre un aspetto giovanile e seducente, si sottopone a lifting estenuanti e pericolosi e anche l’uomo ricorre al maquillage per lo stesso motivo: infatti un terzo delle spese per la cosmesi viene speso dai maschi.
Secondo i canoni estetici della nostra epoca, l’eros va di pari passo con la bellezza e la magrezza, sicché le donne magre sono ritenute molto sensuali. E tuttavia, ricerche psicobiologiche hanno accertato che, in qualche caso, la donna troppo snella ha minori stimoli di quella che è più “in carne” e, addirittura, che le anoressiche, a causa delle carenze ormonali, hanno gravi deficit pulsionali.
La vita quotidiana impone una perfetta sintonia con i “canoni” sociali voluti e propagandati dalle grandi catene della produzione consumistica. Ma nell’enfatizzare troppo alcune doti come la sensuale bellezza e l’avvenenza, qualità fragili e passeggere, paradossalmente, nelle donne si creano fastidiosi problemi, causati, per esempio da avances troppo insistenti e, come purtroppo le cronache riferiscono, a volte anche molto pericolose.
La nostra società, lungi dal sollecitare, soprattutto nei giovani, valori come la cultura, l’interesse scientifico e la meditazione, esalta l’onnipotenza di un corpo seduttivo.
La convinzione che un certo tipo di successo dipenda soprattutto dall’apparenza fisica, spinge molta gente a tentare di superare gli “insulti” del tempo con ogni mezzo e così, alcune persone, assillate dal problema di “apparire giovani”, assumono a volte addirittura atteggiamenti patetici.
L’AMBIGUO RUOLO DI CERTI INTELLETTUALI “CAUTI E GUARDINGHI”
Spesso gli intellettuali subiscono il “fascino del potere forte”. Un esempio eclatante lo si ebbe durante il periodo dello stalinismo, quando, negli anni trenta, molti scrittori, e non solo russi, fecero da “cinghia di trasmissione” del pensiero stalinista. A quel tempo non solo Gorki e Bucharin, i più grandi scrittori russi di quel periodo, si “convertirono al comunismo” subendo il fascino del Princeps,(salvo poi a cadere in disgrazia) ma anche pensatori di varie nazioni, tra cui G.B.Shaw, H.G.Wells, Romain Rolland, e altri, lusingati dagli elogi del dittatore russo, apprezzarono e diffusero nel mondo le qualità dello stalinismo.
In Italia l’intellettuale è stato il diretto discendente del “pensatore” cinquecentesco, utopista e realista al tempo stesso. Asservito al Princeps, anche quando nei suoi confronti nutriva antipatia o dissenso, l’intellettuale lo si può individuare nel “creativo” smaliziato e accorto che cerca di non esporsi troppo. Pensatore “illuminato” ma non al punto da rischiare l’ostracismo o il rogo. Molti “maestri nostrani” si autodefiniscono liberal-radicali o si etichettano progressisti ma nella buona sostanza sono conservatori. Essi credono di non essere razzisti sol perché comprano, all’angolo delle strade, i fazzoletti di carta dei marocchini.
Molti di questi “pensatori” a malapena mascherano la loro furbizia interessata, mentre la loro ipocrisia emerge quando si muovono da veri conformisti nei problemi scottanti.
Raffinati ed elitari, anche se vogliono apparire ideologicamente proletari, alcuni intellettuali nostrani si sono formati con un crogiolo di tendenze contraddittorie. Essi riescono a farsi accettare e a inserirsi contemporaneamente in “movimenti” che hanno radici differenti. In qualche caso il pensatore nostrano manca di sincero amore per l’avventura intellettuale. Egli ha paura a prendere posizioni chiare, e si mimetizza in modo da essere apprezzato da tutto l’arco costituzionale. Molti degli intellettuali lasciano intendere di essere credenti, anche se le loro idee sono piuttosto “atee” e sembra che stiano con i “marescialli” a destra, pur facendo supporre che sono di sinistra
Il subdolo morbo del conformismo, rende spesso l’intellettuale decisamente ostile alle novità, alle idee che non siano ovvie e “collaudate”.
Sicché il virus del conformismo, una delle piaghe del mondo, è anche presente sia negli intellettuali che nei politici italiani.
Una mano al successo del conformista la da’ la gente che preferisce “intrattenimenti” e idee piuttosto superficiali. Infatti, le ricerche esistenziali trovano scarsi proseliti.
La gente preferisce le banalità, la chiassosa discoteca e gli impegni goderecci alla produzione intellettuale.
L’arte ha un peso limitato: nei giorni di maggior afflusso turistico, in Italia, pinacoteche e luoghi di cultura sono spesso chiusi al pubblico, per “mancanza di personale” o “per turno”.
Gli intellettuali temono che si possa fare ironia su di loro e temono così di essere emarginati. Essi solo quando sono sponsorizzati dalla politica o dai mass media consumistici, assurgono a simboli culturali.
L’intellettuale ha l’abitudine di essere l’esternatore del pensiero di un gruppo, per cui è oltranzista, corporativo, fanatico. Nella tasca di molti cosiddetti intellettuali c’è la tessera di un partito, il distintivo d’appartenenza a una “corrente” o uno stemma associativo.
Dal punto di vista storico, non sempre l’intellighentia italiana è stata libera: essa proviene da quattro grandi etichette. Quella crociana, di cui fecero parte personalità eterogenee da Luigi Einaudi a Panfilo Gentile, da Giovanni Spadolini a G.B. Angioletti, quella di sinistra, frutto di tendenze politiche più che di convinzioni illuministe, che si rifa’ a Gaetano Salvemini, a Gramsci, a Carlo Levi, a Ernesto Rossi, a Giovanni Russo. Quella di destra con autori come Ezra Pound e Malaparte e, infine, quella cattolica, con Luigi Sturzo.
Queste tendenze culturali, a parte la cattolica, hanno deboli radici nella società italiana e convivono, si mescolano, si mimetizzano in modo nebuloso e impreciso, senza nette distinzioni.
Nella cultura, come anche in politica, i “giochi di palazzo” e le alleanze double face, sono uno scenario consueto. L’intellettuale come il politico, tiene d’occhio il Princeps dal quale attende favori; per cui egli non adotta mai una critica drastica delle istituzioni. La posizione “possibilista” ritenuta più utile nel campo politico, viene sfoderata anche nel campo artistico e culturale. Le stroncature, quando vengono, sono di matrice ideologica e creano un razzismo partigiano che costringe l’intellettuale a seguire chi gli fornisce garanzie di sopravvivenza.
Spesso registi, letterati, cantanti, attori e chiunque sia in qualche modo creativo, vivono sotto la protezione di un Princeps se vogliono farsi strada.
Il solitario sconvolge gli “equilibri di palazzo” con idee innovative ma non fa parte del gruppo. Considerata con diffidenza, in Italia, l’indipendenza di pensiero, più che altrove, è un suicidio culturale. Così,sono diversi gli intellettuali che non si riconoscono come figli spirituali di Giordano Bruno né di Bernardino Telesio, né di Tommaso Campanella, gli eroi che preferirono il supplizio o la condanna a morte piuttosto che abiurare alle loro convinzioni.
Pochi i “temerari”. Al tempo del fascismo, per esempio, ci fu il chimico di fama internazionale, Giorgio Errera, nell’ottobre del 1931, che assieme a Lionello Venturi, Gaetano De Santis, Ernesto Bonaiuti e ad alcuni altri, rifiutarono di prestare giuramento al regime perdendo la cattedra universitaria. Ma erano tempi eroici, quelli. Forse la dittatura dichiarata e “aperta” riusciva a creare dissensi coraggiosi.
Molti intellettuali nostrani sono oggi invece propensi alla linea “morbida”, alla linea di Galilei, il quale rinunziò alle proprie (e giuste) convinzioni per evitare il rogo.
Nell’Epoca in cui si strombazza la libertà di pensiero, la maggior parte dei “pensatori” stanno attenti a non andare contro le idee accettate dalla “consorteria”. Essi temono che la mancanza di un appoggio politico sia un rischio insostenibile. Cosicché mostrano coraggio solo quelli che sbandierano “i gonfaloni” di una setta culturale. Quelli, insomma, che sono i meno credibili.
Inevitabilmente, nei momenti di maggiore rilevanza e in qualsiasi prova impegnativa della vita, finisce con l’emergere la sostanziale differenza che fa di alcune persone degli uomini e di altri dei caporali.
Questa fatale verità fa differire nettamente coloro che sono portati a difendere e a tenere in conto i valori dell’umanità, da coloro che, invece, tendono a distruggere e a vilipendere la gente, per imporre le proprie convinzioni.
Certuni, i “caporali”, vivono mentalmente estraniati dal quel mondo di cui fanno parte, e in loro, il buon senso ha perduto il predominio, perché sono solo preoccupati di far valere la propria volontà di potenza, costi quel che costi. Dall’altro lato stanno “gli uomini”, cioè coloro che subiscono le conseguenze di quelle imposizioni e che cercano di fronteggiare gli eventi negativi ricucendo gli strappi dei caporali. Purtroppo, fintantoché non si riusciranno ad abolire le barriere etniche, nazionali, culturali e religiose, e fino a quando non si insedierà davvero nelle coscienze il concetto di eguaglianza, i caporali, infantili ed egocentrici, vivendo in un pericolosissimo isolamento individuale, non riconosceranno le ragioni degli altri.
L’aggressività umana è un impulso innato che spinge alla distruzione degli altri per paura che siano gli altri a procedere, a loro volta, alla distruzione “dei propri nemici”. I caporali, totalmente vittime di un senso piuttosto puerile della grandezza, sono individui che non possiedono un sistema di orientamento tale da farli comportare in modo da trovare la soddisfazione della loro soggettività attraverso la ragione e nel quadro del rispetto dei diritti degli altri. Essi vogliono arrivare ad imporre le loro ragioni solo con la violenza. Con loro, l’uomo non è più protetto dal principio della ragione, né da quello della tolleranza, né da quello dell’amore: l’uomo, manipolato dai caporali, è in pasto ai lupi.
Per fortuna ci sono uomini sensibili, che, per struttura di carattere, cercano, con buona volontà, di porre rimedio o quanto meno di fronteggiare i guasti prodotti dai despoti.
Uomini generosi, altruisti, che sanno accollarsi responsabilità immense. Sono i giovani pronti a dare la loro vita, che arrivano nel Balcani dalle terre in cui erano emigrati e dove vivevano ormai sicuri, e che, per difendere la patria e i connazionali del Kosovo vanno ad ingrossare le file dei partigiani dell’Uck, pur sapendo che potrebbero non tornare più nel paese dove furono accolti; sono tutti coloro che prestano volontariamente la loro opera in favore delle popolazioni buttate alla sbaraglio da una guerra insensata, anche se inevitabile. “Uomini” sono anche tutte quelle persone, d’ambo i sessi e d’ogni età, che sopportano con dignità e coraggio questa terribile e orribile prova, che li ha messi in ginocchio, ma che non ha tolto loro la dignità di esseri umani. Le immagini della cronaca ci mostrano visi tesi, pensierosi, volti infantili che hanno espressioni adulte, creature che sopravvivono in silenzio, quasi senza lamenti; donne che narrano, con disperazione di avere perso figli, mariti, genitori, e lo fanno con una dignità da tragedia greca, senza perdere la rispettabilità di chi soffre in modo umano e coraggioso.
La cronaca fa vedere anche i freddi “caporali”, quelli che dirigono l’orchestra della morte: hanno visi impenetrabili, si mostrano con movimenti accortamente studiati e sussiegosi. Sembrano degli alti dignitari, e invece, nel loro animo non c’è alcuna dignità umana. Sembrano persone normali, civili e invece si comportano da belve primitive.
E i testimoni raccontano anche di quegli altri caporali, quelli di più bassa lega, quelli più sbracati e meno “ripuliti”, che entrano da padroni nelle case della gente, quelli che distruggono tutto al loro passaggio, quelli che fanno soprusi a vecchi donne e bambini.
Contro questi caporali, “gli uomini veri”, siano essi anche donne o bambini, mostrano un comportamento sofferente ma dignitoso, che è il più efficace biasimo e la più adeguata delle accuse.
Totò, con amara comicità, interrogandosi di che pasta fosse fatta l’umanità, si chiedeva: siamo uomini o caporali? e sosteneva che, purtroppo, fin quando nel mondo ci saranno “caporali”, e ve ne sono in ogni dove, in tutti i livelli della quotidianità, negli uffici come nella politica, nei posti di lavoro come negli eserciti, gli “uomini” avranno un gran da fare a fronteggiarli.
Fortunatamente, nei Balcani, ci sono anche tanti “uomini”, persone generose d’ambo i sessi e d’ogni età, che, con umanità e senza badare ai pericoli, cercano di riparare i guasti e le nefandezze dei biechi “caporali”.
Non sempre gli stati depressivi e i conflitti psichici vengono affrontati cercando di risolvere i problemi che sono alla base. Oltre che nella nevrosi, a volte, come afferma lo psicoanalista Otto Rank, essi si “materializzano” addirittura nell’opera d’arte. In qualche caso, però, a ben guardare, una “circostanza” alternativa alla depressione è persino l’innamoramento, che diviene così una risposta deviata all’insoddisfazione e alla malinconia. Ma il sentimento amoroso non cura la depressione, la “occulta” temporaneamente. Infatti l’angoscia depressiva, “spostata” dalla sua forma originale, diventa “romanticamente” angoscia d’amore.
Diceva Eleonora Duse che sentiva il bisogno impellente d’amare soprattutto nei momenti di maggiore fragilità. La “divina” affermava di cercare d’innamorarsi proprio quando si sentiva più depressa. Una riflessione che sottolinea come i processi psicologici della malinconia stanno spesso alla base delle angosce di chi vuole innamorarsi. Difatti l’amore è invocato durante i periodi di maggiore scoramento: nell’adolescenza, costellata da smarrimenti, insicurezze e tristezze; nell’età adulta quando l’insuccesso lavorativo, il fallimento di coppia, l’esito sfavorevole di un progetto politico, artistico, sociale, appaiono come sconfitte cocenti che mettono a repentaglio l’autostima, e di conseguenza creano un’inquietudine depressiva con relativo bisogno d’amore “riparatore”.
L’innamoramento può mettere sicuramente a soqquadro anche una mente tranquilla, per cui è facile immaginare quanto sia dirompente se si sviluppa su una situazione psicologica già resa instabile da afflizioni e sconforti. Poiché la persona depressa è psicologicamente fragile e poco resistente a sentimenti forti, difficilmente essa riesce a gestire una situazione così densa di implicazioni dirompenti come l’amore. Per il depresso, imbarcarsi in una prova amorosa può essere un rischio con risultati più negativi che positivi. Infatti chi è afflitto da depressione non riesce a recuperare il buon umore attraverso l’amore, anzi in lui si innescano gelosie, conflittualità e tormenti, che finiscono col creare una situazione emotiva ingovernabile. Chi è già afflitto da paure infantili, sarà un partner gelosissimo, stizzoso, permaloso, molto più di quanto non lo sia qualsiasi partner che non soffra turbe di abbandono.
«Se sono felice, non ho una grande esigenza d’amare…» affermava Eleonora Duse. E quando era inquieta i suoi innamoramenti erano così rabbiosi, così straripanti di stizze, così colmi di gelosie che non sgorgavano dalla gioia, ma dalla tristezza ed erano quasi sempre pervasi da vivaci insoddisfazioni. L’attrice in piena crisi depressiva, si legò a Martino Cafiero, sperando che quell’uomo, con la sua superficialità, la salvasse dall’angoscia. Ma l’esperienza fu deludente, così come lo fu quella con Tebaldo Checchi, il modesto attore che l’attrice sposò durante un periodo di travagliate delusioni. Dopo avere avuta una bambina da Checchi, la Duse si separò dal marito e si legò a Flavio Andò, fidando, ma invano, che almeno lui la tirasse fuori dalla spirale aggrovigliata dei tortuosi e dolorosi marasmi della sua anima.
Ancora più irriflessiva fu la passione ardente dell’attrice per D’Annunzio, funambolico e spregiudicato in amore così come nella vita. Quella passione da un lato diede corda al narcisismo di Eleonora ma finì per travolgerla e paralizzarla. Tutte quelle scelte sentimentali furono dettate all’attrice dal proprio bisogno di mettere a tacere le ferite narcisistiche che tormentavano la sua mente.
La valutazione che la Duse faceva dei suoi partner era dettata dai grovigli interni che l’assillavano sin da quando era adolescente. L’attrice, “narcisista bambina”, giocando all’innamorata, sperava di dominare l’uomo con cui stava in quel momento e nel contempo sognava di essere al centro dei suoi pensieri e delle sue azioni. Le cose però spesso andavano diversamente, ed Eleonora si ritrovava tragicamente sola, con ferite narcisistiche che bruciavano più delle piaghe.
Sono molti gli esempi che configurano l’amore come bisogno “alternativo”. Giosuè Carducci quando si sentiva “imbolognire” cioè quando era avvilito della vita piatta e scialba che conduceva a Bologna, cercava nell’avventura sentimentale una compensazione alla propria depressione. Pablo Picasso non riusciva a superare l’empasse della carenza di creatività se non s’innamorava. Franz Kafka, eternamente depresso, era sempre in cerca di una passione amorosa che lo salvasse dall’angoscia; ma non riuscì mai a concretizzare la sua aspettativa.
Pure Giacomo Leopardi, per guarire il suo complesso d’inferiorità, cercò sempre ma in vano di avviare un dialogo amoroso con una donna, ma proprio perché sempre insicuro di sé non seppe mai portare a termine nessun consistente progetto al riguardo.
Se l’amore è utilizzato come alternativa all’angoscia, come espediente per compensare la malinconia, può accadere che diventi “un masso” capace di schiacciare più che di fortificare.
Per questa ragione molte persone affermano di non trovare nell’amore il conforto desiderato e finiscono col ritenerlo una esperienza poco fruttuosa. Esso può diventare un problema se sperimentato nel periodo e nella maniera meno adatta. Immaginiamo una persona affetta da tachicardia che imprudentemente, per superare quel malessere, inforchi la bicicletta cercando, come terapia contro l’affanno, di percorrere molti chilometri in salita!
Più una personalità è forte, più è in grado di affrontare gli ordinari travagli d’amore, se invece è zoppa, scivola nel terreno minato dei sentimenti. Non è infrequente infatti, che il bisogno di una relazione amorosa, paradossalmente, non dipenda da una esigenza gioiosa, solare, ma sia il campanello d’allarme di uno stato malinconico.
Amare è un buon esercizio psichico, così come la ginnastica è positiva per il fisico. Tuttavia non sempre la ginnastica porta benessere: con gravi problemi cardiaci non si possono fare esercizi atletici, così come non si avrà una sana relazione amorosa se la situazione psicologica di base è compromessa.
Alcune persone affermano di non avere mai sperimentato un amore cristallino, felice e sano, e dubitano persino che possa esistere. Quando si è fragili e psicodipendenti ogni piccolo malinteso fa diventare rancorosi, ostili, ombrosi; quando si vuole dominare il partner e di conseguenza non si è maturi per offrirgli la serenità e renderlo felice, si finisce con l’accumulare molta ruggine nella coppia. Chi non è in grado di viaggiare in sintonia con un’altra persona, incorre in malintesi, ostilità, e recriminazioni, cioè mette in moto le condizioni peggiori per avere un rapporto tenero e profondo.
La gente crede che “Federico” sia innamoratissimo della sua “Melina”, perché è gelosissimo di lei, ignorando che chi è tormentato dal quel sentimento non ha tempo d’amare, tutto preso com’è dalla propria infantile angoscia di abbandono. “Litigano sempre, ma si amano” dicono amici e parenti di un’altra coppia, non rendendosi conto che i contrasti, a volte violenti e maneschi, sono un sintomo della nevrosi di base, piuttosto che un aspetto dell’amore.
Così, quando ci sono conflitti interni irrisolti, difficilmente è possibile fruire dei vantaggi dell’innamoramento, e in questi casi ci si chiede: si tratta di amore o di depressione?
L’ INNAMORAMENTO DEI LETTERATI E L’AMORE NELLA REALTA’
Nelle loro opere gli scrittori descrivono gli aspetti più esaltanti dell’amore, con sfaccettature elettrizzanti e in qualche caso praticamente irrealizzabili. I romanzi raccontano amori teneri, dirompenti, ambigui, mistici o contraddittori, amori che travolgono e che coinvolgono tutta la vita. Secondo D’Annunzio l’amore è un turbine. Saffo lo considera ambiguo. Tolstoij fornì un esempio del potere dell’olfatto sull’amore e sulla sessualità. In Guerra e Pace il principe Pierre, ballando con Elena, si sente così attratto dal profumo della pelle di quella donna tanto da non poter fare a meno di chiederle di stare con lui.
I poeti e i romanzieri sono spesso amanti appassionati. Le memorie di Casanova sono un caleidoscopio di amori e di congiungimenti, vissuti nella realtà dall’Autore.
D. H. Lawrence descrisse in L’amante di lady Chatterley la sua vicenda personale: sua moglie lo tradiva ed egli volle giustificarla, così come fece per Lady Chatterley. Anaïs Nin racconta in Incesto la sua drammatica passione.
Spesso gli scrittori traducono l’esperienza sentimentale in poesia, in romanzo, in diari, con toni appassionati, o malinconici, o esaltati. Per i romanzieri e per i poeti l’amore è la cosa più seria della vita. Guido Guinizzelli afferma che: «Al cor gentile ripara sempre Amore». E Guido Calvalcanti rincara: «Io non pensava che lo cor giammai/ avesse di sospir’tormento tanto».
L’amore è una dolcezza che prende il cuore: «Amor e ‘l cor gentile sono una cosa» dice Dante Alighieri nella Vita nuova. Ma Dante, oltre che “innamorato letterario” fu uomo che non tralasciò mai di avere concrete relazioni. Così se da un lato “amava” in maniera celestiale Beatrice, dall’altro ebbe moglie e figli, e, pare anche qualche avventura nel suo girovagare per l’Italia.
Per Francesco Petrarca l’amore determina la qualità della vita. Dalla tristezza di un amore che non poté realizzare, Petrarca sviluppò una indagine psicologica che coinvolse ogni sua esperienza. Il poeta incontrò Laura nella Chiesa di Santa Chiara ad Avignone e la immortalò nel suo Canzoniere. Quell’amore spirituale, non corrisposto, suscitò in lui il senso della labilità della vita. Le pene d’amore sono smarrimento, tristezza di vivere, dramma di morte. Laura è il centro dell’universo, come ogni donna per lo spasimante. Al Petrarca, la passione per Laura durò, tra esaltazione e disperazione, vent’anni, e cessò con la morte della donna. Fu un amore che ebbe picchi e abissi di disperazione, ma fu il carburante che fece lievitare l’ispirazione di quell’artista.
Cosa abbia provato Laura per Francesco Petrarca, e come ella lo abbia accolto, si può solo immaginarlo. Laura, compiaciuta dall’insistenza con cui il poeta le offriva il suo amore, influenzata dall’idea cristiana di dare una mano agli afflitti, oscillò tra il diniego e la trasgressione. Ad un certo punto sembrò che Laura stesse per cedere alle lusinghe del poeta; ma poi, forse perché era maritata, forse perché spaventata dall’audacia dello spasimante, si ritrasse. Forse un’altra ragione più banale la frenò: secondo alcuni studiosi Laura non era attratta fisicamente dal suo spasimante perché lo trovava goffo e senza fascino.
Petrarca, non avendo risolto la conflittualità tra amore celestiale e necessità terrene, malgrado si struggesse per Laura, intratteneva varie relazioni con altre donne, dalle quali ebbe anche dei figli. Come si vede, anche animi sentimentali come quello del Petrarca vivono le contraddizioni della passione!
Quando Giovanni Boccaccio s’innamorò a prima vista della sposa di un nobile, Maria dei Conti D’Aquino, incontrata in una chiesa di Napoli, diversamente da ciò che era capitato a Dante e a Petrarca, da uomo pratico, ne fece la sua amante.
Con il Boccaccio, infatti, la donna-angelicata, fonte di virtù, di rispetto, di purezza, di trepida adorazione e di bellezza irraggiungibile, prende una svolta terrena e l’amore non è più solamente sentimento celestiale, ma passione mondana. Poiché la sofferenza amorosa provoca tensione, Boccaccio pensava che separare l’amore dal desiderio è alquanto frustrante, tant’è che per lui fu impossibile negare la complementarietà di eros e sentimento.
Nell’800, Dostoevskij appena uscito dal carcere, dove era stato rinchiuso per le sue idee politiche, e dove aveva rischiato il plotone di esecuzione, incontrò e subito sposò Marija Dimitrievna, vedova di un ufficiale. Fëdor s’invaghì sensualmente di quella signora che forse rappresentava l’ideale femminile che egli aveva “sognato” in carcere. Placata la furia dei sensi, anche a causa di una grave malattia di Marija, lo scrittore abbandonò la moglie e intraprese un viaggio in Europa con un’altra donna, la effervescente, brillante e giovane Apollonija Prokof’evna Suslova, che gli esaltava l’istinto d’avventura e lo travolgeva eroticamente.
Per lei Dostoevskij scialacquò quasi tutto il proprio patrimonio. Apollonia rappresentava il fascino dell’imprevisto, l’azzardo che accendeva la sensualità. Lo scrittore fu travolto da quella avventura amorosa. In seguito Dostoevskij, che tuttavia non viveva solo di sensualità e d’avventura, rimase affascinato dalla purezza della ventenne dattilografa Anna Grigor’evna Snitkina, che aveva assunto per dettarle la prima stesura de “Il giocatore”. Le doti intellettuali e la bontà d’animo della giovane affascinata dal talento del grande artista, toccarono l’animo di Fëdor, il quale, mortagli la moglie, pensò di sposare la segretaria. Anna rimase la sua devota e solerte custode del resto della sua vita.
In un certo senso, lo scrittore russo affermò di aver percorso grazie alle tre donne più importanti della sua vita, un itinerario sentimentale “completo”: egli passò dalla sensualità con la vedova Dimitrievna, all’estrosità passionale con Apollonija per approdare infine all’amore maturo e intellettuale con Anna.
Ma se questo tragitto passionale procurò allo scrittore una maturazione sentimentale, è probabile che il suo modo di fare, come accade in questi casi, non riscosse consensi nelle sue partner!
Sensuale fu l’idea dell’amore in Luigi Settembrini. Il letterato e patriota napoletano, ingegno illuminista e oppositore della tirannide, è ricordato per la sua azione rivoluzionaria ma non per la sua gioiosa sessualità. In carcere Settembrini scrisse un libro, I Neoplatonici, racconto erotico che narra un amore nella antica Grecia. Di quell’opera Benedetto Croce escluse la pubblicazione e de I Neoplatonici e non se ne parlò più in letteratura.
