ARTE, C R E A T I V I T À E F O L L I A
Indice
1cf Premessa
2cf L’angoscia dei creativi
3cf Personaggi “matti” e la letteratura della follia
4cf La follia e le arti figurative
5cf La follia e la musica
6cf Gli inventori e la stravaganza
7cf Il suicidio dell’artista
8cf Conclusioni
9cf Sommario
10cf Bibliografia
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1cf Premessa
Nelle culture storiche primitive, coloro che si ritenevano in comunicazione con l’aldilà, che “vedevano” gli spiriti e che dicevano di essere in contatto con forze sconosciute o che presentavano fabulazioni incomprensibili, erano considerati privilegiati e predestinati dagli dei; in ogni caso, non erano affatto ritenuti sintomi di malattia i pensieri disturbanti che affollavano la loro mente[1]. Sebbene, dunque, i disturbi psichici siano stati frequenti anche nell’antichità, tuttavia, in passato, l’atteggiamento della collettività nei confronti di coloro che erano affetti da tali difficoltà fu diverso da quello odierno. Innanzi tutto il fenomeno delle manifestazioni mentali relative alla follia, non venne ritenuto patologico: gli stati di possessione, le psicosi e le autoipnosi, venivano considerati inquietanti rituali magici che assolvevano alle più disparate funzioni, religiose o secolari, e pertanto non erano giudicati come malattie della mente; erano, semmai, ritenuti interventi “divini” e si supponeva che ciò che nasce dal delirio fosse la pista privilegiata per arrivare alla verità[2].
I Giudei, al tempo del Nuovo Testamento, pensavano che i demoni entrassero dentro gli uomini e che fosse questa la causa dei disturbi epilettici, del sonnambulismo, delle esternazioni psicopatologiche e anche di malattie quali la cecità, il mutismo, etc. L’intervento di Gesù che guarì gli ossessi, fu considerato un evento divino e non un atto psicoterapeutico.
Un antico esempio di descrizione di stati nevrotici si trova nel libro Primo di Samuele, che riferisce del re Saul in preda a stati psichici che la medicina odierna definirebbe ossessivi. Saul, alla fine, dopo essere stato sconfitto dai Filistei, in un impeto di rabbia, si suicida. Si narra che Ippocrate curasse i malati di mente lasciandoli per una notte al centro del labirinto di Epidauro, l’antica città greca dedicata ad Asclepio medico dalle prodigiose arti di guaritore, ove, dopo un’esperienza di crisi, dovuta anche al contatto con la divinità, molti di essi si liberavano dei loro fantasmi mentali.
Uno dei libri più antichi di psicoterapia, è, senza averne l’aria, l’opera Le Tusculane di Cicerone. Il grande oratore romano, contro le sofferenze psicologiche, propone la “cura filosofica”: «Il metodo per guarire sia l’afflizione che le altre malattie dall’animo è far vedere che sono dovute tutte ad un’idea sbagliata. È appunto questo l’errore che la filosofia s’impegna ad estirpare» «Le malattie dell’anima sono prodotte tutte quante della mancata obbedienza alla ragione»
In molti casi, la follia fu ritenuta una malattia dovuta a colpe morali, o a violazioni di divieti religiosi o sociali, oppure che si trattasse di una espiazione per azioni commesse dai malati o dai loro ascendenti. I manicomi divennero allora luogo di redenzione dei peccati e la degenza in quei posti rappresentò l’anticipazione della pena eterna[3].
Nel Rinascimento non si poté più ignorare che il fenomeno della malattia mentale, il folle divenne una figura ambigua, mostruosa, animalesca, e delirante, insomma l’espressione della malvagità. E non solo le manifestazioni schizofreniche e quelle paranoiche, ma anche quelle che oggi chiameremmo nevrotiche, assunsero valenze negative. I malati non furono più considerati, come prima, gli unti dal divino ed allora, persi i connotati che un tempo furono loro attribuiti, e che li avevano resi simili agli sciamani[4] e ai veggenti, apparvero come creature degli inferi, come la quintessenza della vittoria del Male sul Bene.
Ma la dissennatezza, sebbene temuta, ha anche affascinato, ed attorno ad essa, si è sviluppata una nutrita letteratura: Tristano, spinto dalla passione per Isotta, diventa folle. Ofelia e Lorelai rappresentano altre sfaccettature della irragionevolezza e Orlando diviene furioso quando è a conoscenza del tradimento della donna che egli ama. La follia, se pur intesa come accecamento senza scampo, fu anche considerata distributrice di verità; il matto denunziava la fallacia di alcune credenze e mostrava quanto la vita fosse fatua e insensata. Lo stato mentale alterato, con la sua esperienza tragica, cosmica, cominciò dunque a minacciare alcune evidenze; sicché le osservazioni bislacche del matto misero a nudo incongruenze e insensatezze che la collettività riteneva modelli ragionevoli e fecero così notare come gli uomini fossero deboli e meschini di fronte alla vita. Il bisturi della demenzialità, mettendo in evidenza le insensatezze della collettività, divenne un indispensabile ausilio per comprendere meglio le sfaccettature dell’animo umano. Jean-Étienne Esquirol agli inizi dell’Ottocento affermava che la follia è la malattia della civilizzazione, gettando così, assieme alle basi della psichiatria, anche quelle per un collegamento tra questa patologia e la cultura. Con la nuova psichiatria e soprattutto con Sigmund Freud i sogni vennero considerati importanti strumenti di conoscenza e la mente delirante, con i suoi simboli inquietanti, venne accomunata alle manifestazioni oniriche, e lo studio dell’alterazione mentale ricevette un forte impulso. Si intuì allora che pazzia e ragione hanno vari punti di contatto, per cui i contorni sono sfumati: l’insensatezza può includere un’intrinseca ragione e la ragione può fondarsi su un pizzico di eccentricità. E poiché non c’è nulla al mondo che non sia contraddittorio, si scoprì che l’insensatezza regna sovrana, aprendo così una crisi insanabile che rese poco distinguibile il piano della stravaganza mentale da quello della realtà.
A complicare ancor più i nessi e la struttura della alienazione, la letteratura, il teatro, il cinema[5], la pittura e la musica l’hanno spesso “adottata”, trovandola di capitale importanza, perché offre tematiche e spunti di grande rilievo.
Secondo alcuni, addirittura, il rapporto tra psicopatologia e creatività potenzierebbe l’ispirazione, facendola uscire dalle maglie dell’accademismo e spingendola a librare verso nuovi percorsi. Henri F. Ellemberg[6] chiama sindrome nevrotica creativa, quella che Giacomo Leopardi, nello Zibaldone, definì melanconia leggera, «che partorisce le cose dolci», e che sarebbe una spinta utile per arrivare alla buona produzione artistica. Xavier Francotte[7], sull’onda del romantico sturm und drang, intravide, per primo, correlazioni e legami tra genialità e sregolatezza. E Silvano Arieti[8] ritiene che: «A volte l’artista riesce a produrre fantasie tali da uguagliare, quasi, il sognatore oppure è capace di “quelle orge di identificazione” tipiche degli schizofrenici», e più oltre Arieti afferma ancora: «Nella psicopatologia, nella normalità come nella creatività, vi è la possibilità di ravvisare somiglianze e analogie».
Kay Redfiel Jamison[9] sostiene che scrittori, artisti e musicisti sono più soggetti a disturbi dell’umore di altre persone e che negli artisti soggetti a disturbi maniaco depressivi si riscontrano cicli di alta creatività. Nelle arti figurative, la follia è rappresentata in modo consistente. Agli inizi del Novecento fece discutere il caso della “pittrice” Aloysia, donna di discreta cultura (la cui condizione mentale andò deteriorando fino a far diagnosticare per lei una demenza precoce), che visse quaranta anni in manicomio, ove realizzò opere che sono state esposte nei più importanti musei del mondo.
La follia, ammessa dunque nel regno della pittura, della poesia e delle meditazioni, della musica, ha trovato grandi spazi nelle tematiche della cultura moderna e contemporanea.
Miguel de Cervantes pose un dilemma lacerante, che poi è l’essenza stessa di tutte le filosofie del mondo: contano le illusioni o le cose per se stesse? Il personaggio di Don Chisciotte, la cui esperienza è vissuta in una dimensione chimerica, grazie alla sua balordaggine, mostra la vanità della vita. E il drammaturgo siciliano Luigi Pirandello, sottolinea come la stravaganza dei suoi personaggi metta a nudo le ipocrisie e le insensatezze della società.
Il connubio tra creatività e alienazione si è fatto sempre più intrigante. In molti casi, l’arte è diventata un deterrente contro l’espandersi dell’angoscia e della insensatezza della vita. François Villon elemento psicopatologico, asociale, ma genio fenomenale, compose quasi tutte le sue opere rinchiuso in una galera-manicomio. Il drammaturgo francese Jean Genet, grazie alla passione letteraria, da criminale si trasformò in apprezzato poeta. Per Jean Jacques Rousseau, per Friedric Nietzsche, per Ezra Pound, e per tanti altri, il processo creativo divenne una difesa dalla depressione. Il regista Alais Resnais guarì dalla propria malinconia con una serie di sedute analitiche ma, soprattutto, girando il film L’anno scorso a Mariembad. Ingmar Bergman confessò[10] che girando Un mondo di marionette ho trovato un modo per trasformare la sua sofferenza in qualcos’altro. E anche Federico Fellini raccontò che, allorquando sentiva venire meno l’entusiasmo creativo, e gli si presentava l’uggia della vita, si sottoponeva a sedute analitiche. Quel genere di “medicina dell’anima” gli giovava a chiarire le proprie angosce, ma più d’ogni cosa, gli ridava ardore creativo.
Woody Allen ha ammesso di essere di tanto in tanto depresso, ma non smette di dedicarsi al proprio lavoro creativo perché è il modo migliore per rendere proficua l’ansia. Henri Laborit, illustre scienziato e scrittore, è del parere che la “fuga nell’immaginazione” sia il modo migliore per allontanare l’angoscia.
Anche la musica può avere effetto liberatorio: Ludvig von Beethoven si è salvato dall’abisso della disperazione e dalla solitudine che gli procurava la sordità, creando opere immortali. Wolfgang Mozart, nel 1790 cadde in una grave depressione e non riuscì più a scrivere quasi nulla. Per reagire all’apatia cominciò a lavorare al Quartetto per archi in re maggiore, K539. La creatività gli ridiede entusiasmo e lo salvò dalla disperazione. Hector Berliotz, molto tormentato, trasse consolazione nella musica. Il poeta Robert Lowell così s’espresse in una lirica: «Guarire è forse un’arte / o l’arte un modo per guarire»
Purtroppo, però, non sempre il lavoro creativo ha potuto avere un ruolo nella guarigione: geni e artisti come Paul Gauguin, Pior Ciaikovskij, Vladimir Majakovskij, Cesare Pavese, Ernst Hemingway, e altri, dopo avere fronteggiato per anni col diversivo della creazione ansie e inquietudini esistenziali, alla fine, non potendo più addomesticare i loro impulsi e i loro pensieri perniciosi, sono precipitati nel baratro.
2cf L’angoscia dei creativi
In realtà la creatività non necessita inevitabilmente della spinta psicopatologica; se ciò non fosse vero, bisognerebbe dimostrare come mai, molti geni, la cui vita interiore non è stata toccata dalla psicopatologia, abbiano raggiunto eccelse vette creative. Tuttavia, poiché un elemento importante della creatività è l’immaginare, il fantasticare, il sognare ad occhi aperti, e poiché il genio, osservando ciò di cui gli altri non si accorgono, non sempre è in sintonia con le stesse cose di cui s’interessa la gente comune, è molto spesso in crisi esistenziale. Montale affermava però: «Gli altri dicono che i poeti sono pazzi: io dico che pazzi sono i non poeti»[11].
L’assorto Einstein, non badava al proprio aspetto, e, senza rendersene conto, si mostrò alcune volte in pubblico con scarpe di fogge e colori diversi. Arthur Schopenauer era così distratto che spesso, dopo essersi seduto a tavola, dimenticava di mangiare, e, in preda ai pensieri creativi, s’alzava, senza aver toccato cibo. Anche Isaac Newton pare fosse alquanto sventato. Di Salvator Dalì si racconta che, senza avvedersene, un giorno uscì da casa in pigiama per recarsi all’inaugurazione di una sua mostra.
Appare chiaro che alcuni artisti sono infiammati da un furore creativo, totalizzante e a volte anche ossessivo. Ma credere che vi sia un legame indispensabile tra esaltazione e creatività è forse un punto di vista forse troppo romantico. Michelangelo, scrive Romain Rolland[12], fu preda del genio come nessuno mai. La sua «era una frenetica esaltazione, una vita formidabile racchiusa in un corpo e in un’anima troppo deboli per contenerla. Viveva in un continuo furore. La sofferenza di questo eccesso di forza lo gonfiava, lo costringeva ad agire, ad agire senza posa, senza un’ora di pace. Egli stesso scrisse che si sfiniva nel lavoro».
L’instabilità emotiva è una delle afflizioni che colpiscono la persona creativa. Il giurista ed economista milanese Cesare Beccaria, ritroso ed ipersensibile, era ipocondriaco e vedeva pericoli ovunque. Alessandro Manzoni fu sempre inquieto e malinconico, e lo dimostrò anche con una serie di malesseri ipocondriaci. Vincenzo Rapisarda[13] studiando la psicologia del Manzoni, identifica nello scrittore «una organizzazione prenevrotiva della personalità, con alcune fobie, peraltro quasi sempre controllate da meccanismi difensivi e da manovre concrofobiche», ma esclude che tale psicopatologia possa avere limitato, all’infuori di alcuni episodi, la normale vita di relazione e il comportamento sociale dell’autore dei Promessi Sposi.
Benvenuto Cellini, fu invece paranoico. Orafo, scultore e scrittore, egli fu singolare testimonianza di artista folle e orgogliosissimo. E tuttavia, lo storico David è anche del parere che l’incontro con un buon psicoterapeuta avrebbe aiutato Pavese così come la fine della nevrosi portò a Saba una maggiore sicurezza di sé, un nuovo amore per la vita e il risorgere dell’ispirazione. Scrive Michel David[14] che in Saba si può osservare uno dei più notevoli esempi dell’utilità della psicoterapia su un artista. Camille Claudel, sorella maggiore del poeta e drammaturgo francese Paul Claudel, pittrice e scultrice, allieva e amante di Auguste Rodin, visse gli ultimi trenta anni della sua vita in manicomio perché, nemica delle convenzioni, era uno spirito libero, anticonformista e mal si adattava alle ipocrisie della società del tempo. Questa formidabile personalità indipendente, ha affascinato la fantasia di vari scrittori che di lei ne hanno fatto un’eroina in varie opere, tra cui, l’ultima, quella di Dacia Maraini dal titolo Camille, e che è un monologo inframmezzato da voci esterne, che rappresentano il punto critico tra normalità e delirio.
Italo Svevo, indagatore della psicologia umana, risolse le sue angosce, perché riuscì a sedare l’ipocondria, la claustrofobia, gli ossessivi complessi di colpa, di cui era afflitto, dopo una serie di colloqui informali con l’amico Edoardo Weiss, padre della psicoanalisi italiana. Flaubert nel suo Memorie di un pazzo,[15] opera dal tono autobiografico, pone l’accento sull’afflizione provata dal protagonista che per un mondo irragionevole e torbido. Mentre scriveva, Flaubert era colto dalle proprie crisi ciclotimiche, con esaltazioni e sconforti. L’autore, con auto ironia, definì questi stadi emotivi di cui soffriva “il grottesco triste della mia personalità”. Anche Spleen, poesia di Charles Beaudelaire tratta dalla raccolta I fiori del male, descrive gli stati depressivi del suo autore. In quanto a Ludwig van Beethoven il musicista affermava di provare una sorta di pazzia che lo spingeva a creare e, se non riusciva a produrre, egli cadeva in depressione, balbettava, piangeva, e smaniava. Quello di Schumann è, poi, un vero caso patologico: egli “sentiva le voci interiori” che gli dettavano le note e i ritmi necessari per creare le composizioni musicali. Anche Gaetano Donizzetti, a causa di una serie di sventure familiari, perse l’estro creativo, e per la sua sopraggiunta demenza, trascorse un anno di segregazione presso una casa di salute di Ivry. Precarie furono anche le condizioni mentali dello scrittore irlandese Jonathan Swift, uno degli spiriti più rappresentativi del XVIII secolo. E nel poeta Jean Nicolas Arthur Rimbaud, la severità educativa scatenò ribellioni spietate e istinti autodistruttivi. Assalito da paure ed ossessioni, Arthur ai sedici anni, detestando la rigida educazione cattolica, esplose in una furiosa rabbia che gli fece rifiutare ogni regola. Anche Paul Verlaine visse in modo disordinato, nevrotico, da alcolizzato e da barbone.
Lo scrittore Hermann Melville soffriva di violenti sbalzi d’umore e passava da momenti di grande socializzazione a episodi di morbosa chiusura in se stesso, e Konrand Lorenz, raccontò che, quando era costretto a deviare le sue abitudini, manifestava un senso d’insicurezza e un palese nervosismo. Il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge, genio precocissimo era affetto da malinconia ciclica e da stati visionari, che invano cercò di curare con l’oppio. Su figlio Hartley, anch’egli poeta, animo trasognato e decadente, si diede pure lui al bere, e visse gli ultimi anni della sua esistenza passando dalla depressione all’ubriachezza. Percy Bysshe Shelly, fu tormentato tutta la vita da visioni, da attacchi isterici, e, molto probabilmente, anche da transitori deliri.
Kafka soffrì disagi psicologici e difficoltà relazionali. Proust sopportò gravi angosce e preoccupazioni ipocondriache. La depressione assalì a più riprese sia Masaccio che Gauguin. All’eccentricità molto vicina alla patologia non sono sfuggiti illustri spiriti come i poeti John Keats, George Gordon Byron e Heinrich Heine; come le scrittrici Florence Nightingale, Elizabeth Browning, Victoria Sackville-West, Annemarie Schwarzenbach[16]; storici quali Michel Foucault ed Henri Pirenne, scrittori come Walter Scott [17], Robert Burns, Walt Witmann, musicisti come Gustave Malher, Cole Porter, tanto per citare alcuni esempi nel mare magnum della stravaganza delle personalità geniali.
Il poeta boemo Ranier Maria Rilke, che diede una svolta profonda nel gusto letterario del suo tempo, visse sul limite del baratro schizofrenico[18]. E particolare fu anche l’esperienza del poeta francese Henri Michaux, che, abbandonati gli studi di medicina, cercò di esplorare fino in fondo il rapporto che c’era tra ciò che gli pulsava dentro e la l’alterazione mentale[19] con l’assunzione controllata di allucinogeni, «per scoprire i sintomi profondi della psicosi» che, era convinto, fosse in lui, come in ogni altra persona creativa.
Nelle sue Memorie di un neuropatico, il presidente di Corte d’Appello di Dresda in pensione, Daniel Paul Schreber, sebbene malato di mente, poté narrare i deliri paranoici che lo affliggevano, raccontando, con dovizia di particolari, l’insorgere e il progredire del suo male. L’opera che Schreber pubblicò a proprie spese nel 1903, fu segnalata da Jung a Freud che studiò il caso analiticamente. Freud ritenne che Schreber, malgrado fosse tanto malato, avesse una personalità di alto livello spirituale, e che fosse un intelletto insolitamente acuto e capace di finissime osservazioni psicopatologiche.
Lo scrittore austriaco Joseph Roth, fortunato autore di molti successi come La leggenda del santo bevitore, La marcia di Radetzky, Hotel Savoy e Fuga senza fine, finì i suoi giorni da clochard, suicida a Parigi.
Figura inquietante e singolare fu anche il poeta portoghese Fernando Pessoa, la cui personalità anzi, le cui personalità, sia letterarie che psicologiche, furono molteplici, quasi a indicare una scissione dell’Io. Ad ogni libro che scrisse, Pessoa si attribuì un diverso pseudonimo, come a voler significare che era stata una parte sezione della sua personalità ad aver creato quell’opera. Pessoa redasse, per la presentazione di ognuna dei suoi lavori, una biografia distinta ed indipendente del fittizio autore. Solo in seguito si seppe che erano “proiezioni” psicologiche di uno stesso scrittore.
Il drammaturgo Johan A. Strindberg, le cui opere privilegiavano l’immaginario e gli aspetti più sconnessi della vita, al posto del reale e della logica, fu ipersensibile, timoroso e vulnerabile alle pressioni esterne, con un “Io” malfermo, e predisposto alla teatralità. Strindberg soffriva di somatizzazioni allo stomaco, aveva insonnia ed era affetto da deliri di persecuzione. Il filosofo Swedenborg, quando era stato oramai riconosciuto come scienziato di rango, cominciò ad avere visioni. Agli inizi, egli ritenne che questi disturbi fossero “una estrosa esperienza”, e ne parlò anche in pubblico; ma, accortosi ben presto che il suo stato mentale destava sospetti, divenne cauto, «per evitare di essere considerato matto».
Il musicista Michail Ivanovic Glinka, cadde per in depressione e per anni non compose più nulla, e solo verso la fine della sua vita tornò in qualche modo ad essere creativo, e cercò di riformare il canto ecclesiastico russo.
In preda a incubi e visioni fu spesso anche Edgard Allan Poe[20]. Poe alternava periodi di delirante perdita della ragione a stati di lucidità. Scrisse ad un amico: « Mi hanno definito pazzo, ma non è ancora risolto il problema se la follia sia o meno la forma più elevata di intelligenza, se molto di ciò che è illustre, se tutto ciò che è profondo, non sgorghi da una malattia del pensiero, da atteggiamenti della mente esaltati a spese dell’intelletto generale»[21]. E altra vicenda amara fu quella che travolse l’autore de Il giardino dei Finzi-Contini. Dalla moglie e dai figli di Giorgio Bassani fu chiesta l’interdizione dello scrittore perché gli fu diagnosticato che era affetto da demenza progressiva. Louis Althusser, pensatore conosciuto in tutto il mondo e quasi un mito nella Francia del Novecento ebbe una gioventù travagliata; a trent’anni conobbe e sposò la vivace Hélène, che, affetta da gravi turbe emotive era però di intelligenza spumeggiante. Althusser in una delle “consuete sedute in cui praticava alla donna la fisioterapia”, mentre massaggiava il collo della moglie, che giaceva mollemente a letto, inorridito balbettò in preda alla disperazione: «Ho strangolato Hélène?!».Arrestato, in stato confusionale, venne ricoverato in un ospedale psichiatrico. Ma quell’uxoricidio rimase di stampo pirandelliano: in realtà, difatti, non si poté mai appurare se si fosse trattato di una disgrazia o di omicidio intenzionale o preterintenzionale.
Gli autori che in un modo o nell’altro hanno avuto a che fare con crisi psichiche sono molti. Tutto il pane del mondo è la cronaca di una vita passata tra l’anoressia e la bulimia. L’autrice, del romanzo, Fabiola De Clerq, ha vissuto sia l’una che l’altra patologia, ed ha scritto con minuzia di particolari la cronaca della sua malattia. Anche La Matta, è un romanzo frutto di esperienza personale: l’autrice, la statunitense Joyce MacIver, descrive l’esistenza di una giovane incapace di controllare i propri impulsi e di proteggere il proprio corpo. Il libro è l’amara autobiografia, in forma di diario intimo, di una donna condannata a diventare vittima di uomini brutali[22].
Sulla medesima lunghezza d’onda, è Viaggio attraverso la follia [23] che Mary Barnes ha scritto con l’aiuto di un giovane psichiatra, Joseph Berke. Nel libro è raccontato il doloroso cammino di una quarantenne che cerca di recuperare la propria “ratio” e di uscire dall’inferno dell’alienazione.
Karl Jaspers ipotizzò che da alcuni disturbi mentali, possono nascere opere incomparabili «così come una perla nasce dal difetto di una conchiglia». A sostegno di questa tesi Jaspers afferma che il decorso della malattia mentale di Van Gogh corrisponde ai vari cambiamenti dell’intensità e dello stile creativo del pittore.
Ogni persona creativa, ogni artista proprio perché più sensibile, più attento e più concentrato in una intensa attività intellettuale, possiede come un sismografo emotivo molto reattivo e, forse anche più fragile della media, per cui è ha un grado di sopportazione limitato e proprio per tale motivo è soggetto a dubbi, stati d’animo, ossessioni, angosce ed egoismi smodati, che rientrano anche nel quadro della psicopatologia. Emblematica è la “confessione” dello psichiatra scozzese Roland D. Laing, che diede una svolta alla psichiatria contemporanea, il quale racconta che sin da ragazzo era affetto da un’asma psicosomatica, disturbo che gli rimase anche quando divenne una celebrità. «Le conferenze mi terrorizzavano: me la facevo addosso, cominciavo a tremare, mi andava via la voce, perdevo il filo di quello che stavo cercando di dire, mi prendeva un attacco d’asma sul palco»[24]
In quanto al romanziere Rudolf Ditzen, conosciuto con lo pseudonimo di Hans Fallada, egli ebbe una gioventù rattristata dal senso di colpa causatogli dall’avere ferito gravemente a duello un compagno di studi. Quel dolore spinse Hans a tentare il suicidio e, in seguito, peggiorate ancor più le sue condizioni, venne ricoverato in una clinica per malattie nervose.
Una coppia di artisti folli fu quella formata dai coniugi Francis Scott Fitzgerald e dalla moglie Zelda Sayre, entrambi dotati di quel genere di carattere che Freud definì fallico-narcisista, cioè egocentrico, plateale, sempre in cerca di notorietà e continuamente proteso ad attrarre l’attenzione della gente con qualsiasi mezzo. Malgrado i grandi successi letterari, dopo anni di sperperi economici, vissuti nel lusso e tra una sbornia e l’altra, le personalità dei coniugi Fitzgerald arrivarono ad uno stato di quasi totale disintegrazione. Francis era in continua lotta col l’alcolismo e Zelda, la più debole dei due, finì definitivamente in una clinica per malattie mentali.
Nevrotico e tormentato fu anche Thomas Mann che approfittò sfacciatamente della signora Mayer, moglie di un industriale americano e sua grande ammiratrice, la quale, affascinata dalle sue opere, lo adorava. Il romanziere tedesco, non confessò mai all’amica la propria omosessualità, motivo per cui non volle mai incontrarla e all’amica, Mann, tirò in ballo la romantica idea di un’amicizia escusivamente epistolare, senza un incontro fisico tra loro, «perché ciò rendeva più puro il rapporto». La Mayer, lusingata di tanta “finezza d’animo”, accettò la condizione imposta dall’amico, e, ignara dei veri motivi che avessero spinto il suo idolo a fare quella scelta, non chiese mai di incontrarlo.
Wilhelm Reich si spinse oltre i confini della scienza con le sue sperimentazioni. Egli annunziò, partendo dalla sua forse un po’ troppo bislacca teoria dei bioni di avere scoperto “un metodo per assorbire le radiazioni cosmiche, che impiegava sui suoi pazienti. Questa affermazione fece scattare un’indagine da parte del tribunale. Reich rifiutò con disprezzo qualsiasi ingerenza della Corte nel suo operato, e venne condannato a due anni. Finì i suoi giorni in carcere.
Girl interrupted è un libro autobiografico, interessantissimo, scritto da Susanna Kaysen[25], che fu un best-seller, e che rievoca il periodo trascorso dall’autrice, quando appena diciassettenne venne ricovera in una clinica psichiatrica dopo un tentativo di suicidio. Susanna è un test interessante perché descrive mirabilmente l’esperienza delirante, con introspezioni e riflessioni geniali, a volte anche autoironiche.
Ed allora, analizzando tante opere esemplari, ci si chiede se sia possibile ipotizzabile che genio e follia facciano parte di una struttura mentale similare, in cui la prima, è la facciata favorevole, e l’altra quella negativa. La pulsione “geniale”, talvolta è simile alla ossessione e spinge l’artista alla creatività, alla smisurata ambizione, al tormento intellettivo; tutte situazioni equivalenti della esaltazione mentale. E così, sulla base di queste considerazioni, dopo aver parlato di creativi folli, passiamo ad esaminare alcuni casi di folli che sono diventati creativi.
Uno di questi è Mattio Lovat[26], calzolaio perché non poté farsi prete perché troppo povero per mantenersi al seminario, venne ricoverato per malinconia religiosa, nel manicomio di San Servolo, perché si castrò e si crocefisse. Lovat scrisse al tribunale annunziando che per volontà divina sarebbe dovuto morire in croce, col che scagionava e preveniva qualsiasi sospetto affinché la responsabilità della sua morte non cadesse su persone innocenti. Il suo caso venne presentato alla comunità scientifica da Cesare Ruggieri[27]. Altro caso emblematico è quello di Martino Mosca, ospite anch’esso a più riprese di vari manicomi, che analizzò, in alcune pagine, con competenza, la propria malattia. Egli, nella corrispondenza col Priore di San Servolo descrive e analizza con lucidità la propria malattia. Il conte Carlo Abriani[28], anch’egli internato in una struttura manicomiale, scrisse alla direzione di polizia criticando le condizioni in cui erano i degenti, stigmatizzò l’assistenza medica, e contestò la legittimità di alcune procedure d’internamento con espressioni memorabili. Pagine molto toccanti scrisse anche il nobile inglese John Thomas Perceval, figlio del Primo Ministro di Sua Maestà, che venne rinchiuso in manicomio contro la sua volontà a 29 anni[29]. Perceval racconta i meccanismi dei suoi incubi, le sue allucinazioni, i tormenti e i suoi deliri. Descrisse mirabilmente la sensazione di “scollamento” e di “stare in due posti contemporaneamente” come risultato della desincronizzazione della sua mente dal suo corpo. A mano a mano che la sua psicosi si quietava, Perceval comincia ad intravedere una luce, una possibilità di guarigione. John Perceval, scrivendo lettere di fuoco ai giornali e al governo, fu anche uno dei primissimi oppositori al ricovero manicomiale. Altro caso emblematico quello di John Custance, che soffrì di ripetuti cicli di mania e di depressione, e che scrisse, su consiglio del proprio psichiatra, quello che divenne un importante studio sulla sua malattia, Wisdom, Madness and Folly, opera molto apprezzata da vari psichiatri del tempo e in particolare da Jung che lo invitò a Zurigo perché voleva conoscere l’autore di quell’interessante volume. Silvano Arieti[30] riferisce di una poetessa che sperimentava occasionalmente stati schizofrenici, le cui poesie a volte rassomigliavano a «insalate di parole» mentre altre volte avevano una genuina bellezza. Tuttavia, dice Arieti, queste poesie erano sempre di difficile comprensione, «come gran parte della poesia moderna», ed erano a volte delle metafore poetiche a volte delle osservazioni deliranti.