Wolfgang Goethe, innamorato raffinato ne Le Affinità elettive evoca amori celestiali e sintonie perfette. Le più belle poesie di Goethe scaturirono dalla immensa capacità di quell’autore di provare sempre nuove ebbrezze d’amore. Ma nella realtà Goethe non credeva alla “costanza” sentimentale: « È un cliché voluto dall’ipocrisia» diceva. A settantatre anni il poeta chiese la mano della diciannovenne Ulrike Levetzow.
Tuttavia, nei romanzi l’amore è considerato un dono concesso una sola volta nella vita. A volte è persino un sentimento che conduce alla follia, come nella vicenda descritta nell’Orlando Furioso. Orlando, innamorato di Angelica, perde il senno perché lei gli si nega. L’amore quotidiano è meno letterario; frammisto a problemi pratici, spesso è condizionato dalle banalità dell’esistenza. La vita d’ogni giorno fa da filtro e da sordina ai travolgenti amori descritti dalla letteratura e questo serve al buon senso. Tuttavia, molta gente, dominata dalle storie romanzate, non riesce a trovare l’amore perché non s’accontenta più della realtà e pretende di realizzare l’unione scoperta nel romanzo.
Ma confondere la letteratura con la realtà è pericoloso. Del resto, come s’è visto, spesso nemmeno i più sentimentali letterati sono caduti in questa trappola.
I PERICOLI DEI PARTNER COMPETITIVI
A volte non è solo la gelosia sessuale che rovina la coppia ma anche la competizione artistica è capace di spazzare via qualsiasi tenerezza.
Quando nella coppia vi è competizione, si produce una rivalità nevrotica e i successi del partner provocano dissapori e rendono sgradevole la relazione. Alcuni uomini, a causa dei successi delle loro partner, diventano aggressivi e intrattabili.
Un esempio lo fornisce il matrimonio tra Natalia Estrada e il presentatore televisivo Giorgio Mastroda. Il loro rapporto è andato in pezzi quando la notorietà dell’attrice ha superato quella del marito. Un altro caso emblematico è quello della pittrice inglese Eleonora Carrington e del pittore tedesco Max Ernst: i due, sebbene si amassero follemente, furono vittime di una grande tensione conflittuale causata dalla reciproca invidia per i successi conseguiti.
Per lo stesso motivo, farneticante fu l’unione tra i coniugi Fitzgerald i quali si accusavano a vicenda di plagio.
Francio Fitzgerald e Zelda Sayre si erano incontrati in Alabama, si erano amati a prima vista, ed erano convolati a giuste nozze; ma, eccentrici ed istrioneschi quali erano, furono sconvolti dalla reciproca gelosia artistica. Lo scrittore accusava la moglie di copiare le sue idee. Egli affermava che Zelda utilizzava, per la stesura di Save me the waltz, pagine dal suo romanzo Tenera è la notte. Zelda a sua volta, accusava il marito di avvalersi, nelle sue opere, del diario che ella andava scrivendo. Zelda, a causa di questi continui stress, finì in una casa di cura.
Anche il regista Renny Harlin fu geloso dei successi artistici della moglie, l’attrice Geena Rowlands. E difatti la loro unione s’incrinò proprio quando Geena conseguì l’Oscar e Renny, che era incappato in una serie di disastri “d’immagine” dovuti alla critica negativa e al disinteresse del pubblico per le sue opere, divenne furioso per il successo della moglie e volle il divorzio.
La conflittualità artistica si trova anche nella vicenda della scrittrice Francesca Duranti, il cui matrimonio si deteriorò quando ella, intenta alla stesura di un nuovo romanzo, fu accusata dal coniuge di «stare troppo tempo a redigere il testo». Eppure, era stato proprio il marito a spingerla a scrivere! Francesca in un primo tempo accondiscese alle esortazioni del coniuge e abbandonò la sua iniziativa letteraria, ma in seguito, incoraggiata dall’editore, pubblicò il libro e, visto il successo, decise di scriverne altri. A quel punto il marito chiese il divorzio.
Emblematica è pure la vicenda di Sidonie Gabrielle Colette e suo marito Henry Bauthier-Villars, conosciuto, da scrittore, con lo pseudonimo di Willy.
La fama di romanziere di Willy era immeritata, perché spesso egli aveva fatto scrivere ad altre persone i romanzi che poi pubblicava a suo nome. Henry spinse anche sua moglie Sidonie a scrivergli i testi. Sidonie s’impegnò nella stesura dei testi che Henry pubblicò a proprio nome, e che ebbero un grande successo. Alcuni tra i suoi racconti pubblicati a nome di Willy, ebbero rinomanza mondiale.
Il talento di Simonie non venne a galla se non quando lo scrittore Catulle Mendès, individuando nella nuova produzione di Willy una “mano nuova”, sospettò che fosse proprio la moglie a scrivergli i romanzi. Messa alle strette, Colette ammise d’essere stata lei a scrivere quei libri.
In seguito a quella confessione Bauthier-Villars divorziò dalla moglie. Dopo essersi separata da Bauthier-Villars, Colette finalmente firmò i romanzi che scriveva.
Vicenda matrimoniale carica di litigi fu anche quella di André Malraux.
L’autore de La condizione umana, quand’era poco più che ventenne, sposò Clara, una donna ricca e intelligente, ma la loro vita fu amareggiata dalla “concorrenza” artistica. Malraux aveva scritto tre romanzi e sei volumi di memorie quando sua moglie tentò d’emularlo. A quel punto lo scrittore indispettito dalla concorrenza coniugale e geloso dei successi della moglie, cercò di precluderle la carriera.
Anche Ernest Hemingway fu geloso dei successi artistici delle sue partner.
Ernest ebbe un tempestoso legame con Martha Gellhorn. La vicenda iniziò durante la guerra civile spagnola. La Gellhorn, inviata del settimanale Collier’s, era un’apprezzata corrispondente di guerra. Hemingway in quel periodo era sposato con Paoline, ma dopo l’incontro con Martha a Madrid, divorziò e sposò la sua nuova fiamma, con la quale andò all’Avana. La giornalista però non resistette a lungo alla vita sedentaria che le imponeva il marito e ricominciò a girare il mondo.
Hemingway rimase a Cuba, dedito alla stesura del romanzo Per chi suona la campana; quando però, nel 1943, apprese che la moglie era corrispondente sul fronte italiano, andò su tutte le furie, e, invidioso, brigò con la direzione di Collier’s per prendere lui il posto di Martha. A quel punto la moglie ebbe chiaro di quali bassezze fosse capace il suo Ernest e allora divorziò da lui e non volle più incontralo.
Anche nel mondo dello spettacolo la coppia formata da artisti spesso è colpita dalla gelosia professionale
Quando all’attrice Juliette Binoche fu assegnato l’Oscar per l’interpretazione de Il paziente inglese, il marito, l’attore Oliver Martinez, ebbe una profonda crisi di gelosia e il divorzio fu inevitabile.
Lo scultore Auguste Rodin, genio ambizioso, egocentrico e bilioso, accusò la scultrice Camille Claudel, sua allieva e amante, di copiare le sue opere.
Violenta diatriba causata dalla gelosia artistica fu quella che colpì un’altra copia celebre: Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao. Dopo il matrimonio Eduardo Scarfoglio cercò di offuscare la moglie professionalmente. Matilde, non accettando la condotta di Eduardo, fondò un altro quotidiano, “Il Giorno”, assieme all’avvocato Giuseppe Natale, col quale si legò anche sentimentalmente. Da quel momento, ebbe inizio una vivace diatriba giornalistica tra “Il Giorno” (del quale la Serao era direttrice) e “Il Mattino”, diretto da Scarfoglio e nel quale lavoravano anche i quattro figli nati dal matrimonio con la Serao.
Altro rapporto condito d’insulti e di scontri furibondi fu quello tra la Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano. Amalia, scrittrice fascinosa, era nota agli inizi del Novecento per la sua prosa spregiudicata e per i suoi modi eccentrici e bislacchi. Guido si allontanò da lei perché ingelosito del successo letterario dell’amica. Amalia, atrocemente delusa, gli spedì una serie di lettere al vetriolo, provocatorie e dissacratrici.
In seguito un’altra unione tormentata afflisse la Guglieminetti: quella con lo scrittore Dino Segre, in arte Pitigrilli. Amalia presentò Dino nel mondo letterario, avviandolo al giornalismo. Tuttavia, Pitigrilli, così come Gozzano, mal sopportava il talento dell’amante ed era irritato dal successo di Amalia. Lei, umiliata e folle di rabbia, si ribellò con ferocia. La lite tra i due infuriò nelle riviste Le grandi firme e Seduzione, l’una diretta da Pitrigrilli, l’altra dalla Guglielminetti. In quelle pagine gli ex amanti si scambiarono invettive e volgarità, apostrofandosi con epiteti disgustosi.
Amalia, si spinse oltre ogni limite, inducendo un redattore della sua rivista, Anselmo Jona, a denunciare Pitigrilli come antifascista e sovversivo. Lo scrittore fu arrestato ma il console della milizia, Piero Brandimante, udita la difesa di Pitigrilli mandò a chiamare la scrittrice che, messa alle strette, confessò di aver alterato alcune lettere dell’amante per poterlo accusare.
La donna fu subito arrestata, ma il Tribunale, rendendosi conto che la vicenda era frutto del triste infortunio d’amore, ebbe pietà di lei e le inflisse una lieve condanna.
In Spagna, la toreadora Cristina Sanchez, dopo i lusinghieri successi nell’arena, stanca e «devastata» dalla gelosia del suo compagno, anch’egli toreador, si è ritirata a vita privata.
La fotografa Giovanna Del Magro, che era stata spinta dal marito a quell’attività, quando la sua carriera raggiunse l’apice, fu accusata dal coniuge di trascurarlo. Posta davanti all’aut aut: o abbandonare il lavoro o la separazione, Giovanna, scelse l’esperienza artistica.
Un matrimonio rovinato dalla competizione ideologica è quello tra Arafat e la moglie Suha. In un’intervista al giornale Ash-sharq al-Awsat, la scrittrice palestinese Raimonda Tawil, suocera di Yasser Arafat, ha spiegato che, a causa dei molteplici doveri pubblici del genero, il matrimonio tra sua figlia e il capo dei palestinesi non ha funzionato. Suha, greca ortodossa, per sposare Yasser, ha dovuto convertirsi all’Islam. L’impegno di Suha per la liberalizzazione della donna araba, ha messo in difficoltà il marito. Inoltre il fatto che Suha fomentasse la par condicio ha imbarazzato oltremodo la classe dirigente palestinese. E quando Suha, in una intervista a El Pais, ha criticato l’atteggiamento dei consiglieri del marito, tacciandoli di oscurantismo, il rapporto della coppia Arafat-Suha si è definitivamente incrinato e lei si è trasferita a Parigi, dove vive con la figlia Zahwa.
Oscar Wilde affermava che per far durare il matrimonio, i coniugi devono scegliere: o cercare la gloria e tendere all’affermazione di sé, o vivere nel limbo borghese.
Infatti la coppia formata da individui creativi, purtroppo, spesso va in crisi, perché in essi l’affermazione di sé, il più delle volte, è più forte dell’amore.
SINGLE E DIVORZI SPRINT
La maggior parte della gioventù ama metter su un ménage familiare a lungo termine e si prepara con zelo a fare il padre e la madre come si faceva una volta, mantenendo la propria unione al meglio e senza gettare la spugna ai primi intoppi.
Tuttavia non si può ignorare che vi è una tendenza, in molti, giovani e meno giovani, a restare single. Famosa la risposta che Alberto Sordi, grande amatore ma eterno scapolo,diede ad una giornalista che gli chiedeva perché non si fosse mai sposato: «E le pare che mi sarei messa una estranea in casa?». Altrettanto fulminante, come la sorniona Lalla Romano raccontò in seguito, fu la risposta della scrittrice al regista teatrale Guido Urbani quando costui le chiese di fare all’amore con lei: «Purché “dopo”, Guido, non mi chiedi di sposarti…»
Alcune persone, anche se legate affettuosamente al partner, preferiscono vivere in casa propria, con abitudini da celibe o da nubile, persino dopo sposati. La tendenza non è moderna: a metà del ‘900, gli attori Aroldo Tieri e Luciana Lojodice, vissero in case separate anche dopo le nozze. Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir, legatissimi tra loro, abitarono appartamenti separati. Lo stesso fecero Spencer Tracy e Katerine Hampburn, Anna Magnani e Massimo Serrato, tanto per fare alcuni esempi.
L’identikit dello scapolo o della nubile ad ogni costo lo troviamo nel libro di Virginia Despentes, “Teen sprint”, che narra di adolescenti-adulti che si fanno accudire dalla famiglia e dalle fidanzate e non rinunziano allo status di single. Il tema è ripreso in “Il manuale del perfetto adolescente”, di Paula Guagliumi, autrice che, in “Scopami”, difende le tendenze di quei single che “non s’impegnano”. Significativo è anche il romanzo di India Knight, “Single senza pace”, che sottolinea le ambiguità di chi evita il matrimonio. Il cantautore Tom Wait in una canzone dichiara: “Non voglio crescere/ Non voglio fare un mutuo/ Non voglio innamorarmi, sposarmi e poi scoppiare”.
Il rifiuto delle responsabilità coniugali fu anche un atteggiamento alquanto consueto in passato (non vollero mai contrarre matrimonio Leonardo, Michelangelo, Baudelaire, Nietzsche, Montesquieu, Elisabetta I° d’Inghilterra, Cristina di Svezia, Emily e Anne Brontë, Olympe de Gouges famosa per la sua Dichiarazione dei diritti della donna, Jean Austen, tanto per fare alcuni esempi, ma la lista è lunghissima). Oggi inoltre vi è una vera e propria cultura del single. Come se non bastassero le collane di libri per i single, equivalenti della letteratura rosa che favoriva il sogno del matrimonio d’amore, ora pure il cinema esalta la vita da single.
E l’industria s’interessa sempre più a questa categoria così vasta di persone, diventata una forza economica. La produzione infatti non ignora più le esigenze dei single, e così si trovano molti prodotti in monodosi ad uso delle persone sole.
Vivere da soli a volte, forse, è quasi necessario: la scarsa occupazionalità e gli stipendi bassi non inducono a creare una famiglia; la mobilità del lavoro è pure un handicap: molti preferiscono restare single dovendo cambiare ripetutamente sede e attività. Molte donne sviate dagli impegni di lavoro non sentono più l’impellente bisogno di una famiglia; le manager, sopratutto, rifiutano il legame matrimoniale. Il diffuso bisogno, maschile e pure femminile, di non avere ingerenze nel privato e la sempre più frequente promiscuità sessuale non incentivano di certo i matrimoni.
Gli anglosassoni chiamano kidadults, e i francesi “adultescenti” gli adulti che si comportano da adolescenti, restii a far coppia fissa e che si crogiolano nell’essere single e «mai e poi mani» si farebbero “intrappolare”. La tendenza a rimanere single è attribuita anche all’utilizzo di Internet e della televisione. Secondo alcuni, molta gente, in comunicazione “virtuale” attraverso la rete telematica, non sente più il bisogno di una presenza reale al proprio fianco. Il sociologo Somersit Myers afferma: «La televisione tronca il contatto familiare. Spesso ogni membro del nucleo ha un televisore nella propria stanza ed è quasi indifferente avere una famiglia »
Analisi però troppo radicale e pessimista: infatti attorno al televisore spesso la famiglia si riunisce. Genitori e figli facendo il tifo per la squadra del cuore, o seguendo programmi a quiz, rinsaldano il legame emotivo intenso.
In quanto a Internet, se fa restare per ore “isolati”, tuttavia, chattando e incontrandosi in rete, molte persone comunicano più di quanto non facciano di presenza. Alcuni incontri telematici si tramutano in appuntamenti reali e sfociano in relazioni sentimentali. Le persone timide, favorite da un periodo di “conoscenza telematica”, alla fine si aprono con minor paura.
È probabile dunque che oggi si tenda a gestire in maniera diversa la propria vita. Si ha meno paura di ammettere i propri errori nella scelta del partner e di conseguenza si ha meno paura di “cambiare”. Motivo di tensione e di separazione è pure quando il matrimonio è ritenuto da uno dei due partner una conquista e dall’altro una sconfitta.
La quotidianità, insomma, non è più condotta con le antiche regole della convivenza familiare, quando, per esempio, si preferiva restare uniti in un matrimonio mal riuscito piuttosto che tornare “zitelle”, e quando gli uomini temevano di ridivenire “scapoli” perché non avevano imparato “nemmeno cucinare un uovo sodo”.
Tra i giovani che vogliono farsi una famiglia, alcuni di essi hanno però ritmi sbrigativi. Spesso fanno appena il tempo a dire “ti amo”, che qualche settimana dopo decidono di sposarsi, e così dopo un fugace approccio, si apprestano con superficialità alle nozze. In questi casi, trascorsi pochi anni, o addirittura mesi, appena le difficoltà appaiono all’orizzonte, è facile che si arrivi alla separazione o al divorzio. E ciò avviene spesso anche negli ambienti più “in”.
Claudia Pandolfi si è separata da Massimiliano Virgili dopo meno di due mesi di matrimonio. Nicolas Cage e Lisa Marie Presley si sono lasciati tre mesi dopo le nozze. Lo stesso tempo è durato il matrimonio tra Jennifer Lopez e Chris Judd.
Secondo l’Istat, nel 2000 la media globale dei matrimoni in Italia era di 13 anni. La quota è però ingannevole, perché è di molto alzata dai matrimoni di anziani con trenta anni di vita in comune! Negli Usa 47 coppie su 100, tra i 20 e i 30 anni, divorziano nel giro di due o tre anni. In Inghilterra il 32% dei coniugi si separa entro cinque anni. Statistiche più confortati in Spagna e in Germania, ove è solo il 20% che conclude il ménage nei primi 5 anni di matrimonio.
Il fatto più paradossale è che, a volte, nelle coppie che hanno convissuto per anni in buon accordo, passando al matrimonio, l’intesa viene meno, come se il vincolo impedisca la continuazione di buoni rapporti.
Il sociologo Ferrarotti afferma che le coppie giovani sono le più a rischio: vanno al matrimonio sognando una vita simile a un lungo viaggio di nozze, e così, alle prime incrinature, ritornano nella famiglia d’origine. In qualche caso i doveri matrimoniali, l’appartamento da gestire in tutto e per tutto, l’allevamento dei figli, il vincolo stesso, diventano un peso che arreca fastidio e intolleranza in quanti furono abituati dai genitori ad essere esentati da responsabilità e da obblighi familiari. Dopo il fallimento della vita in coppia, non tutti i separati però rientrano nella famiglia d’origine; alcuni affittano un appartamento e vivono da scapoli o da nubili. Ma i divorzi sprint non sono tipici solo di questa epoca. Giuseppe Garibaldi, centocinquanta anni addietro, dopo una fitta e ardente corrispondenza epistolare con la marchesina Giuseppina Raimondi, che fece salire la furia amatoria dell’eroe, fu indotto a fissare impetuosamente le nozze. Ma si trattò di una cerimonia “esplosiva”, in sintonia con le circostanze della vita del patriota. Infatti, celebrate le nozze, sul sagrato della chiesa qualcuno diede al generale un biglietto. Garibalidi lo lesse e sbiancò; dominando a stento la rabbia chiese a Giuseppina se era vero che fosse incinta, come riferiva la lettera. Colei che da pochi minuti era diventata la signora Garibaldi, arrossì. L’Eroe allora gridò alla sposa: «Siete una puttana!» e la piantò sul sagrato. Giuseppina era gravida (l’aveva inguaiata Luigi Caroli, un donnaiolo da strapazzo) e per “sanare” l’infortunio, i parenti della ragazza l’avevano spinta a sposare Garibaldi.
Insomma, anche in passato non mancavano motivi per divorzi sprint.
Caratterologia nella relazione di coppia
PARTNER GREGARI E PARTNER PREVALENTI
Nella coppia si possono individuare alcuni schemi che servono a decifrare il significato dei comportamenti di relazione e la caratterologia dei partner.
Il partner gregario, è persona poco capace di vivere da sola, e sicura solo se accanto ad un compagno dominante. Egli è disposto a qualsiasi sacrificio pur di mantenere il legame che “lo salva dalla solitudine”. E non sempre sono le donne ad essere partner gregarie. Il gregario maschio è molto più esigente: vuole essere accudito e coccolato.
Spesso, per raggiungere lo scopo i gregari si mostrano “vittime delle avversità”. Ma i gregari non sono “deboli”, essi, paradossalmente, “strumentalizzano” gli altri ai propri bisogni.
Partner gregario fu Emilio Salgari che riuscì a fronteggiare il bisogno d’essere accudito sposando la Peruzzi. Ma quando venne a mancargli la moglie, immaginando di restare senza sostegno, pose fine ai suoi giorni.
Il partner prevalente invece, è dotato di personalità che tende a sottomettere, e in qualche caso a rendere succube l’altro. La pedagogista Maria Montessori fu sottomessa al collega Giuseppe Montesano, col quale aveva una relazione dalla quale era nato un figlio. Dopo il parto, il Montesano, che era il prevalente della coppia, impose a Maria d’abbandonare la creatura in un brefotrofio “per non incorrere in uno scandalo”.
Si potrebbe supporre che siano più gli uomini ad essere prevalenti, ma non è affatto così: molte donne assumono un ruolo materno e un atteggiamento dirigenziale, schiacciando la volontà del maschio.
Quando è la donna a prevalere, il suo atteggiamento a volte dipende da una inconscio risentimento verso il mondo maschile. Di questo tipo fu la coppia Abramo Lincoln e Mary Todd. Lincoln, fu sottomesso alla moglie autoritaria e violenta, tant’è che il poveretto preferiva non rincasare e dormire in ufficio. Il presidente ebbe del matrimonio una pessima opinione tant’è che, quando, durante la Guerra di Secessione, un giovane soldato venne accusato di diserzione e il comandante del reggimento chiese a Lincoln di dargli una punizione esemplare, il futuro presidente, saputo che il giovane aveva tentato la fuga per andarsi a sposare, non lo fece fucilare: anzi, gli concesse la grazia a patto che si sposasse subito.
«Ecco – commentò Lincoln – costui presto si pentirà di non essere stato giustiziato». Prevalente fu la moglie di uno dei Beatles, John Lennon, Yoko Ono, la quale teneva saldamente in pugno il marito e lo costringeva a fare quello che lei voleva. Lei imponeva a John prescrizioni scaramantiche cervellotiche e lunghe astinenze di cibo e sessuali perché, secondo Yoko, il sacrificio e l’astensione dai piaceri lo avrebbero condotto al nirvana e alla chiaroveggenza. Lennon sopportava senza ribellarsi quelle restrizioni, per un certa passività psicologica. La moglie, per “purificargli la carne”, lo costringeva a guardare la televisione senza l’audio e lo obbligava a non profferire parola per settimane, e lo faceva rimanere a letto per non violare la consegna del silenzio.
La coppia paritetica, invece, è formata da partner che non si prevaricano e non mostrano troppe debolezze emotive. Nei partner paritetici prevale l’equilibrio. In questo genere di legame v’è reciproca amicizia e collaborazione e nessuno invade la privacy dell’altro, sicché ragionevolezza e discrezione sono alla base di questo rapporto.
Paritetiche furono, per citare qualche esempio, le relazioni di Jean P. Sartre con Simone de Beauvoir, il matrimonio dei coniugi Pierre e Marie Curie, le unioni tra Albert Schweitzer e sua moglie Helene Bresslau; tra Cesare Beccaria e Teresa Blasco, tra Bertrand Roussell e Lady Ottoline, e quella della coppia omosessuale Jean Marais e Jean Cocteau.
La coppia paritetica dura più a lungo oppure è soggetta anch’essa alla separazione? Se finisce l’intesa i due cercato di “ricucire” le conflittualità, ma poiché vivono con buon senso, non s’intestardiscono ed esaurito ogni tentativo di rappacificazione, si separano.
Paradossalmente è difficile che si disgreghi il ménage in cui uno dei partner è nevroticamente succube dell’altro, o quello in cui il partner prevalente è impegnato a demolire la personalità del gregario, il quale, utilizzando pinte masochistiche, non riesce a riscattare la propria libertà e a liberarsi della schiavitù di un rapporto di coppia che lo soffoca.
COPPIE BIZZARRE, ECCENTRICHE E INSENSATE
Se nella coppia i partner sono narcisisti, eccentrici e “svitati”, può accadere di tutto.
Paradossale fu la fuga da Haiti del dittatore Jean-Claude Duvalier, succube della madre Simone e della moglie Michèle Bennet. Il padre di costei diceva: «È l’unica della famiglia di cui ho paura, perché ottiene sempre quello che vuole». Difatti, Michèle, sposata e madre di molti figli, volendo arrivare al potere, sedusse Duvalier e dopo avere divorziato ne divenne la moglie. Dopo che ad Haiti scoppiò la rivolta, il frastornato Duvaleir salì su un aereo dell’aviazione americana, con moglie, mamma e figli, alla volta della Francia. Michèle riuscì a strappargli il consenso di portare in esilio con loro il suo ex marito, Philipe Pasquet, i figli che lei aveva avuti dal precedente matrimonio e i parenti di Philipe. A Grenoble, i plenipotenziari che accolsero la comitiva mostrarono sconcerto vedendo scendere dall’aereo il clan dei Pasquet. Michèle, radiosa, chiese con la solita improntitudine che la distingueva: «Per il mio primo marito e per i figli che ho avuto da lui, approntate un appartamento vicino a quello mio e del presidente Duvalier». Duvalier dopo quell’episodio fu chiamato “il signor Bennet”.
Bizzarra fu l’unione tra Rodolfo Valentino e Natascia Rambova. Valentino era giunto in America da emigrante, e aveva sposato Jeanne Acker, attricetta e ballerina, bella e aggressiva. Il matrimonio durò una notte. Offesa per non essere stata sfiorata dal marito, la Acker lo piantò l’indomani nell’hotel dove avrebbero dovuto trascorrere la luna di miele. Qualche tempo dopo, per cancellare l’episodio, Rudy si legò a Natascia Rambova, scenografa e figlia di una magnate californiano di cosmetici. Poiché alla bella Rambova piacevano le donne, suo padre, non accettando la propensione della figlia, scelse per lei l’uomo più in voga del momento, l’attore italiano. Ma le nozze preoccuparono i produttori che, conoscendo il caratteraccio della Rambova, temevano che avrebbe manipolato Valentino, rovinandolo.
E fu così: per lei Rodolfo dilapidò un patrimonio. Una megavilla bellissima, una scuderia di cavalli, una schiera di servitori, gioielli favolosi e auto di lusso, feste magnifiche con champagne e caviale, e centinaia d’invitati prosciugarono i conti dell’attore. L’eccentrica Natascia, sedotta dallo spiritismo, volle arredare un’ala del palazzo per le sedute spiritiche con i maghi che settimanalmente incontrava. Valentino subiva la dissennatezza della moglie, per tacitare le voci sulla sua omosessualità. Egli non aveva nessun “contatto” con quella donna anche se, forse a modo suo, ne era platonicamente innamorato. Del resto nemmeno a Natascia interessava dormire nel letto di un uomo.