Darold H.Treffert, nel suo saggio Isole della mente[31] esamina alcuni casi di idiots savants, di persone cioè che, malgrado i loro handicap psichici, hanno mostrato di essere straordinarie, dotate di geniali facoltà. E tutto questo, in sintonia con l’osservazione fatta dallo psichiatra Hans Asperger, il quale notò e descrisse una sindrome, che poi prese da lui il nome, non tanto insolita, per cui individui con disturbi psichici gravi si dimostrano per altri versi dotati, fino ad apparire dei talenti, e ciò malgrado le loro imperfette capacità mentali generali.
Un caso sul quale la scienza ancora non s’è pronunziata ma che si presenta interessante, quanto meno come fatto di cronaca, è quello posto all’attenzione dal giornale Le Monde, e riportato da La Stampa[32]. Si tratta dell’edizione di un libro dal titolo La bambina porcospino, che, edito in Germania nel settembre del 1999, e tradotto in francese dalle Editions Imago nel dicembre dello stesso anno, è divenuto un best-seller. Questo libro è una specie di autobiografia, che, pare, sia stata dettata, o è meglio dire suggerita?, da Katia Rhode, una ragazza autistica di 28 anni, assistita da anni con un particolare metodo che favorisce la comunicazione, alla madre, una professoressa di lingue che lo ha “tradotto” in testo in modo leggibile. Katia appena nata è vissuta in una incubatrice, poi, ad un anno e mezzo, i medici stabilirono che fosse autistica, e, forse, anche ritardata mentale. La ortofonista Anne-Marie Vexiau è riuscita a creare un ponte “simbiotico” con la ragazza, tanto che ciò ha consentito alla madre di Katia di annotare “i sentimenti” della figlia e tradurli in un libro. Approccio prodigioso o semplice illusione?
3cf Personaggi “matti” e la letteratura della follia
La pazzia è oggetto dell’attenzione non solo degli studiosi del cervello, ma anche di scrittori, filosofi, musicisti e pittori. Dante Alighieri considerava la pazzia una condizione di diversità, distaccata dalla natura umana e che ripugnava anche al senso estetico. Nella letteratura e nel teatro del Rinascimento venne meno il significato drammatico, tipico della rappresentazione greca, e l’azione scenica passò alla narrazione di storie eroiche e morali. Ma ci furono voci isolate, come le novelle del domenicano Matteo Bandello, le quali, a differenza delle opere dell’Alighieri e del Boccaccio, che raccontavano personaggi sicuri di sé, goderecci, e inseriti nella comune realtà, furono pervase da personaggi dalla psiche malata, introversi, irresponsabili, maniaci, ipocondriaci, dementi. I protagonisti del Bandello hanno vita abnorme, inconsulta, guidata dall’inconscio e sono segnati da un destino stravagante, irretiti da una ragnatela inestricabile, che li spinge a soluzioni tragiche, spesso immotivate. Bandello scopre che la frattura fra l’uomo e la vita porta alla alienazione. I tipi psicopatologici inseriti nella narrazione del Bandello sono guidati dalla nevrosi e si comportano, di conseguenza, secondo uno schema patologico. Anche Adriano Banchieri, verso la fine del ‘500, firmò una commedia in forma di madrigale, dal titolo La pazzia senile, e la cui prima edizione fu a Venezia nel 1598. L’opera, ora scherzosa, ora sentimentale, ora triviale, narra le vicende bislacche e lunatiche di un vecchio mercante, tal Pantalone, il quale, innamorato di una cortigiana che lo respinge, finisce col comportarsi da matto.
Shakespear ha approfondito le vicissitudini mentali, riconoscendo la psicopatologia e indagando all’interno dell’animo turbato. L’amara e tragica demenza di Re Lear, la stravaganza aggressiva e delirante di Enrico IV, l’evanescente vaneggiamento di Ofelia, l’insanità, lucida e “ragionata”, di Amleto[33], la frenesia ossessiva di Otello e la dissennatezza agghiacciante e colma di deliri, di Macbeth, sono esempi di una trasposizione scenica di modelli rilevati nella realtà. Ma la follia non è solo un’esperienza tragica: essa può essere una via d’uscita per superare la vanità della vita. L’olandese Erasmo da Rotterdam ne tesse l’elogio, sostenendo che l’alienato, per quanto insensato sia, possiede più senso comune e sragiona meno delle cosiddette persone ragionevoli.
A poco a poco nella letteratura e nel teatro, cominciò ad affacciare il tema della alienazione, e l’equilibrio oggettivo dell’esistenza, così com’era nell’ideale antico e in quello umanistico, si è definitivamente frantumato. Il folle, sfidando e ridicolizzando i sani di mente, mette in crisi certezze e stabilità metafisiche. L’alienazione rende il destino dell’uomo non più fisso, prevedibile, istituzionalizzato, come un tempo; ma lo rende volubile, in mano alle circostanze, agli umori e agli stati d’animo, che sono mutevoli, imprevedibili, ed enigmatici.
Gli scrittori rappresentano, con le figure della pazzia, tutta la gamma più terribile e più grande della condizione umana, e allora la stravaganza non suscita solo spavento, ma anche rispetto. Lo spettacolo teatrale, manifestazione e rappresentazione della realtà, a poco a poco si è adattato ad analizzare la mente dell’uomo. Il palcoscenico, espressione della vita e celebrazione degli stati d’animo quotidiani, è diventato meditazione e “lettura” di caratteri, di costumi, di comportamenti per una più approfondita comprensione dell’uomo. Il teatro, come il manicomio, può essere la platea più accreditata per presentare la maschera della eccentricità, e così, nell’azione scenica, il matto, con i suoi comportamenti e le sue osservazioni, stimola la riflessione sull’ampio capitolo della mente umana.
Secondo Jacques Lacan, i complessi sono personaggi di una commedia dell’arte, perché ogni individuo recita secondo un canovaccio e secondo ruoli predefiniti sia la propria maschera civile, che i propri malesseri mentali. La rappresentazione teatrale della alienazione e il teatro della vita sono dunque, per Lacan, congiunti indissolubilmente. Una connessione che è sottolineata anche dallo psichiatra Jean Esquirol, il quale organizzava spettacoli teatrali con attori presi tra gli alienati, e dallo psicologo Jacob. L. Moreno che inventò lo psicodramma come situazione catartica.
Allora fu chiaro che le passioni, sottratte al controllo della ragione, e fomentate dalla stravaganza, sono componenti della vita. E la pazzia è l’ineluttabile rovescio della medaglia; l’alternativa alle consuetudini e ai luoghi comuni. Questa nuova prospettiva ha portato alla ribalta, nella letteratura moderna, il segreto e l’intimità dell’anima, i sentimenti più nascosti – e non per questo meno essenziali – che garantiscono la comprensione del personaggio. Questa angolazione narrativa, ha messo a nudo, scavando nella coscienza, quanto di cupo e di dissennato coesiste nell’animo umano e vive, nascosto e frammisto alla dimensione “del normale”.
Nella commedia di Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore così si esprime il personaggio del padre: «Lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non hanno neppure bisogno di parere verosimili; perché sono vere».
Trafiggere l’insipienza della vita, utilizzando riflessioni temerarie può essere un’operazione rischiosa, ma in qualche caso, è proprio la stravaganza che crea una “protezione” contro le inestricabili contingenze della quotidianità, sicché la sregolatezza, nella dimensione artistica, ha il potere di metabolizzare ciò che c’è di più nefasto nella vita ed allora la follia perde quel senso di pericolosità e di precarietà che le si attribuisce, e testimonia, anzi, la drammaticità della vita.
La letteratura moderna ha compreso che nel matto, come in chiunque, convivono menzogna e sincerità, schiettezza e simulazione, ambiguità e realismo; e che tutto ciò rende indistinta e scarsamente individuabile la demarcazione tra mania e sanità mentale.
La cultura, la filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema, le arti figurative, cominciarono a descrivere la vita tenendo presente anche l’alienazione. Le opere di Erasmo da Rotterdam, Gaetano Donizzetti, Arrigo Boito, Luigi Eugène Jonesco[34], Woody Allen, Jngmar Bergman, Alfred Hitchkok Edvard Munch, etc., etc. sono esempi della attenzione rivolta agli squilibri dell’animo umano.
Nell’opera del poeta tedesco Sebastian Brant, che ha come titolo La nave dei pazzi, i passeggeri rappresentano tutte le classi sociali, tutti i mestieri e tutti i tipi umani, ed in ognuno di essi aleggia una forma di squilibrio, e con ciò l’autore ha voluto sottolineare che la irragionevolezza alberga non solo negli interstizi mentali del singolo ma anche nelle strutture sociali. La pazza di Chaillot, opera teatrale frutto della intelligenza acuta e colta del francese Jean Giraudoux, è un ritorno alla medievale allegoria della lotta tra il Bene e il Male, in bilico tra ragione e stoltezza. Complesso e pieno di sfaccettature è il dramma in prosa Il pazzo di Dio dello scrittore spagnolo José Echegaray, che venne rappresentato nel 1900, con un discreto successo.
Insinuato il dubbio che la vita non si possa spiegare se non facendo ricorso all’insensatezza, la quale, in maggiore o minor misura, è presente in ogni essere umano, si è allora riconosciuto che un pizzico di demenzialità è insita nella natura umana, tant’è che la perdita della ragione può essere considerato un incidente di percorso, una delle possibilità della vita, un momento irrazionale dell’esperienza, altrettanto incisivo quanto la “saggezza”.
A mano a mano che si analizza la follia, e si cerca di definirne i contorni, i confini tra essa e la normalità diventano sempre meno distinti, tant’è che, ad intermittenza, l’una può sostituirsi all’altra. La alienazione diventa allora la manifestazione ultima del fallimento umano ma anche la dimostrazione che solo entrando “nella logica” della follia è possibile adattarsi all’insensatezza dell’esistenza.
Partendo da questo punto di vista, molte opere d’arte testimoniano, con personaggi eccentrici, la psicopatologia della vita quotidiana e, in qualche caso, da esse si può desumere la stravaganza e le esperienze psicopatologiche dei loro autori, il che conferma quanto la vita e l’arte convivano con l’esaltazione e la dissennatezza.
Smarrite le vecchie, ipocrite certezze e varcata la soglia proibita della trasgressione, i maniaci diventano allora i nuovi eroi della letteratura. «Talvolta l’artista ha una capacità di creare immagini quasi paragonabile a quella del sognatore, o quella capacità di darsi a “orge di identificazione” che ha lo schizofrenico», scrive Silvano Arieti[35].
L’agonia della normalità è più evidente a mano a mano che si affina la sensibilità psicologica la quel vanifica le vecchie sicurezze e ne denunzia i limiti e i pregiudizi. Bizzarria e demenzialità anticonformista e stravagante, a volte, sono l’unico mezzo per affrontare quei drammi dell’esistenza che l’ipocrisia sociale cerca di eludere o addirittura di ignorare, e si pongono come cartina di tornasole per mettere in luce la pericolosità di alcune devastanti credenze che, invece, il pregiudizio esalta. Ma quando si rinnega il deformante rispetto dei pregiudizi e si riconosce al destino dell’uomo, un’alternativa, una imprevedibilità che rimette in discussione tutto ciò in cui si è creduto, allora chi sovverte i vecchi criteri di giudizio è considerato squilibrato. Tuttavia è il “matto” che può scrollarsi da dosso la presenza ingombrante, granitica, inalterabile delle imposture, e può navigare in un piano separato, che lo mette in qualche modo al riparo dal doloroso mondo quotidiano. A quel punto, la follia, può essere una mediazione tra l’infelicità e il bisogno di fantasia, e può diventare parte integrante dei sogni, delle ambizioni e delle chimere. Corrodendo i valori tradizionali, essa sconvolge la ritualità quotidiana, fatta dell’ovvio e del consueto, e crea dissonanze stravaganti, rimescola l’inesauribile serbatoio della vita, e suscita nuovi appetiti e nuovi punti di vista.
È forse un errore di prospettiva intendere la follia, come qualcuno fa, una sorta di disumanizzazione: essa è, invece, il punto di maggiore umanizzazione della tragedia umana. Essa vanifica la rigida maschera della prosopopea e combatte i fantasmi della consuetudine. Infatti, poetica farneticazione è quella di Don Chisciotte, con la quale Cervantes fa vedere come l’umanità sia prigioniera dei luoghi comuni e della vanità. Don Chisciotte crede fermamente nei simulacri e dissolto il suo delirio, gli viene meno anche la vita stessa, essendo per lui soffocante e deprimente la piatta realtà quotidiana.
Nel volume di racconti Le Horla, di Maupassant, v’è, all’inizio, un episodio in forma di diario, in cui un individuo annota la terrificanti fantasie che gli vengono in mente, ossessionato dalla presenza di un essere soprannaturale al quale ha dato il nome di “Horla”. Costui è, secondo l’autore del diario, un essere superiore che si è impossessato dei pensieri dello scrittore fino a renderlo suo schiavo. Il manoscritto di Maupassant, ad un certo punto, s’interrompe bruscamente, come se il protagonista della storia fosse colto dalla confusione mentale e non potesse continuare a scrivere. Il racconto si svolge in un incubo, e mostra il vagabondaggio della ragione, la sterilità maniacale e il disperato e frenetico bisogno di certezze, che qualcuno ha visto collegati alla salute psichica di Maupassant, come una impressionante confessione e una testimonianza dello squilibrio mentale dello scrittore.
Nel romanzo Storia di una capinera, Giovanni Verga, anticipa nella prefazione, che l’idea di mettere quel titolo all’opera gli venne dopo aver osservato una capinera che era morta in gabbia non perché non avesse da mangiare, ma perché aveva sofferto la mancanza di libertà. In preda all’alienazione è anche il personaggio di Marina in Malombra di Fogazzaro.
Stevenson parlare di follia nel romanzo Lo strano caso del dr Jekyll e del signor Hyde, che egli scrisse nel 1886, e che è il racconto un caso di sdoppiamento della personalità e personaggio psicopatico è anche quello creato dallo scrittore Robert Bloch, come protagonista del romanzo Psycho, che vide la luce verso la fine degli anni Cinquanta e che ebbe tanto successo da essere adattato dallo sceneggiatore Joseph Stefano per un film di Alfred Hitchcock. La trama delinea un interessante caso clinico di sdoppiamento della personalità che assume le due facce del Bene e del Male.
Altro personaggio che incarna tutta l’irrazionalità della mente umana, è Lafcadio Wluiki, protagonista de I sotterranei del Vaticano di André Gide, il quale, per realizzare qualcosa di assolutamente singolare, arriva a commettere il delitto perfetto, gettando uno sconosciuto dal treno senza alcun motivo.
Joseph Conrad mescola nel romanzo La follia di Almayer un incredibile serie di elementi fantastici, di leggende, di spunti esoterici. Sebbene non abbia forza epica, tuttavia, nello squilibrio mentale di Almayer aleggia drammaticamente l’inconoscibile e l’inafferrabile che sovrasta ogni impresa umana.
Nel romanzo di Charlotte Brontë, Jane Eyre, la moglie del signor Rochester, è pazza e il marito la tiene segregata in una stanza della casa, lontana dalla vista di tutti. Quando Jane viene a conoscenza del segreto del signor Ronchester, sconvolta fugge via da quella casa in cui una matta è tenuta segregata. Jane Eyre è un racconto morboso e drammatico, ma ha il merito di avere introdotto nella narrazione letteraria il problema della follia infiltrata nell’ambiente familiare.