Poiché le voci che discreditavano quel ménage ingigantivano, Valentino cercò riparo, pubblicizzando il suo tradimento coniugale con Pola Negri, famosa diva la quale tenne per sé il segreto dell’impotenza di Rudy. Un segreto che violò signora Rambova-Valentino quando, dopo una serie di furiosi litigi, lasciò il marito. Quelle atroci dichiarazioni distrussero il mito dell’attore, e gli procurarono, quando aveva appena trentuno anni, un’ulcera che, in seguito, curata male, lo uccise.
Una coppia che, procedendo sulle ali della eccentricità e con spavalda incoscienza, finì col perdersi, fu quella formata dagli attori Osvaldo Valenti e Luisa Ferida. Il Valenti era un istrione, sia nel set di Cinecittà che nella vita, tant’è che era difficile capire quando recitava e quando no.
Affabulatore, anarchico, Osvaldo, che aveva fascino sulle donne, fece della sua vita un romanzo. Luisa Ferida, che bazzicava gli studi di Cinecittà e aveva avuto una parte in un film di Blasetti, si era innamorata del regista. Ma essendo questi legato all’attrice Elisa Cegani, “la dirottò” al più bell’attore del momento, Osvaldo Valenti, il quale, da infallibile conquistatore, finì col sedurla.
I due vissero in maniera pericolosa a causa dell’assoluta mancanza di realismo che li caratterizzava. Sniffavano cocaina e conducevano un’esistenza dissipata e strampalata. Con incoscienza, Osvaldo, che in un primo tempo si era dichiarato estraneo alla politica, anzi, non-fascista, quando l’Italia venne divisa in due dalla guerra, si trasferì assieme alla compagna nella Repubblica di Salò, per continuare a recitare, poiché Cinecittà era chiusa, nella seconda Cinecittà, che Mussolini aveva costruito a Venezia, il cosiddetto Cinevillaggio. A causa dell’insensatezza e dell’incoscienza che rendevano la sua vita senza ordine e sempre pericolosa, il Valenti finì con l’aderire alla politica repubblichina, arruolandosi nella Decima Mass di Valerio Borghese.
A Venezia l’attore conobbe il famigerato Pietro Koch e solo quando intuì che la sorte della Repubblica di Salò era segnata,Valenti cercò, ancora una volta sconsideratamente, di chiedere aiuto ai partigiani per fuggire, lui e Luisa da quell’inferno. Ma non si era reso conto che erano già nelle liste di proscrizione, essendo ritenuti “fascisti pericolosi”.
In realtà Valenti era solo un ingenuo che aveva seguito la pista sbagliata, e né a suo carico né tanto meno sulla Ferida si poteva ascrivere alcun delitto. Tuttavia, dopo che i due si consegnarono ai partigiani, furono proditoriamente fucilati. Finiva così una coppia affiata ma immatura ed insensata, vissuta al di fuori della realtà. Infatti i due attori erano vissuti senza punti di riferimento, navigando nel lusso sfrenato con bizzarrie ed eccentricità, e si erano persi senza rendersene conto.
Coppia affiatata e spericolata fino al tragico epilogo quella formata dalla ventottenne francese Auderey Mestre, record mondiale femminile di immersione, e da suo marito, il cubano Francisco Ferraras. Campioni di immersione subacquea, erano in cordiale competizione e si ricorrevano l’un l’altra in attesa di sapere chi di loro fosse “il più spericolato” ad andare più in fondo nel mare. I due avevano scommesso una crociera: l’avrebbe pagata lui se lei avesse vinto o lei se non riusciva a superare il primato del marito.
Inseguendo il record di Francisco, che era di 162 metri, la Mestre è morta, nell’ottobre del 2002, tentando di arrivare in apnea a 170 metri per superare il coniuge. Qualche mese prima quegli spericolati coniugi erano allegramente scesi in “apnea di coppia” toccando i 130 metri di profondità.
Nel 1963 il ministro inglese della guerra, John Profumo, sposato con l’attrice Valerie Hobson, frequentatore dei salotti bene di Londra, e sul punto di diventare premier d’Inghilterra, s’innamorò dell’ambiziosa, ambigua e provocante Christine Keeler, bellissima ballerina amica dell’agente segreto russo Evgenij Ivanov. Tra l’uomo politico inglese e la affascinate Christine, dai lunghi capelli color rame, sorse una violenta passione, che i due esibirono con vanità, incuranti della condanna pubblica. L’insensato Profumo fu travolto dalla show girl, pur sapendo che la Keeler entrava ed usciva dai letti “più importanti” di Londra, compreso quello della spia del KGB. Lo scandalo travolse il ministro, mise in crisi il premier Mc Millan, sconvolse l’Inghilterra “bene”, allarmò i servizi segreti del regno Unito. La paura che la Keeler avesse “agganciato” il ministro per estorcergli, sotto le lenzuola, segreti di Stato fu molto grande. La coppia Profumo-Keeler rischiò di far aumentare la tensione internazionale e di mettere in crisi le relazioni tra l’Occidente e la Russia, accusata di aver cercato, tramite la bella indossatrice, di carpire segreti alla Nato. La vicenda si sgonfiò quando Profumo rinunziò alla carriera politica e alla donna che gli aveva fatto girare la testa e tutto finì con l’arresto di alcune spie russe.
A volte che il vero grave handicap di una coppia è voler esagerare ad ogni costo.
L’uomo era un veterano dell’Iraq: e in una lettera ha raccontato l’omicidio commesso. Si chiamava Zachery Bowen si era fidanzato con Addie Hall durante il passaggio dell’uragano Katrina: lui l’ha fatta a pezzi e poi si è ucciso. Si tratta di una storia di amore e morte segnata dalla follia. Zachery Bowen, 28 anni, si è ucciso lanciandosi dal settimo piano dell’Omni Royal Orleans Hotel, ripreso da una telecamera della Cctv, che lo mostra esitante mentre si getta nel vuoto. Nella sua stanza, scrive il «Times», la polizia ha trovato una lettera con la quale Bowen, probabilmente tossicodipendente e che prima di gettarsi si era inciso il corpo con 28 bruciature di sigaretta, invitava gli agenti a recarsi nell’appartamento che divideva con la fidanzata, Addie Hall, 30 anni.
Macabro e sconvolgente il ritrovamento: in una pentola è stata trovata la testa, bruciacchiata e irriconoscibile della ragazza, le braccia e le gambe nel forno, il torso nel frigorifero. In una seconda lettera, il giovane ha spiegato nel dettaglio come ha ucciso la ragazza, strangolandola nella vasca da bagno, prima di farla a pezzi. E a fianco di quel che restava di Addie, Zachery, originario della California, veterano della guerra in Iraq e Afghanistan, ha vissuto per due settimane prima di decidere di farla finita. Sul corpo dell’uomo sono state trovate 28 bruciature di sigaretta, tante quanti i suoi anni, spiega lui stesso nella lettera trovata dalle autorità, nella quale parla della «scuola, del lavoro, del servizio militare, del matrimonio, dei genitori, della morale e dell’amore…in tutti questi ho fallito».
I due giovani si erano conosciuti la notte in cui la furia di Katrina passò su New Orleans, quando lei gli diede ospitalità. Da allora erano inseparabili, come avevano raccontato anche nelle interviste concesse a tre giornali americani, che li avevano eletti a simbolo delle «buone notizie» in arrivo dalla città della Louisiana sommersa dalle acque.
Il padrone della casa che avevano affittato sopra un negozio di oggetti voodoo, ha raccontato che Bowen gli aveva detto di recente di essere stato cacciato di casa dalla Hall perchè scoperto a mentire: «Ora che ci penso, mi era sembrato parecchio nervoso» ha commentato l’affittacamere.
Scriveva Hermann Hesse che l’esperienza amorosa viene vissuta da ognuno secondo la propria cultura, le proprie esigenze, le proprie necessità e le proprie inclinazioni psico-biologiche.
Honoré de Balzac, per esempio, lavorava furiosamente sedici ore al giorno e poi, per rilassarsi, s’intratteneva in giochi erotici con qualche amica. Affettuoso e comprensivo affermava però di non potersi legarsi stabilmente con nessuna donna perché, diceva, era “fisiologicamente poligamo”. E similmente, lo scrittore Théophile Gautier intrattenne, con molto affetto, parallele relazioni con varie donne perché, a suo dire, un solo rapporto gli sembrava del tutto inadeguato alla sue esigenze. E affermava inoltre: «Perché negare il mio affetto e le mie premure alle tutte quelle che lo apprezzano?»
Ugo Foscolo amò molte signore, tra cui Antonietta Fagnani Arese, Caroline Lamb, Luisa Frazioli e tante altre. La passione esplodeva nel cuore del poeta intensa e straboccante, ma non era mai accompagnata da una stabilità nelle relazioni. Ugo si stancava presto, perché, affermava, aveva un’insaziabile bisogno di “novità”.
Per Picasso la passione amorosa era esaltazione psicologica e carica esistenziale. Quando il pittore veniva colto «dal bisogno imperioso di sperimentare nuove tecniche grafiche», sentiva nel contempo l’imperiosa necessità di un nuovo legame che lo stimolasse e gli desse modo di ottimizzare la sua arte. In molti casi il rinnovamento artistico di Pablo venne spronato proprio da una nuova conquista amorosa.
L’esploratore Roald Amundsen era un bulimico di conquiste amorose. Ogni nuova presenza femminile gli serviva per ricaricarsi prima di partire verso luoghi sconosciuti. Roald intrecciava relazioni per lo più con donne sposate, scontente del ménage familiare, le quali trovavano i lui una persona che sapeva coccolarle. Ma con nessuna Roald si legò stabilmente:quando partiva per terre lontane recideva il legame e al ritorno non riallacciava mai una relazione interrotta.
Gli attori Spencer Tracy e Katherine Hepburn, durante il ventennio del loro matrimonio fecero intendere di essere una coppia affiatata. Ma non era così: litigavano spesso e sia lei che lui ebbero molte avventure, essendo entrambi in perenne ricerca di trasgressioni erotiche.
Una prorompete bulimia sessuale mostrò lo scrittore Graham Greene. Egli però nascondeva i suoi appetiti sessuali con un ostinato perbenismo di facciata. Ma agli amici più intimi Greene confessava quella sua debolezza, affermando maliziosamente che alla beatitudine eterna si accede tramite il peccato. Così egli visse in attesa della santità, in perenne «peccaminosa indecisione tra il Male e la Grazia».
Quando Graham morì lasciò varie donne a lui affezionate: la moglie Vivien, con la quale era sposato da quarant’anni e dalla quale, da “buon” cattolico”, non volle divorziare; Yvonne Cloetta, con la quale ebbe una relazione trentennale; la bellissima designer australiana Jocelyn Richards, e l’elegante e sofisticata intellettuale americana Catherine Walston. Di tutte queste relazioni Greene raccontò i momenti più salienti nei suoi romanzi.
Il pittore Gustav Klimt era eroticamente scatenato e trasgressivo. Le sue avventure galanti andavano dai fugaci rapporti con commesse di negozio, alle relazioni con le sue modelle, agli amori travolgenti per attrici e donne intellettuali. Klimt ebbe quattordici figli illegittimi. Di lui si racconta che era un “forzato dell’amore”: infatti per essere puntuale ai vari appuntamenti amorosi, traversava quotidianamente Vienna da un capo all’altro velocemente in sella a una bicicletta.
Lo scrittore ungherese Arthur Koestler, un uomo amabile e dotato di grande verve, viaggiando in lungo e largo per l’Europa, ebbe modo di conoscere, in senso biblico, molte donne.
«Tutte, confessò, migliorarono la comprensione di me stesso e la mia dimensione umana». Fu l’amante di Jill Craig[GP2], moglie del leader laburista radicale Michael Foot. Quando questi scoprì la tresca, sebbene, qualcuno lo spingesse a sfidare a duello il rivale, commentò compassato: «Mi consola che non sono l’unico marito posto in queste condizioni dallo scrittore ungherese».
Anche Georges Simenon, inventore del Commissario Maigret, fu un bulimico del sesso. Nella sua autobiografia raccontò che fino a tarda età non aveva potuto mai fare a meno di avere più rapporti quotidiani.
Ma tra i forzati dell’amore non vi sono solo gli uomini, anche le donne sono rappresentate in buon numero.
Le passioni che travolsero Elisabetta I d’Inghilterra la aiutarono a quietare le ansie e a superare i momenti più difficili. Quando la sovrana doveva prendere una grave decisione o quando si sentiva infelice, si ‘appartava’ con un suo favorito e qualche giorno dopo tornava in pubblico completamente rinnovata.
L’affascinante scrittrice inglese Nancy Cunard, personaggio tra i più singolari del suo tempo, e protagonista di rilievo nel mondo culturale, amava circondarsi di uomini colti ed interessanti “per sentirsi vitale e attiva”. Ella, tra l’altro, ebbe relazioni intime con Hemingway, con Aldous Huxley, col filosofo Louis Argon, con lo scrittore Michael Arlen, e col filosofo e pittore inglese Wyndham Lewis. In seguito, quando si dedicò alla difesa delle minoranze etniche, ebbe una legame con un negro di Atlanta, Henry Crowder, che definì «uomo vero, di quelli che hanno sangue nelle vene e cervello a posto».
Determinata, di temperamento sanguigno e sensuale, libera da pregiudizi fu anche Bianca Tam, la quale ebbe una notevole vita avventurosa. Spia, modella e protagonista della vita mondana fra le Grandi guerre del Novecento, ebbe sei mariti, nove figli e un incalcolabile numero di amanti. La sua attività spionistica la portò a vivere buona parte della sua esistenza in molti Paesi europei ed asiatici ove Bianca collezionò una straordinaria serie di avventure sentimentali. Quando smise di fare l’agente segreto, si stabilì a Parigi, e divenne l’indossatrice e l’ispiratrice di Christian Dior. Divenuta vecchia, affermò soddisfatta: «I miei settantacinque anni sono stati un vivace romanzo erotico-poliziesco».
Anche Olghina di Robilant scandalizzò per la sua insaziabile foga erotica. Ella affermava di avere avuto tante avventure da non potere più ricordare tutti i suoi amanti. Olghina era una snob, e preferiva relazioni con uomini dell’alta società, professionisti o attori di grido. «Nella sostanza gli uomini sono tutti eguali, preferisco almeno gli uomini che portano la camicia di seta in ogni circostanza» soleva dire. Fu compagna del direttore d’orchestra Lorin Maazel, degli attori Alain Delon, Maurizio Arena e Warren Beatty. Amò il ballerino Antonio Gadès, s’infervorò di Tony Curtis, col quale ebbe un burrascoso rapporto. Tutte relazioni che riportò nella sua autobiografia, mettendo a nudo la sua vita e quella dei suoi compagni. Olghiona narrò le sue esperienze più scabrose, senza ipocrisia e senza veli, mettendo a soqquadro la buona società. Un putiferio, quello, che le fece guadagnare molti soldi con i diritti d’autore. Olghina era una donna libera che non voleva essere dominata da nessuno: «Gli uomini – diceva – sono disposti a farsi amare, vogliono essere adorati e riveriti, ma non rinunziano alla loro presunta condizione di padrone, nemmeno quelli che, solo in apparenza, propendono per la parità dei diritti con le donne». Sposò il pittore Antonello Alioti ma il legame non ebbe lunga durata: «Il sesso Antonello lo fa con i suoi quadri», spiegò delusa. Quando qualcuno le rimproverava di gettarsi in nuove esperienze senza pudori e senza veli, lei replicava che solo l’ipocrisia impedisce a molte persone di comportarsi come lei.
Sembra che anche la Callas da giovane, fosse stata una bulimica della sessualità. Uno dei suoi biografi, lo storico Nicolas Petsalis-Diomidis, narra che ella si legò, durante il periodo della guerra, col maggiore Attilio De Stasio e poi con un sottufficiale, un certo Piero Donato; in seguito, quando la giovane Maria cantava per la Wehrmacht incontrò un paracadutista della Folgore, Angelo Dondoli col quale “ebbe un rapporto breve ed incandescente”. Il resto della storia della cantante è nota: i suoi legami con Meneghini, poi con Onassis, e, dopo la delusione, con Pier Paolo Pisolini e in fine con Pippo Di Stefano.
Secondo lo psicoanalista Aldo Carotenuto il bisogno di sperimentare e cambiare non è del tutto negativo: a volte aiuta a capire gli altri e a maturare.
Casanova amò moltissimo, e pare non abbia mai conquistato nessuna donna con l’inganno. Quando s’accompagnava ad una di esse la faceva sentire una regina e ne illuminava la personalità. Il bel Giacomo non si fece mai condizionare dal ceto sociale: amò donne nobili come Henirette, cortigiane come Marianna, e anche donne che se in apparenza non avevano grazia, nella sostanza erano grandi amatrici. Raccontò infatti di avere passato dei momenti bellissimi con la bolognese Nepi, «donna gobba e minuta, ma piena di charme».
Non meravigli la quantità di relazioni che ebbe Casanova: alcuni moderni forzati del sesso come Frank Sinatra, George Simenon. John F. Kennedy, John Osborne, Richard Wagner e altri, hanno vantato più numerose conquista di lui. Infatti, a fronte di un centinaio di donne che Casanova ebbe durante la sua vita, Frank Sinatra, lo batte per averne avute almeno tre o quattro volte tanto.
Spesso l’impellenza di nuove esperienze non è finalizzata a “trovare la persona adatta” ma è una necessità narcisistica, un bisogno di “onnipotenza”. Gestire tanti amori può essere stressante. In questo caso la vita affettiva sfocia in conseguenze paradossali.
Ma questi affascinanti incantatori sono liberi amatori o forzati dell’amore?
I DUE VOLTI DELL’AMORE
La passione amorosa è un legame appagante; ma quando diventa una ossessione egocentrica può trasformarsi persino in odio, e provocare tragedie. Malgrado ciò, è l’amore virulento il più romanticamente celebrato dalla letteratura: Tristano e Isotta, Aida e Radamés e tantissimi altri personaggi uniscono indissolubilmente Eros e Tanathos.
Amore tenero e felice è quello che legò lo scrittore Rafael Alberti alla poetessa Maria Teresa Léon. Quella sintonia permise loro di scrivere un libro a due mani: La tartaruga. «Di lei so tutto in anticipo e lei di me intuisce ogni mio desiderio» scrisse l’Alberti, sottolineando la grande intesa che li univa.
Un amore profondo e un’armonia unica coinvolse Riccardo Gualino, finanziere del primo Novecento e la moglie Cesarina Gurgo, sebbene avessero personalità forti. «Col trascorrere degli anni – scrisse Gualino – i nostri vincoli si rinsaldarono a tal punto che negli ultimi tempi mi pareva di formare con lei un essere solo»
Altra love story legò per cinquanta anni Winston Churchill alla moglie Clementine Hozier. Il loro rapporto non fu immune da incomprensioni ed amarezze, ma Clementine sosteneva che suo marito Winnie le aveva fatto dimenticare le sofferenze dell’infanzia e aveva contribuito a cancellare in lei l’odio che, a causa di un orribile padre, aveva nutrito per il genere maschile. Churchill amava la fedele ed affettuosa Clementine perché lo ricompensava di una madre affettivamente assente e distratta. Una madre che, quando egli era piccolo, gli aveva lesinato affetto e comprensione. Clementine sostenne il marito nelle occasioni più gravi, anche in campo politico e strategico.
Alfred Hitchcock e Alma Reville, si sposarono, si disse, perché lei era la migliore tecnica del montaggio degli Studios e lui il regista più in voga. Ma non fu la carriera che fece innamorare Alfred e Alma. La verità è che se è vero che il regista non poteva fare a meno della professionalità di Alma, in realtà i due si amarono teneramente e si erano incontrati intellettualmente. E così per molti anni lavorarono assieme ma fu il grande affetto, più che il cinema, a tenerli uniti.
Però non bisogna illudersi che il grande amore sia immune da defaillance. Anche gli affetti più teneri possono andare in frantumi, ma in questi casi la separazione non cancella la stima tra partner che hanno instaurato legami schietti.
Pablo Neruda, amò, riamato, per diciotto anni Delia Del Carril. Quando la loro storia cessò il poeta disse: «È stato bello, ma nessuna passione può essere considerata eterna». In seguito lo scrittore si legò alla giovane cilena Matilde Urrutia, che divenne sua consorte, ma non rinnegò mai “la sua” Delia, che definiva sempre dolcissima creatura.
Un amore grandissimo legò il compositore ungherese Zoltàn Kodàly ad Emma Gruber, compositrice ed esperta linguista, che lo aiutò nelle ricerche musicali. Emma, tedesca, tradusse le opere di pedagogia musicale di Zoltàn, contribuendo alla loro diffusione fuori dall’Ungheria. La Gruber morì vittima di un incidente. Kodàly affranto, ma ragionevole, affermò: «Non avremmo mai potuto avere più di ciò che abbiamo avuto».
Una bellissima storia d’amore si svolse in Danimarca, nel Settecento, tra Johann Friedrich Struensee, medico privato del folle re Cristiano VII, e Caterina Matilde, moglie di quel sovrano. I due si amarono teneramente ed essendo il re incapace d’intendere e volere, la regina, nominata reggente, passò allo Struensee il potere assoluto. Egli promosse numerose riforme, tra cui l’abolizione della tortura, la libertà di stampa, una legislazione matrimoniale progressista e costituì una burocrazia efficiente. Ma un gruppo di cortigiani invidiosi, urtati dalla liaison tra ministro e regina, ordì una congiura. Lo Struensee venne giustiziato “per tradimento” e la regina, cacciata dal regno “per infedeltà” tornò nell’Hannover dove morì di crepacuore.
Purtroppo esiste l’altro volto dell’amore, quello egocentrico e dispotico. Il criminologo Franz von Schmidt in proposito ha scritto: «le statistiche indicano che la maggior parte dei delitti ha origine da tragici e ammorbati fenomeni d’amore». Spesso infatti, dopo tormenti e affanni sopportati “per amore”, il rapporto può deflagrare con un raptus improvviso che porta persino al delitto. Cruenti crimini passionali sono dovuti alla ruggine della convivenza e alla gelosia.
Il giovane Girolamo, divenuto poi uno dei dottori della Chiesa, rientrato in casa a tarda sera, trovò due persone nel proprio letto e immaginando che la moglie giaceva con l’amante, uccise i due nascosti sotto le coltri. Con sgomento, dopo, si rese conto di avere soppresso i propri genitori, tornati a sua insaputa, dal paese natio. Colto da una crisi mistica di pentimento, Girolamo prese i voti, ma quel delitto “causato dalla gelosia” lo angosciò per sempre.
Secondo il sociologo Joyce McDougall l’amore accaparrante e persecutorio è tipico di chi è afflitto da problemi psicologici e può arrecare danni imprevedibili.
Lo scrittore Louis Althusser che da piccolo fu oppresso dalla madre e dai traumi bellici, ebbe una gioventù travagliata con vari ricoveri psichiatrici. S’innamorò pazzamente di Hélène, donna d’intelligenza spumeggiante e vivace, che lo avviò all’ateismo, alla politica e alla libertà di pensiero; ma era anche lei affetta da turbe emotive, sicché Althusser provò per quella donna trasporto ma anche insofferenza. Tuttavia i due rimasero assieme per trent’anni, con momenti di eros furioso, di tradimenti e di rappacificazioni . Un giorno, mentre Louis praticava ad Hélene una delle “sedute di fisioterapia” con massaggio al collo, s’accorse che la donna aveva gli occhi fissi e la lingua tra le labbra. Inorridito Louis balbettò tra sé: «L’ho strangolata ?!».
Il filosofo venne ricoverato in un ospedale psichiatrico: fu disgrazia o omicidio? Althusser onestamente non escluse nessuna ipotesi, affermando di avere avuto un vuoto, uno smarrimento o una distrazione. In tribunale prevalse la tesi della follia, e l’uxoricida evitò il carcere, ma non il manicomio. Ci fu chi affermò che Althusser avrebbe ucciso la moglie dalla quale non riusciva “psicologicamente” a liberarsi.
A metà del ‘900, Ruth Ellis, bellissima indossatrice, sparò all’amante, il corridore automobilistico David Blakey, di cui era follemente invaghita, perché l’uomo voleva por fine alla loro relazione. A Londra, la contessa polacca Ludivina Skarbek venne pugnalata al cuore dal maggiordomo John Muldowney perché voleva troncare la relazione.
Lo scrittore William S. Burroughs uccise la moglie Joan Vollmer in una circostanza quanto meno insolita. Egli sostenne che stavano giocando al Guglielmo Tell, e puntata la pistola contro la donna “per gioco” gli era scappato accidentalmente un colpo. Il tribunale di Città del Messico ordinò il ricovero in manicomio per lo scrittore, poi lo espulse dal Paese.
In un caso simile incorse l’ingegnere svedese, Charles William Cutlip che strangolò durante un rapporto erotico la moglie Eva Ingrid, della quale, si diceva fosse pazzamente innamorato. Per rendere più attraente la loro intimità, i due pensarono di praticare un gioco che doveva culminare con un finto strangolamento. Secondo lo psicologo che visitò Cutlip, però non si trattò di pura «fatalità»: la sciagurata forse era stata causata dall’inconscio desiderio di Charles di liberarsi di una donna che lo aveva stregato e lo dominava!
Per l’omicidio di Maurizio Gucci è stata condannata la moglie Patrizia Reggiani che, qualche tempo prima del delitto, aveva lamentato d’essere oppressa e umiliata dal coniuge sbandierando l’intenzione di volersi liberarsi di lui ad ogni costo «anche in maniera cruenta». Eppure agli inizi della loro relazione i due avevamo dimostrato di amarsi tanto follemente da essere definiti la coppia dell’anno.
Alla fine del ‘900 una distinta signora ottantenne, con cinquanta anni di normale matrimonio alle spalle, uccise il marito, ex primario del Policlinico Umberto I di Roma. Con l’età il medico era diventato sempre più cupo e scontroso e la donna, stanca degli alterchi aveva chiesto il divorzio, ma il marito, avvezzo alla devozione della moglie, non accettò la ribellione e la perdita della consorte. Seguirono altre cruenti liti e la signora, una notte, colta da un rigurgito di folle rabbia, uccise il marito mentre questi dormiva.
L’amore straripante e insensato così come anche il deterioramento dell’affetto possono sfociare in tragedia. Diceva Oscar Wilde «l’amore furioso e prepotente finisce a volte per evolvere in odio. L’amore privo di egoismi evita un finale sciagurato».
I PARTNER IMPOSTI E QUELLI SCELTI MALE
Nell’antichità, soprattutto in ambienti sociali elevati, imporre il partner era una pratica inveterata che rendeva infelice la coppia e in qualche caso suscitava tragiche vicende.