Lo squilibrio mentale, è narrato dal poeta Ivan Ivanovic Kozlov nel poema La folle, in cui lo scrittore russo narra il desino di una giovinetta che, nel suo delirio intermittente, crede di ravvisare in ogni passante l’innamorato che l’ha abbandonata. La disperazione della fanciulla è al fine attutita dall’incontro con un poeta, al quale ella narra la propria sventura.
Caligola, protagonista del romanzo di Albert Camus, incarna la filosofica dell’assurdo: l’imperatore romano, ormai consapevole che il mondo in cui vive è illogico, malgrado la terribile coerenza e intelligenza che egli manifesta, si comporta inevitabilmente da persona delirante. Trascinato dalla demenza, e immagina di diventare simile agli dei e, ritenendoli irragionevoli, moralmente insensibili ed immorali, Caligola ne introietta le medesime peculiarità e si comporta, al pari degli dei, in modo crudele e ingiusto.
Nella novella Gli orologi del senese Federico Tozzi, scrittore di fine Ottocento, anarchico, socialista e in seguito divenuto nazionalista, la figura del venditore di limoni è descritta con tutte le sfaccettature di una dolce follia intrisa di improvvisi scatti polemici e umori non duraturi. Lo scrittore Hermann Merville, animo tormentato a causa di un’adolescenza molto travagliata, il suo capolavoro. Maby Dick è un racconto dalla complessa e polivalente simbologia, nel quale spicca la personalità del capitano Achab, personalità devastata dal drammatico bisogno di lottare contro forze di cui si sente vittima. Achab insegue simbolicamente attraverso i mari inesplorati della sua mente la causa della propria sofferenza. Si tratta di una sfida orgogliosa, ma anche di una manifestazione di delirio autodistruttivo.
Folle è pure il protagonista del romanzo Frankestein, o il Prometeo moderno, di Mary Shelly Wollstonecraft. Frankestein è un personaggio mostruoso, prodotto dalla scienza, il quale, una volta composto in tutta la sua interezza e raggiunta la vitalità, uccide il luminare che lo ha “ricostruito” pezzo per pezzo.
Anche lo scrittore gallese Richard Llewellyn ha affrontato più volte il tema della follia, e lo ha fatto in Com’era verde la mia valle, ed anche nel dramma Penna avvelenata. Tenera è la notte di Francis Scott Fitzgerald, è un romanzo ambientato nella Costa Azzurra. La moglie del protagonista del romanzo, è matta come lo era anche Zelda, moglie dell’autore, la quale, dopo i primi collassi nervosi e i primi ricoveri, e dopo essersi rovinata con l’alcol, finì in un sanatorio. Italo Calvino, narrò in La giornata di uno scrutatore la vita che si svolge in un manicomio. Lo scrittore, che in precedenza aveva affrontato i temi della vita sociale italiana negli anni del miracolo economico, mise a nudo l’orrore della ambiguità morale e il dissidio insanabile tra l’ideologia e la vita, attraverso la deformazione fisica e morale prodotta dallo sconvolgimento mentale.
Nel romanzo Gli anni perduti, Vitaliano Brancati descrive, con appropriata e minuziosa analisi psicologica, lo sprofondare nel baratro del delirio, passando dall’angoscia esistenziale alla demenza, di Enzo De Mei, fratello di Rodolfo, uno dei protagonisti del romanzo. Enzo, spiega il Brancati, aveva dimostrato sempre una grande curiosità per i matti, e li aveva osservati e aveva studiato le loro mosse, i loro pensieri. E un giorno, ad un tratto, «il riso sbottò fuori con un rumore infernale. Enzo, con una mano si copriva la faccia, con l’altra si sosteneva il ventre in modo che resistesse al martellio che veniva giù dal petto» (…) «Enzo sembrava che volesse buttar fuori dal petto, fuori dal proprio essere un impaccio, per espellere il quale tuonava e avrebbe tuonato quel riso, come la tosse quando vuole espellere un chicco d’uva andato di traverso» (…) «l’impaccio di cui Enzo si era liberato con quei colpi di riso, era né più né meno che il senno», e così, alla fine, il De Mei era diventato una creatura «che non faceva più parte degli uomini».
Il romanzo dello psichiatra C. Terron, Lavinia tra i dannati, del 1959, segnala il rinnovato interesse per le nevosi. Ad esso si affiancano anche altri romanzi come Una lunga pazzia di A. Barolini, e Il memoriale di P. Volponi, una delle opere del genere più riuscite, che ripropone il tema dell’alienazione mentale con aspetti umanitari e sociali toccanti. Ottiero Ottieri, nel racconto Sua maestà l’encefalo, indaga sulla psicologia del malato, e con Memorie dell’incoscienza approfondisce le tematiche psicoanalitiche cercando di farle quadrare con il sistema del pensiero marxista. Interessante è anche Il mondo psicotico di Lara, un romanzo-documento scritto da Cesario Romano, che racconta il camino di una sua paziente in cerca di una redenzione creativa.
Il Male oscuro di Giuseppe Berto testimonia come la “malattia dell’anima” possa colpire inesorabilmente l’esistenza d’un individuo soprattutto se suscitata dalle tensioni della vita familiare. Protagonista del romanzo è lo stesso autore, che racconta la storia del lungo contrasto col proprio genitore. Marnie è un romanzo di Winston Graham che ha tutto gli ingredienti psicoanalitici per entrare nell’area della neurosi: la cleptomania come compensazione per la carenza affettiva, la sessuofobia derivata dall’avere assistito nell’infanzia a scene di violenza, la rimozione di un fatto traumatico accaduto prima dell’adolescenza e tutto questo viene risolto, anche se forse troppo semplicemente, tramite le associazioni d’idee. Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni è una visione del disordine, della frammentazione, della delirante loquacità di coloro che vedono continuamente sbriciolarsi la realtà in seducenti ed implacabili suggestioni oniriche. Cavazzoni analizza la ricorrente perdita di senso, il malessere e lo sconforto della solitudine, che scolpiscono la mente dei ricoverati in strutture psichiatriche. Mario Tobino, medico con propensione letteraria, ha scritto vari romanzi dal taglio psichiatrico: Le libere donne di Magliano, Per le antiche scale e Il manicomio di Pechino. Un po’ in tutte le opere di Tobino, la mano dello psichiatra e quella del narratore s’intersecano e si completano. Un po’ in tutti i romanzi, l’autore denunzia l’incomprensione e il profondo divario che separa il malato dal mondo e indaga con pietà e acuta psicologia, l’amara condizione di chi è affetto da disturbi psichici.
La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda è un altro impareggiabile ritratto di personaggio nevrotico, come lo è pure il romanzo Le sorelle Materassi di Aldo Palazzeschi, che narra i rapporti nevrotici, sadomasochisti, i rancori ossessivi, le mitomanie di due sorelle ricamatrici, che sono travolte dal trambusto emozionale causato loro dal nipote Remo.
Singolare è pure il romanzo Follia di Patrick McGrath[36] in cui uno psichiatra narra la conturbante vicenda che accade all’interno di un tetro manicomio criminale, e cioè la passione tra Stella Raphael, moglie di un altro psichiatra ed Edgard Stark, un artista che è detenuto nella struttura carceraria perché colpevole di un efferato uxoricidio.
Il favore incontrato da Lo straniero di Camus è forse dovuto alla singolarissima figura assurda e ambigua del personaggio principale che, all’indomani della morte della madre va a fare i bagni di mare, inizia una relazione irregolare e si reca a cinema per ridere con un film comico. Il personaggio è un esempio della “bella indifferenza” che caratterizza la psiche disturbata.
Ma uno dei temi più sentiti è il rapporto e lo scontro generazionale, che a volte assume toni drammatici e si evolve in azioni folli e sconsiderate, come nel caso de Il figlio del drammaturgo tedesco Walter Hasenclever e di Parricidio di Arnold Bronnen, che spingono fino alle estreme conseguenze, fino a pervenire ad atti insensati, l’odio covato dai figli nei confronti dei genitori. Interessante è pure la tematica della protagonista della commedia di Hermann Bahr, L’altra, una donna che ha una doppia personalità, essendo incapace, nonostante ogni sforzo, di sfuggire all’attrazione di un uomo del quale ella è succube. Nel teatro di Ionesco la follia si muta spesso in autoironia; in Pirandello è un escamotage intellettuale alla ricerca della verità.
Di ben altra “pasta” è, invece, Ti ammazzo, amaro romanzo di Pascale Froment che prende spunto dalla storia di Roberto Succo, matricida e parricida, il quale si suicidò poi nel carcere di Vicenza e alla truculenta vicenda si è ispirato anche il drammaturgo Bernard-Marie Koltès. Sullo stesso genere, e forse più intenso e disperato perché scritto direttamente dal padre dell’assassino, è il libro Mio figlio assassino di Lionel Dahmer, il medico di Milwaukee che scoprì come suo figlio Jeff si fosse macchiato di alcuni dei crimini più orrendi commessi negli Usa, tra gli anni Ottanta e Novanta. Scrivendo quel diario-romanzo, il dottor Dahmer ha confessato di augurarsi di avere contribuito a fare capire le motivazioni che possono essere alla base di un cervello malato.
E ancora più conturbante è il diario di Jack lo squartatore, rinvenuto a Liverpool, e nei confronti del quale il criminologo Robert Smith[37] e altri studiosi portano prove abbastanza convincenti[38] che possa essere davvero lo sfogo di un perverso criminale, intelligente e acuto, che, tra il 1888 e il 1889, si macchiò dei cinque delitti di Whitechapel.
4cf La follia nelle arti figurative
La follia è tratteggiata da insigni pittori, stregati dalle manifestazioni oscure e instabili della mente. Una creatività pittorica si riscontra nelle opere di artisti alienati, come nel caso di Adolf Wölfi[39] vissuto trenta anni in un ospedale psichiatrico, costellando la sua vita di tele affascinanti, o di quel “Carlo”[40], studiato da vari psichiatri, le cui opere sono esposte al Museo Guggenheim di Venezia o della pittrice Aloyse, già citata, la cui produzione pittorica si trova in gallerie e musei rinomati. Tutte queste opere dimostrano che anche nei malati di mente può esistere un produttività artistica e una creatività esternate con mezzi espressivi non inferiori a quelli degli artisti sani, e ciò fa supporre che l’arte scaturisce da tensioni emozionali molto vicine alla sofferenza della follia.
Ma a parte gli artisti schizofrenici, molti rappresentativi maestri della pittura hanno raffigurato l’aspetto conturbante della demenza. In questo filone troviamo il fiammingo Hieronymus Bosch, con i quadri La cura della pazzia, La nave dei folli, e Tentazione; Lucas Cranac il Vecchio col suo dipinto La malinconia, l’olandese Pieter Brueghel con l’efficace Grieta la folle, e Gli storpi, in cui i visi disumani non sono solo un handicap fisico. Il tema del suicidio “esitenziale” narrato da I dolori del giovane Werther ha ispirato un’incisione di J, Amand, che ha ritratto Lotte che consegna la pistola a un messo di Werther.
La follia è rappresenta dal fiammingo, Dirck Bouts, con figure mostruose di animali folli e deliranti. Anche Velasquez dipingeva idioti e folli. E di Martin Schongauer è celebre la serie delle Dieci vergini sagge e stolte. Cesare Ripa ritrae la malinconia nelle sembianze di una donna vecchia e mesta. Stephan Lochner, col suo grottesco Giudizio Universale, dipinge la natura, come se fosse improvvisamente impazzita e producesse mostruosi animali.
E ancora la demenza, sotto forma di animale impazzito e deforme, l’ha effigiata il pittore tedesco Mathis Grünewald nella Crocifissione e nella Tentazione in cui vi sono demoni balzani e mostruosi. Albrecht Dürher tratteggiò, in una incisione su metallo, la “melencolia”, e anche Hans Baldung, detto Grien, il quale riportò in alcune delle sue opere il tema düreriano.
Il pittore Francisco Goya y Lucientes ha rappresentato la malattia mentale nel Cortile dei folli, e nel quadro Cronos divora i suoi figli. Il Goya, di carattere irascibile cadde in depressione e per allontanare lo spetto della malinconia, il Goya dipingeva con tremenda furia creativa.
Delirio e incubi li ritrasse Edvard Munch, denunciando un animo travagliato, in cui l’angoscia metafisica trova l’espressione nel torbido arzigogolo delle immagini, nell’esperienza tragica di un delirio espresso da visi disumani. L’urlo, e l’Angoscia, sono manifestazioni di un’ansia, che ha una valenza metafisica.
La cura della follia è una bellissima e rappresentativa incisione che fa parte dell’opera Récueil des plus illustres proverbes, esposta alla Bibliothèque Nationale di Parigi.
Contraddizioni ed angosce che si possono “leggere” come l’immagine di un particolare mondo spirituale, proprio nei disegni dei malati mentali. Questo genere di estrinsecazione espressiva è favorita dai terapeuti, perché rappresenta uno dei momenti d’incontro più importanti con l’inconscio del malato.
Nel descrive l’arte degli schizofrenici Karl Jaspers afferma che in essa, espressione particolarmente emblematica della vita psichica, c’è soprattutto la tendenza a dare “la rappresentazione di un insieme del mondo e dell’essenza delle cose”. E infatti, conversando con i malati autori dei disegni, Karl Jaspers rilevò che è possibile «venire a sapere che spesso le cose più semplici sono piene di significato simbolico e di fantastichi arricchimenti».
5cf La follia e la musica
La musica non ha mai molto commentato la follia e viene spontaneo chiedersi, come mai dal momento che i musicisti hanno interpretato stati psicologici come la tristezza e la passione, non abbiano approfondito il linguaggio della alienazione e dello squilibrio, con note, accordi e ritmi, che siano in grado di far conoscere ciò che passa nella mente di una persona psichicamente malata, anche, per esempio, se le dissonanze di Schönberg, sembrano in qualche caso assumere la forma dell’angoscia, con un linguaggio musicale vicino alla tensione catastrofica della frenesia.
Scrive Albert Wellek[41] che il tema della psicologia della musica non è stato mai molto approfondito. Studiando il fenomeno “musica”, dal punto di vista psicologico, Wellek rileva che alcune persone sono più portate ad apprezzare il contrappunto mentre altre, invece, provano maggior trasporto per la musica armonico-timbrica. Questa analisi ha portato al tentativo di fare una “tipologia” degli ascoltatori-fruitori ed anche dei creatori-musicisti. I risultati, però, non sono stati molto incoraggianti per quello che concerne la psicologia della creazione musicale. Tuttavia, qualcuno, come il musicologo J. Bahle, ha sottolineato che si possono rilevare delle creazioni concepite quasi in stanti di sogno, come accadde, secondo quello studioso, per certa musica di Schubert.
C’è chi però è del parere che, essendo la musica soprattutto armonie, cadenze e assonanze, esse rappresentano tutte le sfaccettatura dell’animo umano, compreso il delirio. Walter Mauro[42] ritiene che l’improvvisazione del jazz, con la sua libertà polifonica, rappresenta un magico rituale, in cui confluiscono “in diretta” percezioni dall’inconscio. Alcune musiche medievali venivano chiamate “danze dei folli”, perché avevano qualcosa di conturbante che in concreto si avvicina ad un genere musicale capace di esprime l’alterazione mentale.
Si potrebbe allora sostenere che dissonanze, assonanze, improvvise mutazioni del ritmo, possono anche essere emblematici simboli della irrequietezza psicopatologica?
Lo psicologo-antropologo Imre Hermann[43] ha rilevato che per mezzo della musica si può “entrare in sintonia” con il delirio, osservazione questa che gli venne, avendo notato che, dopo una notte di ritmicità ossessiva, lo stato psichico di alcune popolazioni tribali. Hermann addirittura sostiene che vi possa essere una certa concomitanza tra talento musicale e disturbi psichici. Ma non tutti trovano al riguardo serie conferme cliniche della sua attendibilità.