In Egitto, Cleopatra, per motivi dinastici, dovette sposare il più giovane dei suoi fratelli, Tolomeo XII Dioniso, che risultò degenerato e mezzo citrullo.
Nel Medio Evo, Rosmunda, figlia di Cunimondo, re dei Gepidi, prigioniera dei Longobardi, fu costretta a sposare il loro re Alboino. In seguitò vendicò l’affronto seducendo Elimichi, luogotenente del re, e inducendolo ad uccidere il sovrano. Dopo il delitto, Rosmunda fuggì a Ravenna con Elmichi, ma Longino, per salvarle la vita, le impose di uccidere l’amante. Elmichi, più svelto, fu lui a sopprimere Rosmunda.
Nel XVI secolo il capo di una nobile famiglia, Francesco Cenci, crudele e dissoluto, “impose se stesso” come partner alla figlia Beatrice, che, pare, fosse di rara bellezza. La ragazza subì le attenzioni del padre fino a quando con l’amante Olimpio Calvetti e i fratelli, diede vita a una congiura che eliminò il feroce Francesco.
Scoperti, i congiurati furono mandati tutti al patibolo.
Tra le famiglie reali era quasi una regola che i matrimoni avvenissero per imposizione.
In Austria Maria Antonietta non era stata istruita per fare la regina fino a quando morirono le sorelle maggiori per un’epidemia di vaiolo. A quel punto toccò alla “selvaggia” Antonietta sposare il Delfino di Francia. La giovane principessa aveva solo undici anni ed ignorava l’etichetta; ma dopo un tirocinio di tre anni, imparò a comportarsi regalmente e ad essere esperta delle vicende amorose[GP1]. Dopo il matrimonio, il frastornato Luigi XVI, per sette anni non volle dormire con la regale consorte. Il grassoccio e svagato ragazzo che la quindicenne Antonietta aveva sposato preferiva i dolci, il vino, il gioco delle carte e i trastulli solitari. La regina superò le frustrazioni scialacquando nel lusso più insensato.
Luigi XVIII sposò Maria Giuseppa di Savoia, per procura. Poiché la fotografia non era stata inventata, il re conobbe Maria solo dopo il matrimonio: lei non era una bellezza e Sua Maestà ne rimase deluso. Stando così le cose, Luigi rifiutò ogni contatto con la moglie la quale subì stoicamente l’umiliazione e il disprezzo del coniuge. Le qualità della regina, umanità e sensibilità, che non interessarono al marito furono apprezzate da Marguerite Goubillon, sua dama di compagnia, la quale si legò sentimentalmente alla sovrana.
La colta e raffinata contessa Teresa Guiccioli, figlia del conte Gamba-Ghiselli, per volere paterno sposò il vecchio conte Alessandro Guiccioli, attempato e “all’antica”, oltre che bigotto e poco galante. Teresa desiderosa di conoscere gente allegra e di sentirsi corteggiata si trovò inguaiata in un matrimonio mai non consumato. Dopo anni di cruccio, superando, come scrisse nell’autobiografia, le “ipocrite” leggi morali, Teresa divenne l’amante del poeta Byron.
Re Carlo Alberto soffrì l’amarezza di un amore contrastato che lo rese più austero e depresso. La ragion di Stato impose che sposasse Maria Teresa d’Austria, verso la quale non provava trasporto, mentre Carlo amava, riamato, la contessa Maria Antonietta Truchsess di Robilant, moglie di uno dei più prestigiosi ufficiali della corte torinese. Questa liaison durò più o meno segretamente oltre vent’anni.
Nel ‘900 un altro Savoia, Umberto II dovette sposare Maria José, che lui non amava. Sebbene la sposa avesse molte qualità, esse non rispondevano ai requisiti che il principe cercava in una compagna. Umberto, che era innamorato dell’attrice Carla Mignone, in arte Milly, non si rassegnò mai ad avere per moglie Maria Josè.
Sono tanti i Paesi nei quali, e non solo per motivi dinastici, ancora il marito o la moglie vengono imposti. In India, per esempio, il partner è quasi sempre scelto dai genitori. In quel Paese l’amore è una faccenda secondaria nel contratto matrimoniale e alla donna è chiesto di realizzare qualche piccolo lusso per il marito. Spesso nel contratto essa s’impegna a procurare al coniuge un televisore o uno scouter. Se dopo non riesce a farlo, viene malmenata dai familiari dello sposo, e in qualche caso uccisa per dar modo allo sposo di trovare un’altra donna che gli procuri ciò che la precedente non era riuscita a fargli avere.
Non solo l’unione imposta, ma anche la scelta sbagliata del partner comporta problemi. Può accadere che il partner “errato” dopo un po’ non sia più come agli inizi: diventa iracondo, senza attenzioni, e persino manesco. A volte è la donna a non mantenere le doti di dolcezza e di comprensione manifestate in precedenza. In questo modo dissapori, malumori e incomprensioni fanno da sottofondo quotidiano all’unione.
La scrittrice Tina Pizzardo, personalità intelligente e indipendente, ebbe una crisi esistenziale quando comprese che il suo partner, Cesare Pavese, era per lei l’uomo sbagliato. Tina si era illusa che sarebbe stato la sua guida, il suo riferimento culturale e psicologico. Purtroppo Cesare, nell’intimità, si dimostrò immaturo e infantile. La scrittrice sopportò per un po’ l’ipocondria dello scrittore perché, avendo compreso che Cesare era fragile, provava sensi di colpa a troncare quel menage. Ma poi, avvertendo che la sua vita accanto a quell’uomo peggiorava giorno per giorno, tagliò il “cordone ombelicale” che la univa a Pavese, il quale, come la scrittrice affermò, «era sempre più in preda a devastanti autocommiserazioni e implorava amore, come un cane che guaisce».
Lola Montez a quindici anni fuggì dal collegio e sposò un capitano di marina; ma la sua impulsività le fu cattiva consigliera: l’uomo si dimostrò rude e violento. Quando la Montez chiese l’aiuto dei parenti per liberarsi dal marito costoro le impedirono di troncare il matrimonio: «la donna è l’angelo del focolare e non deve mani abbandonarlo». A Lola non rimase che subire le insolenze di quel mascalzone. Ma alla fine, disperata, fuggì dal torturatore, studiò danza classica e divenne una diva apprezzata.
Il suo senso di libertà e la sua gioia di vivere avevano avuto il sopravvento.
Lucia Bosé comprese poco dopo avere sposato Dominguin che s’era messa con l’uomo sbagliato. Tuttavia, legata ai principi e ai pregiudizi borghesi, si rassegnò. Il toreador che per conquistarla aveva sfoderato le sue arti di seduttore, dopo le nozze, non solo tornò ad essere il consueto conquistador de mujeres, ma prese a snobbare la moglie che non accettava la “coppia aperta” e a esibirle, forse anche per sfregio, apertamente e con crudele narcisismo,[GP2] le proprie plateali distrazioni. Dopo dieci anni, stanca e avvilita, Lucia trovò la forza per dividersi da quell’uomo.
La scrittrice Lietta Tornabuoni desiderando emanciparsi in fretta si sposò a 18 anni, ma si accorse poco dopo di avere commesso un errore. Li per li non ebbe il coraggio di separarsi, in seguito riuscì a farlo: «Dopo sei anni ho trovato la forza per troncare. Da allora non sono più vissuta con un uomo. Non che non sia stata più innamorata, o che non abbia avuto legami felici, li ho avuti, ma con la libertà interiore di “mollare” se non andavano più bene».
Purtroppo anche quando la scelta avviene liberamente e personalmente può risultare sbagliata. In molti casi però il buon senso e la buona volontà di entrambi riescono a salvare la coppia, in altri, invece, nessun accomodamento e nessun compromesso risulta possibile, e tuttavia, alle persone troppo preoccupate di fare “una brutta figura sociale” è difficile troncare persino il rapporto più sgradevole e insopportabile.
Ma saper spezzare la catena a volte fa la differenza tra una vita serena e una infelice.
IPOCRISIE SOCIALI
Diceva lo scrittore inglese J.B. Shaw che i campi in cui c’è più doppiezza sono la politica e la sessualità, ma che l’ipocrisia regna sovrana in particolar modo proprio nel secondo di questi due campi.
L’eros nella nostra cultura ha un alcunché di ambiguo e imbarazzante anche in Paesi che si definiscono di idee libertarie. Per fare un esempio: nella pur liberale Bibliothèque Nationale di Parigi, le opere sull’argomento sono relegate in una sezione nascosta, chiamata l’Enfer, abbreviazione di enfermée, cioè chiusa al grosso pubblico. Nel British Museum di Londra, città di più larghe vedute, invece, a questo genere di libri è riservata una sezione appartata, ma non “chiusa al pubblico”.
Per dimostrare quanta incoerenza e impostura vi sia in materia di sessualità basta dare uno sguardo al passato: in Francia al tempo della costruzione di Notre Dame, le prostitute furono invitate a offrire una grande quantità di ducati per aiutare il re alla costruzione di quel tempio. E così, proprio grazie alla raccolta dei fondi ricavati dai contributi elargiti dalle “donnine allegre”, si arrivò alla realizzazione delle bellissime vetrate di quella cattedrale.
Lo storico Paul Larivaille riferisce che nella Roma del Rinascimento il papato ricavava notevoli introiti dal “capitano dei lupanari”, cioè da colui che sovrintendeva al commercio più antico del mondo, tant’è che nel 1517 Leone X ordinò la famosa “tassa delle p…”, dalla quale, visto il gran numero di professioniste che viveva in quella città, poté attingere notevoli proventi.
Il Governo di Venezia da un lato “fingeva” di voler moralizzare le piazze, facendo sgombrare le adescatrici, dall’altro guadagnava somme enormi sui proventi di quelle povere donne. In quello Stato, nel 1514, venne emanata una tassa straordinaria “sulle prostitute” per finanziare importanti lavori nell’arsenale.
Tra il ‘400 e il ‘600 la pressione moralistica diede origine all’inasprimento della condanna del meretricio. In molte grandi città si espulsero le adescatrici, ma l’allontanamento delle professioniste portò scompensi economici notevoli. Le cortigiane di alto bordo erano così ricche che con i loro depositi finanziavano anche grossi banchieri. Tanto per dirne una, l’espulsione delle donne di mestiere provocò a Roma, a Venezia e in altre città notevoli fallimenti, tant’è che i governi di quelle città rinunziarono alla moralizzazione e ridiedero a quelle donne la libertà di esercitare il loro mestiere!
Altrettanto irragionevole risulta il fatto che nello stesso periodo in cui gli Stati chiedevano contributi alle donne che esercitavano il mestiere, con dubbia coerenza si imponessero restrizioni nel campo dell’arte: il Giudizio Universale di Michelangelo venne fatto più volte correggere perché, secondo una commissione di moralisti, “c’erano troppi nudi”, e “alcuni angeli erano senza ali”, etc. etc. Clemente VIII pensò di distruggere quel capolavoro, ritenendolo immorale.
A Venezia, città che, secondo le cronache del tempo, ospitava più di 700 prostitute, le quali contribuivano, con soddisfazione dei governanti, ad impinguare le casse della Repubblica, l’Inquisizione veneziana costrinse il Veronese a cancellare ne La cena di Casa Levi, i personaggi ritenuti “troppo lascivi”.
In quanto agli intellettuali, c’è una schiera di autori “insospettabili”, dalla morale ipocrita, puritani di facciata ma trasgressivi in alcune opere o nella vita privata. Tra essi ricordiamo il “severo” Machiavelli, che scrisse un saggio sull’argomento, l’Erotica, opera manco a dirlo quasi sconosciuta; Charles Dickens, considerato un moralista per i suoi celebri libri per ragazzi era padre di dieci figli (avuti da Catherine Hogart) ma nel contempo ebbe varie relazioni, tra cui una con la sorella minore della moglie e un’altra con l’attrice Nelly Terman; il “sentimentale” Antonio Fogazzaro, nel romanzo “Il Santo” esaltò però l’eros; Giosuè Carducci, poeta e moralista, fu nella vita un grande amatore ; Felix Salten, ideatore di Bambi, notissimo capriolo “adottato” da Walt Disney, scrisse molti libri per bambini, ma compilò pure, non dandoli alle stampe per non perdere la reputazione, racconti di avventure lascive. Voltaire che da ragazzo aveva ricevuta dai gesuiti una rigida educazione religiosa, divenuto in seguito assertore della libertà di pensiero, a ottantadue anni scrisse L’Odalisca, racconto licenzioso ed erotico, pubblicato dopo la sua morte. In quanto a La Pulzella d’Orleans, anch’essa opera licenziosa, gaia e spensierata, Voltaire, temendo la galera, la diede alle stampe come opera di anonimo. E un altro illuminista, il Diderot, si cimentò nella letteratura erotica con Les Bijoux Indiscrets. E persino Mirabeau, pensatore impegnato politicamente e sociologicamente, scrisse “di nascosto” Le Rideau se lève, ou la Education de Laure che contiene straordinarie descrizioni pornografiche.
E che dire di Parini? Scrittore serioso e sussiegoso del Settecento, egli scrisse anche un’opera erotica: la Novella di Baccio Pittore. Jonathan Swift, autore de I Viaggi di Gulliver, compose, senza avere il coraggio di pubblicarle, molte poesie pornografiche. Horace Walpole, letterato e uomo politico inglese del Settecento, in pubblico si mostrava serioso e compunto, ma, in un suo saggio storico dal titolo Memorie sui regni di Giorgio II e Giorgio III, predomina il gusto della narrazione piccante. Anche il romantico poeta Alfred De Musset scrisse un racconto erotico, Gamiani, che pubblicò a sue spese e fece circolare tra gli amici intimi.
Persino Federico Garcia Lorca, forse il più sentimentale dei poeti, ha scritto gustosissime poesie erotiche.
Giovanni Verga se ne “La storia di una capinera” e in “Eva”, esaltò l’unicità dell’amore «perché da’ il senso più profondo nella vita», in pratica sconfessò col suo modo di vivere quotidiano i moralismi propugnati in molti suoi libri. Infatti, lo scrittore ebbe molte amanti e condusse una esistenza trasgressiva. Solo in Eros, un Verga fattosi più sincero, quasi con una confessione, dice per bocca del protagonista del racconto: «Noi avveleniamo la nostra vita esagerando e complicando i piaceri dell’amore sino a farne dei dolori».
«La sensualità – osservava Oscar Wilde – è il più difficile degli impulsi da frenare, ma è quello che più si cerca di tenere nascosto. Infatti, se da un lato ufficialmente predominano bigottismo e critiche nei confronti della libertà dei costumi, dall’altro in segreto, la gente tende a divertirsi in questo campo». Una riprova della verità delle affermazioni di Wilde si ha se si considera, per esempio, come sono affettatamente ignorate, ma solo in pubblico, le opere del siciliano Domenico Tempio, mentre in privato questo autore ha molti lettori e grande successo.
Del resto, ad osservare con attenzione la società, si può notare che la gente sotto sotto ammira e invidia i comportamenti libertini, però, per non sentirsi in colpa, accetta ufficialmente solo le trasgressioni dei personaggi pubblici più di spicco. E così, se certe libertà scandalose vengono contestate alle persone comuni, le stesse esperienze invece affascinano se ne sono protagonisti divi e dive, intellettuali, magnati dell’industria e del commercio.
Pertanto le personalità che più contano nel campo dell’arte, della cultura, della finanza, del cinema e in altre attività di pubblico dominio, ostentano impunemente le proprie licenziosità, col risultato che ricevono perfino un ammirato consenso dalla gente. Le persone comuni, invece, non protette dalla immunità morale concessa a chi ha un vasto e rilevante consenso popolare, vengono ipocritamente condannate per le medesime disobbedienze nel campo dell’amore e dell’eros che, al contrario, sono considerate il fiore all’occhiello dei personaggi famosi.
Ciò fa riflettere su quanto l’ambiguità sociale in questo campo regna sovrana ed anche su come è maldestramente dissimulata.
AMORE, SENTIMENTO COMPLESSO
Dal tempo in cui Catullo e Saffo esternavano le proprie passioni, al periodo della filosofia Patristica che lo riteneva poco coerente con la vita virtuosa, a Sant’Agostino che condannava l’amore persino nel matrimonio, ai dottori della Chiesa che disapprovavano l’amore per una creatura umana, ritenendo che quel sentimento dovesse essere riservato solo a Dio, al Medio Evo, quando tra marito e moglie non s’usava l’amore, al tempo in cui era vivo solo sotto forma d’adulterio tra il Trovatore e la castellana, al Romanticismo, che lo considerò presupposto del matrimonio , il concetto d’amore ha subito molte evoluzioni
Secondo alcuni è il più nobile dei sentimenti. I delusi e i pessimisti invece lo ritengono semplicemente una malattia che acceca la ragione. Accecato dall’amore fu Catullo che amò Clodia, moglie di Metello Celere e sorella-amante di Pubblio Clodio. Clodia (o Lesbia) come la chiamò il poeta, possedeva il cuore e la mente di Catullo e lo faceva soffrire e disperare quando lo abbandonava e lo tradiva a destra e a manca con chicchessia. E tuttavia, Catullo, pur geloso e disperato, non riusciva a staccarsi da quella donna, e quando lei lo richiamava a sé, egli accorreva felice, malgrado, in precedenza l’avesse maledetta per le di lei infedeltà. L’amore troppo geloso produce prima o poi odio e relazioni turbinose. Otello diventa assassino immaginando il tradimento di Desdemona.
Gli psicologi trovano che l’amore geloso sia un rigurgito dell’infanzia, quando il minore amando la madre o la minore il padre, provano gelosia verso l’altro genitore che, ritengono, sia la persona che si frappone tra loro e il loro oggetto d’amore.
Chi è “svezzato” da questa dipendenza, ritiene chi ama “follemente” un soggetto da psicanalizzare.
I neuropsichiatri, sostengono che l’impeto amoroso se non è controllato può diventare oppressivo. Invece l’amore sereno e senza struggimenti può essere un “fattore protettivo” del miocardio. Infatti, amare ed essere amati “serenamente” procura benessere all’organo cardiaco, fa diminuire l’ansia, lo stress e la depressione.
Ci sono grandi amori e passioni limitate, amori eterni e brevi incontri, amori fisici e amori spirituali; amori che creano gioia e amori che tormentano. Amori intellettuali e amori materiali. Alcuni sognano l’amore come i naufraghi sognano una spiaggia.
L’amore-sensuale in qualche caso è piuttosto effimero: quando nasce solo da un incontro fisico, dopo l’esaltazione iniziale, inevitabilmente finisce perché esalta l’attimo fuggente ma è senza programmi.
L’amore-passione, invece è basato sull’attrazione psicologica, sull’idealizzazione del partner. È il più romantico degli amori. La frenesia dell’infatuazione è una carica emotiva intensa, colma di pathos ma non dura a lungo. Infatti, l’infatuazione, è “cieca” e per questo è causa di forti disillusioni.
L’amore-amicizia è il più ricco e vario. Si basa sull’affinità delle idee, sulla comunanza dei gusti; è costante, senza spiacevoli sorprese. L’amore-amicizia proprio perché si basa su sentimenti e sintonie, prepara a un lungo percorso. Intesa, affiatamento, inclinazioni comuni e sintonia psicologica garantiscono la stabilità al rapporto.
Molte persone lamentano di non avere mai incontrato l’amore. Ma il più delle volte si tratta di individui che vivono un letargo affettivo, egoisti incapaci di saper dare sincera affettuosità, di miopi al punto da non saper riconoscere l’anima gemella. Essi tuttavia pretendono d’avere( magari “gratis”, cioè senza dare contropartita) l’amore che li consoli. Chi sa riconoscere la persona che meglio può stargli vicino, sceglie la persona giusta. Ma guai a non vivificare la fiamma: in amore è pericoloso vivere di ”rendita”.
A volte si crede d’amare invece si soffoca il partner e lo si rende schiavo del nostro egoismo. In questi casi l’amore agisce come un veleno.
Dalle biografie di grandi personalità, in vari campi dell’arte, della scienza e della politica si capisce che senza amore non vi può essere ispirazione e quando manca vengono meno le motivazioni per le grandi realizzazioni.
Senza le vibrazioni dell’amore non si ha carica vitale e pur nondimeno l’amore può essere causa di morte: la letteratura e la vita ci porta tanti esempi. Il giovane Werther distrutto da un amore impossibile si suicida. Si toglie la vita Didone, abbandonata da Enea. Medea compie una strage per l’amore perduto. Si tratta di esempi letterari che purtroppo hanno quotidianamente riscontro nella realtà.
Afferma il sociologo Armando Torno che senza i sussulti dell’amore l’animo è freddo.«Solo chi ama, o spera d’amare, ha una particolare vitalità».
Lo scrittore Giovanni Papini, intellettuale ribelle, sarcastico, ma anche depresso, descrisse così la sua necessità di trovare l’anima gemella: «Conobbi, fanciullo appena, le ansie degli amori casti; perdetti da grande, regolarmente, come tutti, la mia verginità; passai attraverso gli amori illeciti e le passioni proibite e i fidanzamenti approvati, ho finito (anch’io) nel seno delle gioie legittime del santo matrimonio. E allora si potrebbe dire : «Che cosa ti manca?» Mi è mancato soltanto questo: la donna ideale, la donna che prende davvero l’anima e la muta».
Non sempre però l’amore lenisce le carenze affettive. Il languore romantico, la malinconia sentimentale, arrovellano l’animo con tortuose introspezioni. Lo psicoanalista Theodor Reik è del parere che se l’amore è corrisposto tacita l’insicurezza, ma se manca o viene meno provoca un senso di fallimento, una sconfitta insopportabile che fa patire le pene dell’inferno. Se il partner ritiene che l’altro o l’altra abbiano perso interesse per lui, viene sconvolto dall’insicurezza o travolto dall’ira.
Un uomo ha ucciso i figlioletti e si è dato la morte per “punire” la moglie che non voleva più vivere sotto lo stesso tetto; un ragazzo, che in precedenza aveva abbandonato la fidanzata, quando ci ripensa, vuole ritornare con lei; ma lei è ormai legata ad un altro uomo e gli si rifiuta. Allora lo spasimante la trascina sotto i binari di un convoglio della metropolitana trovando la morte assieme all’«amata»; un uomo abbandonato dalla moglie, non rassegnandosi alla decisioni della sposa, uccide i suoceri, un cognato e una parente.
Molte persone psicologicamente deboli finiscono in depressione a causa dei loro “insuccessi di coppia”. Da un rapporto dell’Eurispes i fatti di sangue familiari sono i più numerosi tra i delitti: secondo l’inchiesta il 70% delle vittime sono donne(nel 41% dei casi si tratta della moglie o di una convivente).
Insomma, sebbene l’amore sia un sentimento esaltate, appagante, vitalizzante, in tanti casi, è sconvolgente.
Non sempre la fine di un rapporto coincide con la fine dei sentimenti. Se l’angoscia della separazione permane molto dopo la conclusione del rapporto, essendo un sentimento frustrante produce reazioni emotive inconsulte. Il sistema “arcaico” di risposta alla “perdita di qualcosa o di qualcuno ” è veemente e incontenibile, e provoca disperazione e violenza.
Secondo una ricerca dell’università di Stanford, siamo tutti potenzialmente infedeli. Alcuni sono rapiti dalla voglia di trasgredire. Altri cercano nella relazione extraconiugale conferme che nel matrimonio non hanno più.
Una giovane racconta: “Ho provato una relazione per verificare se i miei appetiti sessuali fossero normali, visto che con mio marito avevo problemi”. Sono questi i casi in cui un rimedio esiste. Per evitare di cercare un’altra persona, bisognerebbe avere il coraggio di coinvolgere il proprio partner nei giochi più strani. Sconvolgente? Per nulla: nella coppia è indispensabile raggiungere una totale complicità.
Secondo statistiche recenti, le donne tradiscono più degli uomini, e il loro tradimento è più insidioso perché è prima mentale e poi fisico. A volte si tradisce perché nella coppia si ha un calo di piacere, come scrive un’altra donna: “Sono disperata provo la metà del piacere che provavo prima con il mio fidanzato. A volte mi capita di stare mesi interi senza fare l’amore, perché non mi interessa proprio. Cosa devo fare?”
I problemi inerenti al calo di piacere necessitano un cambiamento di partner, è evidente che non lo ami. Se continui ancora con lui rischi di entrare in depressione. Una ventata nuova fa sempre bene allo spirito. Altrimenti, aiutati con la fantasia, o cerca di frequentare uomini fantasiosi: il sesso si fa con il cervello.
E ancora una signora ha affermato: “Io tradisco perché ho avuto una grande delusione d’amore in passato. Per sentirmi più sicura preferisco avere più uomini. Sono malata?”
Anche un’altra donna racconta che “per paura di essere lasciata non si innamora mai cercando più partner.”
Della delusione d’amore nessuno ne esce indenne.La patologia conseguente si manifesta sempre attraverso gli stessi sintomi: disperazione, ansia, malinconia, nostalgia, confusione, inappetenza. In una parola sola: una tremenda sensazione di vuoto. A volte frequentando più persone, è possibile evitare la delusione in amore!.
Dice una moglie: “Con mio marito mi annoio, ma con l’amante mi eccito solo a guardargli le scarpe di coccodrillo e le mutande maculate. Trovo più eccitante il suo piede e le mutande che fare sesso con lui. Invece con mio compagno ciò non capita. Sono anormale?”
Una ragazza scrive che con la sua fidanzata non può “dare spazio alla sua trasgressione”, quindi è costretta a cercarsi più amanti donne. Qualcuno afferma che la trasgressione giocata con equilibrio, può rafforzare un rapporto ma l’esagerazione rischia di distruggerlo.
Un uomo ha raccontato: “Ho fatto sesso con la mia migliore amica, dopo tanti anni di amicizia ha capito che ero attratta da lei. L’unico problema è che la mia amica è gelosa di mia moglie e questo guasta il nostro rapporto”
Una donna confessa:”dopo anni di matrimonio, il rapporto sessuale tra me e mio marito era noioso e limitato. Da quando abbiamo scoperto lo scambio di coppia, ci siamo uniti di più. Siamo complici in tutto. Incredibile!” Però non bisognerebbe esagerate! L’esagerazione rischia di distruggere le relazioni.
Molte donne dopo i 30 anni sono ancora vergini . Spesso i problemi di rapporto con l’altro sesso dipendono dall’insicurezza, magari dovuta a una madre dominante e onnipresente.
Nella maggior parte dei casi le donne voglio fare sesso senza luce: non è per voglia di cercarsi e trovarsi nella buia intimità del talamo. È per vergogna del proprio corpo che un terzo delle donne inglesi non si fa vedere nuda dal partner .
Secondo uno studio pubblicato dal quotidiano britannico Daily Mail, il 10% delle donne si toglie i vestiti dopo aver spento le luci e un quarto di esse è così preoccupata del proprio aspetto da non voler entrare in bagno assieme al partner.
Nonostante ciò quasi tutte le 3.500 donne intervistate concordano che per una coppia è fondamentale sentirsi bene quando si è svestite.
Gli esperti ritengono che la continua esposizione di immagini di modelle magrissime e di attrici filiformi abbiano reso estremamente insicura un’intera generazione di donne a proposito del proprio aspetto. E nonostante sia ormai risaputo che la maggior parte delle fotografie che ritraggono signore e signorine del mondo dello spettacolo in perfetta forma siano ritoccate al computer, il senso di inadeguatezza delle donne comuni rispetto allo standard dell’icona snella miete continue vittime. Così nasce l’istinto che porta le donne ad evitare di spogliarsi davanti al proprio compagno e la cosa sta generando forti crisi nei rapporti di coppia.
Al contrario, gli uomini sembrano del tutto immuni da insicurezze di sorta e ogni giorno passano in media il doppio del tempio nudi rispetto alle loro vergognose mogli o fidanzate: i due terzi degli intervistati girano in casa senza vestiti compiaciuti del proprio corpo. Il 46% delle donne confessa che vorrebbe fare altrettanto ma un terzo ha ammesso che non girerebbe mai nuda per casa sapendo che il partner potrebbe vederla. Stessa scena in palestra, dove il 79% ammette di provare vergogna all’idea di cambiarsi o farsi la doccia di fronte ad altre donne.
Per le inglesi la nudità sembra un lusso che solo le bellissime possono permettersi. L’uomo si spoglia invece senza pudore
SE NON C’E’ AMICIZIA TRA I PARTNER, SOLITUDINE NELLA COPPIA
Affermava lo psicologo Alfred Adler che «l’individuo che non s’interessa dei suoi simili incontra nella vita numerose difficoltà,ed è anche colui che maggiormente fallisce».
Se questo è vero in generale, è oltremodo determinante nei rapporti tra partner. E tuttavia, spesso molti di coloro che si proclamano innamorati, non curano l’amicizia con la persona amata: «Ci amiamo. Che bisogno c’è di essere “anche” amici?». Le coppie spesso stabiliscono rapporti “momentanei”, fragili, occasionali, senza dialogo. Paradossalmente, in un’epoca di grandi comunicazioni, molti partner stentano a scambiarsi confidenze e non riescono a migliorare la loro reciproca comprensione. Partner assieme da venti e più anni non si sono mai parlati “veramente”, e hanno scambiato solo frasi di circostanza, determinate da esigenze pratiche, da contingenze momentanee. Mai una parola che chiarisca la base del loro legame, mai una partecipazione al mondo dell’altro. Secondo un vecchio luogo comune l’amicizia tra uomo e donna è di secondaria importanza. Anzi, non può esistere. Si ignora così che è proprio l’amicizia a produrre l’armonia nella relazione, che smussa le differenze.
L’atavica incomunicabilità tra universo maschile e quello femminile dipende dalla riluttanza che uomini e donne hanno ad aprirsi a confidenze reciproche. Si tratta di una idiosincrasia che non fa solidificare i rapporti tra i sessi.
Anche ai nostri giorni non è infrequente, nelle riunioni miste, vedere che gli uomini si aggregano fra loro per parlare di sport o di politica, e le donne fanno comunella per discutere i propri problemi. I due mondi rimangono scissi per mancanza di una cultura all’amicizia tra i sessi.
L’amicizia tra partner comporta vantaggi, stimola alla stessa sintonia, fa viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda. Amicizia è interessarsi a ciò che sta a cuore all’altro, saperlo ascoltare e venirgli incontro. È comprendere la sensibilità del partner, non offendere i suoi gusti, dimostrare di gradire il tempo passato in sua compagnia. È saper apprezzare il partner, essere disposti a qualche sacrificio per fargli piacere; è rendergli attraente il tempo trascorso assieme.
Purtroppo però, a volte, il concetto d’amicizia è frainteso e così, equivocando sul “potere” di questo sentimento, c’è chi pretende che il partner sia sempre disponibile e ciò anche senza mostrargli mai gratitudine. Il peggior modo di stare assieme è considerare il rapporto di coppia una sorta di pattumiera nella quale scaricare gli aspetti meno opportuni del proprio carattere. C’è infatti chi utilizza l’unione di coppia per brontolare, rimproverare e recriminare, o magari per sottolineare i difetti dell’altro. Denigrare il proprio compagno/ compagna, non accettare mai il suo punto di vista, mettersi in concorrenza con lui, fondare la propria autostima sminuendo il suo valore, non apprezzare mai qualunque cosa faccia è il peggior modo di stare in coppia.
Soddisfare il proprio narcisismo e rinforzare la propria autostima traballante sulla pelle del partner è un’operazione infantile e pericolosa per la vita assieme.
Quando il flirt nasce dall’attrazione sessuale: in questi casi l’unione vive male se i due non sviluppano anche con gusti, desideri e aspirazioni “compatibili”, e se si basano solo sull’ esteriorità, senza svelarsi mai “l’interno”. C’è chi mantiene “sotto controllo” la propria trasparenza interiore, ritenendo che l’amicizia con l’altro sesso non sia possibile. Se questo accade, la coppia è costruita su due solitudini: quella della donna e quella dell’uomo, e la solitudine non aiuta a fronteggiare le incomprensioni e i disagi della vita di coppia, anzi comporta incomprensioni, reciproche accuse, e forti delusioni.
Prototipo dell’amore-amicizia fu il rapporto che legò il filosofo Abelardo ad Eloisa. Le lettere che i due si scambiarono testimoniano quanto profondo e intellettualmente affiatato fosse il loro legame. Una grande amicizia e un grande amore legarono Boris Pasternák., reduce da diverse esperienze, a Olga Ivinskaja, più giovane di lui di trenta anni. La “miracolosa presenza” di Olga lo rinnovò e gli ispirò il personaggio di Lara, figura principale del romanzo Il dottor Zivago. La Ivinskaja fu vicina a Boris anche quando il PCUS gli impose di allinearsi alle direttive del partito: «l’unica consolazione mi viene dall’amore e dall’amicizia per una donna» ebbe a dire lo scrittore.
Altro grande amore-amicizia fu quello che si instaurò tra Corrado Alvaro e sua moglie, Laura Babini, che lo aiutò nei momenti più tristi della vita. «La mia migliore amica» disse di lei Corrado. L’amicizia e l’amore tra lo scrittore tedesco Hans Fallada e Anna fu come lo stesso Hans ebbe a dire « uno di quei rapporti che salvano dalla catastrofe esistenziale e che risolvono l’agonia di una vita». Lo scrittore narrò la storia di quel ménage e di “quell’amicizia” nel romanzo E adesso pover’uomo?, venduto in milioni di copie e tradotto in venti lingue.
Quando Yann Andréa Lemmée lesse il primo libro di Marguerite Duras aveva vent’anni e lei ne aveva sessantuno. Per cinque anni il giovane scrisse una infinità di lettere alla donna che lo aveva stregato e affascinato con le sue idee e le sue opere. Alla fine Marguerite conquistata dall’amicizia di quel fan lo invitò a casa sua. Da quel momento i due vissero assieme. Lui scrisse la biografia della Duras, e la loro fu una simbiosi “amicale”, che durò sedici anni, cioè fino alla morte della scrittrice. Andréa dopo il lutto non volle più stare con nessuno e scrisse un secondo libro biografico sul rapporto “sintonico” con quella donna che aveva cambiato la sua vita.
Grande amica e consigliera di Enrico II di Francia , oltre che amante, fu l’onnipresente e onnipotente Diana di Poitiers. Come sarebbe stata la conduzione di quella nazione, senza gli interventi di quella donna? I duchi di Guisa sarebbero potuti diventare tanto potenti senza il suo intervento? Quali sarebbero stati i rapporti tra Francia e Inghilterra, senza i consigli di Diana “al suo re”? Per ragioni di etichetta Enrico la chiamava “madame” e lei “sire”. Ma la loro conversazione aveva il tono di una reciproca amicizia.
Il buon rapporto di coppia si instaura in maniera lenta e complessa. Senza sincera amicizia la relazione manifesta prima o poi la sua instabilità; il rapporto va in brandelli e i lacci oppressivi creano una dolorosa insopprimibile realtà in comune.
L’amicizia tuttavia non è garanzia di durata dell’amore (i campi dell’amicizia e quelli dell’amore sono diversi) ma è una premessa che evita, se la passione finisce, l’accanimento e il malanimo durante la separazione.
E non è poco che, quando il sentimento finisce, se l’amicizia perdura, grazie ad essa i due partner possano civilmente restare collegati.
AMORI CRUENTI E SCELLERATI
L’amore esaltante e consolatorio è affetto e tenerezza, ma se l’attrazione fatale è esasperata diventa irrazionale e può trasformarsi in follia. La fiamma della passione in quel caso annebbia le idee. Spesso, in quel caso, si confonde il sentimento d’amore col sentimento di proprietà, ed è inevitabile che, prima o poi, scoppi una tragedia. Tuttavia l’amore virulento, eccessivo, è celebrato dalla letteratura come se fosse proprio questo il vero grande amore.
Tristano e Isotta, Aida e Radamés sono tragedie di amore e morte. Wherter si suicida per amore, e Didone, abbandonata dall’amato, cerca la morte. Medea, crudele e disumana, quando Giasone l’abbandona, uccide i propri figli per punire l’uomo che l’ha ingannata. Tutte storie letterarie che rappresentano soluzioni estreme di un sentimento che dovrebbe essere invece l’emblema della pace. Eppure, come diceva Oscar Wilde, «è imprevedibile l’evolversi dell’amore in odio».
Il criminologo Franz von Schmidt, afferma che «le statistiche indicano che la maggior parte dei delitti ha origine da tragici fenomeni d’amore».
Dopo anni di tribolazioni e di sopportazioni “per amore”, il partner più remissivo talvolta abbandona la propria acquiescenza ed esplode in efferatezze, in delitti passionali, in raptus “improvvisi”.
Le cronache riportano cruenti episodi passionali dovuti alla ruggine della coppia: una settantenne, dopo cinquanta anni di matrimonio, ha piantato un coltello nel cuore del marito che dormiva accanto a lei; un vecchio ha sgozzato la moglie durante l’ennesimo litigio. La gelosia è, da sempre, una miscela esplosiva che provoca delitti orrendi.
Girolamo, divenuto poi uno dei dottori della Chiesa, quand’era giovane, rientrato a casa dopo una battuta di caccia, trovò due persone nel proprio letto. Immaginando si trattasse della propria moglie che giaceva con l’amante, accecato dall’ira, uccise i due nascosti sotto le coltri.
Subito dopo il delitto, con grande sgomento, si rese conto di avere soppresso i propri genitori, tornati a sua insaputa, dal paese natio. Colto da crisi di pentimento, Girolamo prese i voti, ma il ricordo dell’insensato gesto lo angosciò per sempre.
Secondo il sociologo Joyce McDougall talvolta l’amore può essere accaparrante e persecutorio e se chi ama è afflitto da problemi inconsci diventa una mina vagante e può arrecare danni imprevedibili.
Lo scrittore Louis Althusser, mito letterario nella Francia del ‘900, ebbe una gioventù travagliata, oppresso dalla madre e da molti guai. tant’è che fu costretto a una serie di ricoveri psichiatrici dovuti a traumi bellici ed esistenziali.
Quando, trentenne, conobbe la bella Hélène, che aveva otto anni più di lui, ed era d’intelligenza spumeggiante e vivace se ne innamorò pazzamente. La donna, anche lei affetta da turbe emotive, era marxista convinta e avviò lo scrittore al sesso, all’ateismo, alla politica e alla libertà di pensiero.
Dopo qualche tempo però Althusser provò per quella donna un sentimento d’insofferenza. Tuttavia lo scrittore rimase accanto ad Hélène per trent’anni. E in tutto quel tempo i due ebbero momenti di eros furioso, di tradimenti e di rappacificazioni.
Nel 1980 mentre Louis praticava ad Hélene, che giaceva mollemente distesa nel letto, una delle consuete “sedute di fisioterapia”, consistente in massaggio al collo, ad un tratto s’accorse che la donna aveva gli occhi fissi e la lingua tra le labbra. Inorridito Louis balbettò tra sé: «L’ho strangolata ?!».
Il medico che accertò il decesso avvertì la polizia e il filosofo venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Fu disgrazia, od omicidio? Althusser non escluse mai nessuna delle due ipotesi. Affermò che aveva avuto un vuoto, uno smarrimento o forse una distrazione. I suoi avvocati sostennero la tesi della follia, e l’uxoricida evitò il carcere, ma non il manicomio. Non manco chi sospettò che Althusser avesse ucciso la moglie, dalla quale non riusciva “psicologicamente” a liberarsene, perché amava Franca Fenghi, l’insegnante di filosofia che traduceva in italiano le sue opere.
A metà del XX secolo, a Graz, la signora Hruby venne condannata all’ergastolo perché aveva avvelenato il marito, il quale le aveva intimato di troncare la relazione che lei da tempo aveva con un prete. Nello stesso periodo, Ruth Ellis, bellissima indossatrice londinese, uccise l’amante, il corridore automobilistico David Blakey, di cui era follemente innamorata, perché l’uomo voleva por fine alla loro relazione.
A Londra, più o meno in quegli anni, la contessa polacca Ludivina Skarbek venne pugnalata al cuore dal maggiordomo John Muldowney che la punì perché ella voleva troncare la loro relazione.
Lo scrittore americano William Seward Burroughs, autore de La scimmia sulla schiena, si trovò coinvolto in una vicenda inquietante. Nel 1951 egli uccise, non si appurò mai se volontariamente o meno, la moglie Joan Vollmer, in presenza del figlio di quattro anni. William sostenne che s’era trattato di un banale incidente, perché affermò, stavano giocando al Guglielmo Tell, e dopo avere puntata la pistola contro la moglie, gli era scappato accidentalmente un colpo.
Proprio nei libri di Burroughs s’incontrano personaggi allucinati che compiono gesti pazzeschi come quello. Lo scrittore afflitto da omosessualità, viveva con angoscia quella condizione e dopo gli incontri con i giovani efebi era spesso colto da crisi depressive. Per stemperare l’angoscia ingollava alcol e s’imbottiva di droga.
È probabile che l’incidente fu provocato dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza.
Il perito psicologo H. F. Heyson, nominato dal tribunale di Città del Messico, per valutare le condizioni mentali dello scrittore, propose il ricovero in manicomio di Burroughs, che dopo il processo fu espulso da quel Paese.
Un altro caso simile, quello incorso al quarantottenne ingegnere elettronico svedese, Charles William Cutlip. Costui, nel 1996, a Venezia, uccise, durante un rapporto erotico, la moglie Eva Ingrid. La tragedia maturò quando, per rendere più attraente la loro intimità, i due pensarono di praticare un gioco perverso, che sarebbe dovuto culminare con un “finto” strangolamento.
Secondo lo psicologo che visitò Cutlip, non si trattò di pura «fatalità»: la sciagurata poteva essere stata causata dall’inconscio desiderio di Charles di liberarsi di un rapporto giunto al capolinea!
Molti legami stanno in piedi facendo leva sulla sopportazione, sulla docilità e sulla rassegnazione di uno dei due partner. Di solito sono le donne che, temendo le conseguenze della separazione, preferiscono un’unione fallita ad un divorzio senza protezione. Ma non è escluso che anche il partner maschile “sia succube” della compagna.
Tuttavia, quando è “il sesso debole” che si ribella, spesso la rivolta si trasforma in tragedia. L’omicidio di Maurizio Gucci, per il quale è stata condannata la moglie Patrizia Reggiani, è emblematico. La donna, prima del delitto, aveva lamentato tra gli amici d’essere oppressa e umiliata dal coniuge, e aveva sbandierato l’intenzione di volersi liberarsi di lui anche in maniera cruenta.
Altro emblematico episodio alla fine del secolo scorso vide protagonisti una distinta ottantenne e il marito, ex primario del Policlinico Umberto I di Roma. La signora, non sopportando più liti e umiliazioni volle divorziare. Il marito, per evitare lo “scandalo”, le propose di abitare in due appartamenti contigui. Ma essendo abituato alla devozione della moglie, non sopportò la “ribellione” della compagna. A poco a poco la separazione determinò in lui una forte frustrazione che reiterò in cruenti liti con la moglie. A quel punto la signora, furibonda, colta da folle rabbia si tramutò in uxoricida-suicidia.
Anche la fine di un affetto crea forti conflittualità, tanto da trasformare il legame sentimentale, in vincolo tirannico e talvolta in tragedia.
LE COPPIE IMPOSSIBILI, O QUASI
C’è un genere di unione difficile da gestire, che provoca situazioni frustranti e paradossali: si tratta delle coppie formate da un eterosessuale e un omosessuale. In questi casi solo il buon senso e la capacità di sopportazione può far fronteggiare un rapporto equivoco, conturbante e denso di dissonanze.
Il compositore russo Piotr Iliic Ciaikovskij, che era omosessuale, intrattenne una “amicizia sentimentale” con la statunitense signora Nadezhda von Merck. Una relazione, questa, che il musicista condusse sul filo dell’equivoco. Infatti egli fece credere a Nadezhda di provare per lei un amore puro, occultandole le proprie propensioni sessuali per non perdere l’assistenza economica della generosa benefattrice.
Piotr non sopportava rapporti erotici con donne e così non volle incontrare la Nadezhda. Egli inventò una scusa romantica: disse all’amica che, se il loro amore si fosse nutrito solo di contatti epistolari, non si sarebbe sciupata la bellezza della relazione.
Una scusa platealmente sospetta, alla quale la donna, pazzamente innamorata del musicista, credette ciecamente. Per tredici anni la von Merck mandò lettere vibranti d’amore all’uomo che ammirava, accompagnandole con ingenti contributi in rubli.
Prima dell’amicizia con Nadezhda, Piotr Ilic, tentando di negare la propria omosessualità, aveva sposato un’allieva, Antonia Miljukova. Quel matrimonio spiegò poi alla Nadezhda, era stato da lui contratto per poter assistere finanziariamente la ragazza. Il gesto suscitò la pietà dell’amica, che gli mandò ancora altro denaro «per salvare Antonia».
Ciaikovskij, che soffriva di crisi paranoiche, confidò alla Merck di provare per sua moglie un grande disprezzo, fisico e “morale”. Egli descrisse Antonia come una strega: «Non solo non m’ispira il minimo sentimento ma mi è così odiosa che il mio disgusto per lei cresce di ora in ora», poi aggiunse: «Tutto in Miljukova è affettato. La sua testa e il suo cuore sono completamente vuoti».
Ambigue e paradossali anche le condizioni in cui si svolse il rapporto tra Oscar Wilde e sua moglie Constance Lloyd, ragazza bella, ricca e di buona famiglia, innamorata dello scrittore inglese perché lo riteneva un uomo di talento.
Wilde la sposò ritenendo che il matrimonio sarebbe stato un buon lancio pubblicitario per le sue opere. La coppia ebbe due bambini, Cyril e Vyvyan, ma l’unione non funzionò. Oscar abbandonò la moglie quando conobbe Alfred Douglas, giovane affascinante al quale lo scrittore si legò senza esitazione. Douglas si mise con Wilde per spillargli denaro. Constance, che fino ad allora aveva ignorato l’omosessualità del marito, ritenendo che egli fosse solo annoiato della vita coniugale, saputo della relazioni di Wilde sia con Douglas che con Arthur Humphreys, andò via da casa.
Un’altra relazione molto ambigua fu quella tra Wanda Toscanini e il pianista Vladimir Horowitz.
L’ambizioso musicista era omosessuale, ma corteggiò e chiese in sposa Wanda perché era la figlia del più grande direttore d’orchestra del tempo, cosa che lo avrebbe avvantaggiato nella carriera.
Wanda, pur conoscendo la omosessualità di Vladimir, volle dedicarsi al grande interprete. Nemmeno la nascita di una figlia, Sonia, allietò la coppia. Il pianista, infelice e nevrotico, si accompagnava con frequenza a uomini. Quando i suoi tradimenti divennero “socialmente” scandalosi, Wanda lo sbatté fuori di casa. Poco dopo però, impietosita lo riprese con sé, ma disperata, confessò: «Mio padre m’ha fatto diventare nevrotica, mio marito pazza».
Stravagante fu anche relazione tra la principessa nera, Iman, top model di Yves Sant-Laurent e David Bowie. I due si sposarono con sfarzo pubblicitario, ma qualche mese dopo la bellissima Iman scoprì che David andava a letto con Michael Jackson. Allibita e infuriata telefonò ad un amico, Kiris Helstin e quello, gelidamente, le fece presente che il quarantaseienne David Bowie, cantore dell’amore moderno, era conosciuto per le sue “particolari “ tendenze sessuali e che il loro, in partenza, era un ménage assurdo.
«Solo tu hai ignorato i suoi gusti» le spiattellò l’amico. Poco dopo Iman trovò David a letto con Mick Jagger. A quel punto chiese il divorzio e ottenne una somma favolosa per gli alimenti.
Negli anni Venti del XX secolo fu oggetto di pettegolezzi il matrimonio tra il newyorkese Robert McAlmon, critico d’arte, e l’aspirante attrice Annie Winifred Ellerman, omosessuale e figlia di un magnate dell’industria inglese. La ragazza, sebbene educata in un clima sessuofobico e repressivo, aveva “esperienze” con ragazze; per “coprire” le sue scappatelle, chiese a McAlmon di sposarla. A Robert non interessava ciò che lei faceva, egli aveva bisogno di soldi, e accettò. I due arrivarono subito alle nozze: Robert per il denaro della moglie, Annie per sfuggire all’ossessivo controllo del gelosissimo padre, sperando di vivere la propria omosessualità all’ombra del matrimonio che la proteggeva.
Per qualche tempo i due coniugi vissero in accordo. Annie scrisse e pubblicò poesie e romanzi sotto lo pseudonimo di Bryher; Robert girò, a spese della moglie, per l’Europa, incontrando i talenti più vivaci del tempo: Eliot, Yeats, Hemingway, Gertrude Stein, Pound, Dos Pasos.
McAlmon pubblicò anche lui un libro dal titolo Being Geniuses Together, che però non ebbe successo. Robert, allora, disperato per il fallimento dell’opera divenne sempre più acido e aggressivo con Annie che, non sopportandolo più, divorziò e andò a vivere con un’amica.
Alla fine dell’Ottocento, un altro legame ambiguo fu quello tra il poeta inglese Thomas Hardy e la scrittrice Emma Lavinia Gifford.
Emma aveva dichiarato la propria omosessualità, ma Hardy volle combattere «il tragico mistero del destino umano e l’ipocrisia della società», e si legò a lei. Tempo dopo però Hardy colto dall’ angoscia per il fallimento del proprio tentativo fu assalito da malesseri psicosomatici. Per distrarsi intrecciò varie relazioni, tra cui, le più importanti quelle con Florence Heniker e con Emily Dudgale. Quando Emma morì, Hardy pentito per le sue distrazioni, dedicò alla moglie una serie di bellissime poesie.
Un’altra coppia “impossibile” fu quella formata dallo scrittore Bruce Chatwin, magnetico, narcisista e bisessuale, e da Elizabeth Thores, un’impiegata di Sotheby’s, alla quale egli s’unì perché gli dava un poco d’allegria, senza però metterla a parte della propria condizione.
Poiché Bruce con la moglie non ebbe rapporti ( preferiva gli efebi e i ragazzi), quando Elizabeth si rese conto della tendenze del marito, tentò il suicidio. Salvata in extremis, abbandonò il coniuge. Bruce dopo quella esperienza visse da nomade e raccontò in libri di grande successo i suoi avventurosi viaggi in tutto il mondo.
Chatwin, viaggiò anche con lo scrittore islamico Salman Rushdie. A causa dei suoi vagabondaggi sessuali, Chatwin contrasse l’Aids e a quarantasette anni morì.
Gli esempi di coppie “impossibili” sono tanti, e non si può ignorare il ménage, frutto di compromessi, tra Marlene Dietrich e Rudolf Sieber, i quali dopo un impossibile matrimonio divorziarono con gran clamore. La loro figlia, Maria Riva, nel 1993 pubblicò su quella unione una biografia impietosa. Ebbe molti amanti. Tuttavia, Marlene fu una donna coraggiosa per molti versi. Quando andò via dalla Germania perché invitata in California, pensò che avrebbe fatto alcuni film e sarebbe tornata in patria. Ma non fu così. Disgustata dalla politica guerrafondaia di Hitler la Dietrich non volle più tornare in patria, nemmeno dopo le vantaggiosissime offerte fattele da Himmler.
Tornò in Europa nel 1937 per una vacanza essendole mancato lavoro in Usa, e sostò in Costa Azzurra, dove divenne amante di Joseph Kennedy e del figlio John Fitzgerald. Passò poi in Francia perché innamorata di Enrik Maria Remarque, e dalla braccia dello scrittore passò tra le braccia di Jean Gabin. Nel 1939 ebbe finalmente la cittadinanza americana e allo scoppio della guerra seguì le truppe statunitensi al fronte. Partecipò alla compagna d’Italia, e risalì lo Stivale al seguite delle truppe alleate, portando un po’ allegria ai soldati. Nella Parigi liberata tornò nel 1944, e incontrò Ernst Hemingway , del quale fu amante. Nel 1945 sempre a seguito delle truppe statunitensi entrò a Berlino vestita da soldatessa americana e ritrovò la madre sessantacinquenne sopravvissuta ai bombardamenti. Visitò i lagher, in cerca della sorella, ma seppe che Anna era stata collaboratrice delle S.S. Non tutti i tedeschi però approvarono la sua totale adesione alla causa americana, e molti dissero di lei che era la femmina della truppe americane. Marlene tornò in Germania 15 anni dopo, ed ebbe un lungo incontrò con Willy Brant, per chiarire la propria posizione politica, ma malgrado ciò, subì l’astio di molti tedeschi. Marlene non si separò mai dal marito, il quale le fece da consulente e da manager.
Solo in casi limitati questo genere di ménage non deflagra in risse memorabili e prosegue su un binario “accettabile”. Ma non si può negare che la maggior parte di queste unioni sono vissute con esperienze frustranti e con umiliazioni dal momento che, dal punto di vista erotico, in questo tipo di ménage, il partner non è oggetto del desiderio. Mancando infatti uno dei cardini dell’unione, l’attrazione fisica, (che invece è presente sia nelle coppie etero che in quelle gay), non è possibile far funzionare il rapporto sin dall’inizio.
E però, non bastano né le frustrazioni né le ambivalenze per impedire che questo genere di ménage a volte perduri a lungo e diventi un insolubile delirio a due.
Il TRIANGOLO NELLA COPPIA
C’è chi ha bisogno di un rapporto immutabile per sentirsi sicuro e chi, invece, mai appagato dalla routine, sperimenta nuovi amori, imbastendo rapporti triangolari. I ménage à trois, a volte sono “accettati”, in altri casi invece sono motivo di tragedie. Quando lo scultore Gianlorenzo Bernini, scoprì che suo fratello Luigi andava a letto con Costanza Bonarelli, la sua amante e moglie d’un assistente del suo studio, sfregiò la donna e cercò di strozzare il fratello.