Anche quei musicisti che concepiscono la musica come linguaggio “dei sentimenti, delle passioni o degli stati d’animo”, da Schumann a Debussy, da Respigni a Smetana, da Sibelius a Bertlioz, a Liszt, non si sono mai cimentati a scrivere musica che esprima stati di follia. Una limitazione, questa, che probabilmente potrebbe derivare dal fatto che il connubio tra la musica, arte astratta e svincolata da un oggetto, e narrazione del reale, è una operazione complessa, e dai risultati alquanto ambigui.
«La musica di un quartetto di Beethoven mi commuove e mi fa pensare, ma non saprei esprimere con le parole che cosa vuol dire. È piena di senso per me, ma forse non “significa” nulla», così si esprime Denis Gaita, psicoanalista e musicologo[44]. I tentativi di assimilare la musica a sistemi semantici per produrre un “vocabolario” semiologico musicale, sono in parte falliti, e questo anche perché la “traduzione del contenuto” della musica in parole sarebbe in ogni caso riduttiva. Anche se ciò non esclude, teoricamente, che la musica possa descrivere la follia con mezzi propri. Ciò fa pensare che la musica abbia un’ampia gamma di opzioni in fatto di interpretazione dei suoi significati, e, così, se una marcia o una ninna nanna possono essere facilmente individuabili, perché “di uso comune”, in quanto alla interpretazione di stati mentali espressi dalla musica, il discorso diventa difficile e problematico (almeno fino ad oggi) .
E nemmeno testimonia alcun significato psichiatrico la sonata detta “La Follia” di Arcangelo Corelli, o magari il Capriccio bisbetico di A Falconieri, sebbene abbiano un richiamo esplicito nel titolo, come, invece, fanno in realtà i quadri di Munch, di Bosch, di Brueghel, di Bouts, etc., nei quali, è possibile “leggere” l’angoscia.
La Follia di Corelli infatti è semplicemente una variazione sul tema di una danza spagnola e, il Capriccio bisbetico di A Falconieri, che è una danza a struttura binaria.
Inoltre, cantare serve a liberare energie, ed ascoltare musica, soprattutto se si tratta di suoni melodiosi, sono ambedue espedienti terapeutici che sciolgono i grumi affettivi bloccati nel profondo.
Musicisti come Cole Porter, Irving Berlin e Charlie Parker hanno sofferto disturbi psichici più o meno intensi che li hanno costretti al ricovero per qualche periodo della loro vita, e tuttavia per molti di loro la musica ha avuto anche una funzione terapeutica. A tal proposito, un’esperienza singolare ebbe Franz Liszt il quale venne invitato alla Salpêtrière per osservare quali effetti avrebbe sortito il suo virtuosismo sonoro su una degente che mostrava predisposizione alla musica. La sperimentazione fu ripetuta, invitando, di volta in volta, alcuni concertisti famosi di quel tempo, ma, secondo François Leuret, lo psichiatra che promosse l’iniziativa, «non è sufficiente ascoltare musica, occorre farla».
Ma se la follia non è entrata a far parte della struttura della composizione musicale, essa è stata utilizzata dai grandi compositori di opere liriche, ai quali non sfuggì l’interesse e il fascino che la follia aveva sulla gente. In questi casi, però, la follia è stata trattata dai musicisti come complemento dell’intreccio, e il racconto delle patologie avviene tramite la funzione scenica, non per mezzo del pentagramma, il quale, semmai, accompagna l’evento psicopatologico. La follia, in moltissime opere, non è protagonista della struttura musicale, ma solo dell’intreccio scenico.
La descrizione dell’alienazione, è rappresentata da Ofelia, protagonista femminile dell’Hamlet ( 1868) di Thomas Ambroise Charles Louis (1811-1896), nell’Elvira de I Puritani di Bellini, nella Lucia di Lamermour, di Donizzetti, ne il Pirata di Bellini. Nel Macbeth, di Verdi, nella Anna Bolena di Gaetano Donizzetti , nel Boris Gudonov di Modesto Musorgskij, e nelle Medea di Giovanni Pacini, di Vincenzo Tommasini e di Paul Bastide.
Stravagante e squilibrato è anche il personaggio di Nerone nell’Incoronazione di Poppea di Monteverdi; e non è certo sana di mente la protagonista dell’opera Dinorah di Mayerbeer e Margherita, nel Mefistofele di Boito. Fuor di senno è certamente la protagonista dell’opera Nina (ossia) La Pazza per amore di Giovanni Paisiello. Nel Parsifal di Wagner, il giovane Perceval è il «puro folle». Anche la musica leggera s’interessa alla follia, e un caso davvero emblematico, a tal riguardo è la canzone di Don Backy, Sognando, cantata da Mina, che racconta la vita e la disperazione di una matta[45].
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6cf Gli inventori e la stravaganza
Arte e scienza, afferma Martin Kemp[46], sono pressoché indiscernibili nel processo di osservazione, in quanto l’esperienza estetica e quella cognitiva sono un tutt’uno, come ha dimostrato l’attività creativa di Leonardo da Vinci.. E così, stranezze e bizzarrie, alienazione e atteggiamenti maniacali non si riscontrano solo negli artisti, il cui genio, per definizione, si pasce della sregolatezza tipica dei creativi, ma si rilevano anche nei protagonisti della scienza, nei grandi inventori, nei filosofi, negli ideatori di grandi scoperte tecniche, in coloro che approfondiscono i più intimi segreti della natura. Insomma, in scienziati che devono utilizzare, per il loro sapere, la ricerca lucida e sistematica e per ciò sono tenuti ad essere “mentalmente” chiari e disciplinati, se vogliono raccapezzarsi nel caos dell’universo. Eppure, malgrado questo, persone di primo piano che hanno avuto a che fare con la ricerca scientifica, hanno sorpreso per qualche tratto balzano nel loro carattere.
E così, in qualche caso, è accaduto che, innescato il sacro fuoco del lavoro di ricerca scientifica, il furore creativo ha travolto l’esistenza di alcuni apprendisti stregoni, conducendoli nell’antro infernale della esaltazione, della frenesia aberrante e in deliranti vaneggiamenti, come accadde, alla fine del XVIII, secolo allo scopritore dell’uranio, Martin Klaproth, che pare, ad un certo momento della sua esistenza abbia smarrito la via della ragione.
Il grande pedagogista Jean Jacques Rousseau, autore de L’Emilio e del Contratto sociale, opere di grande peso e su cui si basa la sociologia moderna, era affetto da crisi paranoiche, e ossessionato, tutta la vita, da idee persecutorie che lo resero inviso a chiunque lo frequentava. Secondo René Laforgue[47] la malattia del filosofo ginevrino si manifestava sotto tre diversi aspetti: esibizionismo, pulsione irrefrenabile alla confessione e mania di persecuzione. Rousseau aveva un irrefrenabile bisogno di scrivere non solo perché ciò gli procurava autostima ma perché si considerava un redentore, e s’era posto il compito di migliorare l’umanità col suo trattato pedagogico l’Emilio. Rousseau aveva, inoltre, uno spasmodico bisogno di mettere a nudo le bassezze dell’animo umano e di guardare così in faccia la miseria della condizione individuale, cosa che fece nelle sue Confessioni; il terzo tratto caratteriale di Rousseau, afferma Laforgue, scaturì dalle infelici esperienze dell’infanzia del filosofo, i cui traumi gli comportarono una aberrante paura dell’impotenza e il timore panico di una omosessualità più o meno latente.
E a questo proposito, Johann Joachim Winckelmann, fondatore dell’archeologia, visse in modo drammatico la propria omosessualità. Winckelman cercava di nascondere la sua passionalità carnale verso il maschio (a quei tempi essere omosessuali poteva far insorgere problemi con la giustizia) adducendo la sua necessità di compiacersi della bellezza, il cui sommo ideale, come nella Grecia classica, era il corpo umano, e in particolare quello maschile. L’interesse del famoso archeologo per il corpo dell’uomo, soprattutto se giovane e se corrispondente all’ideale “classico” della bellezza e della nobiltà (kalòs kagathòs) era aumento in età avanzata, e ciò lo aveva spinto ad una pratica sempre più disinibita dei rapporti omosessuali. Qualche tempo prima di morire Winckelmann aveva scritto ad un amico, esplicitandogli il proposito di prendere con sé e di educare un giovane che gli avrebbe fatto compagnia nella sua tarda età. Per ironia della sorte, sebbene l’archeologo avesse cercato di nasconderla, la sua omosessualità venne in luce traumaticamente, quando, nel 1768, con grande scalpore, si ebbe la notizia che colui che ha avuto una parte di primo piano nel risveglio dell’amore per la cultura classica, era stato strangolato da un giovane col quale aveva cenato in intimità, e col quale era andato a letto.
L’assassino dell’archeologo, prima di essere giustiziato, affermò che aveva compiuto quel gesto perché si era sentito troppo “oppresso” dalle attenzioni del suo anziano amico.
Il filosofo Friedrich Nietzsche, una delle menti più lucide e illuminate dell’Ottocento, morì a cinquantasei colpito da una malattia mentale che lo ridusse in breve tempo ad essere una larva umana. E un altro grande filosofo dell’Ottocento, capostipite dell’esistenzialismo, il danese Sören Kierkegaard, era maniaco depressivo, ossessionato da paure ipocondriache e da allucinazioni. Kierkegaard, per sua stessa ammissione, affermò di avere dissipato l’ingente patrimonio che aveva ereditato dal padre, perché il dilapidare tanto denaro gli dava una particolare ebbrezza ed era l’unico antidoto per fronteggiare le continue crisi depressive che lo assalivano. Kierkegaard fu un grande indagatore dell’animo umano, in pratica uno dei grandi psicologi dell’era moderna. Vincenzo Rapisarda[48], gli riconosce il merito «di avere affrontato per primo il problema dell’ansia in una prospettiva esistenziale» e, inoltre, di avere proposto una definizione del concetto di ansia come “paura senza oggetto”, che, in pratica, è la espressione con la quale a tutt’oggi viene identificata l’ansia.
Studiano la mente degli scienziati, e le relative tendenze caratteriali verso le varie discipline dello scibile, gli psichiatri E. Plank & R Plank[49], e A. Storr[50], hanno rilevato che un atteggiamento positivo verso la matematica deriva da un processo sublimatorio, utilizzato dall’Io per risolvere problemi di ambivalenza.
Secondo Storr, Isaac Newton, per esempio, cercò di minimizzare la propria depressione, dovuta al fatto di essere stato abbandonato da piccolo dalla madre[51], compensando la carenza affettiva con lo studio delle scienze matematiche. In seguito, sempre secondo Storr, Newton divenne permaloso, e ossessionato da una paranoica paura che altri si appropriassero delle scoperte scientifiche che aveva fatto. Anche Biagio Pascal, a causa della perdita della madre, fu portato alla ricerca nel campo della fisica e della matematica, perché quella scienza comportando un grande impegno mentale, lo distraeva dai propri guai affettivi. Ma l’operazione di rimozione non ebbe esito del tutto positivo dal momento che le carenze affettive gli determinarono disturbi psicosomatici molto gravi, anoressia, e apatia sessuale. Con quei disturbi psicoemotivi Pascal rifiutava qualsiasi sostituto della madre, come poteva essere il cibo. In quanto al sesso, poi, la ferita edipica lo allontanava dalle donne. Pascal, inoltre, soffriva di una strana “debolezza alle gambe”, che derivava probabilmente da una somatizzazione, forse un modo per esprimere il desiderio di essere tenuto in braccia dalla madre, cosa che gli mancò da bambino.
Lo scienziato cecoslovacco Kurt Göedel, uno dei più grandi studiosi di logica matematica di tutti i tempi, il quale, intorno al 1930 dimostrò che l’uomo ha raggiunto i confini della logica classica. E sebbene quella dello scienziato ceco sia stata una impresa scientifica poderosa, mai riuscita a nessuno studioso prima di lui[52], malgrado tanta “lucidità” mentale, Göedel fu internato più volte in ospedali psichiatrici, in certi casi per depressione e in altri perché in preda a crisi di paranoia.
Altra mente di alto livello, ma, a dir poco, eccentrica, fu John von Neumann, ideatore di un tipo complesso di calcolatore elettronico. Neumann era capace di leggere un libro e poterlo riferire anche dopo molto tempo, parola per parola; e malgrado ciò a volte “non ci stava più con la testa”: era distratto e svagato, tanto da perdere “la bussola” e da non sapere più nemmeno rientrare a casa, perché dimenticava dove abitava.
Anche un grande genio come Albert Einstein ebbe atteggiamenti, a dir poco abbastanza strani se non nevrotici. Nel periodo in cui Albert convisse con Milena Maric, nacque una bambina, ma il fisico non volle riconoscerla come sua figlia perché temeva che sua madre Pauline Kock, non avrebbe accettato che il suo Albert avesse figli ad di fuori del matrimonio. La bambina venne data in affidamento, e di lei Albert non ne seppe più nulla. Altro atteggiamento strano il grande fisico lo manifestò quando, qualche tempo dopo che s’era sposato, scrisse una lettera a Milena, ingiungendole, con un vero e proprio diktat demenziale (che compromise la loro relazione), di sottostare ad un menù di comportamenti affinché “la loro convivenza non sfociasse in alterchi”. Questi erano alcuni degli ordini impartiti dal marito verso la moglie convivente, anch’essa una scienziata: «I miei vestiti e la mia biancheria devono essere tutti in ordine; i tre pasti dovranno essere serviti regolarmente nella mia camera; rinuncerai ad ogni relazione con me, oltre a quelle richieste per mantenere le apparenze in società; non mi chiederai di passare il mio tempo a casa con te; non mi devi chiedere di uscire o fare viaggi assieme; devi lasciare immediatamente e senza protestare la mia stanza o il mio studio quando ti chiedo di andare via; non mi rimprovererai perché non mostrerò affetto per te; dovrai rispondermi subito quando ti parlo; etc». Qualche mese dopo Milena abbandonò il marito e andò a vivere in Svizzera.
Anche tra gli studiosi della psiche si annoverano insigni personalità che hanno patito sofferenze esistenziali. Alcuni di essi hanno confessato di essersi interessati ai problemi psicologici perché avevano avvertito che i disagi che riscontrano i nevrotici, sono spesso più o meno simili ai problemi di cui soffre l’umanità. Del resto, afferma Binswanger[53] che, paradossalmente, per capire al meglio un alienato bisogna avere vissuto, almeno per qualche momento, quella condizione.