L’effervescenza amatoria, consueta in casa Savoia, ha creato una serie di “triangoli”. Vittorio Amedeo II, re di Sicilia e di Sardegna, impose come dama di compagnia, a sua moglie, regina Anna d’Orléans, la diciottenne contessa Jeanne Baptistine di Verruca che era la sua amante. Da lei sua Maestà si aspettava molto, perché la regina non gli aveva dato l’erede maschio, mentre la contessa aveva già fatto due maschi col proprio marito. Ma le aspettative regali non furono esaudite: Jeanne Baptistine diede al re una femmina, e Vittorio Amedeo finì col trascurarla.
Per ironia della sorte, di lì a poco la regina Anna diede al marito l’erede maschio legittimo. Vittorio Amedeo II, che non era un “cavaliere”, si disinteressò della sfortunata contessa.
Anche Carlo Alberto, mise su un triangolo. La ragion di stato lo costrinse a sposare Maria Teresa d’Austria e Toscana, ma egli amava la contessa Maria Antonietta Truchsess di Robilant, moglie di uno dei più prestigiosi ufficiali della corte.
Quando Carlo Alberto salì sul trono, chiamò accanto a sé il colonnello di Robilant ed elevò Maria a prima dama d’onore della regina. La contessa visse con discrezione accanto a Maria Teresa e la regina apprezzò la sua compagnia. Il re piemontese, benché avesse sempre evitato i pettegolezzi, non poté evitare che la sua storia d’amore venisse a galla. Forse per colpa della sua vicenda sentimentale, invecchiò e s’incupì anzi tempo.
Il suo successore, Vittorio Emanuele II, instaurò anch’egli un triangolo tra la bella Rosina, e la moglie, la regina Maria Adelaide. Il legame con Rosina, figlia quindicenne del tamburo maggiore dell’esercito, fece tornare al re l’entusiasmo e la voglia di vivere. Vittorio Emanuele II aveva altre amanti, ma per quella ragazza perse la testa, e da lei ebbe molti figli. La regina, rassegnata, permise che Rosa Vercellana abitasse nel parco di Stupinigi, per dar modo al marito di stare vicino ai figli che Rosa gli aveva dato.
A conferma che a casa Savoia, come in tutte le altre case regnanti, le cose andavano per quel verso, Umberto I dopo il matrimonio con Margherita,continuò a dispensare i suoi favori alle più belle donne del regno. Nella lunga lista ci furono l’attrice Emma Ivon, la nobile Vincenza di Santa Fiora, la moglie del marchese La Valle e la “dolcissima” Eugenia Litta Modigliani.
In un triangolo paradossale incappò Francesco Crispi. Egli era sposato con Rosalia Montmasson, stiratrice torinese, gelosa, nevrotica e complessata, ma nel 1877 il sessantenne ministro degli interni, da tempo legato alla trentaseienne Filomena Barbagallo volle regolarizzare la sua posizione, sposandola! A quel punto Rosalia denunziò il marito per bigamia e Crispi fu costretto a dimettersi. Solo grazie a una serie di brogli, il noto uomo politico si salvò dalla galera.
Un curioso e inconsueto triangolo fu quello tra Victor Hugo, sua moglie Adele e il critico Charles A. Sainte Beuve. La devota passione di Charles fece dimenticare ad Adele i diverbi col marito. Victor Hugo, a sua volta, era innamorato di Juliette Drouet della quale diceva che stimolava la sua produzione letteraria. «Senza di lei, non potrei più produrre nulla».
Un altro triangolo di dominio pubblico, fu quello tra l’ammiraglio Horatio Nelson ed Emma Hamilton, moglie dell’archeologo sir William Hamilton. Il vecchio e malandato Lord Hamilton, non volendo perdere la moglie, accettò la passione di Emma per l’ammiraglio, adattandosi a seguire i due amanti per l’Europa.
Pettegolezzi scoppiarono quando Emma diede alla luce una bambina che ipocritamente venne presentata come figlia adottiva. Quando Nelson perse la vita a Trafalgar, Emma Harte Hamilton, disperata, si dette al bere.
Un ménage simile a quello di lady Hamilton e Nelson, legò Ludwig I° Baviera a Mariannina Florenzi, figlia del conte Bacinetti. Quando Ludwig re intellettuale e grande amatore, conobbe Mariannina, «la più attraente delle donne», se ne innamorò perdutamente. Divenuto re, non dimenticò la dama romana, moglie del marchese Ettore Florenzi. Egli cercò conforto in quell’ amore, perché il ménage regale non era dei migliori.
Ezra Pound, poeta schivo e raffinato, marito di Dorothy Shakesperar, quando andò a Parigi s’innamorò della giovane violinista irlandese Olga Rudge, che gli diede il sospirato figlio; ma poco dopo la nascita di quel bambino, per ironia della sorte, anche Dorothy restò incinta, e da quel momento Pound visse contemporaneamente con la moglie, il figlio Omar, Olga e l’altro figlio.
Un triangolo vissuto schiettamente legò il critico d’arte Lionello Giorno a Linuccia Saba e al pittore Carlo Levi. Levi coabitava con Liuccia e col di lei marito, il quale non si ribellò mai al trentennale legame della moglie col pittore.
Stravagante triangolo anche quello tra il poeta Vladimir Majakovskij, la scrittrice e regista Lilia Jurevna Kagan e il marito di lei, il critico letterario Osip Brik.
I Brick continuavano a vivere assieme, malgrado il legame di Lilia con Majakovskij, ma questi era molto geloso del marito. Così, quando per caso i coniugi Lilia e Osip volevano fare all’amore, per non esser disturbati da Vladimir, chiudevano a chiave la porta della stanza del poeta per restare in intimità. Se Vladimir se n’accorgeva, scoppiava in eccessi d’ira furiosa.
Quando David Lloyd Gorge cancelliere dello scacchiere inglese, a quarantanove anni, s’innamorò di Frances, giovane insegnante della figlia, la volle sua segretaria particolare. Frances entrò nella vita di David, col quale condivise per anni ore ed ore di lavoro, tempo libero, viaggi e quant’altro capitava al “suo uomo”. Un triangolo chiaro e gestito civilmente quello tra lo psicoanalista C G Jung, sua mogli Emma e la signorina Toni Wolff. . Jung entrò così in intimità con Toni e le confessò che era caduto in depressione dopo la rottura con Freud .Quella confessione cementò ancor più l’unione tra la paziente e il terapeuta. La Wolff si era legata a doppia mandata al suo medico, e affermava che se si separava da Jung tornava ad essere depressa. Jung si trovò dunque alle prese con un problema che gli era giù sorto in precedenza, ma che non aveva affrontato mai seriamente: la constatazione che si possono amare contemporaneamente due persone: nel suo caso, la moglie Emma, che era la madre dei suoi figli, e la signorina Toni Wolff, della quale apprezzava le capacità “scientifiche” e di sintesi e che lo aiutava nelle ricerche “creative
Del presidente francese Mitterrand si ricorda l’avventura dalla quale gli nacque una figlia. Mitterrand, che era sposato, di quella relazione e della figlia tacque sempre, e solo quando una giornalista rese pubblica la notizia, lo statista ammise i fatti.
Una vicenda molto riservata, in verità, quella tra l’ex cancelliere tedesco Helmout Kohl e la sua segretaria personale, Juliane Weber. Con essa Kohl discusse sempre tutte le sue azioni politiche. La moglie, signora Hannelore, che aveva “digerito” quel modus vivendi del marito, trascorse buona parte della sua esistenza studiando e interessandosi d’arte.
Insomma, i triangoli sono situazioni pericolose, ma in qualche caso nessuno se ne cura più di tanto.
SINDROME DI CLEROPATRA E COMPLESSO DEL DONGIOVANNI
Nella nostra epoca le apparenze a volte valgono più della sostanza e soprattutto il sex-appeal apre le porte del successo più di ogni altro valore, più della cultura e talvolta persino più dell’intelligenza.
Convinti che la bellezza sia tutto, alcune donne e alcuni uomini che ne sono dotati particolarmente se ne servono cinicamente. La sindrome di Cleopatra è il disturbo sexy-narcisistico che colpisce donne che si ritengono “fatali”. Chi è affetto dal complesso del “dongiovanni” incarna l’archetipo del libertino, cinico ma irresistibile. Superbia e fierezza, egocentrismo e vanità, ostentazione di raffinatezza e, nel contempo, arroganza, ambiguità e irrisione, sono tratti comuni ad entrambe le incarnazione del narcisismo, quella femminile e quella maschile.
Tuttavia, secondo gli psicologi, le persone narcisiste nascondono a malapena una “nevrotica” profonda disistima di sé e così sono, paradossalmente, angosciate.
Il loro narcisismo copre appena le loro insoddisfazioni interne.
L’atteggiamento definito “gallismo”, o “dongiovannismo”, è presente sia nella vita che nella letteratura, così come è comune nella vita e nella letteratura la sindrome di Cleopatra. Per fare degli esempi letterari, il protagonista de “Il bell’Antonio”, di Brancati è il clou della vanità maschile, e Madame Bovary di Flaubert è l’emblema della esibizione narcisistica femminile.
Cleopatra, viziata dal padre, era vanagloriosa, tronfia e dominata da smisurata passione per il potere. Non era bella, ma il suo sex-appeal era irresistibile. Narcisista, astuta, era sicura di arrivare dove voleva utilizzando il proprio eros.
Quando il vecchio Pompeo inviò il figlio in Egitto per “trattare” un’alleanza con la regina, Cleopatra si concesse al giovane, credendo che costui avrebbe sostituito il padre nella guida di Roma. Ma fece male i suoi calcoli: il vecchio Pompeo fu sconfitto da Giulio Cesare. Cleopatra, allora, senza esitazione, abbandonò il figlio del vinto, ed entrò nel letto del vincitore Giulio Cesare e con l’uso appropriato di moine e leziosaggini, lo incantò. Quando questi fu ucciso, la regina non si perse d’animo e sedusse Marc’Antonio, divenuto il numero uno. Costui s’innamorò perdutamente di Cleopatra, ebbe da lei tre figli. Con smodata volontà di primeggiare, l’egiziana spinse l’amante ad attaccare Ottaviano per conquistare l’Impero. Antonio venne però sconfitto e si uccise. Cleopatra non si diede per vinta. Andò da Ottaviano Augusto, nuovo numero uno, sfoderando l’accattivante sex-appeal col quale aveva abbindolato Cesare e Antonio. Ma Ottaviano non si lasciò ammaliare, e la regina,vistasi perduta, pose fine ai propri giorni.
I casi simili a quello di Cleopatra in cui vi è un ossessivo desiderio di primeggiare, hanno origine da un’infanzia vissuta al centro dell’attenzione oppure derivano, viceversa, da un’infanzia sfortunata come quella di Cenerentola, in cui è andato tutto storto. In ogni caso, i comportamenti delle cleopatre e quelli dei dongiovanni testimoniano l’esistenza di ferite narcisistiche e la conseguente necessità di “risarcimento” che si manifesta nel bisogno di essere sempre al centro dell’attenzione.
Esibizioniste, mitomani e seduttive furono Messalina e Agrippina. Egocentrica e narcisista, Zoe, figlia di Costantino VIII, accolse nella propria alcova gli uomini che le potevano consentire la conquista del potere. La nobile romana Marozia faceva leva sul proprio charme per dominare in politica. Fu amante di papa Sergio III, e grazie a ciò poté spadroneggiare in Roma. In Francia, la Pompadour, con le sue moine e richiami erotici manipolò il monarca tant’è che chi voleva far carriera doveva rivolgersi a Madame, e magari passare dal suo letto.
Virginia Oldoini, Contessa di Castiglione, cugina e amante del Cavour, con la sua provocante bellezza dominò molti politici, tra cui Napoleone III, che, affascinato da quella “stupenda creatura”, intervenne in favore dell’Unità d’Italia.
Barbara Hutton, miliardaria egocentrica e vanesia, ebbe tutto ciò che voleva. Ebbe molti mariti e molti amanti, ma fu infelice. Temendo che gli uomini l’amassero per i suoi soldi, trattò tutti con alterigia e, come accade in questi casi, non ebbe mai amici sinceri. Smaniosa del successo Zsa Zsa Gabor, fascinosa, altezzosa e spregiudicata, visse alla ricerca della popolarità e del dominio sugli altri. Sebbene si mostrasse briosa, Zsa Zsa in privato era infelice. Le persone narcisiste ritengono le mancanze di attenzione nei loro riguardi cocenti e disastrose sconfitte. Afflitte da una maniacale paura del giudizio della gente, queste persone sono timide anche se in pubblico si mostrano aggressive e sferzanti. In realtà, esse sono sempre in bilico tra entusiasmo sfrenato e depressione devastante, e vanno incontro a gravi defaillance.
Barbara Stanwyck all’approssimarsi della vecchiaia affogò nell’alcol la sua depressione. Greta Garbo, a trent’anni, non sopportando la prospettiva del suo declino, si chiuse in casa e visse melanconicamente per altri trenta anni. Jean Harlow brillante diva degli anni Trenta, sotto la maschera di sex- symbol ebbe una vita travagliata e amara. Rita Hayworth, esuberante e fascinosa femme fatale, terrorizzata dalla decadenza fisica, divenne alcolista
E tuttavia, malgrado tanta fragilità interiore, queste persone “appariscenti”, utilizzando al meglio il loro sex appeal, e sebbene si distinguano spesso per arroganza e alterigia, riescono ad affascinare. La “maliarda” è sponsorizzata dai media come symbol di femminilità, e l’uomo narcisista è ritenuto l’élite maschile, “colui che non deve mai chiedere”. Questo genere di individui, donne o uomini che siano, hanno un’interiorità limitata, perché la loro vita è solo protesa a valorizzare le apparenze e l’immagine esteriore. E tuttavia riscuotono successo.
Porfirio Rubirosa fu un dandy dalle vicende banali ma di lui si occuparono i rotocalchi perché rappresentava il sex-symbol del momento. Cacciatore di dote, frequentò l’alta società, fu ospite dei Kennedy, dei Rothschild, del Maharaja di Jaipur, dei reali di Iugoslavia. Ebbe ricchi doni dalle “ammiratrici”, dalle amanti e dalle donne che sposò. Lo amarono Flor de Oro, figlia di Truijllo; l’attrice Danielle Darrieux; Doris Duke erede del magnate del tabacco; la miliardaria Barbara Hutton; la ricchissima fotomodella Odile Rodin. Fu amato pure da Zsa Zsa Gabor, da Dolores del Rio, da Ava Gardner, da Joan Crawford, da Jayne Mansfield, da Susan Hayward.
Ma con nessuna di queste donne Porfirio ebbe legami profondi. Esse, dopo i primi fuochi, erano deluse, ritenendolo narcisista e fatuo. Rodolfo Valentino, sex-symbol dell’inizio del ‘900, per volere della casa produttrice, ad ogni nuovo film, imbastiva una liaison con l’attrice più “in” del momento. Una fiction che faceva presa sul pubblico e riempiva le sale cinematografiche. Pochi però sapevano che a Rodolfo Valentino non piacevano le donne.
Gli “irresistibili” seduttori, maschi o femmine che siano, sono spesso individui frivoli, capricciosi e superficiali. La loro mondanità si fonda sull’apparenza, e molti di essi sono fatui ed egocentrici. Tuttavia il loro narcisismo ha “presa” e fa breccia sul pubblico. Il gioco vanesio, vuota sceneggiata, affascina al punto che le frivole cronache mondane portano alla ribalta e “valorizzano” i narcisi e le narcise. Affermava Oscar Wide, «È possibile l’esistenza di seduttori vanesi e futili perché alcune persone, altrettanto effimere, sono orgogliose di farsi sedurre da questi personaggi». Spesso le donne colpite dalla sindrone di Cleopatra sono affascinate da narcisistici dongiovanni e viceversa; tuttavia, l’accoppiata tra due personalità che “devono primeggiare per sentirsi vivi”, non sempre è duratura: si veda, tanto per fare un esempio, il caso Nicole Kidman e Tom Cruise.
Cleopatre e maschi ruspanti, pur essendo al centro delle cronache perché rappresentano un invidiato status symbol, sono però in privato persone fragili, destabilizzate soprattutto dalla paura di un veloce declino del loro sex-appeal.
«E tuttavia, purtroppo – lamentava il sociologo Herbert Marcuse – in alcuni settori della società sono proprio queste le persone più di spicco»
Sulla “salute” della coppia influisce più di quanto non si pensi l’ingerenza dei genitori dei partner. Non è un caso, infatti, che la letteratura abbia creato le figure della madre-suocera che influenza il ménage del figlio e del padre-suocero che ha un peso determinante sugli atteggiamenti della figlia nella relazione di coppia.
“Edipismo” è la parola scelta da Sigmund Freud per indicare la persona che non si è affrancata dalla dipendenza emotiva con i genitori. L’edipismo è dunque quel particolare stato d’animo che lega il figlio alla madre al punto da non lasciargli spazio per apprezzare altre donne. Ed edipica è la donna il cui unico ideale maschile è il proprio padre, per cui non riesce a stimare altro uomo fuorché il genitore. Freud affermava che i lapsus degli edipici sono i più semplici da decifrare: infatti, spesso al “lui edipico”, parlando della moglie, scappa involontariamente di dire “mia madre” e la “lei edipica”, volendo parlare del marito, sbaglia e dice “mio padre”.
Sostiene Freud che se s’instaura una situazione edipica, se cioè “lui”, anche inconsciamente, vuole trovare in “lei” l’immagine della madre e se “lei”, magari senza rendersene del tutto conto, spera proprio che il suo “lui” sia eguale al proprio padre, è possibile che, se non raggiungono con i loro partner quella loro “inconfessata” aspirazione, gli edipici finiscono col mandare in frantumi la coppia.
Infatti, né l’edipico né l’edipica s’accontentano mai dei partner che non trovano conformi ai loro genitori. E però, paradossalmente, a volte quando gli edipici intuiscono, anche senza rendersene chiaramente conto, che il partner ha una affinità col proprio ideale genitoriale, il problema invece di risolversi s’ingarbuglia, perché questa rassomiglianza crea, tra luci e ombre affettive, una confusione emotiva che determina risultati perniciosi.
La madre di Edmondo De Amicis era possessiva e gelosa al punto da non volere che il figlio prendesse moglie. Lo scrittore, sottoposto a quel continuo imbonimento psicologico non poté che essere edipico, tant’è che in tutta la sua vita non apprezzò mai nessuna donna al di fuori della genitrice. Edmondo però, in un momento di crisi esistenziale, sposò in gran segreto e col solo rito religioso, Teresa Bassi; ma dopo il matrimonio, non avendo il coraggio di comunicare il suo passo alla madre, continuò a vivere con lei. Nemmeno quando nacque il primo figlio De Amicis ebbe il coraggio di confessare alla sua vecchia che s’era sposato. E fu solo dopo la nascita del secondogenito, che lo scrittore andò a vivere con la moglie, ma lo fece di mala voglia. Così la stessa Teresa raccontò l’ingresso di Edmondo nella dimora dove abitavano moglie e figli: «Sedette a tavola cupo e torvo e mormorò: “Qui mi pare di essere in albergo”.
Edmondo regolarizzò poi il matrimonio col rito civile, per amore dei figli. Dopo il suicidio del primogenito Furio, Teresa esasperata dall’indifferenza del marito verso la famiglia, accusò Edmondo, autore del libro Cuore, di essere stato un padre senza cuore.
Il pittore Edgard Degas è un altro esempio di edipismo. La sviscerata “predilezione” verso la madre è segnalata dalle sue preferenze estetiche. Degas affermava di far ricorso ai ricordi d’infanzia per dipingere figure femminili. L’artista ebbe a confessare che, per la Donna che riposa dopo aver fatto il bagno, s’era ispirato a sua madre, perché da bambino l’aveva vista più volte fare il bagno nuda. Lo stesso accadde per i quadri della Donna che si fa lisciare i capelli e de La stiratrice ove è facile trovare le radici nel passato del pittore, il quale volle ricreare le emozioni che provava vicino alla mamma, donna che lo condizionò al punto che egli dipingeva personaggi femminili «per poter scandagliare tutti gli aspetti della femminilità materna». «Nessuna donna può essere bella come mia mamma. Nessuna potrà mai eguagliare la sua grazia. Nessuna avrà l’eleganza dei suoi gesti» ammise Degas.
L’antropologo Desmon Morris ritiene che l’amore è un misto di passato e presente, perché a volte, nel rapporto di coppia, dice Morris, c’è chi ha la “necessità” di ritrovare l’unione simile a quella dei propri genitori.
Un caso esplicito di edipismo si riscontra nel rapporto tra Christina Rossetti e suo padre, il pittore e letterato Gabriele Rossetti. Essi abitarono a Londra tra il ‘700 e l’800 e nella capitale inglese era risaputo che la ragazza era oggetto d’uno sviscerato amore paterno. Forse fu anche per questo che Christina mostrava segni di nevrosi, afflitta com’era dall’affannoso dramma che portava nel cuore. Papà Rossetti aveva coinvolto tanto affettivamente la figlia, che costei rifiutò più volte di sposarsi, e non solo per i sentimenti mistici che primeggiavano nella sua mente (era convinta anglicana) e che le impedivano d’accettare la pulsione erotica, ma anche e soprattutto perché coinvolta dall’amore esclusivo per il padre, passione che aveva cancellato il lei ogni altra possibilità di affetto e che le impedì di “tradire” il genitore.
Anche il filosofo Agostino fu edipico e “vittima” di una madre possessiva. Nato a Tagaste da un Patrizio pagano benestante ed ambizioso, non amò il padre, perché costui si divertiva alle spalle del figlio quando questi veniva bastonato dal maestro e anche perché tradiva la madre.
Il giovane non aveva troppi motivi per amare il genitore. Egli era invece legato alla madre, la quale profondeva su di lui tutto il proprio affetto e odiava il marito a causa delle infedeltà e della violenza con la quale la trattava.
Il filosofo subì pertanto una doppia eredità educativa: quella licenziosa del padre e quella pudibonda della madre. A partire dai 18 anni Agostino ebbe una relazione con una donna che amava teneramente e che gli diede un figlio. Ma egli nascose il ménage alla madre e, quando questa ne venne a conoscenza, per sfuggire ai rimbrotti materni, Agostino andò via da casa di nascosto, portando con sé la donna con cui viveva e il figlio. Il filosofo fu prima a Roma e poi a Milano. Sua madre indispettita dal tradimento del figlio lo raggiunse da lì a poco e lo convinse ad abbandonare la donna che egli amava e a rimandarla in Africa. In questo modo insisteva la madre, egli sarebbe stato libero di sposarsi “in maniera regolare”.
Monica dunque influì in modo determinante nelle “scelte del figlio” e spinse Agostino a cercare una sposa ricca. Poiché la concubina con cui il figlio stava da tempo non era ricca la madre lo esortava a trovare una donna che gli portasse una buona dote. Monica si mise in cerca di una moglie per il figlio e la individuò in una dodicenne di famiglia agiata e nobile. Concluso il fidanzamento, ad Agostino restava da aspettare due anni per contrarre matrimonio, essendo la ragazzina al di sotto dell’età minima matrimoniale. Nel contempo la famiglia della promessa sposa impose al fidanzato l’allontanamento della concubina. A quel punto Monica ebbe buon gioco nell’indurre il figlio a scacciare la donna che egli amava da tanti anni. Il filosofo suggestionato dalla genitrice, mandò via l’amata compagna in Africa ma tenne con sé il figlio. Di quella donna il filosofo si disinteressò per il resto dei suoi giorni, e, cosa davvero singolare, non impalmò nemmeno la promessa sposa, per la quale aveva abbandonato la donna che amava. Infatti, Agostino andò via da Milano prima del matrimonio e dopo un periodo romano, tornò in patria.
Moralista e puritano (ma solo in apparenza) fu lo scrittore scozzese Robert Louis Stevenson, il quale, vissuto in una famiglia conformista ottocentesca, con una madre oppressiva ed ossessivamente preoccupata di ciò che lui faceva o di ciò che gli accadeva, per cercare di ribellarsi a quell’oppressione, in California, sposò, di nascosto dai suoi familiari, Fanny Osborne, un’americana, divorziata e madre di due figli, conosciuta in un viaggio.
Dopo lo scandalo, venne perdonato da suo padre, ma la madre non accettò mai la signora Osborne come nuora. E Robert fu fortemente condizionato dal giudizio della madre nei confronti della nuora, tant’è che il ménage con la Osborne non fu sempre sereno.
Lo psicoanalista Aldo Carotenuto sostiene che quando una persona cerca un partner simile al proprio genitore, se non smette tale propensione, non matura mai, e il rapporto di coppia che si viene a costituire, essendo posto su basi infantili, non può mai diventare un ménage tra adulti.
Per ironia della sorte anche Freud fu edipico, tant’è che nella sua biografia si trovano tutti gli ingredienti che egli, come scienziato, aveva formulato in questi casi: Sigmund odiò più o meno inconsciamente il padre, amò teneramente la madre, e, forse in conseguenza di ciò, non ebbe un rapporto molto profondo con la moglie Martha, affatto diversa da sua madre. Ma Freud, da esperto psicologo, seppe gestire quella materia matrimoniale “esplosiva”, senza uscirne sconfitto.
Il suo esempio indica che, infondo, anche se un partner è edipico, c’è qualche speranza che la coppia non scoppi.
Spesso la letteratura erotica è stata misconosciuta o nascosta. A PARIGI è andata all’ asta la seconda parte della collezione di letteratura erotica in esposizione da Christiés – di Gerard Nordmann, uomo d’ affari svizzero morto nel 1992.
Le mille opere, datate dal 1527 al 1975, che formano questa Biblioteca di letteratura erotica unica al mondo, sono libri, quaderni manoscritti, lettere e documenti mai dispersi prima. Alcune delle opere in vendita in questo secondo round sono un libro di miniature finemente decorato dell’ inizio del 19esimo secolo stimato tra i 10.000 e i 15.000 euro. ‘Le con d’ Irené di Louis Aragon, con illustrazioni di André Masson e una rilegatura erotica di Leroux in pantera e daino rosa con illustrazioni d’ acqua forte, vale dagli 8.000 ai 12.000 euro.
C’ è inoltre una delle famose sceneggiature manoscritte scandalose e parossistiche di George Bataille, ‘Le mort’, in una magnifica rilegatura in skai brillante stimata tra i 50.000 e i 70.000 euro. Il secondo tomo dell’ edizione del 1791 di ‘Justine ou les Malheurs de la vertu’ del Marchese de Sade viene venduto a partire da 18.000 euro. ‘Emmanuelle’, il libro erotico rilegato in-folio di Emmanuelle Arsan e illustrato da René Decol vale tra i 2.000 e i 3.000 euro mentre ‘Racconti e novelle in versi di La Fontaine’, scritto dalla Duchessa Du Barry per Luigi XV, illustrato con 29 miniature libere viene stimato tra i 70.000 e i 90.000 euro. Tra le oltre 500 opere in vendita ci sono altri nomi noti da Guillaume Apollinaire a Pablo Picasso La vendita della prima parte, poco più di 400 pezzi, l’aprile scorso, aveva raccolto 2,7 milioni di euro. Tra le opere figurava anche quella che viene considerata la prima opera erotica dei tempi moderni, i famosi ‘Sonetti lussuriosi’ dello scrittore Pietro Arentino(1492-1556) – unico esemplare illustrato con le famose “posizioni” del pittore Giulio Romano nell’ edizione del XVI/mo secolo che fu prima vietata, poi imitata – acquistata per 325.600 euro, una somma record per un libro erotico venduto all’ asta.
C’erano inoltre il ‘Catalogo cronologico e descrittivo delle donne con cui ho fatto l’ amoré – un quaderno manoscritto, illustrato con fotografie e tenuto con cura dallo scrittore Pierre Louys tra i suoi 18 e 25 anni, fino al 1895 – stimato 60.000 euro; i manoscritti originali del contadino Alexandre-Jean-Joseph Le Riche de la Popeliniere (1693-1742) intitolati ‘Les tableaux des moeurs du temps dans les differents age de la vie’ (1750) di cui si conoscono solo due stampe e che sono stati valutati tra i 100.000 e i 150.000 euro.
Tra le produzioni più recenti c’erano ‘Le grand ordinaire’ di André Thirion con i disegni di Oscar Dominguez del 1934 a partire da 45.000 euro; l’ originale del celebre romanzo erotico ‘Histoire d’O’ – 625 pagine manoscritte a matita e penna a sfera blu da Dominique Aury sotto lo pseudonimo di Pauline Reage – pubblicato nel 1954 da Jean-Jacques Pauvert e che era stimato tra gli 80.000 e i 120.000 euro. Verlaine, Sade, Apollinaire, Voltaire, Dali, Flaubert, Rimbaud erano tra gli altri nomi celebri dell’ esposizione e le loro opere, spesso illustrate, erano quotate fino a 60.000 euro. Quello che appassionava Nordmann era la varietà in cui s’ esprime l’ amore, la sua fascinazione per l’ incontrollabile energia del desiderio e il suo potere di trasformazione infinito: “il desiderio comincia, per quanto riguarda l’ intensità delle sue immagini, non nell’ insieme percettivo ma nel dettaglio”.
L’ uomo d’ affari aveva cominciato a collezionare libri erotici verso la metà degli anni ’70 e fino alla fine della sua vita ha coltivato questa passione, arrivando ad assemblare una delle piu’ importanti collezioni del XX/mo secolo. Proprio Nordmann era riuscito ad acquistare il mitico manoscritto delle ‘Cento giornate di Sodoma’, di Donatien Alphonse Francois, Marchese de Sade, oggi esposto alla Fondazione Martin Bodemer di Ginevra dove Monique Nordmann lo ha deposto riconoscendo l’ importanza di questo monumento della letteratura in cui sono evocate 600 perversioni considerate ‘asociali’.
IL SESSO, UNA QUESTIONE DI PILLOLE?
Grande clamore ha destato la scoperta del Sildenafil, sostanza sperimentata dalla casa farmaceutica Pfizer e reputata, in un primo tempo, un possibile antidoto all’angina pectoris e in seguito, ritenuta un “afrodisiaco” e venduta col nome commerciale di “ Viagra”. Il prodotto, che ha alcuni effetti collaterali (mal di testa, vampate di calore, disturbi della digestione), deve essere utilizzato una sola volta al giorno e, ha, pare, come risultato concreto, un lieve “potenziamento” fisico accompagnato da un “maggior controllo”.
Ma, a parte l’utilità vera o presunta di questa sostanza, ciò che è più interessante è il boom di richieste del prodotto, il numero delle imitazioni che, all’estero, si moltiplica mensilmente, e la convulsa commercializzazione persino via Internet. In Italia la pillola non sarà in commercio prima del prossimo autunno, ma già le richieste e le attese trepidanti si fanno sentire presso le farmacie.
Il “caso” è da analizzare dal punto di vista sociologico e psicologico poiché da millenni c’è il ricorso agli afrodisiaci, sostanze che determinano un vero o presunto aumento delle “prestazioni”. Molti afrodisiaci, champagne, pepe, noce moscata, cheratina, damiana, prostaglandine, testosterone e cerotti “virilizzanti” danno qualche blando risultato, mentre alcune sostanze agiscono irritando le mucose delle vie genito-urinarie, e altre, come la cantaridina, sono tossiche e in qualche caso persino mortali. La Ioimbina, per esempio è un alcaloide ricavato da una pianta dell’Africa e usato dagli indigeni perché provoca un aumento della eccitabilità nervosa.
Ma nella maggior parte dei casi i prodotti afrodisiaci sono frutto di antiche superstizioni, come nel caso del corno di rinoceronte che altro non è se non una sostanza del tutto simile a quella delle unghie umane. Tuttavia, mentre nessuno berrebbe un infuso di unghia, c’è chi spende cifre da capogiro per ingurgitare speranzoso la cheratina, una sostanza del tutto simile alle unghie, estratta però dal corno del rinoceronte, e il cui unico effetto, pare, sia quello di irritare l’apparato genitale dando così l’impressione di “essere efficace”.
Altro “placebo” è il muschio del Tonchino, secreto da un animaletto la cui specie è minacciata d’estinzione, proprio perché, ritenuta utile ai fini afrodisiaci.
Poiché i risultati di tutte queste “pozioni” sono discutibili, bisognerebbe considerare il problema sgombro dalle banalità, dai miti, dalle oscure paure e dall’ignoranza, tutti handicap che creano condizioni deleterie per una buona sessualità.
Si potrebbe comprendere così che il sesso non è una faccenda da demandare alle pillole, e che nella maggior parte dei casi, gli “afrodisiaci” più efficaci partono dalla mente, e sono la serenità e la libertà di pensiero. Infatti è solo la convinzione che il sesso sia atto di simpatia verso il partner, e non una competizione o, peggio, una prevaricazione o una violenza, che può rendere gioioso un rapporto.
Avere la mente sgombra dai luoghi comuni e dai preconcetti crea l’ottimismo necessario e la sintonia psicologica ed erotica indispensabile per un dialogo fisico e spirituale col partner.
Senza queste premesse, senza purificare la mente dalle “scorie”, nessuno stimolante può essere se non una squallida forzatura.
VITALIANO BRANCATI E IL GALLISMO
Un problema solo Meridionale?
Il gallismo è una delle tante “questioni meridionali” irrisolte e forse troppo spesso equivocate.
Uno dei portavoce più efficaci di questo “costume” è Vitaliano Brancati, le cui opere hanno posto in luce l’immobilità angosciosa, l’eterna pigrizia, l’atteggiamento immaturo del maschio provinciale nei confronti della donna, raccontandoli ora con grottesca ironia, ora con amara rassegnazione.
Su questa piattaforma critica si svolge tutta l’opera del narratore siciliano, dal Don Giovanni in Sicilia a Paolo il caldo, da Gli anni perduti a La governante.
Brancati racconta le vicende dei suoi protagonisti mettendo in luce che in essi prevale quasi sempre l’interesse privato. Sebbene essi sentano qualche volta la vacuità degli ideali vissuti nei rapporti sociali più elementari, non tentano mai di liberarsene, di opporsi ad essi, anzi li assecondano e li vivono quotidianamente magari come una inevitabile calamità.
Il protagonista brancatiano è disarmato di fronte alle ferree leggi della società in cui vive: egli non le supera, non tenta di riformarle, le descrive e le subisce. Il suo cammino umano e sociale è segnato da un senso di incombente fatalità ed è guidato da un destino ineluttabile al quale non è possibile sfuggire.
Ma se l’ambientazione nella quale si svolgono le trame dei racconti di Brancati è quella tipica del Sud, la critica dell’Autore nei confronti di quella mentalità, è più generale e non si limita solo alla società che egli descrive nelle sue opere: essa va certamente oltre e rappresenta un netto ripudio per un più comune atteggiamento e un caustico rimprovero per quell’orientamento ideologico che vede nella donna un semplice oggetto di conquista e di piacere o che la considera un simulacro materno da adorare al pari di un nume tutelare.
Portata all’attenzione generale negli anni Cinquanta come cronaca quotidiana delle regioni insulari; analizzata come fatto sociale tipico del Sud e raccontata nella letteratura, nei film e nel teatro talvolta anche in modo folkloristico, da scrittori, registi e drammaturghi, ha avuto un’eco così vasta da farle varcare i confini regionali nei quali era stata individuata.
La risonanza di queste tematiche indica l’inesauribilità di un argomento che ricorre spesso sotto vari aspetti: sociologico, letterario e psicologico, e che deriva dal fatto che personaggi, figure, situazioni, che fanno parte del “gallismo”, rappresentano stereotipi e aspetti di vita che non sono tipici solo della nostra Isola.
Il gallismo, infatti, non è un atteggiamento esclusivamente meridionale: esso può essere riconosciuto e individuato in aree sociali molto più ampie di quelle descritte come cassa di risonanza del maschilismo mediterraneo. La timidezza con le donne, la mancanza di dialogo con la partner, la tendenza a vedere il proprio mondo maschile come l’unico possibile, l’accidia dei personaggi il cui unico scopo è “conquistar donne”, i gruppi di giovani e di meno giovani che passano il tempo a discutere di donne e di avventure da favola, senza peraltro raggiungere alcuna concretezza, la incomunicabilità con l’altro sesso, sono sì fenomeni del mondo meridionale, ma non solo di quello.
Leggendo fra le righe si comprende che l’interesse di Brancati non è solo per la società meridionale. Egli ha costruito delle “maschere” che possono essere collocate in qualsiasi regione, e in qualsiasi contesto. Anche presso popolazioni più evolute e negli strati sociali più liberi, il fenomeno del maschilismo e del gallismo è presente e crea ancora situazioni inquietanti. Secono Brancati l’infelicità individuale dipende proprio da questa atavica base culturale che ha come lite motive la rassegnazione tipica di società che tutto sommato avrebbero invece il diritto di potersi ritenere felici. Quotidianamente oppresso dalla vecchia trama di consuetudini e di convinzioni, il protagonista piccolo-borghese subisce la costante pressione ambientale che gli impone di conseguire gli obbiettivi sociali consoni al proprio status sociale.
Il protagonista dell’erotismo frustrato non si chiama dunque solo Paolo o Fifì: potrebbe chiamarsi anche Hans, Pierre, Ivan, William. E’ questo, credo, il messaggio più profondo di tutta l’opera dello scrittore di Pachino.
Il cavaliere servente, o cicisbeo, fu una invenzione del Seicento. Sorse in seguito al fatto che i matrimoni erano quasi tutti di convenienza e non v’era alcuna intesa né alcun affiatamento sentimentale tra marito e moglie. Il legame spirituale si verificava dunque tra la signora e il cicisbeo. Il cicisbeato, in pratica, consentiva che un uomo “frequentasse”, senza scandalo sociale, la moglie di un altro. Pare che l’usanza abbia avuto origine a Genova, e da li si sia diffusa in Italia e in Europa. Sebbene criticato dagli Illuministi, questo istituto sociale durò fino alla metà dell’Ottocento. Fu così diffuso che in molti contratti matrimoniali le spose facevano includere il nome di uno o più cavalieri che esse desideravano avere al loro fianco. Il cicisbeato, fu, in altri termini, la risposta di un femminismo ante litteram, al maschilismo imperante.
I compiti del cavaliere servente erano quelli di aiutare la dama ad abbigliarsi con gusto, di accompagnarla in chiesa, di esserle a fianco durante le passeggiate, nelle visite, al teatro e di servirla in tutto ciò che le fosse utile. Il cicisbeo sostituiva il marito che, talvolta, paradossalmente, a sua volta, era impegnato come cavaliere presso un’altra dama. Data l’intimità che s’instaurava tra la signora e il cavaliere, accadeva che questi a volte sostituiva il marito in tutto e per tutto, e ciò quasi sempre senza scandalo e senza gelosia del coniuge. Il concetto di “tradimento” in amore infatti iniziò solo a partire dalla secondo metà dell’Ottocento. Tuttavia bisogna sottolineare che l’intimità sessuale tra signora e cicisbeo non era “la regola”, come maliziosamente si potrebbe supporre. E, come non sempre il cicisbeo diveniva l’amante della dama alla quale “prestava servizio”, così non tutti i mariti “lasciavano correre” se notavano del tenero tra i due.
Cicisbei furono anche uomini illustri. Vittorio Alfieri non prese moglie e preferì far da cavaliere a varie signore dell’alta società. Con esse intavolò relazioni “senza impegno alcuno”. Cristina Emerenzia Imholf, Penelope Pitt, la marchesa Gabriella Turinetti di Prié, Luisa Stolberg-Geden, la contessa d’Albany, furono “servite” dall’Alfieri, ed essendo già sposate, evitarono allo scrittore “il fastidioso inghippo del matrimonio”. In alcuni casi, però, l’Alfieri non poté schivare il duello con qualche marito bilioso. È singolare che l’Alfieri, sebbene praticasse il cicisbeato, abbia deriso tale usanza nella commedia “Il divorzio”.
Nota è pure la satira del cavaliere servente che fece il Parini ne “Il Giorno”, e altrettanto risapute le condanne di questa “abitudine” fatte da letterati come il Forteguerri e il Muratori. Il critico letterario Giuseppe Baretti, alla fine del ‘700 ne La frusta letteraria invece difese l’istituzione, ritenendola “utile” alle signore che, «senza di essa sarebbero rimaste prive di compagnia, essendo i mariti impegnati in altre faccende».
Favorevole fu anche Vittorio Imbriani, patriota e letterato, che nelle riviste L’Araldo e Fanfulla esaltò i “benefici sociali” dell’amicizia tra dama e cicisbeo. Il Leopardi, schivo e solitario, fu anch’egli un cicisbeo. Corteggiò molte dame, ma senza troppa fortuna. La «languida e senza mordente», Fanny Targioni Tozzetti che gli ispirò le liriche del ciclo di Aspasia, non accettò la sua corte; e nemmeno l’irlandese Margaret Mason, femminista che aveva abbandonato marito e figli per vivere liberamente, si concesse al poeta.
L’incapacità a dichiarare i propri desideri apparve in tutta la sua drammatica realtà quando Leopardi fece il filo alla contessa Elena Mastiani Brunacci, le cui relazioni amorose, note a tutti, avrebbero dovuto spingerlo a osare di più. Ma Giacomo, pur invaghito della donna, che per altro lo desiderava, non seppe andare oltre “la pura amicizia”. Lo stesso accadde con la nobile Sofia Vaccà Berlinghieri e con la gentildonna Lauretta Parra. Sebbene entrambe si contendessero il poeta nei loro salotti, Giacomo, pessimista e poco intraprendente, non esternò il proprio amore. Non seppe “dichiararsi” nemmeno alla principessa Carlotta Bonaparte, con la quale aveva stretto amicizia durante un soggiorno a Firenze.
Vicenda curiosa fu quella di Giulia Guicciardi, allieva prediletta di Ludwig von Beethoven. A lei il musicista dedicò la sonata “Al chiaro di luna”. Di lei Ludwig era innamorato, ma non ebbe il coraggio di esternarle i propri sentimenti. La ragazza era infatuata del musicista, ma dopo aver atteso invano una parola d’amore dal maestro, sposò il proprio cavaliere servente, il conte di Gallenberg e andò via con lui da Vienna, lasciando Ludwig afflitto ed umiliato.
Ma se il cicisbeato si può considerare “a beneficio” delle donne, il concubinato, modello più antico di trasgressione legalizzata, è nettamente “a favore” del maschio, anche se, in origine, prese le mosse dal bisogno di soccorrere le donne.
In Cina il concubinato fu una necessità. Infatti, essendo la mortalità infantile maschile maggiore di quella femminile, era notevole la disparità numerica tra i sessi. Senza il concubinato, in quel Paese, molte donne non avrebbero avuto un compagno. E così, per tremila anni, chi non aveva oltre alla moglie anche una concubina non era considerato un vero uomo. Ma dopo l’avvento del comunismo, concubinato e adulterio furono vietati. Il parlamento cinese aggiornò in questo senso la vecchia legge sul matrimonio ormai superata dalla realtà sociale. E tuttavia, sebbene il concubinato fosse proibito, molto tempo dopo la promulgazione della legge che lo vietava, persistette nelle regioni con maggiore benessere. Secondo alcune fonti d’informazione, il concubinato in Cina non è ancora del tutto cessato ( pare che a dare il cattivo esempio siano proprio i funzionari di partito) ed è considerato una minaccia per la stabilità sociale e per il controllo demografico.
Il concubinato vigeva, anche nel diritto greco antico; e anche a Roma, questa relazione extramatrimoniale del maschio era lecita. Ad essa vennero estese norme proprie del matrimonio legittimo. Il concubinato consentiva all’uomo di rango, un senatore ad esempio, di vivere con una popolana o con una liberta, con le quali non avrebbe potuto contrarre matrimonio, vietato tra un uomo di alto livello sociale e una plebea. Vi era però il divieto, per chi era ammogliato, di tenere più di una concubina. In seguito Giustiniano stabilì che l’uomo sposato non ne potesse avere nemmeno una.
La figura della concubina è considerata pure legittima nell’Antico Testamento (Gen.16:1-2-) se essa è utilizzata per dare un figlio all’uomo la cui moglie è sterile.(Vedi a tal proposito la vicenda tra Sara e Agar).
In passato il concubinato era inserito nelle leggi di vari popoli: nel nord Europa, presso i nomadi, presso gli Avari, presso i Normanni. I Mongoli, non per legge, ma per consuetudine ritenevano il concubinato una pratica lecita.
Nel mondo Islamico, il Corano, con un tocco di maschilismo, dispone che ogni uomo può tenere fino a quattro mogli. Pertanto, un miliardo e mezzo di persone non trovano nulla da ridire che nella stessa famiglia convivano più donne legate al medesimo uomo. L’usanza ebbe inizio quando Maometto, dopo avere intrapreso la conquista dell’Africa e del Medio Oriente, constatò che, a causa della morte di tanti soldati, era preponderante il numero delle femmine da sfamare. Il profeta pensò allora di far sposare ad ogni capofamiglia quattro donne; così, vedove di guerra e nubili poterono avere la compagnia di un uomo ed essere sfamate ed assistite.
Tutto è relativo in questo mondo: ciò che in alcune circostanze è considerato comportamento biasimevole e indegno, in altre addirittura è visto come atto umanitario.
Poiché gli esseri umani sono straordinariamente differenziati e le loro personalità sono eterogenee, non esiste il partner ideale per tutti. Ogni individuo ne sceglie uno ritenendo che sia l’ideale. Sono vari i motivi per i quali viene preferita una persona piuttosto che un’altra; nella scelta, i punti di vista sono assolutamente personali, tant’è che l’attrazione fatale dipende da parametri soggettivi.
C’è chi s’invaghisce per una attrazione fisica, chi è affascinato da un particolare tipo; a volte può intrigare, come “modello ideale”, un aspetto insolito di una persona. Si può essere infervorati da un incontro esaltante, ma non sempre sono valutati gli aspetti “sconsigliabili” della persona che ci intriga.
Le persone “a rischio”, da “attenzionare”, hanno varie caratteristiche.Alcune hanno manie di grandezza, altre sono particolarmente volubili, altre ancora sommergono gli interlocutori raccontando i loro problemi, ma non ascoltano quelli degli altri. Da evitare sono sia le persone che pretendono di regolare minuziosamente la vita altrui imponendo abitudini e gusti; che quelle cronicamente incapaci di ammettere le proprie colpe. Anche le persone testarde e quelle esageratamente gelose sono da scartare, così come quelle che sono rimaste con una personalità infantile anche da adulte. Ed anche quelle che hanno sempre idee, programmi, interessi, diversi dai loro partner e che inoltre non transigono.
Vedere dunque quali caratteristiche a rischio sono presenti in chi ci affascina, è essenziale per evitare sgradite sorprese. Chi fa coppia con un soggetto “a rischio” deve essere in grado di fronteggiare incoerenze e sventatezze del partner “difficile”. E sono anche partner a rischio persone che, pur suscitando un’irresistibile attrazione, per alcuni aspetti costituiscono un pericolo.
Molti ménage, iniziati senza riflettere e gestiti con inesperienza, invece di essere il luogo della felicità, diventano una insopportabile oppressione.
Se l’amore è requisito essenziale per un buon inizio, esso è anche il versante più fragile e meno stabile del ménage: se viene meno, crolla l’edificio che su esso era costruito.
Nei tempi passati l’amore era considerato un optional. Privilegiate erano le condizioni che assicuravano stabilità al rapporto: la capacità della donna di fare molti figli e l’adattabilità a fronteggiare le avverse circostanze della vita.
Il partner veniva scelto per convenienza. Il legame s’instaurava tra persone della stessa categoria e nell’ambito della prossimità sociale (contadini con contadini, camerieri con camerieri, nobili con nobili, etc. etc.).
Quando si attribuì all’amore l’essenza più importante dell’unione, s’intromise un fattore di vulnerabilità. Privilegiando romanticamente il sentimento e il colpo di fulmine, che per sua natura è irragionevole e travolgente, si rischiò che le unioni dipendessero dai capricci del “cuore”. La preminenza dell’amore nella scelta del partner, lungi dal cementare il rapporto, può infatti essere causa di precarietà dello stesso.
Nei secoli passati le unioni erano meno aleatorie, più stabili, perché l’amore aveva un peso trascurabile. Se veniva meno non produceva una destabilizzazione del rapporto. Nei tempi moderni il legame romantico, estroso e imprevedibile, ha paradossalmente reso più insicuro il ménage. Se il sentimento muta, l’unione è finita.
Nel ‘500, il filosofo Montaigne esortava a frenare la passione amorosa, e ad evitare il sentimento smodato perché diceva: “complica il rapporto”. S. Tommaso sconsigliava il matrimonio scaturito da passione violenta. San Gerolamo addirittura vietava l’amore tra coniugi, temendo che la passione terrena distogliesse quella per Dio. Secondo Chateaubriand l’amore tra coniugi è pericoloso perché se viene meno, il rapporto si sfalda.
Cesare Ottaviano Augusto, persuaso assertore della pericolosità dell’amore, si era fatta questa convinzione seguendo le vicissitudini di Giulio Cesare, travolto dalla passione per Cleopatra. Ottaviano meditò a lungo anche sulla sorte del proprio rivale, Marc’Antonio, costretto a stravolgere la propria politica per accontentare l’amata regina d’Egitto. E così Ottaviano si guardò bene dall’innamorarsi di chicchessia e si dichiarò sempre “vaccinato” dall’amore.
L’imperatore Elio Vero, salito al trono nel 136 d.C., non disdegnava altre donne oltre la moglie. A chi lo rimproverava rispondeva con sussiego: «Lo faccio per salvaguardare il mio matrimonio: amare oltremisura una persona è pericoloso».
Scusa maliziosa, che segnala però come la maggior parte della gente la pensava a quel tempo.
Elisabetta I° d’Inghilterra affermava che l’amore, «sentimento che fa perdere la testa», era un lusso che una regina non può permettersi, perché «assieme alla testa, potrebbe perdere anche il trono». Elisabetta sceglieva i suoi preferiti tra i più meritevoli di stima, ma cercò di non innamorarsi mai di nessuno di essi.
A partire dall’Ottocento si sostenne che l’amore rende il rapporto indistruttibile. Da allora difficilmente due persone si mettono assieme se non si amano davvero (o quanto meno se non “credono” di amarsi). E tuttavia, quelli che non riescono a gestire l’amore nelle sue molteplici sfaccettature restano intrappolati in un legame che può diventare un assillo dirompente.
Anna Magnani fu vittima dell’amore: le sue passioni finirono puntualmente nelle secche del fallimento. Anna non sapeva scegliere i partner e di conseguenza non riusciva ad evitare quelli “a rischio”. Dopo un periodo d’intensa passione, finiva l’incanto e l’attrice cadeva nella disperazione. Accadde con Osvaldo Ruggeri, con Goffredo Alessandrini, con Massimo Serrato, con Roberto Rossellini.
Alla fine la Magnani si convinse che «i grandi amori bisognava accettarli senza farsi illusioni e soprattutto senza immaginarli eterni».
Per far durare un ménage, bisogna allora sconsigliare l’amore?
No di certo: e del resto non si concepisce più una coppia che non ostenti amore.
Ma per scegliere il partner giusto serve l’uso dell’intuito e della ragione e soprattutto è necessario avere la fermezza necessaria per evitare quello sbagliato.
Sul pudore si è detto e si è scritto molto. Ma soprattutto in suo nome si sono commesse prepotenze e soprusi. Il pudore, dicono i vocabolari, è “timore di fare o di sentire scostumatezze”; “senso di avversione e di difesa nei confronti di aspetti equivoci e morbosi del sesso”. Esso comporta dunque sia “il bisogno di allontanare il sospetto di una disponibilità a fare cose che il comportamento sociale avversa”, sia “un imbarazzo per certi atteggiamenti altrui”. Dante, con fine intuito psicologico, lo definì: «ritraimento d’animo da laide cose con paura di cadere in quelle».
Se il pudore è la virtù di ritrarsi da ciò che è sconveniente, quando diventa una caccia alle streghe mostra un accanimento sospetto. Infatti, l’esagerata esternazione della pudicizia potrebbe nascondere la paura inconscia di “accettare” ciò che esteriormente si critica. Da questo punto di vista, il pudore, secondo gli psicologi, è un meccanismo di difesa. Il temere di mostrare l’”ego” impudico, fa scaturire il senso del pudore. Esso esprimerebbe, sempre secondo gli psicologi, un conflitto tra il bisogno di soddisfare necessità istintuali e il timore di essere coinvolti in desideri proibiti. Da ciò si scatenerebbero sensi di colpa con relative, grottesche estrinsecazioni di pudore.
Assurda sfuriata fu quella che fece Oscar Luigi Scalfaro nel luglio 1950, all’interno del ristorante Chiarina, a Roma, quando si scagliò contro «le indecenze» della signora Edith Mingoni-Toussan, colpevole d’indossare un abito con bretelle che lasciavano intravedere le spalle nude. Scalfaro entrando nel ristorante e notando la donna s’infuriò e alludendo al decolleté della donna gridò: «È abominevole! È uno schifo!». Poi rivolto alla malcapitata: «Le ordino di rimettersi il bolero!». Forte della carica che rivestiva, Scalfaro invitò la polizia a portare in questura la signora.
A metà del ‘900 il senso del pudore non fu solo prerogativa di uomini della DC, ma anche nel Partito Comunista vi furono episodi di intolleranza. Nel 1948, Pier Paolo Pisolini, dirigente del partito, venne radiato perché omosessuale. Identico provvedimento nei confronti di Pietro Tresso. Alle Botteghe Oscure vigeva a quel tempo una inquisizione durissima. L’Ufficio Quadri, diretto con squallida pudicizia da Edoardo D’Onofrio, controllava la moralità sessuale degli iscritti.