E così non si può tacere che Sàndor Ferenczi, tra i primi grandi psicoanalisti fondatori della scuola freudiana, allievo e pupillo di Sigmund Freud, il quale lo riteneva suo successore al comando della Società Psicoanalitica, verso la fine della sua breve esistenza ebbe crisi depressive, fobie e manifestazioni nevrotiche, che indussero Ernest Jones, a diagnosticare per il collega Ferenczi una psicosi latente. Anche allo psichiatra Otto Rank, studioso che aveva molto contribuito agli studi psicoanalitici, venne riscontrata una forma di psicosi, per cui venne invitato a dimettersi dalla Società Psicoanalitica Viennese. E ancora: Fritz Perls, autore di un fondamentale trattato sulla Gestalt[54], fu soggetto, com’egli stesso ammise, a vari periodi di depressione ed ad atteggiamenti paranoici, il che lo portò al desiderio di combattere questi stati, e a fondare in California The Esalen Institute. Anche Melanie Reizes Klein, personalità di spicco nel movimento psicoanalitico delle origini, dietro la facciata «aveva una vulnerabilità da bambina, unita a una coscienza di sé da persona pienamente matura»[55]. Da ragazza, Melanie, pur non essendo stata toccata da drammi angosciosi, ma essendo dotata di una sensibilità, di una intelligenza e di una acutezza psicologica non comuni, aveva sofferto, per alcune circostanze della sua vita, più di quanto non avrebbe patito se fosse stata una persona meno reattiva. I punti cardini che sfociarono, nella Klein, in una “sensibilità molto vicina al disturbo dell’umore” furono il rapporto con una madre invasiva e oppressiva, con un padre distratto, e con i due fratelli, oltre, in seguito, il mancato feeling col marito, Arthur Klein, uomo che la Reizes aveva sposato per convenienza e dal quale divorziò. Eventi tutti che crearono in Melanie una infelicità che si tramutò ben presto in depressione che cercò di curare prima nella clinica svizzera di Chur, e in seguito, quando aveva trentadue anni, che la indusse a sottoporsi a terapia psicoanalitica con Sandor Ferenczi. Dopo la conclusione favorevole della terapia, fu lo stesso Ferenczi ad introdurre la Klein nell’ambiente psicoanalitico, facendola partecipare al congresso che si svolse a Budapest, ove, l’ex paziente, poté incontrare anche Freud e aprire con lui un proficuo dialogo che, in seguito, la portò a diventare membro della Società Psicoanalitica.
Anche su Alfred Adler, che collegava la spinta creativa al complesso d’inferiorità, si possono fare delle considerazioni che mettono in correlazione il suo tipo di ricerca col vissuto personale. Analizzando l’evoluzione psicologica di Adler, è comprensibile che la quella teoria sia dipesa anche dalla sua vicenda personale: quand’era giovane Alfred, venne colpito da gravi malattie (rachitismo e asma), che gli crearono “complessi d’inferiorità” soprattutto nella prima parte della sua vita. L’influenza di tale sofferenza è evidenziata sia nel tipo di ricerca condotta in seguito dallo scienziato, che nella teoria che Adler portò avanti: il complesso d’inferiorità come origine principale delle nevrosi. Conoscendo i disagi giovanili di Adler, è possibile associare al periodo più dedicato della sua vita le sue teorie psicologiche e il senso delle sue ricerche.
- G. Jung, spirito sensibile e in parte anche suggestionabile, risentì molto del forte impegno psichico profuso nella sua attività di elaboratore di nuove scoperte scientifiche, tanto che visse una situazione drammatica quando credette persino di udire delle voci che gli parlavano e si salvò perché realizzò l’idea “forte” che gli consentiva di constatare che era stimato dai pazienti, dalla comunità e dalla propria famiglia[56].
La tensione psichica creativa non risparmiò gravi stress nemmeno il padre della psicoanalisi. Sigmund Freud, che era molto narcisista ed aveva un carattere accentratore, riusciva quasi sempre a contenere la sua ira quando veniva a contrasto con qualcuno, ma in due casi, forse perché troppo travolto emotivamente, lo scienziato arrivò persino a svenire[57]. In tutte e due le vicende il fatto avvenne dopo uno scontro frontale col pupillo, C. G. Jung.
La prima volta accadde nel 1909, a Brema: i due erano a pranzo, e Jung s’intestardì a raccontare storie di cadaveri e di mummie, argomento che diede ai nervi a Freud, il quale si arrabbiò esageratamente e svenne. Quando si riprese, Sigmund Freud giustificò il suo mancamento affermando che aveva ritenuto che quell’insistente parlare di cadavere su cui s’era dilungato Jung, gli aveva data la sensazione che il suo allievo avesse un desiderio di morte verso di lui. Il secondo svenimento di Freud avvenne tre anni dopo. Anche questa volta la causa fu Jung, che, forse senza troppo tatto, aveva suggerito, in una lettera, al suo maestro di osservare in lui alcuni tratti nevrotici di cui era portatore. Quando i due, nel 1912, cioè qualche tempo dopo, si rividero a Monaco, per un meeting organizzato da Freud. Dopo colazione, mentre Abraham, Jones, Riklin, Ophuijsen, Seif, e altri psicoanalisti del circolo freudiano, si attardarono nella sala da pranzo, Freud e Jung vollero appartarsi per dirimere la querelle sorta quando Sigmund andò a Zurigo, per incontrare Ludwig Binswanger, senza essersi fatto vedere dall’allievo prediletto, C. G. Jung, il quale, risentito per essere stato trascurato dal maestro, lo aveva apostrofato pieno di rancore.
Freud. cercò di spiegare a Jung che se non era andato a trovarlo non era stato per scortesia, ma perché aveva avuto fretta di tornare a Vienna. Sul caso, vi fu un battibecco tra i due e fatto sta che, dopo quell’incidente, Freud apparve molto nervoso, quando, assieme a Jung, ritornò al tavolo. Poco dopo riprese il simposio con gli altri psicoanalisti e Freud, forse ancora su di giri per l’episodio precedente, entrò in contrasto con Jung e Riklin e fece loro una ramanzina, rimproverandoli di avere divulgato alcuni articoli senza avere accennato al suo nome. Jung replicò dicendo che non gli era sembrato necessario apporre il suo nome, considerato quanto egli fosse conosciuto. A quel punto, Freud, tra l’imbarazzo e lo sbigottimento generale, svenne.
In realtà però questi due episodi marginali certamente non mettono in dubbio le qualità psicologiche del grande scienziato, ma possono tuttavia sottolineare che qualsiasi soggetto creativo è molto esposto a stress emozionali, e che, a volte, vi sono incidenti emozionali che non possono essere evitati, nemmeno se si è un personaggio della levatura di Sigmund Freud.
Cesare Musatti, grande dissacratore, mise idealmente Sigmund Freud sul divano analitico[58]. Musatti provava gusto se non nell’abbattere, quanto meno nell’umanizzare i mostri sacri. Nel caso di Freud, l’averlo posto sul lettino psicoanalitico significò ben altro per Musatti, era un voler dare maggior credito alle scoperte freudiane, dimostrando che nemmeno chi ha inventato quel tipo di ricerca, come qualsiasi altro individuo, creativo o meno, può dirsi esente da una qualche linea nevrotica. Afferma E. Neumann[59], che nella persona creativa è presente una forte tensione psichica che lo fa vivere in una dimensione più ampia. Ed Aldo Carotenuto[60] aggiunge che si possono realizzare opere di valore universale solo quando si è immersi nella dimensione fantastica fino a raggiungere contenuti universali.
Lo psicobiologo Freeman Dyson, una delle menti più fervide dell’University’s Plasma Physics Laboratory di Princeton ha detto: «La nostra università è piena di pazzoidi sul punto di fare qualcosa di grandioso che passerà alla storia. Perché non si dovrebbe essere folli? La Natura è folle. Mi piacerebbe vedere più gente stramba qui all’Istituto».
Chissà, forse ha ragione anche lui: un po’ di follia non guasta. Del resto, diceva qualcuno, in questa vita, se non sei anche tu un po’ svitato, rischi d’impazzire.
7cf Il suicidio dell’artista
Il suicidio, afferma, Claude Sigismond[61], è un atto denso di significati, non una malattia; è un atto umano, e può essere una fuga, un ricatto, l’espressione di un lutto, un atto disperato e persino un atto d’aggressività. Ogni uomo, afferma Sigismond, per condurre la propria esistenza appronta un certo numero di strumenti psicologici, che costituiscono il puntello e la propria strategia di vita. Quando, per caso, vengono meno alcuni ( o buona parte) di questi sostegni, l’individuo avverte un senso di fallimento, che può essergli fatale.
I propositi suicidi restano a volte celati per anni nelle pieghe più recondite dell’animo umano, ma fortunatamente, quasi sempre, persistono solo come meri sfoghi autocommiserativi, come la maniera meno pericolosa per scaricare la rabbia, o come lite motiv che compensa l’avvilimento causato da una sconfitta.
A volte, però, qualche disperato artista smarrisce la ragione e, spinto dalla depressione, pone in atto l’insano progetto che ritiene vantaggioso per evitare qualche, vera o presunta, umiliazione al proprio talento. Ma sarebbe oltremodo gratuito e azzardato prospettare una connessione tra lo snervante logorio della creatività e il suicidio, anche se, tuttavia, non sfugge il dato di fatto, documentato da molti emblematici episodi, che alcuni geni si sono tolta la vita, col pretesto che gli è sfuggita la gloria, o come estremo atto ideologico causato dalla prese di coscienza dell’insipienza della condizione umana.
La psichiatra americana Nancy Andreasen ha condotto uno studio accurato sui parenti di trenta scrittori e artisti, confrontandoli con un gruppo equivalente di elementi che non avevano legami con gli artisti, e ha constatato che nei ceppi familiari dei geni con disordini mentali, i disturbi mentali sono frequenti anche nei parenti e, anzi, spesso, i genitori di persone creatrici, presentano alterazioni psicopatologiche. Tanto per fare qualche esempio: due fratelli di Henry James erano malati di nervi; Theo, il fratello prediletto di Van Gogh e la sorella Wilhelmina furono ricoverati più volte in manicomio; e un altro fratello di Vincent, Gèrard, si suicidò giovanissimo. Il padre di Ernest Hemingway, uno zio e una zia dello scrittore, si suicidarono. Ernest Hemingway visse in bilico tra depressione e narcisismo di macho e, malgrado il profondo realismo, il senso della combattività, l’amore per la vita che si trovano nelle pagine delle sue opere, finì i suoi giorni suicida. Forse fu la tensione emotiva, l’eterna inquietudine che egli si trascinò dalla nascita a fargli scrivere pagine bellissime, ma che fu anche la causa della sua fine. In quanto al filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein, che trascorse in convento un lungo periodo di depressione, due suoi fratelli si suicidarono.
Tuttavia, se, in qualche caso la depressione è stato il contributo che l’individuo ha pagato per affinare la propria creatività e ciò ha reso il suicidio un fenomeno comune tra gli artisti e tra i pensatori, bisogna però fare qualche puntualizzazione al riguardo. Innanzi tutto c’è da sottolineare che, se in alcune famiglie di artisti suicidi è stato riscontrato che altri componenti di quel nucleo soffrivano di depressione, ciò però non deve indurre a nessuna illazione. Infatti è probabile che qualcosa del genere possa accadere pure nelle famiglie meno note, ma poiché una simile indagine, non trattandosi di casi di persone culturalmente interessanti, sfugge alle statistiche, il fatto è stato riscontrato “solo” o “prevalentemente” nelle famiglie dei creativi.
E che il suicidio del creativo faccia notizia, lo si rileva anche nell’antichità. In passato, infatti, questo insano gesto compiuto da un artista fu considerato addirittura quasi uno status symbol. Tito Lucrezio Caro e Marco Anneo Lucano si diedero la morte, e Catone Uticense, prima di darsi la morte, volle leggere alcuni passi del Fedone di Platone e poi si trafisse il petto con la spada.
E si diede la morte anche l’architetto Francesco Borromini, uno degli artefici degli splendori della Roma seicentesca, il quale si suicidò trafiggendosi con una spada. Ma prima di perdere definitivamente i sensi, con grande sangue freddo, dettò ad uno scrivano, per filo e per segno le fasi del suo gesto e le sue ultime volontà. E tuttavia, prima che avesse messo in atto quella sciagurata risoluzione, nulla lasciava prevedere quel gesto del Borromini, nemmeno il fatto che di tanto in tanto l’angosciasse una fastidiosa forma asmatica, che di notte non lo faceva dormire e che frustrava la sue forze; per il resto egli lavorava sodo, con fervore e con ingegno, anche se, negli ultimi tempi, era ossessionato da funesti pensieri e da una strana forma di gelosia per le proprie opere.
Nella seconda metà del ‘700 si suicidò, a diciassette anni, il poeta Thomas Chatterton, e si diede la morte un altro poeta, il quarantacinquenne Thomas Lovell Beddoes, eccentrico e stravagante personaggio della prima metà dell’Ottocento,
Macabro fu il suicidio di Gérard de Nerval, scrittore forse poco conosciuto agli inizi dell’Ottocento, ma apprezzato in seguito dai surrealisti e valorizzato anche da Marchel Proust. Gérard de Nerval, a causa della sua depressione, in un primo tempo venne rinchiuso in una clinica. In seguito, dopo essere stato dimesso, egli si tolse la vita in un modo grottesco: venne ritrovato appeso con una corda al collo alle sbarre di una finestra in un sordido vicolo di Parigi, con un cappello a cilindro ben piazzato sul capo.
Lo scrittore surrealista René Crevel, animo tormentato e artista di talento, del quale rimangono personaggi tragici, scarni, allucinati, al pari della sua stessa conformazione psichica, trovò pace, dopo una drammatica esistenza, togliendosi la vita. A molti surrealisti il suicidio sembrò quasi una conclusione obbligata. Uno di loro, Jaques Rigault scrisse, prima di metterlo in pratica, che «il suicidio è una vocazione». Il suo gesto venne copiato da altri “colleghi” surrealisti, come Drieu La Rochelle e Jacques Vacché. Qualcuno ha voluto trovare nell’ideologia stessa del surrealismo la coscienza del vuoto che porta all’abisso della fine, in quanto, come sosteneva Paul Valery, il surrealismo edifica per abbattere, e crea personaggi allucinati che si specchiano nel nulla. Una straziante incomunicabilità spinse il poeta Vladimir Majakovskij al suicidio. Il poeta russo cercò di farsi capire nella sua terra, ma, paradossalmente, ritenne di essere sempre più artisticamente lontano dalla comprensione dei suoi concittadini. Inoltre, a indurlo a quel folle gesto, contribuì anche il fatto che non poté rassegnarsi ad essere stato abbandonato dalla sua Lili Brik. E il giornalista Jean-Louis Bory del Nouvel Observateur, quando aveva trent’anni ebbe ad ammettere in una intervista che da giovane aveva rischiato il suicidio per un mal d’amore, gesto che non evitò, quando ne aveva sessanta, perché, depresso, s’era messo da parte e non era riuscito più ad interessare la giovane Bory, con la quale era vissuto alcuni anni e che lo aveva lasciato confessandogli di essere stanca dei suoi continui malumori.
Le varianti che possono indurre l’artista alla rottura con la vita dipendono da varie circostanze: lo chansonier Luigi Tenco si suicidò per non aver avuto successo al Festival di Sanremo, e tentarono di togliersi la vita, per lo stesso motivo, anche Anna Identici e Armando Stula. Stessa sorte quella di Iolanda Gigliotti, Dalida, che si suicidò nel 1987, quando aveva cinquantaquattro anni, dopo tanti successi, forse perché oramai ossessionata dalla paura di diventare grassa, ma soprattutto perché temeva d’apparire fuori giro e sorpassata. «Morire è meno faticoso, meno snervate e fa soffrire meno» diceva sotto l’effetto dell’angoscia del perdente, Luigi Tenco. Nel 1972 si suicidò Henri de Montherlant, scrittore membro della Accadémie française, perché temeva di rimanere cieco.
Per essere stato bocciato dagli editori o dal pubblico, si tolse la vita lo scrittore Guido Morselli e lo stesso gesto fece lo scrittore Franco De Longis, il quale, dopo avere comprato, invano, pagine e pagine di giornali italiani e stranieri, per pubblicizzare il suo romanzo Il cerchio, non riuscì mai a piazzare la sua opera. E forse fu proprio per i dissapori con l’editore e con i critici, che si suicidò l’autore di Il maestro di Vigevano, Lucio Mastronardi. Identica fine quella del drammaturgo Heinrich von Kleist le cui delusioni per i mancati successi artistici, si sommarono alle angosce esistenziali, fino a indurlo, ineluttabilmente, al gesto disperato, che compì assieme alla sua fedele amica Henriette Vogel.
Emilio Salgari, invece, pose fine ai suoi giorni per un motivo del tutto indipendente dalla sua professione: egli era affranto e desolato per ricovero improvviso della moglie in manicomio.
Géza Róheim[62], antropologo che applicò la psicoanalisi alla comprensione delle culture umane, anch’egli fortemente turbato dalla morte della moglie, in pratica si lasciò morire, non essendosi più ripreso da quel dolore.
Spesso, al suicidio, qualcuno arriva per gradi, o dopo alcuni tentativi, come accadde al poeta operaio ungherese Attila Jòzsef e allo scrittore russo Sergej Esenin. In qualche caso, invece, è paradossalmente proprio l’arrivo di un successo ormai inaspettato, come nel caso dello scrittore Carlo Michelstaedter, che produce un forte crollo emotivo che stranamente può portare all’insano gesto. Altre volte, è il drammatico passato, mai metabolizzato del tutto, che può indurre a spezzare un cerchio angoscioso insopportabile, come nel caso di Primo Levi, il quale fu travolto dalla ineliminabile, dolorosa sindrome dell’olocausto.
In quanto allo scrittore giapponese Yukio Mishima, dopo avere affrontato nei suoi libri le passioni più torbide dell’umanità, scelse il suicidio come fruga dalla ipocrisia della vita. E il regista James Whale, ossessionato dalla incipiente vecchia, si tolse la vita a 68 anni, perché abbandonato dal suo ultimo amore, il venticinquenne attore Pierre Foeghel. Akira Kurosawa, il grande regista giapponese, tentò il suicidio dopo l’insuccesso commerciale di Dodes’ka-den, il film che ritrae la società giapponese odierna, soprattutto quella composta dagli emarginati. L’opera, non compresa dal grosso pubblico e osteggiata dalla critica fu un fallimento e il regista, dopo il tentativo di togliersi la vita, profondamente depresso, rimase in disparte per cinque anni.
In quanto a Virginia Woolf, molto probabilmente, ella fu stimolata proprio dalla problematicità esistenziale, che accompagnava la nevrosi di cui era affetta, a scrivere opere di grande levatura letteraria. Ma quella insopportabile tensione fu forse lo stimolo che la indusse a porre fine ai suoi giorni. Anche la settantenne Elsa Morante, costretta per molti mesi a letto dopo essersi rotto il femore, depressa ed avvilita a causa di un improvviso peggioramento delle sue condizioni, tentò il suicidio aprendo il rubinetti del gas. Tentò il suicidio, perché più volte ferita nell’orgoglio, anche una scrittrice femminista e contestataria, Mary Wollstonecraft, la quale si gettò dal ponte Putney nel Tamigi, e venne salvata a stento da alcuni pescatori[63].
La malinconia ha distrutto un artista di talento come Nino Ferrer, indimenticabile interprete di tante canzoni. Egli si era ritirato nel Sud della Francia, aveva preso a dipingere, stava scrivendo la sua biografia, e ad un tratto, senza lasciare qualche rigo di commiato alla moglie, con un colpo di fucile alla tempia ha messo fine alla sua esistenza. E nemmeno dello scrittore Arthur Koestler, che si suicidò a Londra, si conoscono i motivi di quel gesto. Koestler era uno scrittore di successo e, in apparenza, aveva avuto tutto dalla vita. Forse il movente che lo spinse a porre fine ai suoi giorni, secondo alcuni, deriverebbe dal fatto che lo scrittore coltivava qualche particolare vizietto sessuale e, in ogni caso, Koestler sicuramente perse la tramontana a causa dell’eccesso nel bere. Si suicidò anche lo scrittore peruviano José Maria Arguedas[64], con un colpo di pistola alla tempia. Prima dell’insano gesto scrisse un toccate biglietto che fece recapitare al rettore della facoltà dove insegnava: «Me ne vado perché sento di non avere più l’energia e l’ispirazione sufficiente per continuare a lavorare, vale a dire per giustificare la mia stessa vita»
Nella metà del Novecento, morì suicida anche il pittore di origine russa, Nicolas de Staël, che da Pietroburgo era emigrato prima in Polonia e poi s’era stabilito ad Antibes, ove aveva ottenuto la cittadinanza francese. De Staël fu un animo tormentato: le sue ricerche cromatiche, la tecnica del colore saturo di luce, furono ritenute tra le più interessanti della pittura contemporanea e tuttavia ritenendo di non essere sufficientemente apprezzato, caduto in depressione, si tirò un colpo di pistola. Anche un altro pittore, più o meno in quel periodo, Sergio Romiti, che era entrato in “rotta di collisione” con i critici perché non l’apprezzavano, dopo aver smesso di dipingere per alcuni anni, travolto da una delle sue crisi depressive, a 72 anni mise fine anch’egli alla ossessiva necessità di essere valutato come grande artista.
E suicidio sensazionale fu quello dello scrittore Otto Weininger che a ventitré anni pose fine alla sua esistenza, sparandosi platealmente nella stanza dove, tanti anni prima, era morto Beethoven. Il clamore di quel gesto contribuì ad aumentare vertiginosamente le vendite di Sesso e carattere, opera che egli aveva da poco dato alle stampe. Suicidi “eccellenti” furono anche quelli del pittore Richard Gerstl, dello scrittore Stefen Zweig, del poeta Josef Weinheber.
Il fondatore del positivismo, Auguste Comte, a 28 anni, manifestò crisi di malinconia e deliri di grandezza, tanto da dover essere internato. Egli tentò due volte di togliersi la vita, e la seconda volta addirittura dopo la dimissione dall’ospedale del dottor Esquirol. Anche Guy de Maupassant cercò, ma senza esito, di porre fine ai suoi giorni; e ci provarono, ma non vi riuscirono, lo scrittore Henry James e il filosofo Ludwig Wittgenstein.
Una vita alla ricerca della bella morte, fu quella dello scrittore Antoine de Saint-Exupéry, il cui presentimento-desiderio era di entrare nella leggenda con una fine che facesse scalpore. L’attore hollywoodiano James Cardwell, dopo un lungo periodo di depressione dovuta all’insuccesso di alcuni film nei quali non brillò particolarmente, si suicidò. La stessa sorte ebbe l’attore Grant Withers, che si suicidò a causa del fallimento della sua carriera.
Una nutrita casistica di suicidi la troviamo anche tra le scrittrici: Mary Shelley, Virginia Woolf, la russa Marina Cvetàeva, le poetesse Anne Sexton e Sylvia Plath, ed anche tra le attrici: Daniela Rocca, Diane Arbus, Jeanne Seberg, Margaret Sullivan, Peg Entwistle, Carol Landis, Anna Maria Pierangeli, Margaux Hemingway. Inoltre posero fine ai loro giorni la cantante Mia Martini e la francese Jeanne Hebuterne, pittrice di un certo talento, e giovane compagna di Amedeo Modigliani, che si gettò dalla finestra il giorno dopo la scomparsa dell’artista italiano.
Al dramma del suicidio non sono sfuggite nemmeno personalità che, per la loro professione, si sarebbe ritenuto che fossero immuni da questo tipo di pulsione. A metà del XX secolo, lo psicoanalista Paul Federn, autore di un trattato fondamentale sulle psicosi[65], affetto da un cancro alla vescica, preso dal panico, e temendo di dovere soffrire fisicamente, si suicidò. Vittorio Benussi, uno dei primi psicologi italiani morì suicida, così come, molti anni dopo, anche lo psichiatra e psicoanalista, Bruno Bettelheim, che, colto da crisi depressiva, pose fine alla propria esistenza. Si suicidò anche il sociologo Jacob Levy Moreno, l’inventore dello psicodramma, perché ormai si riteneva un malato inguaribile.
Nessuna malattia pare che affliggesse Alan Mathinson, matematico e filosofo inglese, che tuttavia decise di suicidarsi senza scrivere un rigo di spiegazione e senza che nessuno mai avesse potuto prevedere quel gesto.
Spesso è l’età avanzata che induce gli artisti a porre fine alla loro vita. Così fecero l’attore Charles Boyer, a 78 anni, l’attore George Sander[66], e il pittore Bernard Buffet, uno dei protagonisti della stagione dell’esistenzialismo, che troncò la sua esistenza a 71 anni.
Imprevedibile fu anche il suicidio del novantaduenne filosofo Roberto Ardigò, uno dei più significati rappresentanti del positivismo. L’editore Fortunato Formìggini, amareggiato dagli ostacoli frapposti alle sue iniziative editoriali, concluse a sessanta anni, con un tragico gesto, la sua vita gettandosi dalla torre della Ghirlandina a Modena; e a 67 anni, forse per motivi sentimentali, si è suicidato l’attore Luigi Pistilli.
Qualche artista, dopo aver bruciato la propria vita nel vano tentativo di appagare la propria ansia creativa, trova nel suicidio il gesto che mette fine alla logorante, tragica solitudine dell’essere un genio. Una conclusione, questa, tragicamente suggestiva e poeticamente romantica, che si evidenzia in un certo numero di suicidi tra i creativi, e che può far ritenere sia un gesto alquanto comune nell’ambiente dell’arte; ma in realtà, il suicidio dell’artista, non è un evento più frequente di quello che si registra che fra la gente comune.
Chi ritiene che l’artista sia più portato al suicidio dell’uomo della strada, sostiene che ciò dipende dalla tensione creativa, che sarebbe la via privilegiata per arrivare alle vette supreme, ma che corrode il sistema nervoso, e sarebbe anche causato dalla spasmodica competizione che s’innesca tra l’intellettuale e i suoi concorrenti.
Forse a causa di una visione più acuta della realtà, forse per quel navigare al disopra delle nuvole, che apparire tragica e magari strampalata la vita delle creature sovrane. Ma si tratta quasi sempre, invece, di individui le cui energie mentali tendono ad ottenere una comprensione della vita più ricca, più sensibile, più carica di esperienze. Probabilmente è inutile, se non impossibile, cercare un paradigma filosofico che possa inquadrare tutte le motivazioni del suicidio. In ogni caso, però, se si possono trovare mille giustificazioni e mille pretesti, difficilmente si può affermare che sia una costante tendenza degli artisti, sebbene, come s’è visto, vi siano vari esempi di personalità creative morte suicide.
8cf Conclusioni
Forse è ipotizzabile che follia e sanità abbiano dei percorsi mentali comuni. L’alienazione dei nevrotici è una “protezione” messa in atto quando si soffrono paure e angosce, per deviare o sfuggire alle pressioni del mondo esterno; ma è anche una caratteristica che si trova, a volte, anche nelle persone sane, e che rende chi ne è affetto, per certi versi ancor più dissennato dei malati di mente.
E anche sul genio incombe, come a ristabilirne l’umanità, la spada di Damocle della stravaganza che, in verità, è uno stato particolare, diverso dalla malattia mentale: più che una speciale “psicopatologia” essa è una inquietudine che rende la sensibilità del creativo ineguagliabile.
Il poeta Novalis affermava che solamente colui che ha un animo profondo può scivolare nella follia. Secondo Novalis, la pazzia geniale non è quasi mai disordine delle idee, incoerenza, rottura con la realtà, essa è sofferenza che produce fantasie, esplosioni creative, innovazioni, eccezionali fantasticherie e, in qualche caso, esaltazioni narcisistiche.
“Pazzo e cane senza padrone e mostruoso”, si definiva Pier Paolo Pasolini, testimone sperduto per le strade della periferia romana, in preda ad una situazione d’angosciosa estraneità. Provocatore, pubblico accusatore, critico acuto e spietato, condusse una genere di vita che finì col portarlo in un vicolo cieco nel quale trovò la morte.
Scrisse Joseph-Ernest Renan che la storia dell’umanità dovrà essere esaminata attraverso lo studio delle umane follie, dei sogni e delle allucinazioni che si ritrovano in ogni pagina dello sviluppo dello spirito individuale e collettivo.
E quando la fatalità colpisce l’uomo di genio, sebbene, a volte si tratti delle stesse disavventure che capitano anche ai più, di tali accidenti egli ne approfitta per farne materia della propria arte.
Le migliori sinfonie Beethoven le scrisse negli anni del suo più assoluto e doloroso silenzio, ed Haendel, quando divenne cieco, disperato e quasi ammattito per quella infermità, intensificò la sua produzione.
La follia colse Torquato Tasso quando aveva trentacinque anni. Il poeta, visse la sua esistenza in preda a squilibri psicologici, fino al contrastato amore per Eleonora D’Este, sorella di Alfonzo d’Este, suo signore; passione che si rivelò nefasta, perché, sentendosi colpevole, il poeta provò un forte ansietà e, temendo la persecuzione perché si credeva mal gradito dal Duca Alfonso, fu colto da un tale accesso di demenza furiosa, che venne imprigionato; ma dopo un primo momento di sbigottimento, si mise a scrivere e così il dolore del poeta si tramutò in opera letteraria. Lo psicoanalista Hans Sachs, che studiò i fondamentali problemi dell’estetica, nel suo L’inconscio creativo sostiene che la fonte della creatività è l’inconscio, il quale sarebbe il punto di partenza di ogni produzione artistica.
Sono legioni le creature che hanno nutrito sogni di gloria e speranze di notorietà, che hanno lottato con tenacia per emergere e per dominare; ma le loro biografie sono, a volte, cosparse d’insensatezze, di gesti squilibrati che segnalano più che il naufragio della ragione la resa davanti alla complessità dell’essere.
Gli uomini e le donne dall’ingegno vigoroso e poliforme, che emergono dalla moltitudine per creare un capolavoro o per formulare teorie innovative, a causa delle continue tensioni emozionali e creative, sono anche creature a rischio, e pertanto il loro destino può essere in bilico tra le scoperte titaniche e il precipizio della alienazione.
Ma esistono limiti di sicurezza, nello sforzo della creazione, al di là dei quali il pensiero può perdersi? E se la sofferenza psichica che l’artista si accolla nel momento della creazione oltrepassa il livello di guardia, può produrre disturbi psichici o la soglia di sicurezza, il genio, proprio perché tale, l’ha già superata ?
Forse, non vi possono essere artisti senza angosce, senza sofferenze, senza rischi, senza inevitabili ferite nell’animo. «Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non di fatto, per uscire dall’inferno» ha scritto il poeta e regista Antonin Artaud.
Da uno studio di Hagop e Kareen Akiskal condotto su venti scrittori, poeti e scultori europei[67], si rileva che i due terzi degli individui intervistati presentavano tendenze ipomaniache o ciclotimiche, e molti di essi avevano avuto più o meno gravi forme di depressione.
Secondo Freud[68] esistono molti individui geniali che hanno gravi squilibri psichici ma ne esistono anche di quelli che possono essere definiti assolutamente normali. I primi, secondo Freud, possono essere avvantaggiati dalla parte rimasta intatta delle loro personalità, per cui alcuni di essi riescono ad essere creativi “nonostante” la loro struttura nevrotica o psicotica, altri invece, forse riescono ad essere creativi, proprio grazie e mediante quella parte alienata della loro struttura psichica.
Schopenauer era del parere che il genio vede le cose in maniera diversa da tutti gli altri. A. H. Maslow[69] ritiene che la persona creativa sia un tipo particolare e speciale di essere umano che deve essere considerato nel suo complesso e non frammentariamente.