In questo clima va inserito l’episodio che vide protagonista Palmiro Togliatti, il quale diede del “degenerato” allo scrittore omosessuale André Gide, e considerò J. P. Sartre un depravato perché difendeva i gay. In questo contesto, c’è da ricordare che a Domenico Modugno fu censurata la strofa di una sua canzone, ritenuta impudica, perché un verso così recitava: «resta cu’ me, vita da vita mia, nun m’importa chi t’avuto….». Frase considerata licenziosa.
Gli strali del comune senso del pudore si abbatterono anche su Carlo Sforza, pupillo di De Gasperi, diplomatico e politico molto quotato. Indicato nel 1948 come uno dei possibili presidenti della Repubblica, alcuni influenti del partito, farisei e bigotti, non sopportando la sua sensibilità al fascino femminile, sostennero che, “essendo un dongiovanni”, non garantiva serietà alla carica.
E così, a Sforza fu preferito Luigi Einaudi.
Anche nel cinema la censura del “comune senso del pudore” ha avuto mano pesante, e a volte è stata molto ridicola. Ne Il bell’Antonio fu censurata la frase: «come si fa’ a fare i figli?». Nel 1955 il film Totò e Carolina venne mutilato di quindici minuti. Si dovette sostituire la parola prostituzione con sregolatezza, la protagonista non fu più definita peripatetica ma svitata; la parola donnaccia sostituita da povera disgraziata. Censurati persino Totò cerca casa, Totò e le donne e Guardie e ladri. Ne I dolci inganni di Lattuada, censurata una scena in cui la Spaak si alza dal letto al mattino con una corta camicia di notte. Per la televisione si pretese che le ballerine, sotto le vesti, tenessero sottovesti rigide, perché così, piroettando e ballando, non mostrassero le gambe! Luchino Visconti, nel 1961 venne denunziato perché Rocco e i suoi fratelli “turbava il comune sentimento della morale”. Nel 1962 Pasolini fu processato “per turpiloquio” del film Mamma Roma; e Alessandro Blasetti inquisito per il film Io amo tu ami. La giornata balorda di Mauro Bolognini fu sequestrata perché “poneva in eccessivo rilievo gli istinti erotici”. Il Pap’occhio di Arbore fu posto sotto sequestro nel 1980 e de L’ultimo tango a Parigi di Bertolucci si ordinò la distruzione dell’originale. L’avventura di Michelangelo Antonioni fu sequestrata per una appena accennata scena d’amore tra Ferzetti e la Vitti. La censura più incresciosa fu quella de La dolce vita di Fellini, film ritenuto dall’Osservatore Romano un “ostentato invito alla dissoluzione”. Sulla rivista Settimana del clero, il gesuita padre Trapani propose che venissero celebrate messe di espiazioni e di riparazione dei peccati commessi da quanti erano andati a vedere quel film. Solo nel 1994, Città Cattolica valutò La dolce vita film di testimonianza e non di “corruzione”.
Un incidente singolare fu sollevato nel 1958 da monsignor Fiordello, vescovo di Prato. Durante una funzione religiosa, inveì dal pulpito contro due giovani definendoli «pubblici peccatori» perché sposati col solo rito civile. Denunziato dalla coppia per diffamazione, il vescovo venne condannato dal tribunale di Firenze. Ma il caso sollevò un vespaio nella Curia romana, e nel processo d’appello, il prelato… fu assolto.
Il senso del pudore, come si può intuire, non è identico in tutte le epoche e in tutte le latitudini. Oggi molti atteggiamenti e manifestazioni che furono stigmatizzati come contrari al senso del pudore non sono più ritenuti riprovevoli. Ogni cultura elabora particolari aspetti del pudore, talvolta in netto contrasto con quelli di altre epoche e di altri popoli. Il pudore nasce anche dal particolare modo di considerare il corpo umano. Ciò comporta in qualche caso un controllo censorio sull’abbigliamento. Nella Bibbia, il Genesi attribuisce al pudore la primitiva spinta a coprirsi, e fa coincidere questo fatto col sorgere della nozione di Bene e di Male. In India invece nessuno si meraviglia se le donne espongono il seno, ma è sconveniente mostrare le gambe; in alcune tribù, le donne africane girano col viso coperto, mentre tutto il resto è esibito in maniera adamitica senza scandalo.
Il desiderio di piacere e di mettersi in luce crea l’esigenza di un vestiario adeguato a stimolare e attirare. Il modo di vestire esprime anche aspirazioni e tendenze, magari non percepite chiaramente dalla coscienza. Alcune persone indossano vestiti che modellano le forme del corpo o tendono ad avere sempre più parti del corpo scoperte. Spesso si tratta di nudità che contrastano col comune vecchio senso del pudore, e tendono a riaffermare lo spontaneo desiderio di piacere. La parità dei sessi ha prodotto il vestito unisex, ma sia le donne che gli uomini non vogliono perdere il loro ruolo erotico, e l’unisex così non è mai del tutto amorfo. Il vestiario è dunque usato anche come richiamo erotico: decolleté vertiginosi, gonne aderenti ai fianchi e al bacino, pantaloni stretti, notevoli scollature nelle camicie per mostrare petti maschili villosi, sono esibizioni per far risaltare l’appetibilità della condizione fisica. L’abbigliamento non conformista esprime atteggiamenti aperti e confidenziali, ma se sfoderato in maniera eccessiva può essere manifestazione di narcisismo.
Chi invece veste sempre in maniera rigidamente tradizionale potrebbe nascondere la paura di essere bersaglio di desideri. Infatti, quando si occultano esageratamente le proprie forme fisiche c’è da sospettare che vi siano notevoli conflitti interni.
Gli strali dei fanatici del senso del pudore si abbattono su atteggiamenti, gesti ed espressioni, ma anche su opere d’arte, manifestazioni teatrali e testi di vario genere. Imponendo una rigida censura i tormentati custodi della costumatezza cercano di attenuare qualsiasi segnale che possa apparire concupiscente. L’insistente però troppo sul senso del pudore finisce col far scattare l’interesse proprio su ciò che in apparenza si vuole nascondere, facendo così sospettare che i rigidi censori, polarizzando oltremisura l’attenzione sulla impudicizia, ne siano in qualche modo attratti, magari in maniera inconscia.
AMORE ED EROS DI SOVRANI, CONDOTTIERI E DITTATORI
Spesso politica, sesso ed erotismo si mescolano nelle vicende dei personaggi pubblici. In qualche caso il potere ha portato vantaggi nel campo erotico, ma non è una regola assoluta: Giulio Cesare dovette, pur amandola, ripudiare la prima moglie sospettata di adulterio. (Sulla donna del dictator non poteva sussistere nemmeno un piccolo dubbio d’infedeltà). Più fortunato fu l’imperatore Costantino che avendo sposato Teodora, esuberante e sfrenata etera, alla fine trovò in lei un valido aiuto nella conduzione dello Stato.
Molti secoli dopo Lenin pur riconoscendo che la donna russa era oppressa, quando si trattò di accettare ciò che la “sua” Inessa Armand proponeva il libero amore «come terapia dell’anima», affermò che quella non era «una buona idea proletaria». Solzeniczyn ha raccontato che Lenin era borghesemente imbarazzato dalla idee di Inessa e che, paradossalmente (e ipocritamente) era “turbato” perfino dal menage a trois che però egli stesso aveva costituito con sua moglie Nadia e Inessa!
Quando l’ambiziosa attrice Chiang Ch’ing viveva col regista Zhang Min, sperava ardentemente di conoscere Mao Tze Tung. Quando finalmente poté incontrare il suo idolo, fu un colpo di fulmine tra i due. Chiang abbandonò il marito e i figli e si legò definitivamente a Mao, dandogli un figlio. Ella pretese che il Grande Timoniere lasciasse la moglie, Ho Tzu-chen. I vertici del Partito, preoccupati dall’arrivismo di quella donna sconsigliarono Mao, ma Chiang sapeva come conquistarlo e vinse la partita. Infatti Mao soleva affermava: «Senza Chiang Ch’ing non posso continuare la rivoluzione». La moglie di Mao, Ho, era ignorante mentre Chiang aveva la tempra di uno statista. E così, nel 1939, Mao, dopo la guerra contro Chiang Kai-shek, si disfece della moglie e prese con sé Chiang Cing. Mao, che si considerava un grande amante, non le fu mai fedele, ma Chiang non se ne curò: «Ciò che più conta tra noi è il potere». E quello, finché Mao visse, Chiang lo tenne ben saldo. Ma poco dopo la morte di Mao fu messa in galera.
Anche Mussolini si circondò della fama di grande amatore. Da capo di Stato, continuò con civetteria a spacciarsi da tombeur de femmes. Antifemminista, per ironia della sorte, la donna che più egli stimò fu la femminista Leda Ravanelli. Quando la conobbe, Mussolini dirigeva L’Avanti e venne affascinato dalle idee anarchiche di Leda. A quel tempo Benito viveva con Rachele, donna priva di intuito politico tanto che Benito cercava conforto ideologico e politico in altre donne. Altra fiamma del duce fu la socialista Ida Dalser, che nell’alcova aveva gagliardi appetiti sessuali. Ida rimase legata a Mussolini per vent’anni, dandogli anche un figlio. Ma quando il duce conquistò il potere volle sbarazzarsi di quella relazione e ordinò addirittura che la Dalser fosse rinchiusa in una clinica psichiatrica..
In seguito Mussolini si legò ad Anna Curti Cacciati e poi alla giornalista veneziana Margherita Grassini, sposata Sarfatti, che esercitò molto fascino su di lui. Quando Rachele si rese conto di come stavano le cose, Mussolini, per evitare uno scandalo, troncò ufficialmente la relazione. Tuttavia, la Scarfatti rimase segretamente al suo fianco fino al 1938, poi, intuendo il fallimento del fascismo, fuggì in Sudamerica. Mussolini la sostituì con la poetessa Cornelia Tanzi. Claretta Petacci, moglie del tenente Riccardo Federici, s’infervorò del capo del fascismo e devotamente gli fu a fianco fino alla tragica fine.
Se si dovesse dare la palma di innamorato impulsivo, imprudente, ma generoso, si dovrebbe assegnarla a Giuseppe Garibaldi. L’Eroe dei due mondi era un celebre seduttore, un dongiovanni fascinoso. Tuttavia si mostrò sempre difensore dell’onore delle donne e gentiluomo. Quando si comportò da seduttore da strapazzo fu a causa della sua esuberanza fisica e psichica. Quando s’imbatté nella diciottenne Anita, sposa di Giuseppe Duarte, pescatore dell’isola di Laguna, e madre di diversi figli, Garibaldi s’invaghì di lei. La donna, colta dalla bramosia per l’Eroe, abbandonò figli e marito. A mano a mano che la fama cresceva, le donne erano sempre più attirate da Garibaldi. A Londra gli cadde tra le braccia la contessa Maria Martini Della Torre, figlia del generale Salasco. Dopo di lei il generale si fidanzò con un’aristocratica vedova inglese, Emma Roberts; ma l’eroe rimandò il matrimonio e fuggì a Nizza, dove lo raggiunse la fidanzata in compagnia di un’amica, Jessie White. La bellezza di quest’ultima sconvolse l’eroe, che ruppe il fidanzamento con Emma e si legò alla bellissima Jessie. In seguito, a Caprera, dove s’era ritirato, il generale, sedusse Battistina Rovello, una ragazzotta diciottenne analfabeta, figlia d’un marinaio, che teneva come cameriera. Essendo uomo d’onore, poiché la ragazza era vergine, Garibaldi le propose di sposarlo. Ma le autorità papali non gli concessero il certificato di morte della moglie e Garibaldi si tenersi la ragazza come amante. In seguito incontrò la ricca quarantenne Marie Espérance von Schwartz, giornalista, reduce da due fallimenti matrimoniali, che intervistò l’Eroe a Caprera. Il giorno seguente erano già amanti. Speranza, così la chiamò Garibaldi, lo aiutò a organizzare l’avventura dei Mille. Ma l’esperienza più grottesca Garibaldi l’ebbe con la marchesina Giuseppina Raimondi, che il generale sposò. Conclusa la cerimonia delle nozze, qualcuno mise in mano al generale un biglietto. Garibalidi lesse e sbiancò; dominando a stento la rabbia, ma con modi urbani chiese a Giuseppina se era vero che fosse incinta. La signora Garibaldi arrossì. L’eroe gridò alla sposa: «Siete una puttana!». La piantò sul sagrato e non volle più rivederla. Giuseppina era incinta di Luigi Caroli, un donnaiolo da strapazzo. Per “sanare” quell’infortunio, i parenti avevano messo in scena l’amore della ragazza per Garibaldi. In seguito la pittrice Elisabetta von Streikelberg e Francesca Ambrosino, cameriera della pensione Vauchet dove Garibaldi dimorava fecero dimenticare a Garbiobaldi la brutta avventura. Il generale che non andava tanto per il sottile in fatto di donne dopo avere avuto tre figli dalla ragazza, finì con lo sposarla.
Nella vita intima dei potenti della Terra si trova di tutto: Eliogabalo, Nerone, Agrippina, Luigi XV, Cristina di Svezia, l’imperatrice Zoe, e tanti tanti altri hanno usato il potere anche per soddisfare la loro libidine. Il cardinale Richelieu ebbe rapporti intimi con una sua figlia illegittima, Madame Rousse. Filippo duca d’Orléans fu sospettato d’avere avvelenato sua moglie, Henriette[GP1], e d’intrattenersi sessualmente con le sue due figlie maggiori. Luigi VII di Francia amò e sposò la tredicenne Eleonora d’Aquitania. Fu costretto a divorziare dalla donna che amava, perché non gli aveva dato il sospirato erede e per sposare Costanza dovette ripudiare ingiustamente Eleonora, accusandola di condotta scandalosa.
Adolf Hitler ebbe una passione per la nipote Geli, che forse fu l’unica donna che il dittatore amò alla follia; con lei Hitler, prima di salire al potere, visse quattro anni in un appartamento di Monaco. La ragazza che soggiacque al fascino morboso dello “zio Adolf” nel settembre del 1931 venne trovata morta. Il caso fu archiviato come suicidio. Qualcuno sospettò che essendosi incrinata la relazione, Geli volesse fuggire a Vienna, e il partito nazista impedì che il Fürher iniziasse la carriera politica con uno scandalo sessuale. Del fascino che il potere politico esercita hanno approfittato i leader della Corea del Nord, Kim Il Sung e suo figlio Kim Jong Suk, che hanno avuto rapporti con attrici, ballerine, geishe, segretarie, attiviste del partito e persino con straniere, reclutate all’estero come hostess e introdotte in Corea.
A volte il delirio del potere induce ad un maschilismo arrogante e delittuoso. Udai, figlio di Saddam Husseim, approfittando del fatto di essere figlio del dittatore, e per ciò sentendosi “immune” da sanzioni, ha sedotto con prepotenza molte donne, suscitando l’indignazione e la rabbia di molti familiari che alla fine, ribellatisi hanno tentato di ammazzarlo. Giorgio IV d’Inghilterra non solo conduceva vita libertina ma con le donne fu arrogante e perverso. Enrico VIII, cinico e impudente, stanco di Anna Bolena la fece uccidere. A parte quell’episodio sanguinario, chi più chi meno, le sue donne non furono molto fortunate d’avere come compagno quel re. Elisabetta I d’Inghilterra, invece, fu donna accorta e guardinga anche dal punto di vista dei sentimenti: ella non si decise mai a sposarsi, nemmeno con Filippo II di Spagna che per anni attese invano di sposare la regina. Tuttavia, Elisabetta, donna di carattere forte e di appetiti sessuali vigorosi, si circondò di amanti d’alto rango che seppe scegliere bene e che furono servitori fedeli della causa inglese.
Caterina II di Russia, artefice della potenza russa, fu smodata, ambiziosa, crudele e sessualmente spregiudicata. Splendida regina e travolgente amante, trattava gli affari di cuore e i problemi di stato con grande passione. Nei quarantaquattro anni di regno, nel suo letto passarono molti favoriti: giovani e illustri dignitari, artisti di spicco, strateghi. Caterina soleva affermare che non era il potere ciò che le dava appagamento, ma il sesso. A giudicare dal tempo che passava a letto e dal numero dei suoi amanti, probabilmente era vero.
Di solito chi tende al potere (o chi ce lo ha già) è piuttosto egocentrico e narcisista e difficilmente disposto a piegarsi alle esigenze di chicchessia, partner compreso. L’arte della parola, il cipiglio del comando, il talento strategico e un po’ di cinismo fanno scena e possono, in qualche caso, sedurre i più sprovveduti, ingenuamente affascinati da chi è al comando e illusi di potersi intrufolare tramite lui nelle maglie del potere.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi, il partner di chi è al comando non sempre riceve benefici dall’essere a fianco di un potente.
LE RAGAZZE DA MARITO, IN PASSATO
In passato molte giovani ragazze sono andate spose o sono state amanti di uomini maturi senza creare scandali.
Ecco alcuni esempi, presi tra governanti, artisti, gente del popolo, intellettuali ma la lista è molto lunga.
Ottavia, figlia dell’imperatore romano Claudio e di Messalina, aveva dieci anni quando fu fidanzata con Silano e a 11 anni andò sposa a Nerone.
Alessandro Magno sposò la dodicenne Statira.
Nel ‘500 Rita Lotti a 12 anni sposò il nobile Paolo Mancini. Guido Cavalcanti sposò la dodicenne figlia di Farinata degli Uberti.
Dante Alighieri a 12 anni fu promesso sposo a Gemma Donati, Maria Stuarda fu fidanzata a. 4 anni a Francesco I di Francia e lo sposò quando aveva 12 anni
Costanzo Cloro sposò la tredicenne Teodora .
Giulia, figlia di Augusto a 15 anni sposò Marco Aurelio Marcello. Messalina a 15 sposò l’imperatore Claudio.
Poiché i matrimonio avvenivano con ragazzine troppo giovani Giustiniano fissò l’età minima per i matrimoni a 7 anni!
Sant’Agostino a Milano venne fidanzato da sua madre Monica con una ragazzina di 12 anni. Non poté sposare la ragazzina perché ancora non aveva 13 anni!
Anna Mowbray, duchessa di York a nove anni sposò Riccardo Di York, che ne aveva sedici.
La poetessa Petronilla Paolini , con la dispensa di Clemente X sposò il quarantenne Francesco Massimi.
Charles Chaplin sposò una tredicenne…facendola passare per sedicenne.
Luigi VII il Pio sposò la tredicenne Eleonora d’Aquitania
Arturo Diotti, marito di Eleonora Duse fu scoperto dalla moglie mentre stava aletto con l’amante, la tredicenne aspirante attrice Emma Grammatica!
Edgard Allan Poe sposò la tredicenne Virginia Clemm, sua cugina, essendo figlia di una sorella della madre dello scrittore.
Per secoli le figure della madre e della moglie hanno sminuito quella della nubile.
In passato, infatti, il rapporto numerico tra donne maritate e donne che non si accostavano al matrimonio era a favore delle prime con una percentuale che non lasciava dubbi sulla necessità che aveva la donna, se non voleva essere emarginata, di prendere marito. E tuttavia, paradossalmente, nemmeno dopo il matrimonio la donna poteva ritenersi del tutto affrancata dai tabù impostile dalla comunità.
In passato alla donna erano assegnati vincoli precisi: se era sterile non era molto presa in considerazione. Mancandole la funzione riproduttiva essa perdeva quasi tutto il suo valore. Ma a dire il vero, anche alla donna feconda era attribuita ben poca utilità.
Tommaso d’Aquino scriveva che la donna è necessaria in quanto principio passivo della generazione: “l’uomo è l’artigiano che fabbrica oggetti, la femmina fornisce solo la materia perché questi oggetti siano portati a termine”. Questa convinzione l’aveva ricavato da Aristotele il quale aveva sostenuto che “la generazione di una femmina dipende da una deficienza di virtù” e che “la nascita di una figlia è contraria alla finalità del seme paterno”. Per il filosofo greco, infatti, nella procreazione il maschio sarebbe il principio attivo e la femmina quello passivo. Il seme si svilupperebbe dunque, più o meno perfettamente, per diventare, nel primo caso un maschio e nel secondo una femmina.
Queste idee rimasero inalterate per molto tempo, e si rafforzarono nel Medioevo, nel ’500 e nel ‘600, fino ad esplodere nella caccia alle streghe.
Cos’erano le streghe nell’immaginario maschile se non donne sfuggite alla funzione più importante, la riproduzione? Non essendosi sposate e, non avendo, dunque, nessuna utilità sociale, si “dilettavano” a tormentare i maschi!
Venir fuori dai ruoli sociali prestabiliti, farsi un’opinione personale, passare dalla soggezione all’indipendenza, avere un lavoro al di là dei fornelli domestici, furono conquiste che in passato non tutte raggiunsero. Vi riuscirono maggiormente quelle che frequentavano gli ambienti artistici e intellettuali.
Nel ‘500 Gaspara Stampa, bella, istruita nelle lettere e con un grande talento musicale, si fece avanti “da sola” nel mondo dell’arte. Un secolo dopo, Artemisia Gentileschi intraprese con successo la carriera pittorica e non volle mai prendere marito. In passato, tuttavia, la maggior parte delle nubili non solo venivano emarginate, ma dipendevano dal padre, non avevano piena capacità giuridica e civile, restavano socialmente ai margini della struttura della comunità, erano esposte alle aggressioni dei maschi, erano considerate “moralmente” sospette.
Poiché alle single era dunque difficile ottenere una posizione socialmente rilevante, molte di esse, anche le più restie a soggiacere ai vincoli matrimoniali, per impostare la propria vita nell’ambito della cultura e dell’arte, per entrare in società, per acquisire diritti e gestire la propria libertà di pensiero e di azione, volendo insomma superare le barriere poste alle nubili, hanno preso marito e si sono fatte “scudo” del matrimonio.
George Sand, sebbene aspirasse ad una vita libera, fu grazie al matrimonio col barone Casimire Dudevant che poté, divenuta baronessa, farsi strada nella società.
Lo stesso accadde ad Alma Mahler, moglie del grande compositore, a Maria Sklodovska, moglie del fisico Pierre Curie, col quale conquistò il Nobel, a Frida Kalò, moglie del pittore Diego Rivera. Un caso emblematico è quello di Caroline Dorotea Albertine, una delle figure più significative del romanticismo, favorita nel suo ingresso tra i letterati prima dal matrimonio con lo scrittore W. A. Schlegel, e, poi, rimasta vedova, dal secondo matrimonio col filosofo Schelling. Anche Ann Radcliffe, famosa alla fine del ‘700 per i suoi romanzi del terrore, fu aiutata dal marito, che era editore.
Spesso, dunque, le donne che avrebbero voluto fare le artiste, le scienziate, le scrittrici, erano costrette a farsi sostenere da mariti famosi, per esprimersi nel campo dell’arte, della scienza, della musica e della letteratura. E tuttavia, è emozionante trovare nella storia donne che, malgrado per secoli le condizioni sociali fossero proibitive per le nubili, abbiano scelto intenzionalmente di non sposarsi pur mantenendo velleità sociali.
Parecchie di esse, pur rifiutando il tramite del matrimonio come mezzo d’ascesa sociale e lavorativo, sono diventate famose.
Molte le “nubili” letterate: nel ‘600, tra le altre, troviamo Mademoiselle de Gournay, Mademoiselle de Scudéry. Tra l’800 e il ‘900, Mary Baldwin Wollstonecraf, Luoise Weiss, nota per il suo Mémoies d’une Européenne; Simone Weill, Margherite Yurcenar, Sibilla Aleramo, Amalia Guglielminetti, Anaîs Nin, Doris Lessing.
Altre si sono distinte nel campo dell’imprenditoria, come Palma Bucarelli, direttrice per anni della Galleria d’Arte Moderna di Roma; come Luisa Monardi la prima donna che tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 mise su e diresse un’industria tessile e rifiutò sempre qualsiasi proposta di matrimonio.
«Come fai a tirare avanti da sola in questo lavoro, e come puoi gestire il rapporto con gli operai senza un marito che ti difenda?» le dicevano amici e parenti.
«Conoscendo le pretese degli uomini, temo che un marito mi intralcerebbe al punto che non potrei più dedicarmi a questo lavoro», rispondeva impassibile la Monardi.
In passato sono state molte le pittrici nubili. Ricordiamo, tra l’800 e il ‘900, le inglesi Diana Sperling e Mary Ellen Best; la statunitense Mary Cassatt che fece parte del gruppo di Degas. Berthe Morisot, nata a Bourges, la quale si stabilì nel 1852 a Parigi e dopo aver appreso l’arte del pennello da Guichard, fu allieva di Corot e di Manet, conquistandosi fama di esperta pittrice.
Altre nubili hanno operato con fervore nel campo socio-politico, come la rivoluzionaria russa Aleksandra Michajlovna Kollontaj, e la socialista jugoslava Ibrishima Sisoc-Bejic. L’impegno politico che la coinvolse sin da ragazza fece diventare l’ucraina Angelica Balabanoff “la pecora nera della famiglia”. Ella partecipò alla rivoluzione del 1905; poi nel 1912 si occupò dell’organizzazione dell’Avanti; e nel 1919 divenne segretaria dell’Internazionale comunista.
Nei primi del ‘900, la mondina Argentina Altobelli, che si definiva “nubile per vocazione”, diresse la prima organizzazione del lavoro delle raccoglitrici del riso.
Nel campo della scienza, Maria Montessori, prima donna laureata in Italia in medicina, è una delle tanti rappresentati di quel genere di donne che sono andate avanti nella vita senza essere sposate.
Ma i vecchi preconcetti furono duri a morire. Quando le donne cominciarono a frequentare le fabbriche, persino i sindacalisti non le protessero, vuoi per custodire i posti ai maschi, vuoi perché le ritenevano incapaci di fare il lavoro degli uomini.
Un tempo, infatti, voce comune era che esse dovevano restare a casa ad accudire i figli per non togliere lavoro ai maschi.
Fortunatamente, guadagnato il diritto alla parità, la donna non è più ritenuta utile solo se diventa madre. Le nubili, scartata l’idea del matrimonio e non vedendo la necessità di vivere all’ombra di esso, usufruiscono di una indipendenza esistenziale ragguardevole, pur non rinunziando all’amore e a rapporti sessuali.
Tuttavia, bisogna fare una distinzione tra “donne single” e “donne nubili”. Le prime sono quelle che, provato il rapporto matrimoniale, non lo hanno apprezzato; le seconde quelle che non lo hanno mai voluto sperimentare.
Queste ultime, anche in passato, e malgrado i pressanti tabù sociali, hanno dimostrato che è possibile farsi strada anche senza l’ausilio di un marito.
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