Molti si sono chiesti se vi sia una correlazione tra intelligenza e creatività. Sul problema gli studiosi non sono tutti d’accordo. Secondo Silvano Arieti[70] benché le persone creative siano intelligenti, un quoziente intellettivo eccezionalmente alto non è essenziale per la creatività.
Bisogna inoltre tenere presente che l’interpretazione psicologica di una personalità di questo genere dipende dalla quantità e dalla qualità delle notizie che si possono avere sulla sua vita, oltre che dall’analisi delle sue opere. La possibilità concreta di scoprire le pieghe più recondite della mente e della struttura empatica di un artista o di un inventore non sempre è esente da errori e da arbitrii d’interpretazione, soprattutto quando si tratta di analizzare artisti del passato. Walkup[71], per esempio, sottolineando troppo l’importanza della visualizzazione dei creativi scientifici, arrivò a dire, forse senza solide basi, che i grandi pensatori nel campo della scienza hanno una immaginazione visiva quasi allucinatoria. Cesare Lombroso, cercò di provare che molti geni avevano avuto gravi malattie mentali, ma per molti casi da lui riferiti è ben difficile essere certi che si trattasse di psicosi e non di “stranezze” da creativo. Lombroso infatti pose troppo l’accento sulle qualità negative dei grandi uomini e, nel suo trattato sul genio e la pazzia[72], tanto per fare solo alcuni nomi, si trovano accomunati nell’epilessia Molière, Händel, Petrarca, Flaubert; mentre Ampère, Comte, Pergolesi, Donizetti e tanti altri rientrarono in un quadro di conclamate, come allora venivano chiamate, neuropsicosi.
Al contrario di Lombroso, A. C. Jacobson[73], sostiene che i tratti patologici ostacolano la creatività e le persone creative che ne sono affette producono le loro opere migliori nei periodi in cui sono più sani. Ma è pur vero, come afferma un allievo di George Devereux, François Laplantine[74], che sono le varie culture a decidere chi è pazzo e chi non lo è.
Havelock Ellis, che studiò il rapporto tra creatività e follia attraverso un considerevole materiale biografico (lettere, manoscritti, racconti di terzi) e le opere di molti autori, trasse la conclusione che, sebbene il genio sia a volte anche un po’ folle, non si può sostenere una teoria che ritenga la genialità una forma di pazzia.
I quadri di Salvator Dalì, per esempio, fanno scoprire, così come i suoi scritti, i tratti di una personalità geniale, anche se un poco matta, dell’artista: «… tutti gli uomini sono uguali nella loro pazzia, … la pazzia costituisce la base comune dello spirito umano», afferma il grande pittore spagnolo che certo non può essere considerato matto, sebbene, come egli stesso ha scritto, anch’egli aveva una sua “paranoia personale”.
La chiave di lettura di qualunque processo creativo, e forse della vita in sé, molto probabilmente è proprio quella che ci fornisce proprio Salvator Dalì, e che si racchiude in un concetto abbastanza semplice, e formulato anche da vari pensatori: se non sei un po’ matto, in questo mondo finirai con l’impazzire.
9cf SOMMARIO
Alcuni grandi ingegni hanno attraversato, in vari periodi della vita, gravi crisi esistenziali. Rimbaud, Burns, Kafka, Scheber, Althusser, Burrougghs, Van Gog, e altri hanno avuto drammatiche difficoltà psichiche, ma molti di essi, fortunatamente, ne sono venuti fuori utilizzando la creatività come deterrente contro l’angoscia.
Sosteneva Sigmund Freud che, dando uno sguardo alla storia, si nota che molti individui geniali presentano squilibri psichici. Ma egli era convinto che, se costoro sono stati creativi, lo sono stati nonostante la loro struttura nevrotica o psicotica. Tuttavia, alcuni studiosi, come Imre Hermann, Cesare Lombroso e Xavier Francotte, tanto per citare i più noti, estremizzando, hanno ipotizzato che genialità e follia facciano parte di una struttura mentale consimile: infatti la prima sarebbe la facciata benigna, e l’altra quella negativa. Questa, però, è una posizione estremista e non deve indurre a ritenere che la creatività necessiti della psicopatologia, perché, in quel caso, bisognerebbe dimostrare come mai molti geni, mai sfiorati da alcuna malattia mentale, abbiano raggiunto eccelse vette creative.
La verità è che l’inesorabile trascorrere dell’esistenza fa convivere oggettività e simulazione, ambiguità e chiarezza, mescolanze che rendono scarsamente individuabile la demarcazione tra pazzia e sanità mentale; tant’è che la cultura, la filosofia, la letteratura, il teatro, il cinema e le arti figurative descrivono la drammaticità della vita tenendo sempre presente l’alienazione che si trova in molte circostanze della quotidianità. E così, dai personaggi come Don Chisciotte, Re Lear, Enrico IV, Achab, Dinorah, Lucia di Lamermour, Medea, Grieta e tantissimi altri usciti dalla fervida fantasia di scrittori, musicisti, pittori, impariamo che la logica può contenere anche un pizzico di insensatezza, così come la follia può racchiudere una punta di ragione. E questo connubio intrigante tra creatività e follia, tra razionalità e assurdità, non solo ha prodotto suggestive e stravaganti opere d’arte, ma ha anche fatto comprendere che un pizzico di follia è inevitabile in molte circostanze della vita.
E il genio, sia esso un letterato, un filosofo, uno scienziato, o un artista, poiché vede il mondo in maniera diversa dagli altri, soffre maggiormente le incongruenze e le insufficienze del suo tempo. E sebbene ciò gli dia la possibilità di anticipare nuovi modelli e magari di essere un rivoluzionario, tuttavia, questa esperienza lo rende e lo fa sentire differente dalle persone comuni, creandogli una tale sofferenza che gli impedisce di raccapezzarsi nel caos dell’universo, e, in qualche caso estremo, inducendolo a scegliere la via più insensata per risolvere il proprio problema esistenziale.
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[15] G. Flaubert, Memorie di un pazzo, Newton, 1996
[16] A. Schwarzenbach, Morte in Persia, E-O, 1998 ( Un diario nel quale la scrittrice, amica e amante di entrambi i figli di Thomas Mann, Erika e Klauss, racconta la propria esperienza psichiatrica del ricovero nei meandri infernali del Bellevue Hospital di New York, e la propria, continua autodistruzione, spesso stimolata dal delirio dovuto all’assunzione di droghe)
[17] Autore del famoso Ivanhoe e di tantissimi celebri romanzi, ai quali si ispirarono molti musicisti e scrittori come Rossini nella Donna del lago; Donizzetti nella Lucia di Lammermoor e nella Elisabetta al castello di Kenilworth, e Scott ebbe inoltre molta influenza su D’Azeglio, Guerrazzi, Cantù, e forse anche , secondo, alcuni sul Manzoni.
[18] Confessò ne I Quaderni di Malte Laurids Bridge, suo taccuino autobiografico, che riusciva a fare le cose solo sotto la pressione dell’angoscia, perché «la follia permette di creare e il poeta non può fare a meno di scrivere per salvarsi dalla follia e proteggersi dal delirio»
[19] H. Michaux, Miserabile miracolo ( la mescalina). L’infinito turbolento, Feltrinelli,1967
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[20] M. Bonaparte, Edgar Poe, étude psychanalytique, Paris, 1933
[21] Citato da K. R .Jamison, in Le Scienze, Aprile 1995, n°320.
[22] Paradossalmente, il romanzo La Matta è incorso anche in una vicenda giudiziaria: nel 1962 venne sequestrato dagli agenti della mobile e messo a disposizione della magistratura, perché ritenuto contrario al comune senso del pudore. Il tribunale però assolse con formula piena la scrittrice americana, l’editore Longanesi, e il libraio Bertoletto che aveva venduto il libro.
[23] M. Barnes & J.Berke, Viaggio attraverso la follia, Rusconi, 1981
[24] B. Mullan, Laing. Follia della normalità, Red Edizioni, 1998
[25] S,Kaysen, Ragazze interrotte, Tea, 1993
[26] M. Galzigna & H. Terzian, L’archivio della follia, Marsilio,1980
[27] C.Ruggieri, Storia della Crocifissione di Mattio Lovat da se stesso eseguita, Venezia, 1814
[28] M.Galzigna, La malattia morale, Marsilio, 1988
[29] E.M.Podvoll, La seduzione della pazzia, Astrolabio 1992
[30] S. Arieti, op.cit.
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[32] V. Maurus, Il mistero della Ragazza Porcospino, La Stampa, 13.02.200
[33] S. Freud, Personaggi psicopatici sulla scena, Opere, Vol. V, Boringhieri, 1972
[34] G.R .Morteo, Il teatro di Ionesco astratto per inverosimiglianza in “Itinerari”, Dicembre, 1953
[35] S. Arieti, Creatività. La sintesi magica. Il Pensiero Scietifico , 1979
[36] P.Mc Grath, Follia, Adelphi, 1999
[37] S.Harrison, ( a cura di ) Il diario di Jack lo squartatore, Sperling & Kupfer, 1994
[38] Persino l’inchiostro col quale è stato stilato il manoscritto sembra avere tutte le caratteristiche di quello dell’epoca in cui furono commessi i crimini, il che avvalorerebbe ancor più l’autenticità dell’opera.
[39] T.Spoerri, Il mondo figurativo di Adolf Wölfi, in Psicopatologia ed espressione figurativa, Sandoz, 1964
[40] V. Andreoli, Les dernières annèes de Carlo, in Pubblications de la Collection de l’Art Brut, vol.11, Losanna, 1982
[41] A.Wellek, Psicologia della Musica in La Musica. Enciclopedia storica, Vol III, Utet,Torino, 1966
[42] W.Mauro, La storia del Jazz, Newton, 1994
[43] I.Hermann, Perversione e musica, Di Renzo, 1997
[44] D. Gaita, Il pensiero del cuore. Musica simbolo inconscio, Bompiani, 1991
[45] Sognando, Don Backy, arr. di P.Presti, cantata da Mina, Ed.PDU, Alfiere.
Le parole della canzone, molto interessanti, sono riprodotte per intero dopo la bibliografia per mostrare con quanta attinenza, persino una canzone del genere “leggero”, possa scavare nel profondo della follia. Ecco i versi: Me ne sto lì, seduta assente….Le cose strane che mi passano per la mente…..Avrei una voglia di gridare, ma non capisco a quale scopo….Poi d’improvviso piango un poco, e rido, quasi, forse per gioco….Se sento voci non rispondo, io vivo in uno strano mondo, dove ci sono pochi problemi, dove la gente non ha schemi…..Non ho futuro né presente, e vivo adesso eternamente….Il mio passato è ormai per me un istante, ma ho tutto quello che mi serve, nemmeno il male è nel suo scrigno e quelle cose che io sogno, e non capisco perché piango…Non so che cosa sia l’amore e non capisco il batticuore….Per me un uomo, rappresenta, chi mi accudisce e mi sostenta…..Ma ogni tanto, sento che gli artigli neri della notte, mi fanno fare azioni non esatte….D’un tratto sento quella voce, e qui comincia la mia croce….Vorrei scordare e ricordare, la mente mia sta per scoppiare….E spacco tutto ciò che trovo, e a finirla poi ci provo, tanto per me non c’è speranza di uscire mai da questa stanza….Sopra un letto cigolante, in questo posto allucinante, io spesso penso di volare in cielo…Non so che male posso fare, se sogno solo di volare, io non capisco i miei guardiani, perché mi legano le mani….Io a tutti i costi voglio un che ci fosse un camice per me, le braccia indietro forte spingo e a questo punto sempre piango….Mio Dio che grande confusione! E che magnifica visione, un’ombra chiara attraversa la mia mente….Le mani forte adesso mordo e per un attimo ricordo, che un tempo forse non lontano, qualcuno mi diceva t’amo….In un addio svanì la voce, scese nell’animo la pace, ed è così che da quel dì, sono seduta e ferma qui….
[46] M. Kemp, Immagine e verità, Il Saggiatore, 1999
[47] R. Laforgue, J.J.Rousseau, in Nevrosi e genialità, Boringhieri 1975
[48] V. Rapisarda, Ansietà e angoscia in Kierkegaard, in Psicoterapia e Psicologia Umanistico-Esistenziale , 2° Congresso Internazionale C.I.S.S.P.A.T., Jesolo Lido, 1977
[49]E. Plank & R.Plank, Emotional Significance in arithmetical learning as trhough autobiographies, in psychoanal. Study Child, 9, 1954 ( riferito da Giordano Fossi,in La psicoanalisi applicata, Utet, 1994
[50] A. Storr, The Dynamics of Creation, Atheneum, New York, 1972
[51] La donna lo affidò alla nonna per andare sposa ad un altro uomo e in pratica, da quel momento lo rivide solo di rado, creando nel piccolo Newton una grande angoscia.
[52] Göedel dimostrò la completezza del sistema assiomatico di Frege, per la logica dei predicati e svelò altresì la incompletezza di qualunque sistema assiomatico per l’aritmetica.
[53] L. Binswanger, Essere nel mondo, Astrolabio, 1973
[54] F.Perls, L’approccio della Gestaldt, Astrolabio, 1977
[55] P. Grosskurth, Melanie Klein, Boringhieri 1988
[56] C.G.Jung, Ricordi, sogni riflessioni, a cura di A.Jaffé, Rizzoli, 1978
[57] S. Rosemberg, Perché Freud è svenuto, Astrolabio, 1980
- Jones, Vita ed opre di Freud, 3 voll., Garzanti, 1979
L.Binswanger, Ricordi di Sigmund Freud, Astrolabio, 1971
[58] C. Musatti, Sigmund Freud sul divano, in Il pronipote di Giulio Cesare, Mondadori, 1979
[59] E. Neumann, L’uomo creativo e la trasformazione, Marsilio, 1981
[60] A. Carotenuto, Creatività e sofferenza psicologica in Discorso sulla Metapsicologia, Boringhieri 1982
[61] C. Sigismond, Il suicidio, in Psicologia contemporanea, nov-dic 1982, n54, Giunti Barbera, Firenze
[62] W. La Barre, Psicoanalisi e antropologia, in Pionieri della psicoanalisi, Feltrinelli, 1971
[63] J.Gutiérrez Alvarez & P.B.Kleiser, Le sovversive, Erre emme, 1995
[64] noto in Italia per i saggi Arte popolare, religione e cultura degli indios (Einaudi), Musica danza e riti degli indios (Einaudi) e per il romanzo La volpe di sopra la volpe di sotto ( Einaudi)
[65] P.Federn, Psicosi e psicologia dell’Io, Bollati Boringhieri, 1976
[66] K.Anger, Hollywood Babilonia, 2 voll. , Adelphi, 1986
[67] H &K Akiskal, Reassessing the prevalence of bipolar disorders: Clinical significance and artistic creativity, 1988, riferito da K.R. Jamison, Toccato dal fuoco, Tea Due,1997
[68] S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, 2 voll, Boringhieri, 1969
[69] A.H. Maslow, Creativity and Its Cultivation, Harper and Brothers, New York, 1954
[70] S.Arieti, Creatività. La sintesi magica, Il Pensiero Scietifico, 1979
[71] L.E. Walkup, Creativity in Science through Visualization, in Jurnal of Creative Behavior, 1967
[72] C. Lombroso, L’uomo di genio in rapporto alla psichiatria, alla storia e all’estetica, Bocca, 1894
[73] A. C. Jacobson, Genius: Some Reevaluations, Geenberg ,New York, 1926
[74] F.Laplantine, L’etnopsichiatria, Tattilo, 1974